• 21 Novembre 2024 22:42

Azione nonviolenta – Gennaio-Febbraio 1999

DiFabio

Feb 6, 1999

Azione nonviolenta gennaio febbraio 1999

– Gandhi verso il duemila, Fulvio Cesare Manara
– L’attualità
– Le trasformazioni dei sistemi di difesa, Angela Dogliotti Marasso
– Missione, visione e valori, Sergio Albesano
– Case per la pace e la nonviolenza in italia, a cura di Matteo Soccio
– Quando l’informazione fa vincere i perdenti, Alessandro Marescotti
– Se verra’ la guerra…chi si salverà? di Paolo Predieri
– L’Iliade, poema degli eroi, di Claudio Cardelli
– Campagna OSM La mozione privata dell’assemblea di cattolica
– Tempo lavorato, tempo sprecato. La condanna del lavoro, di Cristoph Baker
– Un 2000 di pace o ancora di guerra?
– Assemblea generale delle Nazioni Unite 2001 – 2010 : decennio di pace e nonviolenza
– L’obiezione, strumento per la pace
– Recensioni

PER UNA MEMORIA CRITICA
Gandhi verso il duemila

di Fulvio Cesare Manara

Gli scritti su Gandhi si vanno accumulando, la letteratura che tratta del Mahatma raccoglie ogni anno di più una proliferazione abbastanza incontrollata e incontrollabile di scritti. Facile fra questi imbattersi in discorsi semplificati, semplicistici, quando non proprio disinformati. Ci sono «filtri» che spesso im­pediscono a molti autori di accedere a Gandhi: sono quelli dell’agiografia, della mitizzazione, ma an­che quelli del disprezzo e della detrazione, o infine quelli dell’utilizzo ideologico e strumentale. Di recente abbiamo assistito — fra l’altro — persino ad un utilizzo pubblicitario dell’immagine gandhiana. Non è difficile comprendere il perché di questo tipo di reazioni. La personalità di Gandhi fu incontestabil­mente una sorta di provocazione, soprattutto per noi occidentali: la sua vita è certo per noi un invito a prendere posizione, come sempre accade, quando si presenta nella storia un testimone della verità.

1. I Collected Works

In effetti, la completezza e la precisione nella documentazione è il primo problema che sorge a chi intende procedere nello studio di Gan­dhi. Le «fonti» in senso stretto sono da una parte i suoi scritti e dall’altra la sua azione. Mette conto che ci si soffermi un poco sulla loro descrizione.

Gli scritti di Gandhi sono stati pubblicati dal Governo indiano. Si tratta dell’opera dal titolo The Col­lected Works of Mahatma Gandhi. Essa consta di un nucleo novanta volumi che sono usciti nel corso di ventisei anni, ai quali si sono poi aggiunti progressivamente già altri dieci volumi, fra supplementi e indici. La cura di quest’opera monumentale è assegnata una équipe di studiosi indiani guidata per la quasi totalità del tempo dal professor K. Swaminathan2. Il progetto era iniziato nel febbraio del 1956, ossia otto anni dopo la morte del Ma­hatma, ed ha coinvolto un gruppo assai vasto di studiosi: traduttori, curatori, assistenti e ricercatori. Per portarlo a termine viene compiuto un vastissimo e capillare lavoro di raccolta, ricerca, traduzione, edizione e produzione. In questa serie sono stati raccolte tutte le parole scritte o pronunciate dal Ma­hatma nel corso della sua lunga attività pubblica, durata circa sessant’anni. Nel corso di questo perio­do Gandhi scrisse molto, come si può comprendere dalla mole dell’opera conclusa. Egli redigeva set­timanal­mente articoli per i periodici che aveva fondato e dirigeva. Era assai scrupoloso nel rispon­dere a una infinità di corrispondenti da ogni parte del mondo (si può calcolare che scrisse in media una set­tantina di lettere al giorno). È proprio la vastità della sua corrispondenza che fa crescere il numero dei volumi dell’opera.

Gli scritti di Gandhi ed i suoi discorsi, come abbiamo visto, si trovavano così non solo nei li­bri effet­ti­vamente pubblicati mentre era in vita, ma anche in polverosi archivi, ed in raccolte di vecchi quoti­diani o riviste in inglese, in gujarati (la lingua nativa di Gandhi) e in hindi. Inoltre, le sue lettere furo­no in­dirizzate in tutto il mondo ad una miriade di persone, assai di­verse per ceto e stato sociale, come an­che per razza, ideologia, religione.

Gandhi ci ha inoltre lasciato alcuni saggi o libri veri e propri: Hind Swaraj3, o Indian Home Rule, nella versione inglese; la famosa «Autobiografia» dal titolo La storia dei miei esperimenti con la veri­tà4; e inoltre Satyagraha in South Africa5; e Ashram Observan­ces in Action6; un commento alla Bha­gavad Gita7; la stesura del «Programma Costruttivo»8 e alcuni scritti sulla dieta e sulla salute9. Tutti questi scritti – a dire il vero – non sono molti e nemmeno ponderosi10.

È abbastanza evidente, da un lato, che senza la raccolta minuziosa dei CW questo materiale avrebbe potuto andar perso. In secondo luogo, senza quest’opera sarebbe stato assai difficile, per non dire im­possibile, ad un singolo studioso reperire i diversi scritti e conoscere in modo più stringente ed appro­fondito il pensiero del Mahatma.

Con i CW non ci troviamo di fronte alla prima raccolta degli scritti gandhiani. Esistevano in prece­denza — o sono state pubblicate anche in seguito — una serie di compilazioni degli scritti della «grande anima», in gran parte editi dalla stessa casa editrice Navajivan di Ahmedabad, la quale detiene i diritti su tutto quanto il materiale scritto lasciato dal Mahatma, e che ha anche contribuito, ovviamente, all’impresa guidata dal Ministero dell’Informazione Indiano. Si tratta principal­mente di raccolte antologiche a tema, di indubbia importanza, ma incomplete sotto molti profili11. Anzitutto, esse si limitano al periodo indiano, e raccolgono scritti prove­nienti principalmente dai di­versi periodici editi dal Mahatma, ossia da Navajivan, Young In­dia, Harijan. Inoltre, essendo orga­nizzate quasi unicamente su base topica, gli scritti sono perlopiù semplici estratti dei diversi brani re­lativi ad un medesimo tema, e non pubblicazioni integrali. A volte, purtroppo, l’estrapolazione di un passo dal suo contesto, si sa, può essere una maniera per incorrere in interpretazioni inadeguate o addirittura per fraintendere radicalmente. Per quanto concerne le lettere, parecchie migliaia non tutte erano state raccolte dal Gandhi Smarak Nidhi, mai però pubblicate.

I Collected Works rappresentano pertanto una raccolta integrale di tutti gli scritti, i discorsi e le lettere di Gandhi, pubblicata interamente in ordine cronologico.

In italiano i principali scritti gandhiani sono stati editi per lo più occasionalmente12. In ogni caso, una prima osservazione utile per avviare una memoria critica è certo che sarebbe il caso di prendere atto della necessità di leggere Gandhi, di tornare ad ascoltare la sua parola, il suo messaggio, cominciando appunto dalle sue opere scritte.

Del resto, i suoi scritti e le sue riflessioni sono quasi sempre strettamente connessi a par­ticolari problemi o situazioni, nei quali era coinvolto o su cui veniva interpellato. La sua opera in questo senso è un’insieme di osservazioni «occasionali», raramente monotematiche, anzi, in cui molto spesso si in­tersecano i livelli di discorso, consentendo così molteplici let­ture e interpretazioni, ma anche rendendo alquanto più complesso il lavoro dell’interprete. Come scrisse Ra­jendra Prasad, «il Mahatma non si occupò di sviluppare una filosofia della vita, o di formulare un si­stema di dottrine o di credenze. Non aveva pro­babilmente né l’inclinazione, né il tempo per farlo. Egli, invece, era mosso da una fede ferma nella verità e nell’ahimsa, e la pratica applicazione di queste ai problemi che incontrava si può dire costituisca il suo insegnamento e la sua filosofia. Non c’è quasi problema, di natura politica, sociale, religiosa, agraria, lavorativa, industriale o altro, che non sia stato affrontato a modo suo, nello schema dei principi che riteneva basilari e fondamentali»13.

Alla luce di quanto si è detto, è evidente l’impossibilità di scindere i testi gandhiani dalle azioni e dai contesti in cui operava. Piuttosto vasta e mi sembra ancora in buona parte da esplorare anche la rico­struzione storica delle «azioni» gandhiane, della sua prassi.

Gandhi stesso sosteneva la stretta interpenetrazione fra la sua vita e il suo messaggio. È molto nota — e fu da lui spesso ripresa — la sua espressione «My life is my message»14: la mia vita è il mio mes­saggio. È altresì noto anche il suo invito a non cercarlo nei suoi scritti, o almeno a non assolutizzarli, in quanto in essi non sarebbe presente nessuna «teorizzazione» definitiva. Scrisse ad esempio in «Harijan» il 29 aprile 1933: «Mi piacerebbe dire al diligente lettore dei miei scritti e ad altri che siano interessati ad essi che non mi sono affatto preoccupato di apparire coerente. Nella mia ricerca della Verità ho scar­tato parecchie idee ed ho imparato molte cose nuove»15. Altrove affermò: «I miei scritti dovrebbero essere cremati insieme al mio corpo. Durerà ciò che ho fatto, non quello che ho scritto o detto»16.

Ma — come notò Indira Gandhi — egli era una di quelle persone che parlano come pensano ed agiscono come par­lano, «uno di quei pochi in cui nessuna ombra cade fra la parola e l’azione. Le sue parole erano azioni, e costruirono un movimento ed una nazione, e cambiarono la vita di un innu­merevole numero di persone»17.

Certo è che per conoscere Gandhi a 360 gradi, per non averne una immagine parziale, o di­storta e manipolata, per evitare un riduzionismo ad usum delphini, occorre fondare qualsiasi lavoro su queste due fonti, in modo sistematico: scritti e biografia, le parole e le azioni. Esse si rimandano continua­mente l’una con l’altra, e co­munque solo se considerate insieme po­tranno fornirci una conoscenza adeguata di Gandhi.

1.2. la vita del Mahatma : inserire un paragrafo sintetico ma completo, con una nota biografica ed una trattazione del problema della biografia e sulle fonti per la sua ricostruzione storico-critica

2. Per una ricerca critica

Un secondo aspetto che non può mancare nel fare memoria di questo volto, nel tentare una memoria critica, concerne a parer mio il controllo del «punto di vista» del ricercatore. Mi sembra che sia il caso di riflettere sugli atteggiamenti, sia cognitivi che comportamentali, con i quali noi ci accostiamo a Gandhi .

Un primo punto su cui riflettere è l’atteggiamento mentale col quale guardiamo a Gandhi, la prospet­tiva conoscitiva. Un modello facilmente riconoscibile si basa sullo scegliere di Gandhi solo ciò che ci interessa per motivi nostri, legati alla moda (oggi può essere ad esempio un certo ecologismo), o all’ideologia… Va da sé che questo è un uso di Gandhi, certo non una conoscenza di Gandhi. Potrem­mo fare un esempio di questo modo di procedere prendendo una affermazione che un amico, un noto studioso di Gandhi ha posto anni fa a fondamento della propria ri­cerca: «In base all’idea fondamentale di mettere in luce in modo sistematico gli aspetti centrali della concezione etico-politica di Gandhi, nonché allo scopo di porre nel modo più chiaro ed efficace possibile il problema se vi sia un messaggio gandhiano e, se sí, quale sia la sua at­tualità e validità, ho volutamente tralasciato di evidenziare quegli aspetti della con­cezione gandhiana che giudico secondari, marginali o contingenti, ad esempio le idee di Gandhi sul vegetarianesimo, sulla vita sessuale, sulla cura naturale delle malattie»»18. Come ha notato Gianni Sofri, quell’espressione «ho volutamente tralasciato» oggi ci lascia perplessi, ci lascia insoddisfatti19: esprime una scelta aprioristica compiuta dal ricercatore, che esclude l’impor­tanza di alcuni aspetti del pensiero e della prassi gandhiana perché a lui estranei o indiffe­renti. In base a questo modo di vedere sono le scelte di chi ricerca a determinare cosa inte­ressa o no di Gandhi, non quello che Gandhi ha ve­ramente detto e fatto. È vero: nel lontano 1973, quando Giuliano Pontara scriveva il saggio in questione, il problema del cambiamento politico e il ruolo della violenza in esso era un problema assillante, che im­poneva scelte determinate, operava cioè come uno schema-filtro, un criterio-guida, appunto, tenden­zialmente totaliz­zante.

Intendiamoci: chi vuole può tagliare e sezionare la testimonianza gandhiana come crede: solo non ci venga poi a dire che ha così inteso addirittura ricostruire il messaggio gan­dhiano. In questo modo, sarebbe interessante del passato solo ciò che è affine al nostro pre­sente. Non saremmo più in grado di accogliere del passato l’alterità, di espandere così la no­stra coscienza oltre i limiti del nostro vissuto e di ciò che esso detta come imperativo o come significativo. Chi vuole vera­mente accertare se vi sia un messaggio gandhiano, deve ascoltare Gandhi, nelle sue parole e nelle sue azioni, e non porre in anticipo il problema se e in cosa sia significativa e rilevante per noi oggi la sua testimonianza. Da una ricerca veramente spre­giudicata ed obiettiva su Gandhi emergeranno senza dubbio anche aspetti per noi irritanti (ad esempio le sue idee e i suoi comportamenti nel campo della sessualità, nei rapporti con le donne, o la sua concezione della povertà “volontaria”, ecc.): il fatto che lo siano testimo­nia solo che Gandhi era diverso da noi, che non rientra nei nostri schemi. Del resto, è un vecchio problema della ricerca storica, che Umberto Eco, parlando di tutt’altro, ha chiarito con estrema lucidità. Quando trattiamo del passato ci possono essere due modelli di compor­tamento: quello della «ricostruzione filologica» e quello del «rabberciamento utilitaristico»20. Quando il passato viene continuamente riutilizzato come contenitore, perché in qualche modo ci si vive dentro, siamo nel secondo modello, e il nostro rapporto con esso è guidato dalle nostre ossessioni, dai nostri pro­blemi ed interrogativi: è un po’ come se il passato fosse ancora vivo in noi. Così succede a Gandhi: c’è un’espressione di Gianni Sofri che mi sembra assai significativa, e in ogni caso indica proprio questa impossibilità di “allontanare” Gandhi dal nostro mondo, di renderlo semplicemente oggetto di uno studio asettico, estraneo e ininfluente per la nostra vita. Egli infatti in un suo saggio confessa apertamente: «Gandhi ci serve an­cora»21. Il revival di Gandhi è segno di tutto questo. Ed è in espansione: quello che, in altri tempi, Giuliano Pontara tralasciava, adesso viene recuperato. Ci si deve augurare che nel recupero si faccia spazio a tutto Gandhi, si sappia guardare a fondo alla sua testimonianza, si ri­spetti la sua alterità in quanto tale. La scoperta di questa alterità è preziosa, a ben vedere, perché l’in­contro con l’altro sempre ci mette in discussione: l’atteggiamento critico non è solo il porre l’altro sotto il riflettore del giudizio, ma anche lasciarsi porre sotto questa stessa luce dall’altro.

Più in profondità rispetto a questo primo modello, se ne riscontra uno più sottile e perva­dente, spesso presente in molti ricercatori soprattutto occidentali: lo scarso controllo del punto di vista ancora «eurocentrico» e occidentalistico. Ci possono essere diversi aspetti di questo «eurocentrismo»: non tutti dello stesso tenore, alcuni inevitabili perché parte stessa della nostra cultura. Non ci sarà certo possibile spogliarci del tutto di questi punti di vista culturali, anzi, non è nemmeno necessario. Basta saperli riconoscere e controllare. E soprat­tutto, basta non erigerli ad unica chiave interpretativa: sa­rebbe un vero errore, specie se af­fiancato — come dicevamo — ad un disinteresse per gli aspetti della cultura dell’altro che più ci sono estranei, o che peggio consideriamo irrilevanti per nostra scelta, da rigettare e lasciar da parte. Ha detto bene Enrico Fasana: «Non solo Gandhi, ma nell’insieme l’intera ci­viltà indiana, riesce di difficile comprensione al mondo occidentale»22… Anche questa è una faccenda di grande urgenza, se vogliamo, nei nostri tempi. Si fa un gran parlare di società multietnica, multiculturale, ma è evidente agli occhi di tutti che si fatica a dialogare con cultura altre, che questo dialogo è in gran parte da inventare, e che ci mancano criteri sereni per affrontarlo, visto che la tendenza ancora diffusa è quella di leggere l’altro sull’unica misura dei propri criteri di giudizio.

Un secondo punto su cui riflettere, se vogliamo muovere verso una ricerca critica, riguarda il rapporto che poniamo in essere fra esperienza cognitiva, mentalità, da una parte, e comportamenti, vissuti dall’altra. Una studiosa ameri­cana, Joan V. Bondu­rant, che aveva dedicato le sue ricerche al satyagraha gandhiano, si recò da Gandhi nel 1946 per un colloquio, e si sentì dire: «Il satyagraha non è un soggetto di ri­cerca — voi dovete farne esperienza, usarlo, vivere in esso»23. Gandhi ci ha lasciato questo aperto richiamo alla pratica diretta, che ci mette in guardia dal ridurre lui e soprattutto la sua testimonianza a semplice oggetto di conoscenza. Egli ha intitolato la sua autobiografia “storia dei miei esperimenti con la verità”: non ha mai creduto che quel che lui pensava e diceva o andava facendo dovesse diventare un modello, ma ha spesso invitato coloro che incontrava a fare altrettanto nella sperimentazione con la verità e la nonviolenza.

È vero che ci si deve chiedere come può essere possibile praticare consapevolmente e deliberatamente qualcosa che non si conosce. L’invito gandhiano non mi sembra del resto escludere il bisogno di conoscere quel che si vuol prati­care.

Rispetto ad un uso mitologico, peregrino e acritico di Gandhi24 sarebbe quindi altrettanto grave il “museificare” Gandhi, ossia farne qualcosa di totalmente indifferente, oggetto solo di studi accademici e attività filologica: ridurlo ad un’esperienza estranea, non significativa per l’uomo d’oggi e di domani. Come si può comprendere a fondo un messaggio come quello gandhiano senza che noi stessi avviamo i nostri esperi­menti con la verità? Gandhi stesso delegittima qualsiasi interpretazione del suo messaggio che sia “astratta”, cioè separata dalla vita di chi interpreta. Mi sembra che corriamo però meno questo secondo rischio: troppi ponti collegano an­cora il mondo di Gandhi con il no­stro, certi suoi problemi con i nostri, e questi legami sono significa­tivi al pari del fiume dell’alterità che ci separa da lui e dal suo mondo.

Insomma, la questione Gandhi è ancora aperta: si tratta di andare alla ricerca della figura di Gandhi nella sua totalità. Cerchiamo quindi di accostarci a Gandhi con scienza e con co­scienza, ossia con la curiosità di conoscerlo per quello che era, e con il coinvolgimento ne­cessario a percepire i valori di cui era portatore, nonché con la volontà di cambiare, trasfor­mare la vita ed i comportamenti. Non è im­portante quanto le sue conoscenze, i suoi valori e le sue azioni siano diversi dai nostri: lo sono di fatto, e nessun messaggio, nessuna azione gandhiana può essere presa come una panacea universal­mente applicabile. Resta nostra e solo nostra la scelta riguardo a se e come accogliere questo o quel messaggio, questa o quella testimonianza gan­dhiana, ma soprattutto riguardo a se e come, per quanto possibile, metterci in gioco nel prati­care a nostra volta “esperimenti” con la verità e la nonviolenza.

1 New Delhi, The Publications Division – Ministry of Information and Broadcasting – Government of India, 1958- 1984, cui qui di seguito mi riferirò con «CW»

2 Lo avevano preceduto come Editori in capo prima Bhataran Kumarappa (1956-57), seguito da Jairamdas Dou­latram (1957-59). Altre informazioni sul nutrito staff editoriale in CW XC, pp.viii-ix.

3 (L’autogoverno dell’India): scritto originariamente in Gujarati, mentre era a bordo del Kildonan Castle, di ri­torno da Londra, e pubblicato in «Indian Opinion», 11 e 18 dicembre 1909. Ora in CW X, pp.6-68, ed anche in Raghavan Iyer (cur.), The Moral and Political Writings of Mahatma Gandhi, vol.I, Civilization, Politics and Reli­gion, Osford, Claren­don Press, 1986, ed. it. a cura di F.C.Manara, La forza della verità. Scritti etici e politici, vol.I, Civiltà, politica e reli­gione, Torino, Sonda, 1991, pp.199-256. Una prima traduzione italiana era apparsa per i tipi del Movimento Nonvio­lento col titolo Civiltà occidentale e rinascita dell’India, Perugia, 1984.

4 An Autobiography, or The Story of My Experiments with Truth, in CW XXXIX, pp.1-402: il titolo della tr. it. non ri­spetta per nulla il concetto espresso nell’originale: La mia vita per la libertà, Roma, Newton Compton, 1973.

5 In CW XXIX, pp.1-269.

6 O History of the Satyagraha Ashram, in CW L, pp.188-236.

7 Discourses on the Gita, CW XXXII, pp.94-376, tr.it. a cura di Mirella Mele, Gandhi commenta la Bhagavad Gita, Roma, Mediterranee, 1988.

8 The Constructive Programme, its Meaning and Place, in CW LXXV, pp.146-66.

9 General Knowledge about Health, in CW XI- XII, passim.

10 Gandhi pubblicò inoltre alcuni «sommari» di opere lette i cui messaggi riteneva degni di divulgazione. Così fece con la platonica Apologia di Socrate, pubblicata in «Indian Opinion» con il titolo Story of a Soldier of Truth (Storia di un soldato della verità), in sei puntate fra il 4 aprile e il 9 maggio 1908: CW VIII, pp.172-229, passim.

11 Se ne veda un elenco in La forza della verità, cit., pp.549-50.

12 Un’indicazione su quanto è apparso in italiano in F. C. Manara, Per conoscere Gandhi. Una bibliografia ragionata delle opere e antologie degli scritti del Mahatma tradotte in italiano, in «Azione Nonviolenta», a. XXIX, n.1-2 (gennaio 1992), pp.11-12 (che andrebbe del resto già aggiornato). Due recenti bibliografie si aggiungono, fra l’altro, alla già nutrita serie di volumi dedicati a questo intento: Ananda M. Pandiri, A Comprehensive, Annotated Bibliography on Mahatma Gandhi: Biographies, Works by Gandhi, and Bibliographical Sources, Grenwood Publishing, 1995; e .April Carter, Mahatma Gandhi: A Selected Bbliography, Greenwood Publishing, 1995.

13 CW I, p.v.

14 Così scrisse su di un foglietto il 17 settembre 1947: cfr. D.G. Tendulkar, Mahatma. Life of Mohandas Ka­ramchand Gandhi, New Delhi, The Publications Division – Ministry of Information and Broadcasting – Govern­ment of India, 1963, vol.VII, 1947-48, p.288. V. anche CW LXXX, p.209, ora anche in La forza…, vol.I, cit., p.60.

15 CW LV, p.61.

16 Cit. in CW XC, p.v. V. anche CW LXII, p.223 ss: «Non ho concepito alcunché come Gandhismo, non sono l’espo­nente di una setta. Non ho mai preteso di avere originato alcuna filosofia. […] Senza alcuno schema ela­borato ho sem­plicemente cercato a mio modo di applicare gli eterni principi di verità e nonviolenza alla nostra vita e problemi giorna­lieri. […] Tutto ciò che ho scritto non è nient’altro che una descrizione di ciò che ho fatto. E solo le mie azioni sono la più grande manifestazione di verità e nonviolenza».

17 Ibidem.

18 Giuliano Pontara, Introduzione a M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Torino, Einaudi, 1981, p. XI., corsivo nostro. Pontara stesso, per la verità, poco dopo aver pubblicato queste osservazioni ebbe modo di rendersi conto – come dice egli stesso – «dell’erroe che avevo commesso nel considerare e idee di Gandhi sul vegetarianesimo “secondarie o “marginali”»” (v. AA.VV. Marxismo e nonviolenza, Genova, Lanterna, 1977, pp.233-34, ora in La violenza levatrice della storia?, in Antigone o Creonte. Etica e politica nell’era atomica, Roma, Editori Riuniti, 1990, pp.104-5): v. Il pensiero etico-politico di Gandhi, in Teoria e pratica della nonviolenza, cit., nuova edizione, 1996, p.XIII, n.1.

19 Gianni Sofri, Domande su Gandhi, in Maurizio Reberschak (a cura di), Non-violenza e pacifismo, Milano, Angeli, 1988, p.43. Questo passo è ripreso polemicamente anche da Enrico Fasana, Gandhi. Mahatma e uomo politico, Trieste, Trieste Scientific Press, 1988, p.15: ma mi sembra che Fasana scambi nella polemica Pontara con Sofri.

20 Umberto Eco, Dieci modi di sognare il Medioevo, in «Quaderni Medievali», n.21, giugno 1986, p.193.

21 G. Sofri, Domande…, cit., p. 42.

22 Quel che di Gandhi non si dice, intervista a «Mondo e Missione», Giugno-Luglio 1989, p.423. Ma v. anche Made­leine Biardeau, L’Induismo, antropologia di una civiltà, Milano, Mondadori, 1985 e Louis Dumont, Homo Hierarchi­cus. Saggio sul sistema castale, Milano, Adelphi, 1993.

23 Johan V. Bondurant, Conquest of Violence. The Gandhian Philosophy of Conflict, Princeton-New Jersey, Princeton University Press, 1958, p.146.

24 Intendiamoci: l’uso ideologico di Gandhi di cui sto parlando può essere sia agiografico ed esaltante, sia polemico e segnato dal disprezzo dell’oggetto. Si gioca tutto sull’essere pro o contro.

“Non uno dei seguaci di Gandhi alzò una mano per parare i colpi.

Caddero come birilli”

William L. Shirer

“Il perdente di adesso

sarà domani il vincente

perché i tempi stanno cambiando.”
Bob Dylan, 1964
Cercando Gandhi in rete

Quante pagine su Gandhi ci sono su Internet? Lo abbiamo verificato attraverso il motore di ricerca Lycos ed il risultato è che sul Web ci sono 9936 documenti elettronici (di lunghezza variabile) che parlano di Gandhi. Poco? Molto? Abbiamo fatto una “controprova”: su Hitler ce ne sono 19.657 e su Mussolini 2.691. Tenendo conto che questi ultimi due sono citati spesso in testi di condanna storica… il risultato di Gandhi in rete è incoraggiante. Chi lo avrebbe detto: lui le tecnologie le scansava.

Un sito italiano che ha dedicato uno spazio particolare a Gandhi è quello della EMI (Edizioni Missionarie Italiane): http://www.emi.it

A.M.

MOVIMENTO NONVIOLENTO: DIBATTITO PRECONGRESSUALE
Le trasformazioni dei sistemi di difesa

Il Movimento Nonviolento ha messo in agenda la preparazione del suo 19° Congresso Nazionale, evento che si terrà nei giorni 30-31 ottobre e 1 novembre 1999.

di Angela Dogliotti Marasso

Uno dei temi centrali del dibattito politico nell’ambito dei nostri tradizionali settori di intervento e riflessione è certamente quello delle trasformazioni in atto nei sistemi di difesa: se ne è discusso alla Triennale della “War Resisters” ed è un argomento all’ordine del giorno anche nella politica della difesa del nostro paese.

E’ dunque importante avviare un dibattito sulle pagine di Azione Nonviolenta che raccolga un’ampia rassegna di posizioni, all’interno e all’esterno del nostro movimento, per arrivare all’appuntamento congressuale dopo un approfondimento adeguato di questo tema cruciale, che sarà probabilmente l’argomento portante congresso stesso.

Vorrei perciò iniziare proponendo con questo articolo alcune “tesi” (volutamente un po’ provocatorie) al riguardo.

1-Esercito leva o esercito professionale?

In ambito pacifista non è di solito molto ben vista la professionalizzazione della difesa. Nello stesso tempo, l’antimilitarismo tradizionale si è sempre opposto alla coscrizione obbligatoria ed ha rivendicato l’obiezione di coscienza come diritto soggettivo. Una certa cultura di sinistra però difende l’esercito di leva perché sarebbe più “democratico” e meno pericoloso di un esercito di professionisti, e forse qualcuno nell’antimilitarismo di sinistra è ancora affezionato all’idea del “popolo in armi” come garanzia democratica, anche se su questi temi c’è molto meno schematismo e maggiore cautela.

Che cosa si può dire sul nodo della professionalizzazione della difesa, da un’ottica nonviolenta?

Affermato che, ovviamente, per i violenti l’obbiettivo finale è l’eliminazione di ogni tipo di esercito, il superamento della logica della guerra e della sua preparazione, la delegittimazione di ogni forma di violenza, sia essa diretta, strutturale o culturale, il problema che si pone è di tipo politico: come si possono raggiungere tali obbiettivi? E nel frattempo, che cosa si propone, come si valutano le scelte concrete di governi e istituzioni internazionali? Non è sufficiente infatti, fare affermazioni di principio limitarsi a dissentire; la lezione della nonviolenza gandhiana è la lezione del programma costruttivo, della proposta alternativa, non della semplice protesta. Perciò è necessario trovare sul terreno concreto della storia e nell’ambito della politica, intesa nel suo senso più alto, le strade da percorrere in ogni momento per avvicinarsi all’obiettivo di una società senza guerra.

Detto questo, che si proponga un esercito di professionisti anziché un esercito di leva obbligatoria mi pare non cambi molto dal punto di vista della “pericolosità” della presenza militare; già oggi esistono i corpi “speciali “, i riservisti e cosi’ via.

Se creare un esercito di professionisti significa eliminare l’obbligo di imparare ad uccidere (perché questo significa fare il militare, anche di leva), non mi pare che i nonviolenti dovrebbero rammaricarsi di ciò.

Quello che non va abbandonato, è piuttosto il principio costituzionale della difesa come diritto – dovere di ogni cittadino (e bisognerebbe semmai aggiungere di ogni cittadina) : la difesa è parte della cittadinanza e perciò non si può delegare, se non si vuole rinunciare ad una parte di sovranità a favore di un corpo separato.

2- Difesa militare, difesa civile

Come ha affermato anche la Corte Costituzionale , la difesa può avvenire in forma armata o non armata. Noi perciò dobbiamo lottare perché:

– la difesa resti un diritto – dovere di tutti i cittadini/e;

– questo diritto – dovere si esplichi per tutti sotto forma di preparazione – addestramento alla difesa civile, non armata , nonviolenta (userò d’ora innanzi l’espressione “difesa civile“ per indicare ciò che di solito chiamiamo “difesa popolare nonviolenta“, per ragioni che sarebbe lungo qui spiegare);

– chi vuole possa anche impegnarsi professionalmente, sia in ambito militare (ambito che oggi è ben difficile pensare che possa essere eliminato , ma che si propone in termini professione volontaria), sia in ambito civile, perché certe operazioni di mantenimento e costruzione della pace o intervento in situazioni di conflitto devono essere assunte da corpi preparati, incentivati e professionalmente dediti a ciò, oltre che da volontari, per essere realmente efficaci e alternativi all’ intervento armato.

E’ fantapolitica? Non credo, dal momento che i sistemi di difesa si evolvono storicamente e il modello può ben essere un modello plausibile in un mondo in cui, tra l’altro, la guerra è sempre più frequentemente guerra interna agli stati, in cui i mezzi militari ben poco possono fare per realizzare una pace vera, una effettiva riconciliazione tra le parti, la ricostruzione, il ripristino delle relazioni.

Noi poi abbiamo nella legge 230 dell’8 luglio 1998 “Nuove norme in materia di obiezione di coscienza” un grimaldello per aprire una strada in questa direzione, la’ dove al comma 2/e dell’articolo 8 la legge prevede di “predisporre, d’intesa con il Dipartimento della protezione civile, forme di ricerca e di sperimentazione di difesa civile non armata e nonviolenta”.

E qui la legge indica l’aggancio possibile con un settore dello stato, la protezione civile, il cui ambito di intervento, fortemente decentrato agli Enti locali, potrebbe essere molto più esteso di quanto normalmente si pensi, fino a comprendere forme di difesa sociale contro i vari tipi di criminalità, di difesa e protezione dei diritti sociali, civili e politici di tutti i cittadini, compresi quelli immigrati, oltre che la funzione di protezione contro le calamità naturali. Il settore della protezione civile può diventare il nucleo della difesa civile, se lavoriamo in questa direzione, come mostrano alcune esperienze in atto, prime tra tutte la proposta di legge regionale sulla protezione civile redatta dalla Regione Emilia Romagna, molto interessante a questo proposito.

Un’affermazione forte del diritto soggettivo di obiezione di coscienza per tutti (compresi coloro che avessero scelto in un primo tempo il militare), garantirebbe un modello difensivo nuovo, flessibile, adeguato alle esigenze della società e molto più vicino ad una cultura di pace.

Missione, visione e valori

di Sergio Albesano

Il perché di una scelta

Per la nonviolenza la situazione nazionale e internazionale è turbolenta e a fronte di ciò il Movimento Nonviolento, se vuole riproporsi come soggetto credibile nella società, deve ridiscutere il suo ruolo. Rischia altrimenti di accontentarsi di gestire l’esistente, dimostrandosi incapace di essere proattivo e vedendo di conseguenza erosa la sua influenza e ridotta la diffusione della nonviolenza.

E’ quando mancano le certezze che si creano le opportunità. Credo pertanto che il Movimento Nonviolento debba lanciare un progetto di cambiamento, mantenendosi contemporaneamente fedele ai suoi principi costitutivi. Poiché esiste in tutti noi una naturale resistenza al cambiamento, per spingere le persone a cambiare è necessaria una situazione di partenza di sofferenza. Mi pare che l’attuale situazione del Movimento Nonviolento non sia questa e ciò significa che per avviare un cambiamento dobbiamo metterci più volontà, perché sarebbe tranquillo restare nella nostra nicchia, ma saremmo sicuri di ritrovarci fra qualche anno senza capacità di incidere nella società, buoni soltanto a salvare le nostre anime ma non a cambiare il mondo. Propongo pertanto di iniziare a dichiarare quali sono la nostra missione, la nostra visione e i nostri valori di riferimento.

Missione

La missione è il motivo per cui esistiamo e la sua enunciazione si trova nell’atto costitutivo dell’organizzazione. Essa qualifica i nostri campi di attività fondamentali ed è la nostra legittimazione duratura nel tempo. Identifica quindi il cuore della nostra esistenza e si estrinseca nella generazione di valore. La missione contempla un aspetto razionale, perché è legata alle nostre attività. Essa si colloca dunque a monte delle strategie e cambia solo al mutare degli aspetti istituzionali che qualificano il Movimento. E’ compito della Segreteria nazionale trovare quella frase, tratta dallo Statuto, che riassuma il perché della nostra esistenza e spieghi qual è il compito che ci siamo assunti.

Visione

La visione è necessaria per realizzare la missione nel tempo, soprattutto quando il cambiamento del contesto nel quale ci troviamo ad agire non permette di continuare a gestirci come si è fatto in precedenza. Essa qualifica ciò che il Movimento ha voglia di sognare e che al tempo stesso vuole porsi come sfida, poiché è possibile raggiungerlo. In altre parole la sfida deve essere commisurata al rapporto fra opportunità e risorse a disposizione, altrimenti si risolve in una tendenza al massacro. Bisogna essere dunque attenti a non scambiare la visione con il visionario. La visione è un modo di vedere la realtà che fa sintesi del presente e del futuro, affondando le sue radici nel passato. “Dove non c’è una visione una comunità perisce”, troviamo nel Libro dei proverbi; in effetti senza visione si funziona solo per tradizioni.

La visione si orizzonta in un’ottica di medio termine e per definirla è necessario prendere in considerazione la realtà nella quale operiamo, le caratteristiche dell’organizzazione (cioè la consapevolezza dei nostri punti forti e di quelli di debolezza) ed è indispensabile la volontà di coloro che hanno il compito di guidare il Movimento (che sono la Segreteria nazionale, le Segreterie regionali e tutti coloro che sono attivi all’interno dell’organizzazione). La visione fa riferimento contemporaneamente alla logica e ai sentimenti, alla razionalità e alle emozioni; deve essere supportata da dati e fatti, ma contenere in sé una sfida plausibile e nello stesso tempo creativa, una meta da raggiungere che per essere colta faccia appello e richieda le energie di tutti. La visione costituisce un collante per l’organizzazione e può essere un punto di riferimento verso il quale guardare e orientare gli sforzi. Soprattutto in momenti di turbolenza, quando il funzionamento del Movimento non può essere orientato da certezze, avere una visione significa anche possedere una bussola con la quale dirigere le energie, particolarmente nelle difficoltà che sono inevitabili nei processi di cambiamento. Il ruolo di chi è attivo nel Movimento rispetto alla visione è di fondamentale importanza; sono infatti queste persone quelle che devono promuoverla e che devono orientare nella sua direzione le energie di tutti gli altri. La visione è una leva forte per un’organizzazione, ma chi ne fa parte deve essere consapevole che per realizzarla ci vuole la propria convinzione e il proprio coinvolgimento personale. Senza una guida convinta la visione non decolla ed è necessario che chi vive la vita del Movimento ci creda e la voglia, consapevole che non sarà facile, ma che gli obiettivi della nonviolenza potranno essere meglio raggiunti se l’organizzazione saprà praticare sotto la guida del suo esempio i principi che qualificano la visione.

Mentre la missione ci spiega perché esistiamo, la visione ci dice chi vogliamo essere. Anche la visione deve essere scelta dalla Segreteria nazionale, perché è questo l’organismo che ha il compito di individuare il cammino che il Movimento deve compiere. Inoltre è in base alla visione che verranno definiti i piani strategici. Vorrei ancora ricordare una frase evocativa di St. Exupery: “Se vuoi costruire una nave, non radunare gli uomini distribuendo i compiti e ordinando loro di raccogliere il legno, ma insegna loro la nostalgia per il mare ampio e infinito.”

Valori

I valori sono il nostro senso del giusto per orientare i comportamenti di tutti nell’organizzazione al fine di realizzare la visione. Stabilito dove vogliamo andare, è necessario effettuare una diagnosi della situazione attuale per capire che cosa dobbiamo fare per spostarci dall’oggi al domani. Si tratta quindi di impostare un piano strategico. In questo cammino i valori sono i paletti che indirizzano i nostri comportamenti. In altre parole i valori rappresentano le priorità cui ancorare, soprattutto nei momenti difficili, le nostre scelte e che, una volta stabilite, debbono poi essere rispettate, anche se ciò costa sacrificio. Di conseguenza i valori si traducono in comportamenti. Infatti definire i valori significa definire principi, che rischiano di essere velleitari e idealistici, se non sono declinati in comportamenti. Ovviamente i valori devono essere coerenti con la visione che vogliamo realizzare e rappresentano una miscela di passato e di futuro, di competenze distintive (cioè il nostro impegno per la nonviolenza) da preservare e da inserire, poiché ribadiscono comportamenti assimilati e al tempo stesso comportamenti nuovi, necessari per realizzare ulteriori successi. Esisteranno quindi valori consolidati da preservare, altri da sviluppare e altri ancora da inserire ex novo. I valori non devono essere generici, ma essere disegnati sulle nostre peculiarità. Esistono due generi di valori da definire: quelli verso l’esterno, che devono essere scelti per primi, e quelli verso l’interno. I valori verso l’esterno rappresentano il modo in cui vogliamo comportarci con il resto della società, mentre quelli verso l’interno indicano il codice di comportamento da tenere all’interno del Movimento.

I valori devono essere conosciuti e condivisi da tutti i componenti dell’organizzazione, così che coloro che ci incontrano sappiano quali sono i comportamenti che è lecito aspettarsi da noi, così come coloro che entrano nel Movimento sappiano quali sono i comportamenti coerenti da attuare.

La Segreteria nazionale ha il compito di predisporre una bozza di valori da sottoporre alle Segreterie regionali, che potranno modificarla. Una volta raccolti i risultati, verranno stilate due liste di cinque o sei valori ciascuna, una rivolta all’esterno e una all’interno, e questa carta valori dovrà essere conosciuta da tutti e realizzata attraverso comportamenti coerenti. Dopo la comunicazione a tutti dei valori, finisce l’evento e inizia il progetto. A quel punto bisognerà verificare gli aspetti positivi (ciò che già c’era), quelli negativi (che cosa manca), la distanza tra l’oggi e l’ideale e che cosa fare subito (le azioni e i progetti). Bisognerà quindi stabilire obiettivi intermedi e monitorare i singoli passaggi.

Un avvertimento

Un rischio è che quello sulla visione diventi un discorso formale, che con poi si dimentica, cioè un evento chiuso nel tempo. Ciò è rischioso, perché una volta persa la credibilità, è estremamente difficile recuperarla. E’ perciò indispensabile la convinzione di coloro che guidano il Movimento, intendendo coloro che riescono a coniugare visione e pragmatismo. Se questa volontà manca, è meglio non partire.

Un altro rischio è quello di creare un sistema teoricamente perfetto e restare poi frustrati nel constatare che il meccanismo da qualche parte si inceppa. Ciò accade perché talvolta dimentichiamo che esistono altre dinamiche che non vengono prese in considerazione al momento della progettazione. Una di queste dinamiche è quella del potere, perché ci
sono persone alle quali piace comandare. Dobbiamo quindi essere consapevoli che tale dinamica è presente anche nel
nostro ambiente e di conseguenza è necessario creare strutture che limitino la gestione del potere.

IL 28 NOVEMBRE ‘98 A VICENZA: ESPERIENZE A CONFRONTO
Case per la Pace e la Nonviolenza in Italia
A cura di Matteo Soccio

In quest’ultimo decennio sono sorte un po’ dappertutto in Italia (specialmente al Nord) “istituzioni” che si fanno stabilmente e con continuità promotrici di attività rivolte a dare visibilità ad istanze di pace, nonviolenza, solidarietà, promozione dei diritti umani e cooperazione. Sono istituzioni “dal basso”, quando sono i gruppi e le associazioni impegnati su queste tematiche a dotarsi di uno spazio (meglio di uno strumento operativo) per rendere più visibili, continuativi ed efficaci nella propria città gli interventi realizzati. Ma sono anche istituzioni pubbliche, costituite “dall’alto”, con la legittimazione offerta da deliberazioni degli organi ufficiali degli enti locali che, a seguito di impegni precisi sanciti dai rispettivi statuti, si fanno promotori attivi e diretti di una cultura di pace e dei diritti umani, e sostenitori di progetti di solidarietà e cooperazione. Si tratta di istituzioni che appartengono al settore privato-sociale, nate comunque da forti motivazioni ideali e concretizzatesi grazie all’apporto di esperienze, riconoscimento di valori, pratiche di relazione e risorse umane messe a disposizione dall’associazionismo e dal volontariato.

Ciò che le accomuna, al di là della differente impostazione strutturale e giuridica, è il fatto di essere centri di informazione e di iniziative, laboratori progettuali, sedi di incontri, seminari, gruppi di lavoro, luogo di riferimento di associazioni, singole persone e quanti intendono impegnarsi in attività che riguardano la pace, la solidarietà, la cooperazione internazionale, la difesa della qualità della vita e dell’ambiente, la proposizione di iniziative e campagne per uno sviluppo cosiddetto sostenibile, una economia equa, etica, solidale, un consumo critico.

A queste istituzioni facciamo riferimento genericamente con il nome «case per la pace e la nonviolenza» ma, pur non cambiando le loro finalità, esse si danno anche altri nomi: «centro di documentazione», «ufficio pace-diritti umani», «università per la pace», ecc. Non è tanto importante la denominazione scelta, quanto l’attività ed i servizi che propongono alla cittadinanza. Per ora è evidente che, là dove sono sorte, l’attività di promozione di cultura e di iniziative di pace e di solidarietà si è moltiplicata, potenziata. In molte città si stanno attivando per realizzarne di simili ma non è facile: quelle già operanti sembrano vivere soltanto il loro “particolare” senza essere in grado di aiutare quei comitati che lavorano per avviare iniziative analoghe, vorrebbero sapere da chi ha già fatto l’esperienza come motivare le associazioni e il volontariato, come attivare l’interesse e la collaborazione degli enti locali, quali formule giuridiche e organizzative scegliere, come gestire efficacemente lo spazio ottenuto.

E’ rilevabile, allo stato attuale, l’inesistenza di forme di collegamento, di coordinamento, di sostegno reciproco, di lavoro comune sul territorio nazionale. Ora sembra essere arrivato il momento per un maggior impegno in tal senso, per sviluppare sinergie, per mettere in circolo il positivo che ogni singola realtà ha prodotto e maturato in questi anni.

E’ quello che si è cominciato a fare il 28 novembre scorso a Vicenza con il Primo Convegno Nazionale delle Case per la Pace e la Nonviolenza, esteso a tutte quelle istituzioni che, anche se con altro nome, hanno le stesse finalità. Il convegno è stato promosso dalla Casa per la Pace di Vicenza e dalla Casa per la Nonviolenza di Verona, ed aveva i seguenti obiettivi:

– favorire l’incontro e la conoscenza reciproca delle istituzioni esistenti, in modo da imparare tutti dallo scambio di esperienze;

– confrontare istituzioni “pubbliche” e “private”;

– offrire, con questo confronto, materia di riflessione a quei comitati che attualmente stanno ancora cercando di realizzare nella propria città la “casa per la pace” o qualcosa di simile;

– avviare la costituzione di una rete nazionale per potenziare e sviluppare l’attività di promozione di una cultura di pace, mettendo a frutto le capacità e l’esperienza di tutti;

– avviare una riflessione su strumenti e metodi per la promozione dei diritti umani e la cultura di pace;

– eventualmente far nascere un bollettino di collegamento.

Al meeting hanno partecipato una cinquantina di responsabili ed animatori delle esperienze italiane più significative impegnate sullo stesso fronte della pace, solidarietà, diritti umani, anche con denominazione e personalità giuridica diversa (case, uffici, centri, scuole, università, ecc.). Ne diamo l’elenco: Case per la Pace e la Nonviolenza (di Genova, Lucca, Modena, Pesaro, Rimini, Verona, Vicenza); Cedor di Verona; Centro Diritti Umani dell’Università di Padova; Centro di documentazione “D. Sereno Regis” di Torino; Centro Internazionale per la Pace fra i Popoli di Assisi; Centro Pace di Forlì; Centro per la Nonviolenza di Brescia; Eco-Istituto “Alex Langer” di Mestre; Scuola di Pace di Boves; Unip (Università Internazionale delle Istituzioni dei Popoli per la Pace) di Rovereto. Erano presenti anche rappresentanti di comitati promotori di case per la pace, di uffici pace-diritti-umani e consulte per la pace.

Al Convegno tutte le realtà rappresentate hanno illustrato la loro fisionomia giuridica, esponendo succintamente i problemi, i successi, i progetti in corso. C’erano realtà più fortunate ed altre più a rischio ma si è capito che molto dipende, a fronte dei numerosi ostacoli, dalla presenza di animatori, di persone responsabili e dalla collaborazione tra le varie associazioni interessate. Il confronto ha messo in risalto i risvolti positivi e negativi di due tipologie di istituzioni: quella pubblica e quella privata.

In quelle private si evidenzia la maggior libertà di iniziativa, autonomia, indipendenza, a fronte di un aspetto negativo: la difficoltà di reperire finanziamenti per assicurare la continuità di esistenza e di attività. D’altro canto, l’istituzione pubblica può disporre, se ciò è stato deliberato opportunamente, di adeguati finanziamenti ma è appesantita da condizionamenti politici, amministrativi, burocratici. Sono visibili inoltre i difetti degli “uffici pace-diritti umani” voluti in alcune città dall’ente locale. Più che luogo visibile, spazio agibile e strumento operativo a disposizione di cittadini e associazioni, l’ufficio si riduce spesso a una “scrivania” con il suo impiegato.

E’ vero che rispetto al passato c’è una maggiore attenzione dell’ente pubblico nei confronti dell’associazionismo e una maggiore comprensione delle sue istanze ma, pur accogliendole, non le persegue adeguatamente e rivela una certa inefficacia concreta. Il difetto principale del “pubblico” è il burocratismo, che non è il solito problema del modo di partecipare alle attività da parte degli impiegati, soltanto preoccupati degli orari e di ridursi le incombenze, ma soprattutto mancanza di creatività, di coinvolgimento ideale, di sensibilità, lentezza ed inefficienza. A cui bisogna aggiungere il difetto principale dei politici (“quelli che decidono”), cioè il clientelismo, l’opportunismo, il ritardo cronico rispetto alle problematiche. Il confronto tra enti pubblici ed associazioni può essere più serio e progettuale, non clientelare.

L’associazionismo, se non è passeggero ed incostante, mette di suo l’attenzione ai valori, la gratuità, la progettazione. Proprio per questo chiede di essere coinvolto nella programmazione delle attività di strutture pubbliche. La paura (propria delle associazioni) di essere compromessi con le istituzioni può essere superata. Non si nega la presenza dell’ente locale ma la si legittima, portandolo a valorizzare la comunità competente (i cittadini, le associazioni), motivata e ricca di esperienze. L’impegno della “comunità competente” imposta con le istituzioni pubbliche un tipo di rapporto che rafforza il “basso” volontaristico, rispetto “all’alto” burocratico. Le associazioni, nel settore del loro intervento, chiedono all’ente pubblico un rapporto paritario. Può essere paritario se l’ente pubblico riconosce chi ha conoscenza dei problemi e ha capacità propositiva, cioè la “comunità competente”. Le risorse che le associazioni offrono vengono così messe a disposizione dell’intera comunità.

L’esperienza delle “case per la pace” configura un rapporto nuovo tra associazionismo ed enti pubblici (comuni, province, regioni). La normativa che cerca di regolamentare questi rapporti (Onlus, Terzo Settore, no-profit, ecc.) deve tener conto di queste esperienze.

Dal dibattito è emersa una terza via percorribile dalle “case per la pace” (capace di coniugare insieme pubblico e privato), già in parte riconoscibile in alcune esperienze già operanti, che ricerca con l’ente pubblico un rapporto alla pari. Dal momento in cui questo riconosce nel lavoro delle associazioni un servizio di utilità pubblica, mette a disposizione (per mezzo di una convenzione o altro, aprendo un capitolo di bilancio) la strumentazione e finanzia i progetti, superando i burocratismi ma richiedendo nello stesso tempo le dovute garanzie di serietà e di responsabilità.

Si è insistito molto su questo carattere di servizio che nasce “dal basso” ed è rivolto verso il basso, cioè verso la cittadinanza. Così sono dei servizi: la formazione degli obiettori, l’accoglienza, l’interculturalità, l’educazione alla pace, l’attività di informazione e di documentazione. Non sono servizi voluti dagli enti locali ma dai cittadini che li offrono ad altri cittadini. Per questo è giusto che siano riconosciuti, valorizzati, dotati di strumenti operativi e di adeguati finanziamenti. Non si tratta, per gli enti locali, di sovvenzionare, elargire contributi o finanziamenti a pioggia e clientelari ma di onorare impegni presi (ad esempio quelli presi dai comuni nei loro statuti, riguardo alla promozione di una cultura di pace).

Si è parlato anche “dell’utilizzo” degli obiettori nelle case per la pace. Si è fatto notare criticamente che gli obiettori non vanno “utilizzati” ma inseriti in percorsi di servizio civile in cui hanno la possibilità di essere socialmente utili ma anche di trovare occasioni di crescita come persone. Non si possono mettere gli obiettori da soli in luoghi di responsabilità o a occupare ruoli che richiedono una certa professionalità. Né basta che stiano in un luogo a fare lavori di routine. E’ necessario inserirli in progetti organizzati in cui siano di supporto ma con l’obiettivo di «imparare, motivarsi, formarsi».

Al convegno non c’è stato solo un confronto di idee, problemi, esperienze. I partecipanti hanno cercato, soprattutto nel lavoro di gruppo del pomeriggio, di essere concreti, facendo proposte ed assumendo impegni per i prossimi mesi. Riassumiamo qui, in maniera sintetica, le proposte emerse:

1. E’ stata accolta la proposta di utilizzare Internet ed in particolare il sito Unimondo per la diffusione telematica di informazioni sull’attività delle case per la pace e dei centri di documentazione per la pace in Italia, con la creazione di una banca dati comune. Unimondo è un «supersito interculturale per lo sviluppo umano sostenibile» e non è concorrenziale con Peacelink, perché abbraccia una maggiore varietà di temi, permettendo a tutti un maggior accesso in Internet. Unimondo fornisce lo strumento di diffusione del materiale elettronico elaborato dagli interessati, citandone la fonte e rispettando i diritti di proprietà. Il motore di ricerca di Unimondo va anche in Peacelink. A chi ha già un proprio sito si richiede semplicemente di indicizzare le pagine [Per partecipare o avere maggiori informazioni scrivere alla casella e-mail: Fabio.Pipinato@unimondo.org ; tel. 0368/3262313; fax 0461/810094. Indirizzo postale: Unimondo, Via Sommarive, 4 – 38050 Povo (Trento)]. Unimondo, visibile in Italia e fuori, per ora è in italiano. Poi sarà tradotto in altre lingue.

2. Si riconosce in «Azione nonviolenta» l’equivalente cartaceo, come organo mensile di informazione per le case per la pace, attraverso una rubrica appositamente dedicata.

3. E’ stata accettata la proposta dell’Unip, specializzata in questo tipo di iniziative, di mettere in cantiere per il 1999 un Corso di formazione per responsabili ed animatori di case per la pace (gestione, regolamenti, elaborazione ed attuazione dei progetti, modalità di comunicazione, lavoro in rete, rapporto con enti locali, ecc.).

4. Facendo riferimento alle possibilità offerte dalla nuova legge sull’obiezione di coscienza, si cercherà di proporre le case per la pace come sedi ideali per organizzare a livello locale e regionale corsi di formazione degli obiettori. Si tratta di individuare un modulo unico per tutte le case e proporlo agli uffici regionali, per stipulare le relative convenzioni.

5. Un’altra proposta riguarda i centri di documentazione: raccogliere le informazioni relative alle forme di classificazione, i thesaurus, i cataloghi costituiti presso i vari centri; provvedere allo scambio del materiale già schedato, dei supporti informatici già realizzati; studiare insieme le modalità per cercare di unificare i linguaggi di catalogazione e di classificazione, nonché i programmi adottati. Fare delle scelte nell’acquisizione di libri e riviste evitando i doppioni e la dispersione di risorse finanziarie. Organizzare, nelle regioni interessate, con la collaborazione delle principali biblioteche, dei corsi di formazione per gli addetti ai centri di documentazione delle case per la pace. Valorizzare le sezioni delle biblioteche pubbliche specializzate sui temi della pace e dei diritti umani. Raccogliere ed unificare i cataloghi esistenti su supporto informatico e metterli in rete per farli meglio conoscere e renderli più facilmente consultabili.

6. E’ stata rilevata l’assenza, fino ad oggi, di collegamenti e di un coordinamento a livello nazionale. Molte case per la pace e centri di documentazione fanno cose interessanti e importanti a livello locale ma vivono in isolamento rispetto alle altre realtà del paese. E’ stato sottolineato più volte che lo stare insieme, l’aprire la comunicazione, lavorare in rete dà forza. Forza spirituale che incoraggia e dà la carica per andare avanti, forza concreta con il mutuo appoggio. Spesso chi ha il problema non sa come risolverlo, l’esperienza di altri può aiutare. Si decide quindi di dare continuità al collegamento tra le case, partendo da questo primo nucleo di rappresentanza e dall’indirizzario costituito dal Primo Convegno. Il coordinamento delle iniziative è affidato, per ora, alla Casa per la Pace di Vicenza (Contrà Porta Nova, 2 – 36100 Vicenza; e-mail: casapace@tin.it ; tel. 0444/327395; fax 0444/327527).

7. I prossimi convegni delle Case per la Pace, pur conservando spazi per l’autopresentazione e la discussione di problemi comuni, verranno organizzati, con scadenza annuale e in città sempre diverse, su tematiche di ampio respiro, per coinvolgere anche altre realtà esterne alle “case”. Il prossimo incontro sarà (previa verifica) a Rimini, presso la Casa per la pace, nel dicembre 1999. Il tema scelto: Globalizzazione e impegno per la pace, i diritti umani, la cooperazione. Essendo stato proposto all’ONU che con il 2000 si apra un decennio di impegno per la nonviolenza, il tema degli incontri successivi sarà “La promozione di una cultura della nonviolenza”.

COME DARE VOCE AI SENZA VOCE
Quando l’informazione fa vincere i perdenti

Un episodio della storia gandhiana ci porta a riflettere sull’uso della posta elettronica a supporto dei movimenti nonviolenti.

di Alessandro Marescotti

C’è un episodio che può far riflettere sul potere positivo dell’informazione e su un eventuale buon uso della telematica oggi. Il 4 maggio 1932 Gandhi venne arrestato senza alcuna imputazione e trattenuto in carcere “a discrezione del governo inglese”. Un simile sopruso non sarebbe stato possibile in Inghilterra, ma in India era consentito in quanto colonia. Quell’arresto si trasformò però in un boomerang. “I dominatori inglesi imprigionando Gandhi facevano di lui un martire e rendevano più stabile e duraturo il risentimento di milioni di indiani di fronte alla prepotenza del dominio straniero”, scrive lo storico e giornalista William L. Shirer che in un suo libro ha descritto un emblematico episodio della lotta nonviolenta per la liberazione dal colonialismo.

Eccolo.

Il 21 maggio 1932, mentre Gandhi era in carcere, presso le saline di Dharasana duemilacinquecento manifestanti non-violenti guidati da Mrs.Sarojini Naidu si avvicinarono pacificamente alla polizia. D’improvviso, a un ordine secco, schiere di poliziotti si gettarono sui manifestanti e cominciarono a colpirli con i loro manganelli rivestiti d’acciaio. “Non uno dei seguaci di Gandhi alzò una mano per parare i colpi. Caddero come birilli”, racconta Shirer. “Da dove mi trovavo – scrive il giornalista Webb Miller dell’agenzia United Press – udivo il suono tremendo dei randelli sulle teste non protette. La folla dei dimostranti in attesa guardava la scena, gemendo e trattenendo il respiro, sentendo su di sé ogni singolo colpo. Quelli caduti a terra giacevano privi di sensi o si torcevano con il cranio fratturato e le spalle spezzate. Quelli ancora incolumi, senza rompere i ranghi, continuarono silenziosamente ad avanzare finché furono tutti abbattuti. Marciavano compatti, a testa alta, senza l’incoraggiamento della musica e degli applausi e senza alcuna possibilità di potersi sottrarre a gravi ferite e forse alla morte. La polizia arrivava a ondate e metodicamente colpiva una colonna dopo l’altra. Non ci fu battaglia, né lotta, essi avanzavano semplicemente fino a quando cadevano. La polizia cominciò a prendere selvaggiamente a calci gli uomini seduti per terra, colpendoli all’addome e ai testicoli. Alle undici del mattino il caldo era arrivato a 46 gradi e l’assalto si placò.”

Miller andò nell’ospedale dove erano ricoverati i feriti, molti ancora privi di sensi, altri che si torcevano dal dolore: ne contò 320, due erano morti. Le autorità inglesi vinsero la “battaglia” ma la storia di quell’episodio fece il giro del mondo perché Miller – che era un giornalista onesto di un’agenzia stampa molto diffusa – scrisse un servizio che fu pubblicato da oltre mille giornali in America e all’estero. La violenza della polizia al comando inglese sollevò l’indignazione generale, persino in Inghilterra. In tutte le regioni dell’India essa riaccese il risentimento più profondo e rese ancora più determinata la lotta per l’indipendenza. Come scrive Shirer “al momento dell’azione, lo strumento della non-violenza forgiato da Gandhi aveva dimostrato tutta la sua validità”. Infatti i vincitori risultarono perdenti, gli sconfitti invece vinsero. Ma se tutto questo non fosse stato diffuso nel “villaggio globale” dell’informazione il fatto, per milioni di persone nel mondo, non sarebbe mai esistito: un fatto non comunicato non esiste. Fortuna volle che lì fosse presente un giornalista sensibile che lavorava per un’agenzia molto diffusa. Ma oggi il lavoro onesto e coscienzioso di Miller lo possiamo fare anche noi con il nostro computer, magari un portatile collegato al cellulare. Oggi infatti con la posta elettronica quei mille e più giornali possono essere raggiunti con un solo invio di messaggi. Una raffica di mille messaggi di posta elettronica viene a costare più o meno mille lire, una lira a messaggio. Oggi non manca più il mezzo: manca semmai la cultura per farne questo buon uso.

Rielaborazione delle informazioni tratte dal libro “Mahatma Gandhi”, di William L.Shirer, Sperling & Kupfer Editori, 1983

RINGRAZIAMO FABRIZIO DE ANDRE’
Se verrà la guerra…. chi si salverà?

di Paolo Predieri

Scopro oggi che il primo disco di Fabrizio De Andrè risale al 1958! Circa dieci anni dopo, sui banchi di scuola del liceo, ci passavamo con complicità da intenditori qualche raro e prezioso Lp di quel già mitico personaggio che non appariva in tv e neanche in concerti dal vivo… ricordo l’emozione e lo stupore al primo ascolto di “Tutti morimmo a stento”. Diventò e rimase nel tempo uno dei miei preferiti. Abbondantemente presente nei canzonieri del “movimento” (ad esempio ben 8 canzoni su “Non marcerò più “, canzoniere antimilitarista del Mir di Padova) non era solo l’autore di una colonna sonora per incontri e iniziative varie, ma anche in alcuni casi partecipante attivo e presente. Inutile dire che non mi persi uno dei suoi primissimi concerti, nel ’74 al palasport di Bologna dove, mi pare a sostegno dei “Proletari in divisa” e preceduto da Finardi, presentava “Storia di un impiegato” più una serie interminabile di bis anche a richiesta. Proprio “Storia di un impiegato”, disco fra l’altro contestassimo soprattutto da sinistra, devo dire che ha avuto un ruolo fondamentale nel mio orientamento verso la politica e l’impegno nel sociale. Della serie: non solo canzonette…

Però, dovendo pensare a canzoni in una prospettiva nonviolenta, sia per intrattenimento che per uso didattico, per anni ho avuto una certa difficoltà a scegliere canzoni di Fabrizio De Andrè che a un mio (e non solo mio…) primo e forse superficiale ascolto, apparivano grandi come critica della guerra e del potere, senza però indicare vie d’uscita esplicite…

Col tempo mi sono dovuto ricredere e invito tutti a un ascolto più attento e approfondito. Alla descrizione di una società degradata e dei fallimenti degli emarginati e degli ultimi, De Andrè unisce un’ombra di speranza, una possibilità sempre presente di dialogo con l’umano e il divino che apre delle prospettive. Fra i numerosi esempi possibili vorrei ricordare “Maria nella bottega del falegname”, “Il testamento di Tito”, “Il suonatore Jones”, ma anche “Canzone del maggio” e “Nella mia ora di libertà”.

Non solo i testi, ma lo sviluppo stesso della sua ricerca musicale rafforzano questa apertura: dalle ballate-poesie che conquistano semplicemente con voce e chitarra, alle traduzioni di Brassens e Dylan, agli album tematici, fino agli ultimi magici viaggi sonori nelle culture popolari mediterranee e nelle lingue locali, “Creuza de ma” (considerato il disco del decennio ottanta), “Le nuvole” e l’ormai ultimo capolavoro “Anime Salve”.

Il mondo di Fabrizio De Andrè va apprezzato in tutta la sua completezza.

LA NONVIOLENZA NELLA LETTERATURA / 1
L’Iliade, poema degli eroi

di Claudio Cardelli

La Letteratura greca ha inizio con due poemi in esametri, l’Iliade e l’Odissea, che la tradizione ha attribuito ad Omero (VIII sec.a.C.). Questi poemi plasmarono la mentalità dei Greci e furono un elemento della loro identità nazionale, come la Bibbia lo fu per gli Ebrei. L’Iliade è un poema di 15.696 versi, diviso in 24 libri: il titolo (Iliàs) significa “storia d’Ilio”, la città della Troade (oggi sulle coste della Turchia) assediata per dieci anni dai greci e infine distrutta. Ma il poema racconta soltanto un episodio della guerra di Troia (altro nome di Ilio): l’ira ostinata di Achille, che fu tanto funesta ai Greci e provocò la morte di numerosi guerrieri. Achille, offeso da Agamennone, il capo della spedizione che gli ha sottratto la prigioniera Briseide, decide di non partecipare ai combattimenti e ritira nelle tende pure i propri uomini. I Troiani, guidati da Ettore e imbaldanzati dall’assenza di Achille, diventano ogni giorno più minacciosi e tentano persino di incendiare le navi dei Greci.

Patroclo, l’amico fraterno di Achille, non tollera più di assistere passivamente alla sconfitta dei propri connazionali, e chiede ad Achille il permesso di combattere, indossando la sua armatura. Achille acconsente e Patroclo risolleva le sorti dei Greci, ma in duello viene ucciso de Ettore, il più valoroso dei Troiani. Achille, assetato di vendetta, ritorna sul campo con una armatura e ferisce mortalmente Ettore. Con gli onori funebri resi dai Troiani al loro eroe termina il poema.
E tu onore di pianti, Ettore, avrai

Ove fia santo e laagrimato il sangue

Per la patria versato, e finchè il sole

Risplenderà su le sciagure umane.

(Foscolo, Dei sepolcri)
La nonviolenza

Ci si può domandare, a questo punto, dove sia la nonviolenza in un poema epico come l’Iliade, dominato dell’ininterrotto fragore delle armi: “Le battaglie, Omero, nel carme tuo sempre sonanti”, scriveva il Carducci nella lirica Sogno D’estate. Ma Omero non esalta la guerra, ne descrive le stragi e l’orrore ed è mosso ad umana pietà per tutti i caduti, greci e troiani. Gli eroi dell’Iliade, pur combattendo valorosamente, hanno coscienza della brevità della vita e del pericolo di morte presente in ogni battaglia.

Come le famiglie delle foglie, così sono anche le stirpi degli uomini. Le foglie, vedi, alcune il vento sparge a terra, altre poi la selva nel suo rigermogliare fa nascere, quando viene il tempo della primavera. Così le generazioni degli uomini: una nasce e l’altra sparisce. (VI, 145-149)

Tale coscienza non li porta alla rinuncia, ma a una virile accettazione della finitezza umana. Diversa è la condizione degli dèi, che sono immortali.

Achille, l’eroe che si abbandona all’ira e alla vendetta, alla fine del poema (XXIV, 477-601), quando Priamo gli chiede implorando la restituzione della salma del figlio, accoglie la supplica del vecchio re e, e prendendogli la mano, piange con lui. Il suo cuore, insensibile alle preghiere di Ettore morente, si apre infine alla pietà e si allarga a una più intensa comprensione dei valori umani. Del resto, l’ombra della morte imminente, che gli è annunciata anche dal proprio destriero (XIX, 403 sgg.), avvolge di malinconia la sua giovinezza, poiché egli sa che deve perire prima di rivedere la patria.
Umanità di Ettore

Omero ha creato in Ettore una figura nobilissima di eroe, saggio e temperato, devoto alla patria e agli affetti familiari. Mentre Achille ha impeti di furia selvaggia, Ettore combatte con la consapevolezza di dover difendere la propria città dalla distruzione e la famiglia dalla schiavitù. Nei tempi antichi, quando veniva conquistata una città dei nemici, gli uomini erano uccisi, le donne e i bambini venivano portati via in stato di schiavitù.

Giustamente celebre è l’incontro, alle porte Scee, di Ettore con la moglie Andromaca e il figlioletto Astianatte che si spaventa alla visione dell’elmo del padre. Ettore, sorridendo, si toglie l’elmo dal capo e lo posa a terra, poi bacia il figlio e conforta la moglie:

Mia povera cara, non angustiarti troppo per me! Nessuno, lo sai bene, mi spedirà ad Ade contro la volontà del destino. Alla sua sorte, penso, nessuno può sfuggire, non il vile e non il valoroso, una volta venuto al mondo. Ma tu ora vai in casa, occupati delle tue faccende, del telaio e della rocca, e ordina alle ancelle di attendere al lavoro. Alla guerra penseranno gli uomini qui, tutti, e più degli altri io, fra quanti sono nati in Ilio.

(VI, 486-493, trad. G. Tonna, Garzanti, 1973)

Per concludere, presento una riflessione di Renato Serra: “Un sentimento profondo uguaglia noi ai nostri fratelli che sono stati e a quelli che saranno: al padre Omero quando spande il suo dire in mezzo agli uomini che se ne vanno come le foglie della primavera; e a Saffo che parla alle Pleiadi scintillanti, e a tutti gli altri che sono venuti sopra questa terra nella cara luce del sole a soffrire e a amare e a godere le cose belle che ci sono, e così, parlando con voce tranquilla e con chiari occhi riguardando i compagni e il mondo, sono passati come anche noi passeremo. Perenns humanitas!”.

(Scritti, Firenze, Le Monnier, 1958, vol.I,p.93).

L’ASSEMBLEA BOCCIA I MOVIMENTI PROMOTORI E DECIDE DI PROSEGUIRE LA CAMPAGNA
La mozione approvata dall’Assemblea di Cattolica

Dopo un dibattito estremamente difficile, l’assemblea di Cattolica (16 e 17 gennaio 99) ha deliberato di proseguire la Campagna OSM DPN anche nel 1999 con le precedenti forme, modificando ancora il nome e respingendo il documento unitario proposto dai movimenti promotori (vedi Azione nonviolenta novembre 98, pagg. 10, 11).

Una decisione grave che non condividiamo, le cui motivazioni trovate nella mozione che pubblichiamo di seguito. Il MIR e il Movimento Nonviolento restano fedeli al documento che proponeva la conclusione della Campagna e non aderiscono alla nuova iniziativa; si rivolgono agli altri movimenti promotori per una riflessione comune.

1. Preambolo

L’assemblea OSM 1999 decide che nessun eventuale cambiamento della Campagna deve:

separare le posizioni etiche personali degli obiettori fiscali dalle finalità politiche della Campagna, qualsiasi sia la forma giuridica con cui si compia l’obiezione fiscale. Ogni nuova forma di Campagna deve sollecitare e sostenere tutte le obiezioni fiscali;

sconfessare gli organi precedenti della Campagna;

dare ai soli Movimenti promotori l’eredità politica e finanziaria della Campagna OSM-DPN;

rinunciare all’obiettivo terminale della Campagna OSM-DPN (Bologna 1985) e i tre sotto obiettivi (Bologna 1989): legge OdC, Scuola Formatori, opzione fiscale.

2. Gli impegni per il 1999

L’assemblea della Campagna OSM DPN 1999,

ricordando

la mozione dell’assemblea di Bologna 1985 che stabiliva come obiettivo terminale della Campagna, “raggiunto il quale questa Campagna termina ed eventualmente prosegue ristrutturandosi”, una modifica strutturale nella istituzione della difesa nazionale (e non solo della protezione civile); e come conseguenza essenziale di questa modifica strutturale la possibilità di destinare il 5,5 % delle proprie tasse per le alternative della difesa tradizionale: in definitiva, quando venga realizzato il diritto alla libertà di difesa, sia a livello collettivo-istituzionale, sia a livello personale

ricordando

che nell’assemblea straordinaria di Bologna 1989 l’obiettivo terminale è stato specificato nei tre sottoobiettivi

la riforma della legge sull’obiezione di coscienza

la scuola formatori degli OdC

l’opzione fiscale legale per la pace invece che per la guerra.

Constata

che dopo più di 18 anni di Campagna Nonviolenta, la prima in Italia e la più forte a livello internazionale tra quelle dello stesso tipo,

ha ottenuto:

la presentazione di un progetto di legge (Guerzoni) sull’obiezione fiscale;

le sentenze della Corte di Cassazione sulla legalità della propaganda dell’obiezione fiscale contro le armi;

le sentenze della Corte Costituzionale sulla equivalenza tra il servizio di leva con le armi e quello senza armi e di conseguenza tra un esercito armato ed uno non armato;

la recente approvazione della legge di riforma dell’OdC (n. 230 del luglio 1998) che include:

il diritto soggettivo all’obiezione di coscienza;

l’istituzione e la sperimentazione di una difesa civile non armata e Nonviolenta;

l’invio di obiettori in missioni internazionali.

l’approvazione alla Camera nell’aprile 98 durante la discussione della legge 230 di tre raccomandazioni che invitano il governo a

istituire un corpo di caschi bianchi, includente gli OdC, per missioni di pace all’estero;

realizzare un Istituto di ricerche per la Pace che si occupi anche della formazione degli OdC;

realizzare una forma legale di obiezione fiscale alla guerra.

riconosce

che gran parte degli obiettivi proposti sono stati raggiunti: a livello giuridico la Corte Costituzionale e a livello politico la Camera, non solo hanno riconosciuto la validità degli obiettivi della Campagna, ma li hanno fatti propri, dando loro validità in linea di principio

Il problema ora è quello della attuazione di questi riconoscimenti in linea di principio.

Questa attuazione va a decidere su due questioni di principio:

il riconoscimento pubblico che la difesa non armata e Nonviolenta non è solo un desiderio personale, da attuarsi privatamente dai singoli che ci credono, ma ha un carattere collettivo ed istituzionale.

Qui ci sono tre possibili soluzioni istituzionali che oggi appaiono equivalenti ai fini di una prima istituzione pubblica di DPN:

Scuola formatori di OdC a carattere pubblico (statale o regionale);

costituzione di un corpo per la DPN di intesa con la Protezione Civile, costituito da Obiettori di Coscienza volontari in servizio civile;

invio degli OdC all’estero in missioni di pace gestite dallo Stato o dall’ONU e non solo da ONG private.

legalizzazione dei versamenti fiscali per una difesa non armata in alternativa a quella armata, in particolare per l’attuazione di quella difesa civile non armata e Nonviolenta che deve essere attuata secondo la legge 230/98; oppure per una attuazione delle istituzioni precedenti (a, b e c del punto A)

La Campagna OSM non ha ancora raggiunto l’obiettivo del diritto soggettivo a decidere se la contribuzione fiscale di ciascuno sia rivolta alla pace o alla guerra; tutti i problemi morali per cui la Campagna è nata sono ancora irrisolti, anche se l’attuale direzione politica governativa è favorevole a risolverli. Inoltre anche l’obiettivo collettivo della DPN non è stato ancora ottenuto completamente.

Se ci fermassimo qui, avremmo fatto solo cultura e pre politica.

Se vogliamo fare politica dobbiamo spendere tutte le energie fossero anche le ultime per poter dire che abbiamo portato a termine il progetto di 20.000 obiettori fiscali perseguito da circa vent’anni.

Pertanto la Campagna OSM DPN deve continuare raccogliendo tutte le proposte di impegno politico sugli obiettivi politici più importanti del momento storico.

Pertanto l’Assemblea OSM DPN istituisce una commissione per studiare tutte le forme di convergenza efficace tra gli obiettivi della Campagna OSM DPN (in particolare Scuola formatori e opzione fiscale legale) con gli obiettivi elencati dalla mozione 6 settembre 1998 di Bologna dei movimenti promotori (e cioè i punti a), b) e c) con particolare attenzione ai progetti riguardanti Caschi Bianchi e Berretti Bianchi).

Di questo documento inoltre assume come suoi lo slogan “La Pace paga: paga la pace !!” e il sottotitolo Campagna di obiezione di coscienza per la conversione nonviolenta della difesa nazionale dalle spese militari ad investimenti di pace
Cattolica 17 gennaio 1999

Mozione approvata con maggioranza dei due terzi dei presenti aventi diritto al voto

Documento MIR-MN sulla campagna OSM-DPN

La campagna OSM è nata nel 1982 denunciando la rottura del patto costituzionale (l’Italia ripudia la guerra…) dovuta alla decisione della installazione di missili nucleari NATO a Comiso in contrapposizione ai missili nucleari del Patto di Varsavia. Negli anni successivi migliaia di persone hanno attuato il gesto estremo di disobbedienza civile per dissociarsi personalmente e collettivamente dalla folle corsa al riarmo e per rivendicare il diritto all’obiezione di coscienza alle spese militari.

Oggi non ci sono più i missili e la base militare dismessa è stata e restituita ad uso civile; con l’abbattimento del Muro di Berlino si è sciolto il Patto di Varsavia e nell’Unione Europea si è aperto il dibattito su un corpo civile europeo di pace.

Il Parlamento italiano ha approvato la legge 230/98 che riconosce il diritto soggettivo all’OdC e prevede l’avvio di forme di difesa nonviolenta. Inoltre con l’approvazione da parte del Parlamento dell’ordine del giorno 14/04/1998 che impegna il Governo a riconoscere il diritto di “obiezioni alle spese militari” si ritiene di aver posto una solida premessa per la concretizzazione di questo secondo obiettivo della campagna, cioè l’opzione fiscale, che tra l’altro risulta già implicitamente acquisito nel momento in cui lo Stato è impegnato ad attuare quanto previsto dall’art.8 della sopraccitata legge. Dunque i presupposti sui quali era partita la campagna OSM sono oggi venuti meno e alcuni dei nostri obiettivi sono stati positivamente raggiunti.

Insieme a queste trasformazioni a livello storico-politico sono intervenute negli ultimi anni delle modifiche tecniche nella presentazione della dichiarazione dei redditi che rendono l’obiezione fiscale impraticabile per la maggioranza dei contribuenti (730, CAAF…) e perciò disomogeneo alla natura della disobbedienza civile la quale ha un senso politico solo se può essere praticata da tutti, o quanto meno se ha un’eco pubblica.

Ormai la stragrande maggioranza dei 742 casi del 1998 non sono obiettori effettivi, ma contribuenti volontari; continuare perciò a parlare di obiezione di coscienza e disobbedienza civile, quando in realtà si offre solo un contributo volontario per sostenere progetti di pace, non risponde più a verità.

Per tutte queste ragioni abbiamo sottoscritto con gli altri movimenti promotori il documento di Bologna (6 settembre 1998 – pubblicato in Azione nonviolenta di novembre 1998 pag. 10 e 11) che proponeva di dichiarare conclusa la Campagna OSM basata sulla disobbedienza civile collettiva, rilanciando contemporaneamente un impegno unitario per dare contenuto effettivo agli spazi offerti dalla legge 230/98.

L’Assemblea di Cattolica ha respinto queste considerazioni. Il Movimento Nonviolento ed il MIR non essendo stati confortati da elementi nuovi per adeguarsi a posizioni politiche che ritengono contraddittorie, considerano concluso il loro impegno nella promozione della Campagna di disobbedienza civile collettiva OMS DPN, mentre al contempo riaffermano la loro volontà di dare concretezza politica alle conclusioni propositive dell’Assemblea OSM di Cattolica (punti A e B della mozione generale) e confermano solidarietà e sostegno a coloro che vorranno ugualmente mettere in atto l’obiezione di coscienza alle spese militari.

Nella fatica di cercare forme nuove di intervento, adeguate al contesto in cui viviamo, nel designare con il nome di contribuzione quella che è tale e non obiezione né disobbedienza civile, sta nel concreto la valenza etica della nostra posizione.

Movimento Nonviolento

Movimento Internazionale Riconciliazione

18 gennaio 1999

DECALOGO MEDITERRANEO / 1
Tempo lavorato, tempo sprecato.
La condanna del lavoro

di Christoph Baker

So di andare contro uno dei più solidi tabù del mondo occidentale, ma di fronte all’andazzo della società moderna, pare alquanto sospetta la santa alleanza di tutte le forze politiche, sociali e culturali in difesa del “dio lavoro” e la lotta unanime alla sua figlia rinnegata, la “disoccupazione”. Non riesco a capire perché di fronte a segnali chiari che parlano di una diminuzione strutturale del lavoro intrinseca alla società post-industriale dell’effimero e del virtuale, tutti si straccino le vesti, invece che rallegrarsi del fatto che forse, finalmente, all’alba del terzo millennio dell’era cristiana, l’uomo potrà avverare il sogno dei vecchi saggi greci: affrancarsi dal lavoro…!

Se riuscite, provate un attimo a riflettere sul tempo di una vita sprecato in nome del lavoro. Quante giornate di sole, quanti mesi di mare, quanti anni da girovaghi, quante vite di amori abbiamo sacrificato sull’altare dell’indaffararsi in continuazione? Inutile prendersi in giro: non sto parlando di una chimerica concezione del lavoro come emancipazione dell’uomo, come valore di dignità umana. La realtà empirica che modestamente vedo intorno a me è un altra: il lavoro deprime! Basta fare un giro nei vari luoghi di lavoro della nostra società vincente: le banche, gli uffici di contabilità, gli studi di avvocati, le fabbriche di chips and bits, le burocrazie pubbliche e non, i servizi, il terziario e compagnia bella. Guardate negli occhi dei vostri simili, guardate come camminano per strada, ascoltate le loro parole…

Non ho energie da sprecare per convincere i campioni di questo mondo del lavoro che non va più bene così. Se non se ne convincono da soli, si meritano quello che gli capita! No, a me interessa avviare una piccola riflessione su un mondo finalmente libero dal lavoro, un mondo dove l’uomo potrebbe tornare o avviarsi verso una concezione più partecipata della vita. Non riesco a pensare che ci sarebbe tutta questa straordinaria ricchezza e diversità sulla terra, se il nostro unico destino fosse quello di parcheggiarci per otto-dieci ore al giorno in un ufficio o in una fabbrica. Anzi, penso che sia addirittura una delle violenze più profonde, un insulto permanente, una arrogante pochezza di idee, continuare imperturbabili sulla via tracciata dai fautori dell’occupazione a tutti i costi.

35 ore o 5 ore

a settimana ?

Perché se vi fermate un instante e riflettete, il lavoro in fondo è una grande droga, un abbaglio potente per non farci godere del primo diritto di ogni essere vivente, quello di vivere pienamente la propria vita. Stando come stanno le cose in questo fine millennio, poi, il lavoro, la condanna del lavoro ce la portiamo appresso quasi dalla culla. Che cos’è la scuola oggi se non una grande fabbrica di futuri lavoratori e disoccupati? Qualcuno mi dia l’indirizzo di una scuola dove vengono privilegiate la gratuità, la spontaneità, la creatività, le utopie, i sogni, le onde del cuore e i richiami delle trippe, senza che vengano sopraffatti e sottomessi al primato della “formazione professionale”. Me lo dia, perché vorrei mandarci i miei figli mentre sono ancora in tempo. Ma sono pessimista…

Oggi si dibatte nelle nostre società avanzate (!) di 35 ore, sì o no. Dibattiti aspri, violenti fra questi fautori del lavorare cinque misere ore in meno e quelli che vogliono che si lavori come prima se non addirittura di più! Ce ne fosse una o uno che – se solo nel rispetto della legge dell’entropia – proponesse la settimana delle cinque ore! Buona notte… Ma questi politici, questi industriali, questi vincenti del mercato globale, dove l’hanno letto che serve tutta questa forza lavoro per mandare avanti i loro meravigliosi progetti capitalistici? Ma facessero loro! Andassero loro a gestire i loro robot e i loro computer che, secondo le loro pubblicità, sono capaci di fare meglio di un uomo. Ben venga! Che ci pensino i loro software a fare viaggiare i loro numeri di dollari o di euro alla velocità della luce da una borsa all’altra. Andassero loro a verificare in tempo reale se i loro amati indicatori sono cresciuti o regressi dello 0,1%. A noi poveri perdenti, ci lascino in pace. Non ce ne importa niente del loro sviluppo, della loro crescita, dei loro guadagni, delle loro vittorie. Intanto nel loro mondo vincente, i vincitori non hanno mai un momento per godere la vittoria. Si sono fottuti da soli, il loro modello è una spirale micidiale di battaglie da combattere ogni volta di nuovo.

Scendere dal treno in corsa senza farsi male

Quello che tocca fare a noi è un’altra cosa: è dimissionare da questa follia, scendere da questo TGV (treno ad alta velocità, en français dans le texte) impazzito, smettere di offrirci come carburante ad una gigantesca macchina disumana che non capiamo, nè sappiamo dove ci porta, anche se intuiamo che non ci porta in un buon porto. (Però, devo stare attento con i “tocca a noi…”. Anche l’appello alle masse è miseramente fallito nel recente passato). Qui serve prima di tutto una specie di archeologia filosofica, o se vogliamo un andare alle radici del fenomeno lavoro, per potere distinguere che cosa c’è di buono da salvare e cosa si può tranquillamente buttare nel dimenticatoio della storia umana. Una volta fatta questa pulizia intellettuale, allora si può cominciare a sognare di altri mondi.

Ho il sospetto che una delle colonne portanti del mito del lavoro sia imputabile ai miei avi, i padri pellegrini che sbarcarono in Massachusetts quattro secoli e mezzo fa, verdi in faccia, con lo stomaco a pezzi dopo la traversata dell’Atlantico, essendo negati per la navigazione, rigidi contadini inglesi quali erano. Ebbene, questa gente severa, poco incline al canto e al ballo, questi protestanti ortodossi si trovarono davanti un mondo da “inventare”, e non trovarono niente di meglio che individuare nell’etica del lavoro la via alla salvezza dell’anima. Che pena! Insomma, invece di tuffarsi nelle onde meravigliose delle spiagge di Cape Cod, girarono le spalle al mare ed andarono a conquistare il West con la Bibbia, la pistola, la pala e l’apple pie. E vai con le ore di sforzo fisico esaltato dai versetti dei vangeli e dalle prediche di Jean Calvin. “E costruirono il Nuovo Mondo”! Oggi il sogno americano sta in ogni casupola della favela più remota del mondo, e tutti pensano che così deve essere…

Altra disgrazia: la rivoluzione industriale. Adam Smith. I padri del capitalismo moderno tutti (vi prego, non mi parlate di Ricardo, o di Keynes o di Marx…). I neo-schiavisti. Della serie: “Ah sì? Ci togliete gli schiavi, ci parlate di libertà? Beccatevi questa bella trovata: la catena di montaggio! Per fabbricare tutte queste cose che non vi servono assolutamente, ma che crederete essenziale per il raggiungimento della felicità” Che programma! E la fronte che suda diventa un simbolo nobile. Il braccio che solleva il piccone. La donna uguale, così anche l’altra metà del cielo viene cooptata. E poi, ‘chiano ‘chiano (in napoletano nel testo), i motori, gli ingranaggi che vengono raffigurati più grandi dell’uomo, più importanti, che funzionano meglio. E tu uomo, vai a lavorare, vai. Conquista i tuoi diritti di lavoratore.

Si verifica nel giro di pochi decenni una specie di desertificazione del pensiero filosofico. Dopo milioni di anni dove l’uomo si è interrogato sul perché deve faticare, dove intere civiltà hanno imparato la centralità dell’ozio, dello stare fermi (Buddha sotto l’albero), dell’andare con calma, arriva una banda di scalmanati che devastano tutta questa saggezza per potere costruire ancora una banca, ancora un ponte, ancora un sacco di plastica, ancora un razzo, e ancora tante tante munizioni. La disgrazia dell’umanità e che questa famigerata banda aveva i soldi, i canoni, le navi, e s’era sposata la figlia dei re e degli imperatori in putrefazione. Un cocktail micidiale. Da allora, il rullo compressore mi sembra il simbolo più adatto al loro approccio alla vita.

Va bene per le radici storiche. Esistono anche le radici psicologiche. Perché non credo nella congiura astratta che sarebbe stata capace di imporre a tutta questa massa impressionante quasi unanime di essere umani una tale desolante uniformità di aspirazioni. Qui ci vuole la partecipazione dei soggetti.

Allora la domanda è semplice:

ma perché andiamo a lavorare?

Una ragione abbastanza ovvia, almeno nei tempi moderni, è che il lavoro ci toglie dal pensare a cose serie tipo: che ci facciamo su questa terra? Indaffarati al computer, alla cassa, alla fotocopiatrice, al banco di montaggio, nella riunione del consiglio d’amministrazione, non “abbiamo tempo” per pensare alle grida del nostro cuore, della nostra anima. “Fare, non riflettere”, quello è lo slogan che porta dritto al raggelante “Arbeit macht frei”! Finché spendiamo le nostre povere energie a fare conti, scrivere paragrafi, battere numeri o disegnare statistiche, possiamo tranquillamente rimandare alle calende greche i dubbi che si insinuano nella nostra mente che tutto questo in fondo è una presa per i fondelli. Che questo è il vero assassinio della nostra dignità.

Perché, quanti sono rimasti in giro a cui viene riconosciuto il valore del proprio unico contributo? Il cantautore? Il sacerdote? La scrittrice? Il pescatore? Ma per uno di loro, siamo milioni di nessuno, di numeri, di astratte entità produttive. E torniamo la sera a casa e non sappiamo cosa dire ai nostri figli , quando chiedono: “Papa, ma cos’è il tuo lavoro?”… Sgomenti, accendiamo il televisore, e vediamo che va tutto bene, che sono tutti uguali là fuori, e ci addormentiamo nella nebbia dei nostri sogni persi, nell’inerzia di questa routine che ci porterà alla pensione senza troppi sussulti…

Bisogna poi affrontare il capitolo della soddisfazione professionale. Anche in questo caso, il lavoro di indottrinamento comincia presto. Non ricordiamo quando ci è stato detto che il non plus ultra nella vita è raggiungere il mitico apice di una mitica carriera. Il successo sarà di coloro che hanno scalato fino in cima la scala del valore occupazionale. Le facce in televisione e nei giornali sono di questi “eroi” del capitalismo lavorativo, le loro storie sono tutte uguali. Eccovi uomini che hanno sacrificato la loro vita per raggiungere le vette del riconoscimento sociale. E guardateli oggi: sorrisi smagliante (quanti denti veri?), mandibole volitive, doppiopetti e cravatte scure. E’ il nuovo esercito dei vincitori. Ma siamo veramente sicuri che hanno raggiunto qualcosa di importante? Voglio dire: dietro alla superficiale facciata del successo, non si nasconde una deprimente solitudine, una incapacità di relazionarsi con gli altri, un vuoto di emozioni e di sentimenti?

Può essere gratificante una volta, forse due, ricevere i complimenti del capo, e vedere gli sguardi invidiosi dei colleghi. Dopo però diventa solo nevrosi, solo guerra. Perché quello che non ci dicono è che il sistema di gratificazione del nostro modello di lavoro è basato su uno spiccato senso dell’egoismo, dell’arrivare davanti a tutti, come se la vita fosse solo una lunga ed estenuante gara. E il prezzo che si paga? Forse non vogliamo vedere tutti questi morti di cancro, di tumore, di infarto? Forse non vogliamo risvegliarci davanti al deserto di solitudine, di esseri abbandonati, di cuori rinsecchiti, di sogni naufragati, che ci aspetta ogni giorno quando lasciamo casa?

Purtroppo, il nostro modello di sviluppo ci ha intrappolato in modo ulteriore, creando l’equazione fra il lavoro e il capitale. In un breve, impressionante periodo, tutta una storia legata ai mestieri, alle vocazioni, alle attività non necessariamente iper-produttive viene cacciata dalla faccia della modernità e lascia spazio ad un solo sistema di valore: il lavoro stipendiato. Allora, anche se non sarai mai il grande capo della tua ditta, almeno ogni anno potrai rivendicare un aumento di stipendio e quando lo avrai ottenuto, ti sentirai soddisfatto… E il tuo senso di rivalsa si misurerà oggi in nuovi apparecchi hi-fi come ieri si misurava nell’automobile, o in viaggi ai tropici come ieri nella prima vacanza in albergo. Poco importa che la realtà ci grida in faccia che il gioco è finito: solo pochi eletti arriveranno al top. Gli altri, noi, saremo cadaveri dimenticati lungo le autostrade di questa moribonda modernità.
Grande risultato: abbiamo scoperto

il suicidio omeopatico…

Perché intanto abbiamo perso il senso dell’azione compiuta, dell’iniziativa seguita fino in fondo, dell’opera ben fatta. Mio nonno mi parlava di un tempo in cui gli uomini ancora curavano i dettagli, avevano l’occhio, l’orecchio, la mano, il tatto per definire la qualità di un prodotto. Vi era un’attenzione particolare alle cose fatte, figlia di un’era ancora libera dall’ansia, dallo stress, dalla frenesia. Se invece il produttore ha in mente solo il massimo profitto nel tempo più breve possibile, e il suo lavoratore solo di incassare lo stipendio il 27 del mese, viene a mancare il vero metro di un’attività gratificante, cioè vedere ricompensato il proprio sforzo dalla bellezza, dalla validità, dalla essenzialità di quello che uno ha fatto.

Ma non si può accettare questa condanna al lavoro senza mettere a prova almeno un tentativo, goffo quanto vorrete, di evadere. In nome delle nostre illusioni più dolci, più fragili, quei sogni di godersi la vita, di conoscere il piacere da dentro, di avvicinarci agli altri, di tenere gli occhi sempre aperti di fronte all’immensità del mondo, al mistero del nostro destino… In nome del passo di danza, dell’accordo minore, delle nostre dichiarazioni d’amore a donne, uomini, cani, gatti, pietre, tramonti, venti marini, vini, dolci… In nome dell’abisso che ci aspetta a qualche millimetro, della futilità dei nostri gesti di carità, della grandiloquenza delle nostre ubriacature… In nome della vita che ci ha accolto e che ci nutre, dobbiamo tentare di trovare il coraggio di quel bambino che osò dire: “il re è nudo!”

Non c’è bisogno di lavorare così tanto, in questo modo, con questi ritmi, per questi risultati. Non è vero che il mondo crollerebbe se domani tutti andassimo a fare una bella passeggiata, o meglio ancora, non ci alzassimo per niente! Se prendessimo più tempo per studiare l’azione, per intuire il lato nascosto dell’impresa, se la smettessimo di essere schiavi dell’inerzia, in poche parole, se la facessimo finita con questo conformismo cieco del lavorare a tutti i costi. Allora forse potremmo cominciare a riempire le giornate della nostra vita di cose più sensate.

Facciamo tutti i casalinghi !

Al rischio di provocare l’ira di molte donne, direi che il “lavoro domestico”, il famoso lavoro non riconosciuto dalle statistiche economiche ufficiali e – soprattutto! – non stipendiato, dovrebbe essere un punto di ripartenza di una seria riqualifica del lavoro.

Partirei dalla cucina… Da una Daube à la Provençale… Servono aglio, cipolle, carote, erbe di Provenza, olio extravergine of course, e altri succulenti ingredienti del Mediterraneo. Ancora prima di metterci la carne, hai già consumato un’ora solo a tagliare, rosolare, assaggiare. Ora ditemi se questo non è lavoro? Voglio dire stare là con la mezzaluna in mano a ridurre l’aglio a pezzettini? E le cipolle? Con gli occhi più rossi di loro? E adesso viene il bello: una Daube per venire bene, deve cuocere minimo tre/quattro ore in una casseruola (meglio se di ghisa), ma senza mai perdere d’occhio se serve un altro po’ di vino, e comunque devi girare il tutto a intervalli misurati. Insomma, è un impiego di tempo notevole, certo non remunerato. E quindi, non è lavoro?

Solo che, siccome cucinare bene è anche un piacere, viene visto come un passatempo, un hobby, un lusso. E qui casca l’asino! Se è piacere, non è lavoro. Il lavoro non può essere piacere. (Verrebbe da dire ma per piacere!). La fregatura è questa: fondamentalmente, tu quando lavori ti devi sentire un po’ frustrato dentro. Solo così si può fare credere alla carriera, alla sofferenza, al sacrificio, al sudore, e altre scemenze del genere. Solo così si può tenere dentro a questa gabbia mentale del lavoro tanti poveri Cristi che non hanno chiesto di rovinarsi la vita in questo modo…

Seconda provocazione: lavare i piatti. Lavare i piatti può essere un dei momenti più filosofici della vita quotidiana. Ovviamente, non il fatto stesso di lavarli, bensì organizzarsi per avere vicino degli amici – anche solo uno o una – e mentre uno lava e l’altro asciuga, lanciarsi in grandi divagazioni o piccoli segreti condivisi, andare a sfrugugliare nei cassetti dei ricordi o meditare sulle cose della vita, cose appena successe o vecchi rimpianti. Tutto di un tratto, poi, individuare un sogno, un progetto, una speranza e cominciare a fantasticare, a lasciarsi andare verso nuovi orizzonti. Badate, questo – tolti i contenuti – è più o meno quello che fanno eserciti di decision-makers in eserciti di consigli d’amministrazione! Ore a parlarsi addosso, per decidere quale progetto accettare. Ecco, la differenza sta nell’oggetto del desiderio.

Oppure curare un giardino. Vogliamo mettere curare un giardino? Fiori, piante, frutta, verdure. Ognuna con la sua personalità, con i suoi ritmi, le sue stagioni, i suoi lati deboli, le sue forze. Ma sempre devi starle appresso, seguire ogni piccolo segno di alterazione. Devi documentarti, parlare con i vecchi che sanno (anche con quelli che non sanno), fare i tuoi bei errori: niente di nuovo sotto il sole. Ora, non possiamo tutti aprire dei vivai. Non per questo, il lavoro di una povera santa o di un povero santo nel suo giardinetto vale meno di uno che vende dodicimila piante al giorno!

E poi, giocare? Avete mai visto con quanta “serietà” un bambino si avvia a un gioco? La cura di avere tutti i pezzi giusti, tutte le carte, i dadi, le pedine. Vuoi mettere il progetto di cercare l’unica biglia rossa che manca per giocare tutti a stella cinese?

E’ consueto dire che giocare è il contrario di lavorare. Invece l’unica verità è che il primo lo fanno i bambini, il secondo gli adulti…

Si tratta in fondo di rovesciare il nostro modo di vedere le cose. Se ripartissimo dal nostro quotidiano, recuperando il ritmo biologico del nostro corpo, che risponde ancora – scusa Bill Gates! – ai due richiami più importanti del tempo: l’alzare del sole ed il crepuscolo; se riscoprissimo la saggezza degli animali che quando digeriscono, dormono; se non rimandassimo le cose che si possono fare oggi a domani, ma a dopodomani; se imparassimo a meglio sminuire la possibile importanza delle nostre misere azioni; se abbandonassimo ogni tanto la superbia di dover “lasciare un segno”; insomma, se ci dessimo una CALMATA, allora forse potremmo scoprire che tutto questo indaffararsi non serve a un granché. Anzi che facendo meno, faremmo anche meglio, e soprattutto faremmo meno guasti e meno guai!

Ma se nessuno lavora chi lavora per noi?

Sento levarsi gentile l’obiezione dei “realisti”: ma che cavolo dici??? E pensano: sicuramente questo ha i soldi per potersi permettere queste menate! Voglio confessare una volta per tutte: ho sempre vissuto molto al di sopra delle mie possibilità finanziarie… Ma ho anche assaggiato la ricchezza del gratuito, del non dovuto, del regalo. E guarda caso, tutto questo l’ho sempre ricevuto quando non lavoravo. E’ difficile potersi accorgere di un gesto gratuito mentre si è infilati in una frenesia produttiva.

Ai realisti, però, vorrei obiettare anch’io. Perché dobbiamo lavorare per quarant’anni aspettando la pensione per andare a fare le cose che volevamo fare quarant’anni prima? A voi, grandi paladini del riduzionismo, vi chiedo alla fine del viaggio di aprire le vostre mani, il vostro cuore, la vostra anima. Quello che ci troverete, se ci trovate qualcosa, non avrà niente a che fare con il lavoro che avete fatto tutta la vostra vita. Di quello non rimane traccia se non nei polmoni, nella schiena, nelle ossa. Se rimane qualcosa alla fine del gioco, è quello che siamo riuscito a salvare durante le “ricreazioni”, le fughe, durante i giorni che abbiamo detto che eravamo ammalati e non era vero.

E a quelli che continuano ad insistere, “ma se non lavoriamo, chi manda avanti il mondo?”, vorrei dire che il mondo va avanti tranquillamente da solo, e che è solo la nostra pretesa di comandare tutto, di avere il controllo di tutto, di programmare tutto, che ci ha ingannato tutti questi secoli a trasformare la vita in una grande fatica, spesso inutile, molte volte dannosa a noi e ai nostri prossimi, sempre avara di gioie e di ricompense. Vorrei invitarli a riflettere sul male compiuto negli ultimi cent’anni, quando abbiamo cominciato a imporre in modo sistematico questo unico modello di società a tutti i poveri Cristi e Maometti e Buddha sparsi fuori dall’occidente. Se hanno un briciolo di onestà intellettuale, vorrei chiedergli se non avremmo fatto meglio a lasciare tutta questa “povera” gente in pace? Sicuramente, se non avessimo lavorato così a lungo, così convinti, così automaticamente, oggi il resto del mondo potrebbe ancora parlarci di giornate fatte di contemplazione e basta.

Ma non è detta l’ultima parola…

APPELLO A RELIGIOSI E POLITICI
Un 2000 di pace o ancora di guerra ?

“Avete inteso che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico.
Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori”
(Mt. 5,43-44).

Alle soglie del 2.000 da quando furono pronunciate queste parole da Gesù Figlio di Dio incarnato, Clinton, presidente degli Stati Uniti, ha bombardato Baghdad, lasciando intatti i dubbi sulle motivazioni, sui risultati, sulla legittimità, sulla entità dei danni alle abitazioni e alle persone civili.

E non si dica che i pacifisti sono paladini del tiranno Saddam, contro il quale alcuni di noi hanno manifestato (perché massacrava i curdi) in Piazza Maggiore a Bologna già cinque anni prima della guerra del Golfo, mentre USA, Francia, Inghilterra, Germania, Italia e Svizzera andavano a gara ad armarlo. Cosa pensavano? Che avrebbe fatto una esposizione di bellezza?

Si aggiunga il criminale embargo dei viveri, che ha causato centinaia di migliaia di vittime, più volte deprecato anche da papa Giovanni Paolo II.

Perché non fanno sul serio l’embargo della armi?

In Kosovo, dove 220 pacifisti hanno partecipato all’iniziativa “I care! – Mi importa!” (6-12 dicembre 1998), nel 50mo della “Proclamazione universale dei diritti dell’uomo”, dopo otto anni di lotta nonviolenta, di fronte alla quale la comunità politica internazionale ha finto di esser cieca, sono nati come funghi diversi gruppi armati, con relativa reazione serba e con il risultato, in pochi mesi, di migliaia di morti e feriti, paesi interi rasi al suolo e centinaia di migliaia di profughi in preda alla fame e al freddo.

Ciononostante ci si prepara a un nuovo bagno di sangue in primavera o anche prima, come si vede; e le armi arrivano.

In Congo (ex-Zaire) si assiste a scene incredibili di massacri, bombardamenti e folle di sbandati. La guerra continua; i missionari gridano appelli; i Dehoniani di tutto il mondo hanno digiunato e pregato per questo il 30 novembre scorso; ma nessuno sembra accorgersene.

In Sudan la guerra dura da oltre quarant’anni, con orrori e sofferenze inimmaginabili, attribuiti all’odio religioso, quando si sa benissimo che é questione di petrolio. E cosi` via per tante altre guerre in tutti i continenti.

Ciò che impressiona di più é che politici e giornalisti fanno grandi discorsi di strategia militare, lontani dalla cultura di pace e nonviolenza.

Allora: nel 2.000 ci comportiamo ancora come antidiluviani?

Con la differenza che, invece del tiro delle pietre, qui si lanciano missili e bombe.

Per tutti questi motivi, che dovrebbero scoppiare dentro a ogni coscienza

umana e, tanto più, cristiana, i sottoscritti, e tutti quelli che vorranno

sottoscrivere, lanciano un duplice

APPELLO: ai POLITICI

diano rilievo all’APPELLO dei 20 PREMI NOBEL PER LA PACE, fra cui MADRE TERESA, già fatto proprio dall’ONU, affinché l’anno 2.000 e tutto il primo decennio sia dedicato alla “educazione di tutti i popoli della terra alla nonviolenza” (cose concrete: appositi programmi e testi scolastici, cultura quotidiana e politiche interna ed estera coerenti)

in particolare, l’Italia intensifichi l’azione diplomatica per una ONU democratica e forte (un minimo di vera autorità), come e` stato chiesto nelle due ultime MARCE DELLA PACE PERUGIA-ASSISI e come chiede ripetutamente il PAPA (Centesimus Annus n. 58 ecc.), al fine di ristabilire il primato della politica sul potere mondiale delle multinazionali, completando cosi` l’impianto giuridico-istituzionale che dia effettività ai diritti dell’uomo e dei popoli come auspicato da La Pira: “Pax ex jure! – La pace dal diritto!”

si bandisca la guerra e ci si limiti a un “corpo di polizia internazionale alle dirette dipendenze dell’ONU (art. 43 della Carta), e si istituiscano corpi di “Caschi bianchi” (disarmati)

si abbandoni il disegno criminale del NUOVO MODELLO DI DIFESA (= difesa degli interessi dei paesi industrializzati a spese del Sud del mondo) e si abbandoni il disegno di un esercito professionale ad esso funzionale.

e ai RELIGIOSI

– le religioni e le chiese tutte non permettano che la fede nell’unico Dio di tutti venga strumentalizzata a legittimazione di guerre fratricide (vedi “Messaggio per la pace” del Papa, 1 gennaio 1999, n. 5)

– la Chiesa Cattolica, in particolare, completi la ripetuta condanna che il Papa fa della guerra e affermi che ogni vita umana e` sacra e inviolabile, non solo quella innocente (“Chi e` senza peccato scagli la prima pietra”); e testimoni la speranza nell’avvento del regno di Dio, REGNO DI GIUSTIZIA E DI PACE, già qui in terra, anche se in modo imperfetto, nella prospettiva del concilio Vaticano II: “Nuove strade converrà cercare… (Occorre) trovare delle vie per comporre in maniera più degna dell’uomo le nostre controversie. La provvidenza divina esige da noi con insistenza che liberiamo noi stessi dall’antica schiavitù della guerra” (Gs n. 81).

Cosi` la “Gloria di Dio nell’alto dei cieli” si congiungerà con la “Pace in terra agli uomini che Egli ama”.

Se POLITICI e RELIGIOSI faranno questo, Madre Teresa di Calcutta, “santa dei poveri” e “santa della nonviolenza”, sorriderà doppiamente dal cielo.

Sottoscrizioni: Comunita` Dehoniana di Bagnarola (Bologna), Giancarlo Neroni Forlani, prof. Enrico Peyretti, vescovo Antonio Riboldi, Luciano Di Giulio; Andrea Rossi, Beati i Costruttori di Pace, don Albino Bizzotto, Cristian Petti, prof. Antonio Papisca, p. Francesco Bottacin, Iari Lanzoni, Fraternita` Cappuccini di Trento, p. Fabrizio Forti, Gigi Ontanetti, don Renato Sacco, Mario Montagnani, Pax Christi Italia, vescovo Diego Bona, don Tonio Dell’Olio, prof.sa Giuliana Martirani, CIPAX-Centro Interconfessionale per la Pace, don Gianni Novelli, Vittorio Pallotti, Manifesto Pacifista Internazionale, Centro Missionario Diocesano di Verona, don Ottavio Todeschini, don Giulio Girardello, Cologno(Monzese) Città Solidale-ACEC, Giornale della Natura, Michele Papagna, avv. Sandro Canestrini, Alessandro Colantonio, Alessandro Giovannoni, Eugenio Santi, Gianfranco Buffagni, Giorgio Ferrari, Anna Meli, Riccardo Feoli, Francesca Stermieri, Simone Torrini, Massimiliano Arletti, Agnese Gozzi, on.le Renzo Imbeni vicepresidente del Parlamento Europeo, p. Vincenzo Barbieri di Cooperazione Internazionale, Fraternita` CAPPUCCINI di ALA (Trento), Marco Tolomelli del SAE (Segretariato Attivita` Ecumeniche), Piccole Suore Sacra Famiglia (Trento), Leonardo Sturiale giornalista, Coordinamento lombardo Nord/Sud del mondo, Franco Perna, Marisa Siccardi, Paolo Pieracci e Marina Venturi di AGESCI, dott. Francesco Tullio, Giancarla e Johanna ADT, Janich Edoardo, Franco e Anna Bartolomei, Paolo Mengoli assess. com. Bologna, Franca Balboni e Piergiorgio Ferioli, Mao Valpiana direttore di ‘Azione nonviolenta’

(Inviare le sottoscrizioni a p. Angelo Cavagna:

email: gavci@iperbole.bologna.it ,Tl. e Fax 051/6927098)

L’ASSEMBLEA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE
2001-2010: Decennio di Pace e Nonviolenza

Con un voto storico, il 10 novembre 1998 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha proclamato la prima decade del ventunesimo secolo: “Decennio per una Cultura di Pace e Nonviolenta per i Bambini del Mondo (2001-2010)”. Inoltre il 2.000 è stato proclamato “Anno internazionale della Cultura e della Pace”.

A cinquant’anni dalla morte del Mahatma Gandhi e trent’anni da quella di Martin Luther King, l’invito al “Decennio per una Cultura di Pace e Nonviolenta per i Bambini del Mondo” è frutto di un Appello alle Nazioni Unite (pubblicato in Azione nonviolenta, dicembre 1997) inizialmente sottoscritto da ventitré personalità insignite col Premio Nobel per la Pace, tra cui Madre Teresa, Aung San Suu Kyi, l’arcivescovo Desmond Tutu, Sua Santità il Dalai Lama, Rigoberta Menchù, Perez Esquivel e il Presidente Nelson Mandela.

Il proclama invita ogni Stato-membro dell’Unione a diffondere i principi della Nonviolenza agli appartenenti ad ogni classe sociale. I membri delle Nazioni Unite, Le ONG, gli apparati educativi, i leader religiosi, i media, gli artisti, e ogni membro delle società civili sono invitati a supportare il Decennio per il bene dei bambini del mondo. Il proclama è stato redatto dopo gli appelli venuti da venti nazioni che invocavano un futuro senza guerre.

“Voglio congratularmi con il Comitato per un impressionante risultato” ha dichiarato Anke Kooke, segretario generale dell’IFOR. “Il mondo ha disperatamente bisogno di porre fine all’endemica sofferenza delle guerra e della violenza. Dobbiamo concentrarci su dieci anni di sforzi per formare una cultura globale di pace e nonviolenza. Ogni generazione deve apprendere e insegnare il valore della nonviolenza e dell’amore.”

L’UNESCO sta lavorando per sostenere in ogni modo la promozione di queste iniziative con una specifica campagna mondiale che sarà resa note nel prossimo mese di aprile.

Per ulteriori informazioni, contattate l’IFOR, tel. 0031/72/5123014 (fax 5151102).

E mail: office@ifor.ccmail.compuserve.com

o il Comitato per il premio Nobel, tel. e fax. 0033/3/44863907.

E mail: nobel.appeal.2000@wanadoo.fr

DOPO IL CONGRESSO L.O.C.
L’obiezione, strumento per la pace

I quesiti che ci eravamo posti nell’organizzare il Congresso, hanno trovato una risposta positiva sia nei contributi degli ospiti, sia nel nostro dibattito interno.

L’obiezione può essere ancora uno strumento di lavoro per la pace: lo può essere nell’esperienza della Rete Caschi Bianchi (i 41 obiettori impegnati in Kosovo in quegli stessi giorni ne sono una prova evidente); lo può essere nell’impegno per un servizio civile che sia scuola di cittadinanza e di educazione alla pace (la presenza al Congresso del Dott. Bertolaso – dirigente del futuro Ufficio nazionale per il servizio civile – è risultata piacevole sorpresa per gli impegni che ha saputo prendere e per l’ampia disponibilità mostrata per una futura collaborazione).

Lo può essere nel riprendere un’iniziativa antimilitarista matura che, superando i dogmatismi e la logica da riserva indiana, sappia costruire un percorso di azione politico-culturale di ampio respiro, capace di denunciare puntualmente obiettivi, costi e funzionamenti dello strumento militare, di lavorare al superamento del suo monopolio nel campo della difesa, rendendolo improponibile, smascherandone i tentativi di mimetizzazione e rilegittimazione nelle cosiddette operazioni di pace, contrastando puntualmente ogni sua inutile presenza nel territorio con basi militari NATO, ma non solo.

Lo può essere, infine, lavorando alla costruzione di una Costituzione materiale del pianeta, ove non abbiano più posto l’uso della forza come mezzo legittimo per risolvere qualunque tipo di conflitto, lo spreco delle spese militari, l’esaltazione di guerre giuste.

Nessuna guerra è giusta, lo sappiamo, ma solo la mobilitazione di ciascuno di noi e la conseguente assunzione di responsabilità (che stava e sta alla base della scelta di obiettare, fin dall’inizio della nostra storia) può delegittimarne definitivamente le ragioni.

Gli altri quesiti di fondo, a cui il Congresso doveva rispondere, erano: esiste ancora un’organizzazione chiamata LOC? Vi è ancora la necessità che essa esista?

Le conclusioni di Torino ci fanno rispondere sì a tutte e due le domande!

Seppur piccola, la LOC, è presente in buona parte del territorio nazionale, vitale, in grado di interloquire con istituzioni e movimenti, capace di esprimere una progettualità autonoma efficace, motore organizzativo di molte iniziative politiche culturali, formative e informative.

E abbiamo ancora molte cose da dire e da fare, soprattutto dopo l’approvazione della Legge 230/98.

Il dato più significativo del Congresso è stato certamente la presenza quantitativa e qualitativa delle sedi LOC del Sud Italia; una realtà importante che modificherà il modo di lavorare della nostra organizzazione.

Il 6 e 7 Marzo 99 si terrà a Napoli, una nuova assemblea nazionale della LOC avente, come obiettivi, la definizione di una agenda politica, l’approvazione di un nuovo Statuto, nuove forme organizzative.

Il 1999 sarà un anno cruciale per la LOC; è opportuno che inizi subito il dibattito e vi sia una ampia assunzione di responsabilità.

Inutile dire che la partecipazione all’assemblea di Napoli è estremamente importante; segnalate la vostra partecipazione e inviate eventuali ed auspicati contributi scritti al dibattito, alla Sede Nazionale.

Lev Tolstoj, Il bastoncino Verde – scritti sul cristianesimo – Ed. Servitum, Sotto il Monte BG –
Pag 185 – Lit. 20.000

Esce un altro volume con gli ultimi scritti filosofico-profetici di Leone Tolstoi tradotti per la prima volta dal russo in italiano, a cura degli Amici di Tolstoj.

Sono scritti di altissimo valore morale e religioso e in cui Tolstoj esplica lo stesso straordinario carisma letterario che lo rese così famoso come narratore; eppure sono rimasti misteriosamente poco conosciuti.

Segnaliamo un particolare: “La lettera ad Engelgardt”, in cui Tolstoj pone alcuni principi base della nonviolenza: “Non si può spegnere il fuoco con il fuoco, non si può asciugare l’acqua con l’acqua, non si può distruggere il male con il male” egli scrive.

E “la rivoluzione intellettuale” contro ogni forma di violenza nell’organizzazione sociale. “Niente mette in evidenza così chiaramente la completa assenza, negli uomini della nostra epoca, della fede cristiana, anzi di qualsiasi fede religiosa, quanto la loro reazione di fronte al problema dell’applicazione della legge dell’amore nella nostra vita e di fronte al principio della non-resistenza al male con la violenza, inseparabilmente legato a tale applicazione”.

Inoltre “Amatevi gli uni gli altri” considerato il testamento spirituale dello scrittore.

Ricordiamo che un altro testo Tolstojano fondamentale “La legge della violenza e la legge dell’amore” è stato stampato nel gennaio ‘98, come quaderno di Azione nonviolenta e che gli altri volumi di scritti Tolstojani, curati dagli amici di Tolstoj: “Il regno di Dio e in noi”, “Tolstoj Verde”, “La vera vita”- Ed. Manca, Genova, sono anche a disposizione presso il Movimento Nonviolento. Per ogni informazione e contatto rivolgersi anche agli Amici di Tolstoj – Via Casale D’Elsa 13 – 00139 Roma – Tel. 06-8125697.
Gloria Gazzeri

Emanuele Arielli, Giovanni Scotto, I conflitti. Introduzione a una teoria generale, Bruno Mondadori, Milano,1998

Il libro è una sintesi chiara ed efficace dei principali contributi sul tema del conflitto emersi nell’ambito della Peace Research (ma non solo), organizzati secondo una precisa ottica interpretativa , al fine di delineare i capisaldi di una teoria generale dei conflitti che sappia offrire validi strumenti per l’azione.

Il pregio maggiore di questo testo è, a mio parere, proprio quello di essere un riuscito tentativo di unificazione teorica chiara e convincente in un campo di studi che per sua natura è ampio, fortemente frammentato secondo approcci disciplinari diversi, diviso in compartimenti scarsamente comunicanti tra loro per quanto riguarda gli aspetti applicativi nell’ambito delle scienze politiche e sociali.

Un tale sforzo unitario è portati avanti integrando opportunamente gli strumenti di analisi per affrontare :

la struttura intrinsecamente interdisciplinare dei conflitti;

i diversi livelli in cui si presentano (la dimensione micro delle relazioni inerpersonali, quella meso dei conflitti intergruppi e quella macro delle relazioni internazionali);

il rapporto tra teoria e pratica nei diversi contesti;

le dinamiche presenti nelle situazioni conflittuali

Il libro è diviso in tre parti. Nella prima (Teorie e modelli generali), partendo da un approccio storico volto a delineare per cenni l’idea di conflitto nella storia del pensiero e a presentare le principali teorie dei conflitti in epoca contemporanea, sono introdotti gli aspetti generali di una teoria del conflitto, è proposta una classificazione dell’azione conflittuale, sono analizzati aspetti centrali come le percezioni e le interpretazioni, è illustrata sinteticamente la teoria dei giochi, per concludere con l’analisi degli aspetti strategici, del ruolo di cooperazione e fiducia nell’agire collettivo e dei processi di trasformazione dei conflitti.

Nella seconda parte (Le arene del conflitto), sono prese in considerazione alcune componenti fondamentali nelle dinamiche conflittuali, come la comunicazione, e sono analizzati i diversi livelli di conflitto: micro, meso e macrosociale, concludendo con uno sguardo generale sul conflitto tra culture, nel quale viene brevemente presentata, tra l’altro, la tesi isolazionista di Huntington sullo scontro tra culture, e viene discusso il concetto di multiculturalità, anche in relazione ai fenomeni di immigrazione e ai problemi delle nuove entità politiche comparse sullo scenario di quest’ultimo scorcio di secolo.

La terza parte, infine, (Strategie di trasformazione costruttiva), affronta il problema della gestione dei conflitti “micro”, le forme emergenti di intervento nei conflitti internazionali (peacekeeping, peacemaking, peacebuilding), e si conclude con una presentazione della nonviolenza come prospettiva culturale e politica centrata su una trasformazione cooperativa dei conflitti.

E’ un libro che ci servirà nella nostra azione per la pace, e questo non è poco.

Angela Dogliotti Marasso

Riceviamo

Caritas di Roma, Immigrazione Dossier statistico ’98, Anterem, Roma, 1997, pp. 352

Elise Bopulding, Inventare futuri di pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1998, pp. 106

Prov. Di Verona e A.I.B., Guida alle biblioteche di Verona e provincia, Ombre corte Ed., Verona, 1998, pp.190

Idana Pescioli, Lo stupore negato, Ed. Polistampa, Firenze, 1995, pp.46

Mov. Riconciliazione, La diplomazia è nostra, Mov. Riconciliazione, Padova, 1998, pp.80

Johan Galtung, I Diritti Umani, Esperia, Milano, 1994, pp. 239

Salvatore Agresta, Giorgio Paglia, L’arte di guardare la TV, ed. Paoline, Milano, 1998, pp. 282

Emanuele Arielli, Giovanni Scotto, I conflitti, Bruno Mondadori, Milano, 1998, pp. 245

Jan Van Lierde, Un Insoumis, Labor, 1998, Bruxlles, 1998, pp. 208

Filippo Gentiloni, Il cristianesimo difficile di Sergio Quinzo, Fond studi A. C., 1998, pp. 12

Ierone Bennett, Martin Luter King, Claudiana, Torino, 1998, pp. 199

Nyogen Senzaki e Paul Reps, 101 Storie Zen, Adelphi, Milano, 1973, pp. 107

Felice Accrocca, Francesco: un folle per amore, Paoline, Milano, 1998, pp. 132

AA.VV. Economie Di Carta, Editrice Missionaria Italiana, Bologna, 1998, pp.126

AA.VV, Azioni politiche fuori dei partiti, Franco Angeli, 1997, pp. 399

Leon Tolstoi, La Insumisiòn y otros textos, Fundaciòn Anselmo Lorenzo, Madrid, 1993, pp. 65

Tecnologie Appropriate, La banca del tempo, Macro Edizioni, Cesena, 1998, pp. 76

Rocco Altieri, Aldo Capitini, La rivoluzione Nonviolenta, BFS Edizioni, Pisa 1998, pp. 155

Assoc. Di Solidarietà tra i popoli, Avvicinando le sponde, Ass. Sol. Tra i popoli, Verona, 1998

Enrico Peyretti, La politica è pace, Cittadella Editrice, Assisi, 1998, pp. 203

AA.VV., L’attualità di Don Lorenzo Milani, Miniato, Verona, 1998, pp. 190

AA.VV., Rileggiamo don Lorenzo Milani, Comune di Rubano, 1998, pp. 86

Corrado Poli, Città ambiente democrazia, Tam Tam libri, Mestre, 1998, pp. 48

Centro Nuovo Modello di Sviluppo, La crescita del potere delle multinazionali, Vecchiano, 1998 pp. 15

CNMS, Guida al consumo critico (Ed. 1998), EMI, Bologna, 1998, pp 318

CNMS, Ai figli del pianeta, EMI, Bologna, 1998, pp. 126

Angelo Maria Fanucci, La logica dell’utopia, Cittadella, Assisi, 1998, pp. 226

Giorgio Giannini, I forti di Roma, Tascabili Newton, Roma, pp. 60

Marshall B. Rosemberg, Educazione Reciproca, Esserci, Reggio Emilia, 1997, pp. 128

Angelo Cavagna, Obiettori di Coscienza, GAVCI, 1998, pp. 120

Alexander Langer, Più lenti, più dolci, più profondi, Proeuropa, Bolzano, 1998, pp. 64

Nathalie Bailleux, Ives Beaujard, I diritti dell’uomo e la nonviolenza, Piccoli, TO, 1995, pp. 76

Andrea Reina, Un mercato diverso, EMI, Bologna, 1998, pp. 96

AA.VV., La terra umiliata (catalogo del cinema dei diritti umani), Cinecircoli giovanili socioculturali, 1998

Centro culturale di via Bologna, Attualità di Don Milani, Ferrara, 1998, pag. 56

Nancy Sokol Green, La classe giraffa, Ed. Esserci, Reggio Emilia, 1997, pp. 110

Rafael Borroto Galbes, Eco Satira, Calderini Caribe, Bologna, 1997, pp. 86

AA.VV., I racconti di Giuha, Centro Come…, Milano, 1996, pp. 66

Lev Tolstoj, Il bastoncino verde, Servitium, Sotto il Monte, 1998, pp. 188

LAFTI, Gandhiji’s Gram Swaraj Way For Economy Of Peace In The World, Gram Swaraj Movement, Nagai – Tamilnadu, India, 1999, pp. 20

Di Fabio