• 25 Novembre 2024 2:21

Azione nonviolenta – Marzo 1999

DiFabio

Feb 6, 1999

Azione nonoviolenta marzo 1999

– La naja e’ morta! Viva l’obiezione! di Mao Valpiana
– La politica militare difende il potere, Ekkehart Krippendorff
– L’abolizione del servizio di leva, Antonino Drago
– Caschi bianchi per la difesa civile, a cura della Segreteria della Rete Caschi Bianchi
– Una buona idea che prende corpo…, di Paolo Bergamaschi
– No al mestiere di uccidere: ne’ gratis, ne’ pagato, di Enrico Peyretti
– La nonviolenza e’ relazione: l’arte della convivenza, di Luciano Capitini
– Cermis: dopo l’assoluzione verra’ la rimozione? di Luigi Casanova
– L’ufficio nazionale per il servizio civile, di Roberto Minervino
– Alla ricerca di un’economia senza denaro, di Cristoph Baker
– Pace e nonviolenza nel teatro greco, di Claudio Cardelli
– Liberiamo Lin Hai condannato a 15 anni, di Alessandro Marescotti
– Mattoni per la pace: obiettivo raggiunto!

IL DIBATTITO E’ APERTO
La naja e’ morta!
Viva l’obiezione!

di Mao Valpiana

All’inizio di febbraio il Ministro della Difesa, Carlo Scognamiglio, ha annunciato l’intenzione di dare un definitivo addio alla leva, entro tempi brevi, rinunciando quindi alla transizione, proposta dal suo stesso Ministero lo scorso dicembre, di un reclutamento misto (20% di militari di leva e 80% di professione). Secondo il Ministro “il modello meglio rispondente alle nuove esigenze della Difesa e’ quello interamente professionale” (notizia Ansa del 2 febbraio ’99). Quindi l’auspicio di Scognamiglio e’ quello che si giunga al piu’ presto anche in Italia all’abolizione del servizio di leva.

La proposta e’ stata fatta a titolo personale dal Ministro e non coinvolge il Governo, che ancora non ha assunto una posizione ufficiale. E’ evidente comunque che Scognamiglio parla per bocca dei vertici militari e che nel governo D’Alema c’e’ un certo imbarazzo, anche perché una simile scelta, per diventare praticabile, sottende una modifica costituzionale (art. 52: “Il servizio militare e’ obbligatorio nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge”). I fautori dell’esercito professionale hanno subito plaudito, sottolineando che l’abolizione del servizio militare comporta parimenti l’abolizione del servizio civile. Due piccioni con una fava: via gli obiettori e via libera ai generali. Portavoce ufficiale di questa fazione e’ l’ex generale Luigi Caligaris, eurodeputato forzaitaliota: “Alla fine della leva militare non potra’ non seguire l’estinzione dell’obiezione, poiché verra’ a scomparire il soggetto contro cui si voleva obiettare. Con la fine dell’obiezione, fenomeno diseducativo, viene a mancare la fonte di reclutamento obbligato per il servizio civile. Si priva cosi’ di motivazione la costruzione di quel mammuth, costruito su base coercitiva cosi’ come la leva militare, nato come antagonista del servizio di leva e ad esso sostitutivo” (Italia nel mondo, febbraio 1999). La reazione e’ scattata subito, e abbiamo dovuto assistere al salto mortale di alcuni settori “pacifisti” che, per difendere l’orticello del servizio civile, si sono trasformati in strenui paladini della coscrizione obbligatoria (!).

E’ bene fare chiarezza. Noi antimilitaristi e nonviolenti siamo sempre stati, e siamo ancora, contro la coscrizione obbligatoria, moderna schiavitu’ al servizio dello stato-nazione in armi. Uno dei principali obiettivi della War Resisters International e’ proprio against coscription, contro la leva obbligatoria. Quindi, ben venga la sua abolizione. Ma nel contempo siamo anche contro la guerra e la sua preparazione, contro ogni apparato bellico, ogni esercito, compresi quelli fatti da mestieranti. Tanto piu’ che il peso economico dei militari mercenari gravera’ ancor piu’ sulla societa’ civile. Parola di Caligaris: “Per evitare spiacevoli sorprese si dovra’ presto presentare un preventivo credibile sui costi totali del professionismo, largamente superiori alle stime. Forze professioniste non costano solo quanto la somma dei loro stipendi ma impongono altre spese complementari nella formazione, nell’addestramento, nei materiali, nelle armi, nelle strutture e nelle infrastrutture” (Ibidem).

Per quel che ci riguarda, l’obiezione di coscienza non verra’ mai meno e il servizio civile (obbligatorio o volontario che sia) dovra’ essere sempre piu’ rivolto alla costituzione della difesa nonviolenta, alle missioni umanitarie e di pace. I nonviolenti devono saper cogliere le trasformazioni in atto per proporre la sostituzione dell’esercito con forze di polizia internazionale, corpi civili di pace, reparti di protezione civile. L’On. Gen. Caligaris se n’e’ accorto: “Che a qualcuno sia saltato in testa di mettere su poco alla volta un esercito civile, molte volte piu’ grande di quello militare, nella speranza di essere il primo paese al mondo in grado di istituzionalizzare la tanto auspicata ‘difesa nonviolenta’?” (Ibidem). Esatto, signor generale, proprio cosi’!

E’ questa la sfida che ci attende.
NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE
Stato, esercito, guerra: la politica militare

di Ekkehart Krippendorff *

In Germania è stato da poco celebrato, anche con un certo contributo dei pacifisti, il 350° anniversario della Pace di Westfalia che nel 1648 pose fine alla Guerra dei Trent’anni. Ad Oslo si è tenuto un convegno di storici per parlare di questo tema, così come nella passata primavera si era tenuta una manifestazione voluta dai pacifisti ad Osnabrück per celebrare l’importanza di questa data.

La Pace di Westfalia va vista come il punto di partenza del nostro ragionamento politico, perché il suo significato va oltre i confini europei ed assume rilevanza mondiale.

La Guerra dei Trent’anni fu combattuta in Germania dalle forze imperiali cattoliche contro i protestanti. Durò così a lungo a causa di interessi statali (il tema dello Stato militare è di grande importanza in questo contesto) da parte della Francia che, in realtà, non vi partecipò neppure attivamente. In maniera provocatoria si può affermare che nel ‘600 in Francia fu “inventata” la politica estera per opera di una persona mentalmente malata, ma molto intelligente: il cardinale Richelieu. Egli diede vita ad uno Stato cinico e razionale, che conduceva la sua politica con l’unico fine di rafforzare la centralità della Francia incarnata dalla figura di Luigi XIII. Il cinismo si concretizzava in un atteggiamento che non prevedesse mai di schierarsi apertamente con l’imperatore o con i protestanti, ma atto soltanto a prolungare il conflitto nell’interesse del proprio Stato nazionale. In questo consisteva la “raison d’Etat”, anch’essa “inventata” in quegli anni e poi imitata in tutta Europa fino all’Italia unificata nell’800, che mutuò dalla Francia persino il modello educativo.

Il 1648 può essere visto come un grande armistizio tra “condottieri legalizzati”, cioè prìncipi, re o granduchi che dir si voglia, ognuno dei quali si garantì la propria sovranità territoriale e la propria autonomia. Nacque così, ed anche la Sociologia storica è d’accordo nell’affermarlo, lo Stato moderno, che si esplicita in una amministrazione neutrale, centralizzata con un territorio fissato, con una amministrazione burocratizzata atta a gestire la ricchezza pubblica ed a razionalizzare l’economia analogamente a quanto avviene in un’impresa.
Primo

Polemicamente si può però dire che la nascita dello Stato moderno non rappresentò null’altro se non il dare un “mantello” all’esercito, vera spina dorsale di questa organizzazione politica su cui verteva tutto: dall’economia alle infrastrutture, dalla rete viaria alla planimetria delle città. Torino ad esempio fu progettata come campo militare, altre città furono riorganizzate come guarnigioni distaccate dal nucleo del potere politico, che altro non era se non un potere militare in cui il capo dello Stato era allo stesso tempo al comando dell’esercito, non solo formalmente.

Ciò che interessa dal punto di vista storico è che, fino ad oggi, l’autodefinizione dello Stato, nella simbologia e nell’iconografia, è di tipo militare. Di ciò non siamo sempre consapevoli, ne vediamo soltanto il lato folkloristico, mentre la sostanza va ben oltre questo aspetto. Quando si assiste, per televisione, alle visite ufficiali all’estero di personalità eminenti della politica, si nota sempre la presenza dei soldati come simboli dello Stato. Si pensi ad esempio al funerale di Lady Diana, non a caso di profonda impronta militaresca.
Secondo

In secondo luogo occorre affermare che la visione militare ha profondamente influenzato il modo di concepire la politica. In particolare, come già accennato prima, si fa riferimento alla politica estera, cioè alla gestione dei rapporti con gli altri Stati che vengono sempre visti come delle minacce, dei nemici oppure come degli alleati, ma sempre in termini militari; in parole povere o si ha paura gli uni degli altri o si tenta di stringere delle amicizie, ma sempre in chiave di difesa del proprio territorio ossia del proprio potere politico. Qui sta la vera menzogna: l’esercito non difende il territorio, ma il potere politico, come si vede in maniera lampante nel caso dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo e dell’America Latina, dove gli eserciti difendono o addirittura prendono il potere. Si pensi ad esempio al colpo di Stato di Pinochet nel 1973, che difendeva in realtà degli interessi di classe. Un discorso del genere vale anche per Stati cosiddetti “seri” come il Brasile o l’Argentina, nati anch’essi come “prodotti militari” di guerre di indipendenza.

La politica può dunque essere definita come un intreccio di rapporti di forza, già a partire dall’antica Grecia, vera “culla” della politica. Nel V secolo a.C. nasce il concetto di autogoverno come autodeterminazione, autonomia, emancipazione delle poleis greche. Tutta la filosofia politica affonda le proprie radici nel pensiero di Platone e Aristotele, ove si tenta di dare una risposta a domande come: “Qual è la società giusta, la società ideale? Chi ha il diritto di partecipare al suo governo?” e dove si afferma la necessità di dedicare parte del proprio tempo alla città. Questo concetto fu deformato dal ‘700 in poi di pari passo con la deformazione dell’idea di politica vista in termini di solo potere imposto con la violenza. Tale visione permane ancora oggi tra di noi. Uno dei grandi pensatori che, non interpretato correttamente, contribuì al rafforzarsi di questo “malinteso” è stato Niccolò Machiavelli (che fu anche un grande leader militare).

Si può poi indagare sull’odierno linguaggio della politica che tutti noi usiamo correntemente: esso è ricchissimo di termini e riferimenti a eventi militari come il Piave o il Montegrappa ed in generale a tutta la “mitologia” intorno alla Prima Guerra Mondiale. Questo è solo un aspetto di come la guerra faccia parte della nostra cultura.
Terzo

Come terzo aspetto della nostra trattazione si può introdurre il concetto militare come grande “semplificatore”. Ciò significa che esso rappresenta sempre la soluzione più semplice a qualsiasi conflitto e quindi una grande tentazione per ogni tipo di regime in quanto permette di evitare le lunghe e laboriose trafile dei negoziati. In questo senso il militare può essere visto come una vera e propria corruzione del pensiero politico, come ad esempio nel caso della guerra del Vietnam: solo oggi il signor McNamara ammette, in un suo libro di memorie, che gli Americani allora non sapevano nulla del luogo in cui mandarono il loro contingente, che inizialmente doveva essere di soli 500 uomini, anche se poi ne morirono 50.000. Sulla base di questa ignoranza essi distrussero un intero paese e provocarono la morte di 3.000.000 di vietnamiti.

Lo stesso si può dire della guerra nelle Isole Falkland: si è calcolato che con le spese militari sostenute dal Regno Unito in tale occasione, i circa 2000 inglesi abitanti di quei territori avrebbero potuto vivere con una lauta pensione in Inghilterra a carico del loro governo. Invece fu l’orgoglio a prevalere, così come da parte degli argentini, che si illusero di poter agire quasi indisturbati nella loro occupazione data la grande distanza dalla Gran Bretagna.

La stupidità dei generali sta nel loro guardare al mondo solo dal punto di vista della loro professione senza badare alla sottigliezza ed alle contraddizioni della società. Così i soldati tedeschi furono costretti a combattere fino all’ultimo momento nelle ultime fasi della guerra nell’aprile del ’45, quando chiunque avesse un minimo di raziocinio era persuaso che la situazione fosse ormai senza via d’uscita: essi non volevano avere niente a che fare con la politica, ma semplicemente facevano il loro mestiere, assolvevano al loro impegno professionale.
Quarto

Come quarto punto si vuole introdurre l’aspetto antropologico del problema secondo cui il militare è il simbolo realizzato della disumanizzazione dell’uomo nel senso che l’uomo militare rappresenta la riduzione estrema dell’uomo ad un essere funzionale. Calza in questo caso il paragone con l’operaio classico della fabbrica della fine dell’Ottocento – inizio del Novecento, visto semplicemente come un essere in grado di fare determinati movimenti nel modo più razionale possibile, come una macchina. Il soldato dal canto suo indossa una “uniforme”, che significa “unica forma”, uguale per tutti; egli è sottomesso agli ordini che riceve e non ha, dal punto di vista strutturale, nessun diritto di chiedere spiegazioni su ciò che è tenuto ad eseguire. In questo consiste la decomposizione della persona e la sua ricostruzione come macchina.
Quinto

Si vuole poi considerare, come quinto aspetto, la difficoltà di ripensare lo Stato, come ordine pubblico e politico senza il militare. Ciò è molto più difficile di quanto si possa pensare. Il punto di partenza consiste nel domandarsi come mai tutti i nostri argomenti, così razionalmente articolati, di pacifismo e di antimilitarismo non hanno quasi mai avuto successo, se non in piccola misura. E come mai non si è riusciti a diventare un movimento di massa. Può darsi che, pur essendo buoni, i nostri argomenti non arrivino al cuore del problema. Ci sono in particolare due punti non ben definiti. Uno è il nostro concetto di sicurezza, che è storicamente cresciuto ed identificato con la figura di Stato militare. Noi ci sentiamo sicuri in uno Stato che ha i suoi soldati: anche se non sempre ne siamo coscienti, l’idea di uno Stato senza esercito è quella di uno Stato in un certo senso “nudo”. Questo bisogno collettivo può essere visto come una necessità psicologica dovuta alla mancanza di una propria autonomia sia personale sia politica. Ciò significa che noi non siamo emancipati, non sentiamo di avere il controllo della nostra vita, non solo come individui, ma anche come comunità. L’alternativa a questo stato di cose dovrebbe essere l’identificazione con certe forme sociali di base e non politiche o alienate dalla politica stessa come l’esercito. Finché non si raggiunge questo tipo di sicurezza ci si rifugerà sempre nell’altra, quella falsa, ma funzionante, dello Stato armato.

L’altra sfaccettatura di questo tema è la necessità di dissacrare ed eliminare dal nostro subconscio la visione distorta che abbiamo dello Stato. Si pensi ancora una volta alla evidentissima impronta militaresca della città di Torino sia dal punto di vista della sua planimetria sia dal punto di vista dei suoi monumenti: l’obiettivo di chi volle tutto ciò era quello di dare ai cittadini ed ai visitatori una visione positiva dell’esercito come del fautore dell’unità dell’Italia e rappresentante dello Stato. In Germania si ebbe grande difficoltà a trovare una collocazione per un monumento marmoreo al disertore anonimo che era dissacrante nei confronti della Seconda Guerra Mondiale. Né a Berlino né a Bonn nessuno lo voleva e così finì ad un piccolo comune. Anche in seguito all’amnistia postuma ai disertori della Seconda Guerra Mondiale, il Parlamento non riuscì ad accettare, se non pochi mesi fa, il fatto che essi fossero bravi tedeschi. La diserzione rappresenta una sfida a tutti i soldati che non hanno avuto l’ardire di rispondere no alla chiamata alle armi. La società si rifiuta di riconoscere questa mancanza di coraggio e blocca l’affermarsi della verità, circondata com’è da una iconografia profondamente radicata nel proprio subconscio.
Sesto

L’ultimo punto su cui ci si vuole soffermare è rappresentato dalla individuazione delle pratiche non-militari che possono riassumersi in tre aspetti.

Il primo è quello secondo cui tali attività debbono necessariamente cucire un rapporto organico con il femminismo, senza il quale nulla può andare a buon fine. Quella del movimento femminista è senza dubbio la sfida più importante degli ultimi trent’anni in quanto essa rappresenta un capovolgimento di tutti i valori della nostra società. Il fatto che questa sera si voglia parlare di “maschia” guerra la dice lunga sul fatto che femminismo ed antimilitarismo debbano necessariamente convivere.

Senza soffermarsi sul secondo aspetto, rappresentato dall’obiezione di coscienza e sulla necessità di incoraggiarla, si passa al terzo che richiede un po’ più di fantasia: qualsiasi Stato ha bisogno di rappresentare se stesso, almeno nelle occasioni ufficiali, ma occorre trovare dei metodi civili, alternativi a quelli militareschi.
Conclusione

In Germania venne proposto, anche se può sembrare infantile e ridicolo, che quando il Presidente della Repubblica riceve delegazioni straniere, sia circondato dai rappresentanti delle varie classi sociali ovvero delle diverse professioni. Si tratta in sostanza di trovare alternativi simbolici civili. L’altra esigenza è quella di delegittimare qualsiasi rituale di tipo militare, come il giuramento pubblico delle nuove reclute, o l’onore del militare come professione. In questo momento storico ciò è possibile, ma occorre fantasia per trovare argomenti innovativi e diversi rispetto a quelli classici che, ad esempio, consistono nel paragonare le spese militari a quelle civili. Bisogna essere consapevoli del fatto che il militare ha dimensioni ben più grandi di quanto si crede.

* Docente di Relazioni Internazionali alla Freie Universtaet di Berlino

(Testo, tratto da una relazione tenuta a Torino il 3.11.1998, non rivisto dall’autore).

CONTRO LA NASCITA DELL’ALTERNATIVA ALL’ESERCITO
L’abolizione del servizio di leva

di Antonino Drago

Quando è nato il servizio di leva

Nel novembre 1998, il Ministro della Difesa, Sen. Scognamiglio, ha dichiarato che “le esigenze che portarono Napoleone alla leva di massa, sostanzialmente non ci sono più.” Veramente gli insegnanti di storia debbono insegnare quello che lui dice a proposito della nascita della democrazia nel 1793 in Francia? Sapevamo già che l’ex-Presidente del Senato nel governo Berlusconi era diventato Ministro della Difesa per meriti politici (il ribaltone dell’UDR); potevamo anche immaginare che nella sua vita non abbia avuto una preparazione militare specifica; ma pensavamo che avendo studiato anche all’Università dovresse conoscere un minimo di storia.

La rivoluzione francese è sopravvissuta solo perché nel 1793, ottenne la “Victoire” sugli eserciti monarchici europei, coalizzati per schiacciare il focolaio della rivoluzione democratica. Questa vittoria fu organizzata non da Napoleone (che allora era praticamente sconosciuto) ma da Lazare Carnot, scienziato-stratega-politico, che allora era il Capo delle Forze Armate. Fu lui, teorico della “difesa totale”, a chiamare tutta la popolazione alla “leva in massa”. E non per scopi napoleonici, ma per realizzare il principio basilare della neonata democrazia: nei casi estremi della difesa collettiva non si può chiedere ad altri, neanche con i soldi, di morire al posto nostro. Nei primi anni della rivoluzione lo slogan completo era “Uguaglianza, fratellanza, libertà, difesa della Patria o la morte”. La rivoluzione francese doveva rifondare lo Stato sulla ragione e sul popolo; è rimasta una rivoluzione largamente incompiuta; ma nel settore difesa, nel 1793, realizzò la nuova organizzazione statale (che poi però fu stravolta proprio dalle guerre di dominio di Napoleone, uno dei teorici della “guerra totale”).

Infatti per sua natura la democrazia comporta diritti e doveri, tra i quali, fondamentale (come dice l’art. 52 della nostra Costituzione), quello della “difesa della Patria”, come “sacro dovere di ogni cittadino”. Oggi per il laico Scognamiglio il “sacro” sicuramente non ha più senso; ma, a sentirlo, viene da pensare che anche il “dovere” può essere vanificato con una semplice pressione dell’opinione pubblica, seguendo il tipo di azioni con cui i militari italiani stanno instaurando il “nuovo modello di difesa” al di fuori di decisioni parlamentari.

La monetizzazione della difesa collettiva

Esaminiamo nel concreto la proposta del Ministro della Difesa. E’ quella che ogni operaio conosce bene: la monetizzazione, in questo caso dei giovani del servizio militare. In effetti questa è una logica conseguenza per chi ha voluto monetizzare tutta la difesa nazionale mediante i mercenari del “nuovo modello di difesa”.

Questa monetizzazione viene presentata come un progresso. Certo, per l’individualismo consumista il pagare danaro pur di togliersi un impegno è una prospettiva allettante. Ma chi sa la storia, conosce bene che con questa proposta si torna al tempo della monarchia assoluta (prima del 1789!), quando si pagava per trovare il proprio sostituto che facesse il servizio militare. Chi conosce la storia romana sa che il passaggio all’esercito mercenario fu uno dei principali motivi della decadenza dell’impero. E senza andare tanto indietro, se oggi gli USA hanno l’esercito di mercenari è perché nella guerra del Vietnam furono sconfitti prima di tutto dal milione di espatriati e disertori (tra i quali Bob Dylan e Mohamed Alì). Reagan fu eletto Presidente la seconda volta promettendo di far tornare la leva obbligatoria; ma 800mila giovani si rifiutarono e tutto finì con un “Abbiamo scherzato…”.

E in Italia, che tipo di esercito verrebbe fuori con il sistema mercenario? Di sicuro un esercito allineato ai parametri USA (che non dovrà più impazzire, così come fu nella guerra all’Irak, per coordinare 11 eserciti, tutti diversi). Ma è anche sicuro che ne risulterà un esercito che combatterà le prossime guerre in una maniera molto facile: semplicemente si schiererà con chi paga di più. Quando mai un mercenario preferirà morire per un residuo “amor della Patria”, piuttosto che cedere al miglior offerente? Oggi ci sentiamo traanquilli perché nel mondo siamo una nazione abbastanza ricca da vincere una guerra anche con i danari; e soprattutto perché siamo allineati e coperti con la nazione più ricca del mondo, gli USA.

Ma allora sorge il sospetto: forse ci siamo già venduti? E se lo fossimo, quando lo verremmo a sapere, noi il Paese di Gladio, di Ustica, di Ramstein, dello scandalo della Lockheed,….?

Al lavoro! Le iniziative dal basso

L’Italia ha saputo reagire bene al dopo 1989. Al cambiamento del fronte difensivo e alle nuove guerre etniche, l’Italia ha reagito con una mobilitazione senza precedenti. Anche gli Enti locali sono stati coinvolti in massicce operazioni di intervento (non solo assistenziale) nella ex- Jugoslavia e altrove. In pochi anni si è stati capaci di cambiare del tutto la filosofia di intervento, inventando nuove manifestazioni e nuove iniziative politiche e facendo molte esperienze (anche criticabili e da modificare; ma sempre molto significative): Time for Peace a Gerusalemme, Volontari in Medio Oriente, Marcia dei 500 a Sarajevo, MIR Sada con 1500 europei, obiettori volontari nelle zone di guerra.

Ad esempio le missioni di pace degli obiettori all’estero sono state conquistate da loro stessi. Circa una cinquantina di obiettori sono andati in Jugoslavia quando non c’era una legge che lo prevedesse, rischiando (e in qualche caso, subendo) processi per abbandono del servizio civile. Comunque, pur senza permesso, sei obiettori sono andati ugualmente a Sarajevo. Ed è avvenuto che il sottosegretario Brutti a Sarajevo li invitò nella sede del Comando italiano e li elogiò davanti ai militari (benché in Italia li aspettasse la denuncia).

Per la giornata internazionale dei diritti dell’uomo, 10 dicembre 1998, si è compiuta una marcia a Pristina, a sostegno di un popolo che per dieci anni ha saputo difendersi nonviolentemente per ottenere la propria autonomia politica. L’obiettivo della marcia è la fine della guerra e la pacificazione della regione secondo una soluzione equa. Ben quarantuno obiettori hanno utilizzato la nuova legge sul servizio civile per partecipare a tale iniziativa.

Il cuore trema

Vittorie così importanti e l’assoluta novità dell’esperienza che dovrebbe incominciare in Italia, fanno tremare il cuore. Basteranno le piccole forze, politiche e sociali, a reggere il peso di tanta novità storica? Il mondo cattolico (almeno per la sua parte più sensibile a questi temi, Caritas e Agesci, purtroppo non altri), sosterrà ancora le soluzioni migliori, senza scendere a patteggiamenti suggeriti dalle “compatibilità”?

Fanno tremare soprattutto i regolamenti di attuazione della riforma, che dovrebbero uscire entro marzo. Sappiamo bene che i regolamenti di attuazione possono stravolgere ogni innovazione, affogandola in mille pastoie. Chi li preparerà? Che pressioni saranno fatte dai militari? Che capacità avrà il governo attuale di attuare fino in fondo la volontà del Parlamento? Come saranno reclutati i non più di cento funzionari (in mobilità da altre amministrazioni) che dovranno gestire burocraticamente questa novità?

Inoltre fa temere la proposta di legge per un grande Servizio civile nazionale, che il governo Prodi caldeggiava e che purtroppo ha concepito come offerta di manodopera a basso costo. Se approvata, creerebbe un contesto che appesantirebbe il Servizio civile attuale, che già è appesantito da tanta zavorra, tollerata e anche favorita dall’attuale gestione del Ministero della Difesa (che finora ne aveva da solo il controllo totale).

Infine a novembre è arrivata improvvisa la proposta Scognamiglio (il quale evidentemente ha incominciato subito a funzionare come portaparola delle gerarchie militari che vogliono bloccare la nascita dell’alternativa nella difesa): l’abolizione della leva e la monetizzazione della difesa collettiva.

Non ci sono partiti dai quali sperare sostegno. Infatti quale di essi oggi è disposto a battersi in una battaglia di principio, per di più andando contro la prepotenza totalitaria dell’organizzazione militare che domina l’Europa, la NATO?

La forza della nonviolenza

Tra tanti movimenti dal basso sorti nel dopoguerra in Italia, il movimento degli obiettori (al servizio militare e alle tasse militari) ha compiuto gran parte della parabola propositiva progettata negli anni ’70. La parabola si concluderà quando si otterrà una legge per l’opzione fiscale a favore della difesa alternativa. Ma è già molto confortante che le formiche nonviolente siano riuscite a stabilire per legge quella novità istituzionale che gli avvenimenti nonviolenti del 1989 aveva annunciato al mondo: i popoli sono capaci di difendersi senza armi e anche così possono sconfiggere le più minacciose potenze interne ed esterne.

Ora la corretta dinamica democratica vorrebbe che i regolamenti di attuazione della Legge 230/98 siano all’altezza della situazione; e cioè che le istituzioni politiche pubbliche si facciano obbligo di accogliere e portare a buon fine le istanze progettate, costruite e stabilite dalla base e sempre approvate dal Parlamento a maggioranze da due terzi dei votanti.

Altrimenti sarà manifesto che l’attuale sistema politico, non sapendo accogliere una proposta che non ha usato nessuna pressione indebita o violenta, che non ha senza costi economici, e che anzi propone una nuova organizzazione positiva, non sa accogliere nessuna istanza di base. In tal caso quel distacco tra le istituzioni e i cittadini che è già pericolosamente ampio, diventerebbe totale. Di conseguenza la democrazia sarebbe da considerare decaduta in una pura forma, anche se allegra, consumista e svuotata di obblighi (di leva). Questo fatto inviterebbe allora le persone che amano le conquiste sociali popolari ad una nuova mobilitazione nonviolenta; questa volta per un radicale rivolgimento sociale, non solo del settore della difesa nazionale, ma della politica democratica stessa.

BILANCIO DEL PRIMO ANNO DI VITA
Caschi Bianchi per la difesa civile

A cura della la Segreteria della Rete Caschi Bianchi *

Cosa abbiamo fatto

Durante l’assemblea degli Obiettori alle Spese Militari (OSM) di Torino del 1998 (7-8 febbraio 1998) era stato deciso che la Campagna di Obiezione alle Spese Militari promuovesse ‘forme di collaborazione tra realtà associative e ONG che in questi anni hanno sperimentato e agito forme di interposizione / mediazione / soluzione nonviolenta dei conflitti a livello locale e internazionale anche attraverso l’uso di OdC in servizio civile’ con l’obiettivo di ‘ottenere un riconoscimento normativo definitivo teso alla creazione di caschi bianchi istituzionali, … sperimentando fin d’ora tutte le strade percorribili’ (testo della mozione n° 1).

Inoltre si era in quel momento in attesa dell’approvazione parlamentare della nuova legge sull’obiezione di coscienza, che prevedeva l’avvio di ‘forme di ricerca e di sperimentazione di difesa civile non armata e nonviolenta’ (art. 8) e la possibilità di svolgere servizio civile all’estero in diverse forme, in particolare in ‘missioni umanitarie’ (art. 9). La nascita di un coordinamento aveva perciò anche lo scopo di creare un referente unico per le istituzioni per avviare un dialogo con esse e diventare punto di riferimento e di confronto nella realizzazione di un corpo di Caschi Bianchi istituzionale.

Con queste premesse è stata organizzato, il 4-5 aprile 1998, a Firenze, un convegno a cui hanno partecipato una trentina di persone rappresentanti di diverse associazioni, in particolare di associazioni promotrici della Campagna OSM, di associazioni impegnate in missioni di pace (Ass. Papa Giovanni XXIII, Beati i Costruttori di Pace, Ambasciata di Democrazia Locale di Zavidovice…) e di altre associazioni interessate. Al termine del convegno è stato elaborato un documento unitario con cui si dava vita alla Rete Caschi Bianchi, ‘una rete di enti di servizio civile, ONG e associazioni impegnate in interventi di pace, riconciliazione e diplomazia popolare’. Nel documento si chiarivano le finalità della rete (quelle sopra accennate) ed il campo di impiego degli obiettori; a questo proposito, l’elenco delle diverse attività inserito nel documento (monitoraggio dei diritti umani, assistenza al rientro dei profughi, sostegno a gruppi locali di pace…) evidenziava che il significato primo della presenza degli obiettori in zone di conflitto è proprio quello di essere operatori di pace, nelle varie forme in cui ciò si può concretizzare.

Sinteticamente l’attività svolta fino ad oggi può essere così riassunta:

sono stati pubblicizzati, tra le associazioni aderenti e all’esterno, progetti di missione all’estero: le missioni in Bosnia, Croazia e Kossovo della Papa Giovanni, l’anno di servizio civile in Bosnia e in Albania col Cefa, la missione a Pristina ‘I care Kossovo’…;

si sono invitate le associazioni a presentare progetti di attività all’estero in cui impegnare obiettori di coscienza;

sono state fornite informazioni ad obiettori ed aspiranti obiettori sulle missioni dei Caschi Bianchi;

è stato progettato un percorso formativo per gli aspiranti Caschi Bianchi: stiamo raccogliendo in questi mesi il contributo di diversi soggetti impegnati nella formazione alla nonviolenza (UNIP, Tonino Drago, CSDC…) per organizzare un percorso formativo; quindi, col materiale raccolto, verrà realizzato un corso di formazione per gli OdC che parteciperanno ad un progetto di monitoraggio delle elezioni nell’ex Sahara spagnolo promosso dal CRIC (una ONG di Reggio Calabria);

si è stimolata la pubblicizzazione della Rete, delle sue iniziative e dei Caschi Bianchi presso le associazioni interessate e all’esterno: questo aspetto si è tradotto nella pubblicazione in diversi bollettini di informazione delle associazioni aderenti dei documenti della Rete, in particolare del documento di Firenze, e nella circolazione dei medesimi documenti in internet;

rapporti con le istituzioni: sono stati presi contatti con Guido Bertolaso (dirigente dell’Ufficio Nazionale per il Servizio Civile) e a breve avremo un colloquio con lui per presentare la Rete e per proporci come riferimento riguardo al servizio civile all’estero; inoltre nel corso del seminario organizzato dalla campagna OSM il 25 novembre, rivolto ai rappresentanti delle istituzioni, è stata presentata l’esperienza dei Caschi Bianchi;

sono stati avviati contatti tra diverse organizzazioni, e la pubblicizzazione di iniziative delle singole organizzazioni (ADL Zavidovice, Caschi Bianchi argentini, CRIC);

sono stati organizzati, assieme ad altri organismi, convegni in cui presentare i Caschi Bianchi ed il SC all’estero (che si terranno nei prossimi mesi, a Modena e a Perugia).

Attualmente alla Rete aderiscono 12 associazioni: Agesci, Ambasciata di Democrazia Locale di Zavidovice, Associazione Papa Giovanni XXIII, Associazione per la Pace, Beati i Costruttori di Pace, CEFA – GAVCI, Centro Studi Difesa Civile, LDU, LOC, MN, Pax Christi, RFN.
Cosa è successo attorno a noi

Mentre lavoravamo alla costituzione della rete, attorno a noi sono successi diversi avvenimenti, che è importante richiamare, anche se in parte già noti, per capire come sia rapidamente mutato il quadro di riferimento:

il 16 giugno 1998 è stata approvata in via definitiva la nuova legge sull’obiezione di coscienza (legge 230/98), che contiene i punti prima specificati; inoltre durante la discussione della legge sia alla Camera che al Senato è stata approvata una raccomandazione, con parere favorevole del Governo, che ‘impegna il Governo a proporre un provvedimento atto alla creazione ed alla formazione operativa di un contingente italiano di Caschi Bianchi’;

nel frattempo, sia per l’approvazione della nuova legge, sia per le pressioni esercitate dagli OdC, sono stati eliminati tutti gli ostacoli burocratici che impedivano lo svolgimento delle missioni dei CB, e precisamente la non concessione dell’autorizzazione all’espatrio e l’impossibilità per gli OdC di ottenere il passaporto; sul primo punto in particolare la L 230 ora prevede un tempo di attesa di 30 giorni dopo il quale scatta il meccanismo del silenzio-assenso;

si sono svolte diverse missioni dell’Operazione Colomba dell’associazione Papa Giovanni XXIII con la partecipazione di OdC: in Bosnia e Croazia (Brcko e Vukovar – giugno ’98), in Croazia (Vukovar – agosto ’98) e attualmente in Kossovo, nella zona di Prizeren (quest’ultima anche con obiettori non dell’associazione); inoltre 19 obiettori di diversi enti hanno partecipato all’azione di pace in Kossovo che si è tenuta dal 6 al 13 dicembre 1998;

le associazioni promotrici della Campagna OSM, nell’ambito della discussione sul futuro della Campagna, hanno elaborato un documento in cui si propone di trasformare la Campagna in una campagna di contribuzione alla pace, avente tra le sue finalità principali il sostegno agli interventi di pace all’stero;

la Regione Emilia Romagna ha avviato una attività sperimentale di gestione di 800 OdC della regione, che verranno inseriti in progetti sperimentali gestiti da enti del territorio; uno di questi progetti è il progetto Caschi Bianchi della Papa Giovanni; pertanto, in base agli accordi, da febbraio 6 OdC inzieranno a svolgere il loro servizio civile presso l’associazione, operando a tempo pieno nel campo delle missioni di pace all’estero.

Cosa è andato e cosa no (alcune valutazioni)

Senza dubbio il tema ‘Caschi Bianchi’ ha fatto un salto di qualità, ed è passato dalle chiacchiere di alcuni gruppi ristretti all’attenzione delle istituzioni politiche, degli enti di SC, degli obiettori… ed in alcuni casi del grande pubblico (vd. anche la trasmissione ‘Pinocchio’ sul Kossovo del 17/12). Ciò, se pur dovuto solo in minima parte all’azione della Rete, e principalmente dovuto agli avvenimenti citati al punto precedente, sta aprendo enormi spazi di azione per la Rete, che occorre saper cogliere adesso. Lo stesso avvio di un corpo istituzionale dei CB sembra ora una possibilità concreta ed ottenibile in tempi limitati.

Per contro la Rete in questo periodo si è trovata ad operare con forze estremamente modeste; inoltre tra le associazioni aderenti qualcuna di fatto non partecipa alle attività della Rete.

I successi ottenuti grazie all’azione diretta della sola RCB sono molto modesti: tra tutti gli OdC che si sono recati in Kossovo uno solo è arrivato alla marcia tramite la Rete; degli enti che avevamo invitato a presentarci un progetto per l’impiego degli OdC all’estero nessuno ci ha risposto.

I Caschi Bianchi oggi sono chiamati ad un grosso passo in avanti: occorre avviare nuove missioni di intervento nonviolento all’estero in cui impiegare gli obiettori. In effetti fino ad oggi le uniche missioni di OdC effettuate (e sostenute dalla Rete) sono state quelle promosse dalla Papa Giovanni. Ciò è dovuto anche al fatto che le associazioni aderenti alla Rete sono per la maggior parte realtà che non impiegano obiettori o ne hanno un numero estremamente esiguo. Questo limite può essere superato per due strade:

da un lato occorre coinvolgere nella Rete anche enti già convenzionati che siano interessati a promuovere missioni all’estero;

dall’altro è opportuno che associazioni aderenti alla Rete valutino se aprire convenzioni a questo scopo (come sta facendo l’ADL di Zavidovice).

Il rischio a cui si va incontro altrimenti è quello di diventare un organismo che svolge unicamente attività formativa e ‘sindacale’, ma che rimane sempre a livello di riflessione teorica e non promuove un’attuazione pratica delle cose porta avanti.
Dove vogliamo andare

Per l’anno appena incominciato le attività a cui si dedicherà la Rete sono le seguenti:

verranno contattati tutti gli enti che aderiscono e sostengono la Rete e, tramite essi, altri enti di servizio civile per stimolare l’avvio di nuove missioni e l’invio di OdC in quelle esistenti (in particolare in questo periodo nel Kossovo);

verrà preparato un pieghevole di presentazione della Rete per favorire la conoscenza di questo organismo presso diversi soggetti (istituzioni, organismi impegnati nell’ambito socio-politico, aggregazioni giovanili…);

verranno organizzati, insieme ad altre associazioni, convegni, sia quelli già programmati (seminari di Modena e Perugia), che nuovi;

verranno intensificati i contatti con l’Ufficio Nazionale per il Servizio Civile (e con alcuni futuri uffici regionali) con lo scopo, tra l’altro, di proporci come riferimento riguardo al servizio civile all’estero;

verranno promosse iniziative per favorire in diversi modi la nascita dei CB istituzionali: pressione sull’Ufficio Nazionale e sul Governo, richiesta alle istituzioni di partecipazione alle missioni OSCE,…;

verrà avviato il progetto formativo della Rete.

* p. Angelo Cavagna, Andrea Mazzi, Roberto Minervino

Nella seduta del 10 febbraio 1999, il Parlamento Europeo ha approvato la seguente
Raccomandazione sull’istituzione di un Corpo di pace civile europeo

Il Parlamento europeo,

A. considerando che la fine della “guerra fredda” è stata caratterizzata, sia in Europa che al di fuori di essa, da un continuo aumento di conflitti intra e interstatali con crescenti implicazioni internazionali, politiche, economiche, ecologiche e militari,

B. rilevando che il carattere multiforme di questi conflitti li rende spesso difficili da capire e da gestire a causa della mancanza di adeguati concetti, strutture, metodi e strumenti,

C. considerando che la risposta militare a conflitti internazionali deve essere spesso integrata da sforzi politici volti a riconciliare le parti belligeranti, a far cessare conflitti violenti ed a ripristinare condizioni di reciproca fiducia,

D. ritenendo che il ruolo potenziale dei civili in situazioni di conflitto deve essere ancora pienamente valutato,

E. sottolineando che esso ha approvato varie risoluzioni riguardanti l’istituzione di un Corpo di pace civile europeo (CPCE),

F. rilevando che tale iniziativa dovrebbe essere vista quale ulteriore strumento dell’Unione europea per accrescere la sua azione esterna in materia di prevenzione dei conflitti e di composizione pacifica degli stessi,

G. considerando che in nessun caso il CPCE deve essere inteso quale alternativa alle normali missioni di pace, né causare ridondanze nei confronti di organizzazioni quali l’OSCE e l’ACNUR, già attive in tale ambito, quanto piuttosto quale complemento, qualora necessario, alle azioni per la prevenzione dei conflitti di carattere militare in cooperazione con l’OSCE e l’ONU,

H. sottolineando che la prospettiva del futuro allargamento dell’Unione europea rende ulteriormente necessario e pressante riformare e rafforzare la PESC,

I. rilevando che l’Unione europea ha già maturato, per quanto riguarda la guerra nella ex Iugoslavia, un’esperienza con la Missione di monitoraggio della Comunità europea (ECMM) che potrebbe costituire un primo passo verso l’istituzione del CPCE,

L. ribadendo tuttavia che le esperienze della Missione di monitoraggio della Comunità europea (ECMM) e la missione di verifica nel Kosovo dimostrano i limiti del concetto di CPCE,

M. considerando che l’inopportuno insediamento di missioni di osservatori disarmati, che possono essere facilmente presi in ostaggio, potrebbe anche sul piano politico avere effetti indesiderati,

N. sottolineando che numerose ONG specializzate, molte delle quali dotate di una vasta e profonda esperienza, potrebbero fornire un prezioso contributo a tale progetto,

O. ribadendo che qualsiasi civile impegnato nel Corpo di pace debba essere adeguamente addestrato,

P. evitando che il CPCE diventi una struttura organizzativa ampia e rigida, tale da imporre costi elevati e improduttivi e di impedire un flessibile impiego delle risorse provenienti da varie fonti, governative e non,

1. raccomanda al Consiglio di elaborare uno studio di fattibilità sulla possibilità di istituire un CPCE nell’ambito di una Politica estera e di sicurezza comune più forte ed efficace;

2. raccomanda al Consiglio di vagliare la possibilità di concreti provvedimenti generatori di pace finalizzati alla mediazione ed alla promozione della fiducia fra i belligeranti, all’assistenza umanitaria, alla reintegrazione (specie tramite il disarmo e la smobilitazione), alla riabilitazione nonché alla ricostruzione unitamente al controllo ed al miglioramento della situazione dei diritti umani;

3. raccomanda al Consiglio di attivare una struttura minima e flessibile, al solo fine di censire e mobilitare sia le risorse delle ONG, sia quelle messe a disposizione degli Stati, e di concorrere, eventualmente, al loro coordinamento;

4. raccomanda al Consiglio di affidare all’Unità di primo allarme il compito di analizzare e di individuare casi di possibile impiego di un CPCE;

5. raccomanda al Consiglio di riferirgli in merito all’ECMM presentando una piena valutazione del ruolo di questo organismo e delle sue future prospettive nonché dei suoi limiti;

6. raccomanda al Consiglio e alla Commissione, nell’ambito di questo studio di fattibilità, di organizzare un’audizione per valutare in profondità il ruolo che le ONG hanno svolto nella soluzione pacifica dei conflitti e nella prevenzione della violenza nella ex Iugoslavia e in Caucasia;

7. incarica il suo Presidente di trasmettere la presente raccomandazione al Consiglio e, per conoscenza, alla Commissione.

ALLEGATO

Raccomandazione sul Corpo di pace civile europeo

A. considerando che il Parlamento europeo ha adottato varie risoluzioni concernenti l’eventuale istituzione di un Corpo di pace civile europeo,

B. persuaso che tale Corpo di pace possa contribuire positivamente alla politica estera e di sicurezza comune, ed in particolare rafforzare la capacità dell’Unione di evitare che i conflitti negli Stati terzi, o tra Stati terzi, degenerino in violenze,

raccomanda al Consiglio:

a) di dare seguito alla espressa richiesta del Parlamento di procedere senza indugio ad incaricare la Commissione europea di realizzare uno studio di fattibilità sull’istituzione di un Corpo di pace civile europeo entro, al più tardi, la fine del 1999;

b) di avviare, in caso di esito positivo del suddetto studio, un progetto pilota che costituisca il primo passo per l’istituzione di un Corpo di pace civile europeo.

3. incarica il suo Presidente di trasmettere la presente raccomandazione al Consiglio e, per conoscenza, alla Commissione.

MOTIVAZIONE

IL CONCETTO DI UN CORPO DI PACE CIVILE EUROPEO (CPCE)

Introduzione

La nuova situazione di conflitto venutasi a creare alla fine della “guerra fredda” è stata caratterizzata da un numero crescente di conflitti intrastatali con sempre maggiori implicazioni internazionali di carattere politico, economico, ecologico e militare. Tale evoluzione ha portato ad una crescente necessità e legittimità di un intervento esterno, ponendo le organizzazioni internazionali come l’Unione europea (UE) di fronte a una sfida sempre maggiore . Tuttavia dato il carattere multiforme di questi conflitti, esse debbono affrontare il problema della loro comprensione e gestione. Si registra una mancanza di adeguati concetti, strutture, metodi e strumenti, (ivi compresi mezzi materiali e personale preparato). E’ ovvio ormai che avvalersi unicamente delle risorse tradizionali associate alle strategie diplomatiche o militari non basta più. E’ necessario pertanto un approccio globale inteso a creare la pace, che comprenda gli aiuti umanitari, la cooperazione allo sviluppo e la soluzione dei conflitti. Gli interventi debbono essere coordinati a livello internazionale; riferirsi ai bisogni della popolazione nella zona di conflitto; essere compatibili con la società civile e con gli altri attori sul campo; essere non violenti e distinti dalle azioni coercitive, flessibili e pratici; essere altresì in grado di contrastare fin dall’inizio l’escalation della violenza.

La relazione Bourlanges/Martin, approvata dal Parlamento europeo nella seduta del 17 maggio 1995, a Strasburgo, ha riconosciuto per la prima volta questa necessità affermando che “un primo passo per contribuire alla prevenzione dei conflitti potrebbe consistere nella creazione di un Corpo civile europeo della pace (che comprenda gli obiettori di coscienza) assicurando la formazione di controllori, mediatori e specialisti in materia di soluzione dei conflitti”. Da allora, il Parlamento europeo ha ripetutamente confermato tale affermazione, da ultimo nella sua più recente relazione sull’attuazione della PESC. Nel frattempo è stato previsto di configurare il Corpo di pace civile europeo nel modo seguente:

Obiettivi

La principale priorità del CPCE sarà la trasformazione delle crisi provocate dall’uomo, per esempio la prevenzione dell’escalation violenta dei conflitti e il contributo verso una loro progressiva riduzione. In ogni caso, i compiti del CPCE avranno un carattere esclusivamente civile. Un particolare accento sarà posto sulla prevenzione dei conflitti, in quanto più umana e meno onerosa rispetto alla ricostruzione del dopoconflitto. Tuttavia, il Corpo potrebbe svolgere altresì compiti umanitari in seguito a catastrofi naturali. Il coinvolgimento del CPCE non dovrebbe limitarsi ad una data regione (per esempio Europa).

Il CPCE si baserà su un approccio olistico, che comprenderà inter alia sforzi politici ed economici e l’intensificazione della partecipazione politica e del contesto economico delle operazioni. Dal momento che gli sforzi intesi a trasformare il conflitto debbono riguardare tutti i livelli di conflitti che si protraggono nel tempo, il CPCE assumerà compiti multifunzionali. Esempi concreti delle attività del CPCE intese a creare la pace sono la mediazione e il rafforzamento della fiducia tra le parti belligeranti, l’aiuto umanitario (ivi compresi gi aiuti alimentari, le forniture di acqua, medicinali e servizi sanitari), la reintegrazione (ivi compresi il disarmo e la smobilitazione degli ex combattenti e il sostegno agli sfollati, ai rifugiati e ad altri gruppi vulnerabili), il ricupero e la ricostruzione, la stabilizzazione delle strutture economiche (ivi compresa la creazione di legami economici), il controllo e il miglioramento della situazione relativa ai diritti dell’uomo e la possibilità di partecipazione politica (ivi comprese la sorveglianza e l’assistenza durante le elezioni), l’amministrazione provvisoria per agevolare la stabilità a breve termine, l’informazione e la creazione di strutture e di programmi in materia di istruzione intesi ad eliminare i pregiudizi e i sentimenti di ostilità, e campagne d’informazione e d’istruzione della popolazione sulle attività in corso a favore della pace. Nulla di tutto ciò può essere imposto direttamente alle parti, tuttavia la loro cooperazione può essere agevolata attraverso il sostegno politico proveniente dall’esterno.

La riuscita nell’adempimento di questi compiti dipenderà dal grado in cui il CPCE sarà capace di migliorare le relazioni tra gli aiuti umanitari, il rafforzamento della fiducia e la cooperazione economica. Il sostegno a questi settori non potrà avere un risultato positivo se non sarà messo in relazione agli altri; per esempio il successo degli aiuti umanitari e la ricostruzione dopo una guerra dipendono dal grado di fiducia che viene a crearsi tra le parti belligeranti. La ricostruzione materiale ha pertanto il compito di coinvolgere i belligeranti in progetti comuni.

Il CPCE dovrebbe essere un organo ufficiale, istituito dall’Unione europea e operante sotto gli auspici della stessa. Con riferimento agli organi e agli Stati membri dell’UE, il CPCE dovrebbe garantire che

– i fondi dell’UE siano utilizzati per progetti compatibili con gli interessi dell’UE;

– il sostegno dell’UE sia reso visibile;

– gli Stati membri dell’UE siano sostenuti nella preparazione e nell’assunzione del personale delle missioni;

– il coordinamento tra gli Stati membri e gli altri attori beneficiari dei fondi per attività finalizzate alla pace sia agevolato e siano vietati i doppioni;

– i fondi dell’UE siano utilizzati in maniera efficiente.

Il CPCE opererà soltanto con un mandato sostenuto dall’ONU o dalle sue organizzazioni regionali: OSCE, OUA, OAS. Esso contribuirà a creare i necessari collegamenti tra le attività diplomatiche, da un lato, e la società civile, dall’altro. Quale organo a favore della pace, il CPCE svolgerà attività diverse da quelle svolte in tal senso in campo diplomatico. Le missioni del CPCE si baseranno sull’assenza di operazioni militari violente, su una specie di accordo di cessate il fuoco e sul consenso delle principali parti interessate. Quale organo ufficiale, il CPCE si distinguerà dalle ONG. Le sue attività si baseranno tuttavia su un’efficiente cooperazione con le ONG e rafforzerà e legittimerà il loro lavoro. L’attività del CPCE sarà strutturata ed organizzata indipendentemente dagli organi militari, pur basandosi sulla cooperazione con i militari laddove le missioni del CPCE coincideranno con le operazioni per il mantenimento della pace.

Personale e struttura

Il CPCE consisterà in due parti:

1. un nucleo costituito da personale qualificato a tempo pieno che svolgerà compiti di gestione ed assicurerà la continuità (vale a dire un segretariato con compiti di amministrazione e gestione, assunzione, preparazione, intervento, rapporto di fine missione e collegamento); e

2. un gruppo costituito da personale specializzato da destinare alle missioni (ivi compresi esperti, con o senza esperienza, tuttavia perfettamente addestrati), chiamato a compiere missioni specifiche, assunto a tempo parziale o con contratti a breve termine in qualità di operatori sul terreno (ivi compresi gli obiettori di coscienza su base volontaria o volontari non remunerati). Il reclutamento si baserà su una rappresentanza proporzionale tra gli Stati membri dell’Unione europea.

Preparazione

Preparazione generale

Tutto il personale sarà preparato tenuto conto delle condizioni generali della missione (per esempio carenza di adeguate infrastrutture materiali, forti pregiudizi e sentimenti di ostilità, tendenza alla violenza, servizi sanitari inadeguati, sistemi di forniture che mettono a dura prova il personale e le sue capacità sociali, dovendo cooperare in uno scenario multiculturale alieno alla propria vita normale. La preparazione generale svilupperà le capacità di far fronte a condizioni estreme ed applicabili ad una vasta gamma di situazioni di conflitto. Avrà lo scopo di creare un terreno d’intesa comune che comprenderà l’apprendimento di un modo di comunicazione comune e fornirà un approccio generale per il personale dell’UE proveniente da esperienze professionali e culturali diverse, che gli consentirà di operare in paesi con popolazioni di diverse culture. Nel corso della preparazione generale, ai tirocinanti verranno impartite nozioni di base sulle attività intese a stabilire la pace e sulle organizzazioni interessate (ONU, OSCE, ONG).

Preparazione con riferimento alle funzioni

Dato che il carattere multidimensionale dei conflitti rende molto ardue la loro comprensione e gestione, le esperienze professionali debbono riferirsi alle strategie per la trasformazione dei conflitti e alle specificità delle varie funzioni da svolgere. Indipendentemente dalla missione cui il personale sarà assegnato, esso dovrà ricevere una preparazione specifica e circostanziata relativa alle funzioni da svolgere su almeno uno dei principali compiti della missione.

Preparazione con riferimento alla missione

Il personale della missione dovrà essere messo al corrente delle condizioni specifiche in cui verrà a trovarsi in talune missioni e delle particolari funzioni che dovrà svolgere. Si rende pertanto necessaria una preparazione con riferimento specifico alla missione da effettuare, sia prima dell’intervento che sul terreno.

Rapporto di fine missione

Il rapporto di fine missione è importante per il personale e per il CPCE per valutare e integrare le esperienze e per migliorare la preparazione e le operazioni sul terreno.

Assunzione

Al fine di garantire che venga assunto soltanto personale qualificato è necessario che il CPCE stabilisca:

a) una base generale di dati relativa al personale disponibile che comprenda organigrammi compatibili in tutti gli Stati membri e istituzioni di formazione dell’UE;

b) procedure generali di assunzione che consentano la trasmissione periodica di informazioni sul personale qualificato tra le istituzioni interessate; e

c) una base per l’assunzione negli Stati membri, tramite la pubblicazione dei vantaggi della partecipazione del CPCE agli sforzi intesi a creare la pace, e l’adozione di misure sul piano giuridico e finanziario per garantire la sicurezza del posto di lavoro e predisporre misure sanitarie in vista delle missioni.

Intervento

È necessario provvedere all’organizzazione dell’intervento conformemente al mandato di una data missione. Il mandato deve essere definito in termini chiari e fattibili con riferimento alle risorse disponibili. Si deve altresì provvedere all’equipaggiamento necessario, alla copertura assicurativa e all’organizzazione della dislocazione del personale.

Finanziamento

L’UE e i suoi Stati membri provvedono al finanziamento. Al fine di agevolare la creazione del CPCE in base alle risorse disponibili, da un lato, e far fronte all’insieme delle esigenze, dall’altro, è previsto un continuo ampliamento del CPCE, iniziando con un progetto pilota seguito da costanti operazioni di controllo e da adeguamenti perfettamente sintonizzati.

Quadro istituzionale

Il CPCE dovrebbe essere creato quale servizio specifico nell’ambito della DG I della Commissione, con un direttore generale responsabile nei confronti del Commissario per gli affari esteri e dell’Alto rappresentante della PESC che dovrà essere insediato tra breve presso il Consiglio. Onde garantire la sua necessaria flessibilità operativa sarebbe opportuno strutturarlo sul modello di ECHO.

Conclusioni

Il ruolo potenziale dei civili nel campo della prevenzione e della soluzione pacifica dei conflitti deve essere ancora valutato in tutti i suoi elementi. Al termine di una missione militare per il mantenimento della pace si registra spesso una recrudescenza del conflitto, in quanto le ragioni interne che sono state all’origine della violenza non sono state pienamente affrontate e risolte. La risposta militare, per quanto necessaria per porre fine al confronto violento, non è sufficiente a creare un’effettiva riconciliazione tra le parti. A tale riguardo, l’idea del CPCE dovrebbe essere presa in considerazione dall’UE quale ulteriore mezzo per accrescere e rendere la sua azione ancora più efficace. Agevolare il dialogo e ripristinare le condizioni di reciproca fiducia sono compiti troppo spesso trascurati che dovrebbero far parte di ogni missione di pace. Solo perseguendo un reale processo di riconciliazione si potrà raggiungere una pace durevole. La diplomazia civile, meno dura e più flessibile, dovrebbe essere usata per affiancare, continuare o concludere azioni militari per il mantenimento della pace. L’UE ha una straordinaria occasione di rafforzare la sua politica estera e di sicurezza comune creando un nuovo strumento pratico che potrebbe essere messo a disposizione delle parti belligeranti, prevenire l’escalation della violenza e apportare una soluzione pacifica alle crisi.

ISTITUIRE UN CORPO CIVILE EUROPEO DI PACE
Una buona idea che prende Corpo…

di Paolo Bergamaschi

Fu un’intuizione di Alexander Langer quella di portare in Parlamento Europeo la proposta di istituire i Corpi Civili di Pace. Agli inizi del 1995 l’Unione Europea si preparava a riformare il Trattato di Maastricht con la necessità di ripensare la propria politica estera rivedendone i meccanismi di azione. Perché allora non accarezzare l’idea di un’Europa pronta a proporsi non come super-potenza classica intenta ad esibire minacciosamente il proprio apparato muscolare-militare ma come una libera associazione di Stati concretamente disponibili alla promozione della pace e alla risoluzione pacifica dei conflitti? Che ruolo può giocare nell’attuale contesto una politica attiva di prevenzione dei conflitti e come dar corpo a questa aspirazione? Queste erano sostanzialmente le ragioni che stavano alla base dell’iniziativa di Alex. Quando ci lasciò rimase anche questa pesante eredità da far fruttare, che abbiamo cercato di gestire al meglio in collaborazione con molte organizzazioni europee da tempo attive sul progetto. Abbiamo promosso quindi parecchi seminari in giro per l’Europa, in Italia a Verona, raccogliendo suggerimenti e consigli con l’obiettivo di scuotere il Parlamento Europeo coinvolgendolo in pieno su questa delicata questione. Il concetto di “Corpo Civile Europeo di Pace” è così passato in molte risoluzioni parlamentari di vario tipo con il sostegno di deputati di tutte le forze politiche. Ma, ovviamente, le citazioni o i semplici riferimenti non bastano da soli, occorreva qualcosa di più forte. E’ nata così l’idea di una raccomandazione parlamentare interamente dedicata all’argomento da indirizzare al Consiglio dei Ministri per la sua messa in atto. Trenta deputati europei, i più noti fra questi Daniel Cohn-Bendit e l’ex-primo ministro francese Rocard, con gli italiani Tamino, Aglietta, Orlando, Pettinari e Caccavale, hanno quindi messo in moto l’iter parlamentare che si è felicemente concluso nei giorni scorsi. Certo ciò che è uscito non è tutto quello che desideravamo passasse (non è passata, per esempio, la proposta di un progetto pilota) ma è il frutto della mediazione fra le diverse parti considerando il fatto che alcuni deputati hanno spinto fino all’ultimo, per fortuna senza successo, per l’inclusione del termine “militare” affiancato a quello “civile”.

Il sasso è stato lanciato e spetta ora ai membri di governo raccoglierlo. Ma spetta, in ogni caso, a tutto il movimento eco-pacifista europeo continuare a far sentire la propria voce marcando stretto i nostri rappresentanti. E’ opportuno ringraziare tutte le persone che hanno collaborato all’iniziativa ed in particolare Ernst Guelcher e Arno Truger che hanno redatto con me il testo della raccomandazione.

No al mestiere di uccidere: né gratis, né pagato

di Enrico Peyretti

Il Ministro Scognamiglio propone l’esercito interamente professionale. E’ probabile che l’opinione pubblica piallata dall’individualismo ne sia entusiasta: vada chi vuole; è una libertà, un modo come un altro per farsi strada. Vada dove? A studiare da omicida, per saper uccidere da professionista. Questo si tace pudicamente (omaggio del vizio alla virtù), ma di questo soltanto si tratta. Ho sentito dal gen. Carlo Jean a Torino, queste parole dette ad una platea di studenti, il 29 marzo 1996: «Nell’esercito è necessaria la disciplina (…) perché combattere significa uccidere. Occorre l’esecuzione automatica dell’ordine». Automatica, cioè non umana. Ho già denunciato più volte per iscritto questa corruzione di coscienze giovani.1

Il pensiero della pace è contrario sia alla leva obbligatoria, sia all’esercito volontario professionale. Alla leva, perché con essa lo Stato obbliga ad uccidere o ad essere uccisi per cause non giudicate dal soldato. All’esercito professionale, perché è un corpo di mercenari, pronti ad uccidere per soldi. Il mestiere delle armi trasforma una eventuale eccezionale tragica necessità in una normale professione: qual è la tua parte nel mondo umano? sparare! uccidere! Uno costruisce case, un altro fa il medico, uno il falegname, uno il tranviere, e questo passa la sua vita a minacciare o dare la morte. Si pensa l’esercito come professione, ruolo normale nella vita sociale, perchè si pensa la guerra mai sradicabile dalla storia. E’ ciò che noi neghiamo anzitutto. Anche se sarà lunga, questa è la strada giusta e necessaria, per diventare umani. Il mestiere del soldato è disumano e retrogrado.

Anche Gandhi ammette il caso tragico in cui uccidere sia addirittura un dovere.2 Ma solo la coscienza personale può giudicare su di ciò. Nessuno può mai comandare ad un altro di uccidere, senza destituirlo da uomo. Ciò distrugge moralmente ogni esercito, autoritario e immorale per necessità intrinseca. Jean-Marie Muller, poi, corregge Gandhi osservando che la necessità tragica di uccidere non annulla mai il dovere di non uccidere e non stabilisce alcun dovere né diritto di uccidere.3 Ancor meno un diritto di comandare di uccidere, né, quindi, l’istituzione dell’omicidio organizzato. L’esercito e la guerra non hanno alcuna base morale.4

«L’Italia ripudia la guerra» è parte alta e nobilissima della nostra legge fondamentale. Non vieta solo la guerra offensiva, ma proprio la guerra per ristabilire il diritto offeso: l’assicurazione della pace e della giustizia sono demandate all’ordinamento cosmopolitico. Chi deve vigilare per difendere e attuare la Costituzione, deve curare la realizzazione di quel principio. La professionalizzazione della guerra ne è la conferma, non il ripudio.

Un effetto (o anche obiettivo?) dell’esercito professionale sarebbe la scomparsa dell’obiezione di coscienza, si dice. Credo che non sia del tutto vero. L’obiezione di coscienza alla difesa nazionale armata, al monopolio militare della difesa (che ne riduce le possibilità), potrà ancora manifestarsi, per esempio, in una campagna di massa contro l’arruolamento volontario, in una denuncia culturale e sociale della vergogna del mestiere delle armi: giovani, non arruolatevi! non prostituitevi alla morte come mezzo di risoluzione delle controversie! Il cittadino obiettore potrà opporsi attivamente con la scelta del servizio civile ad esclusione esplicita di quello militare, con la contestazione delle spese militari, col contributo volontario finanziario e personale a corpi di pace nonviolenti.

Dunque, se rifiutiamo sia l’esercito di leva sia quello professionale, siamo degli estremisti utopisti ingenui? No. Siamo per la costituzione dei “caschi bianchi” internazionali, che sono stati proposti ripetutamente e autorevolmente, ed hanno cominciato a comparire e ad agire in alcune forme e situazioni diverse. Siamo per lo sviluppo della diplomazia popolare. E ammettiamo la necessità di una vera polizia (che significa cultura e metodi sostanzialmente diversi da quelli di un esercito, perchè polizia non è guerra, per differenza essenziale di scopi e di etica), che sia veramente internazionale (non dell’unica superpotenza o di una coalizione di stati, che servono interessi particolari e non l’intera comunità umana). E’ chiaro che ciò richiede una progressiva riforma democratica dell’Onu, principale urgenza cosmopolitica attuale (e infatti è osteggiata dalla superpotenza imperiale Usa), sulla quale l’Italia ha preso una buona iniziativa.

Come scrive Michael Klare in Bulletin of Atomic Scientists, la maggiore innovazione militare recente sono i bambini-soldati,5 armati di kalaschnikov, che vengono usati come strumenti facilmente manipolabili nelle guerre civili (oggi più numerose di quelle fra stati). Ora, gli eserciti professionali sono strutturati per il combattimento supertecnologico, che ovviamente esige alte specializzazioni. Ma questi eserciti sono del tutto sfasati rispetto alla tanto proclamata finalità di ingerenza umanitaria, di “guerra per la pace”, con cui oggi si vuole giustificare il grande apparato bellico.

1 Ho sviluppato le considerazioni qui esposte in breve sull’esercito professionale nel mio libro La politica è pace, Cittadella, Assisi 1998, pp. 153-158, 162-168, e passim.

2 Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino 1996, p. 69 e ss.

3 Jean-Marie Muller, Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclée de Brower, Paris 1995, pp. 62 e 71.

4 «Il fatto d’essere assoldato per uccidere o essere ucciso è, pare, un usare gli uomini come pure macchine o strumenti in mano d’un altro (lo Stato), cosa che non si concilia per nulla col diritto dell’umanità nella nostra propria persona». Così Kant in Per la pace perpetua. Un progetto filosofico, 1795, nel terzo articolo preliminare intitolato «Gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono col tempo sparire completamente», nel quale dice anche che tali eserciti sono «essi stessi causa di guerre di aggressione». Cito l’edizione curata, ampiamente commentata e tradotta da Alberto Bosi, in Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1995.

5 V. anche Bambini in guerra, di Monika Oettli, in Internazionale, 12.2.99, pp. 35-38.

 

La nonviolenza è relazione: l’arte della convivenza

di Luciano Capitini

Se la nonviolenza è la relazione, la tensione a cambiare una realtà che non ci soddisfa, allora è chiaro che col mutare della realtà sociale debbono cambiare i temi su cui il nonviolento riflette, si impegna ed agisce.

Così abbiamo indicato che l’oppressione organizzata, che nel passato usava solo mezzi militari nelle politiche imperialiste e di controllo delle popolazioni, oggi si attua principalmente a mezzo di strumenti della grande economia e finanza.

Ed allora, accanto ai gruppi che – giustamente – e tradizionalmente – si impegnano nella lotta al militarismo, agli armamenti, alle guerre ed operazioni di guerra mascherate, abbiamo iniziato a discutere (Seminario di Maguzzano) e dobbiamo ora iniziare ad agire in una lotta di divulgazione e di operazioni di contrasto, proprio nel campo economico.

Già da due o tre anni sentivo la necessità di dare attenzione ad un problema che appare oggi in fase esplosiva. Lo indico con la perdita di capacità di convivenza – tra persone singole e gruppi – altri ne sottolineano un aspetto che a mio parere è un derivato di tale perdita: la sicurezza.

Questo mio intervento vuole dare al Congresso l’indicazione ad una attenzione nuova, per il Movimento Nonviolento, a questa sfera del vivere sociale che ad alcuni pare – a me sembra erroneamente – confinata alla intimità degli individui, ad altri, invece, disturba affrontare un tema su cui ci sentiamo poco preparati.

E d’altra parte l’emergere delle tensioni interetniche, il disagio presente nella stessa vita famigliare, la incapacità della politica di fare presa attorno ad una serie di progetti che significano disponibilità reciproca, solidarietà, ecc., tutto ciò ci deve convincere che il fondamento stesso dell’agire nonviolento viene sempre più messo – indirettamente – in discussione dai nuovi aberranti comportamenti.

Se pensiamo ai giovani – ad esempio – la caratteristica che viene sottolineata dagli esperti consiste oggi in un narcisismo che concentra l’attenzione attorno al gruppo – sempre più piccolo – sempre più dedito ad argomenti che generano ulteriore separatezza (musica – fumetti – cultura in genere).

Il risultato è noia e tristezza, ma questo diffuso stato d’animo ha – prima di tutto – tagliato le vie di comunicazione con la massa degli altri, coi bisogni degli altri. La depressione che spesso ne consegue, i disturbi dell’alimentazione, le corse del venerdì sera, sono gli indicatori di un’urgenza d’intervento.

Ma il tema su cui la mancanza di convivenza pare avere raggiunto limiti insopportabili è nel rapporto tra le generazioni: tale rapporto appare limitato a fatti di convenienza finanziaria, e laddove tale convenienza non appare (o tarda a realizzarsi), ecco l’indurirsi della sensibilità ed il netto distacco intergenerazionale.

Ho elencato gli elementi che – più che essere dati del problema – mi sembrano offrire una visione del clima e della impellenza del problema stesso. Penso che si possa iniziare ad elaborare una proposta complessa e chiara insieme, che sappia indicare la via per ricostruire la maglia spezzata, che sappia coinvolgere e come.

Mentre in Italia il panorama è sconfortante, all’estero qualche esempio esiste: in Francia si parla insistentemente di cooperazione sociale, come metodo per ricreare una democrazia più vera e profonda di quella di cui disponiamo, coinvolgendo i sistemi educativi e di formazione (e si riconosce in Maria Montessori il merito della preveggenza).

Molta attenzione viene posta al funzionamento delle istituzioni, nella certezza che una apertura delle stesse ai singoli predispone una migliore e maggiore partecipazione. La terapia sociale cui si fa riferimento parte della decisione di cambiare e società e individui insieme e contemporaneamente. Per noi nonviolenti tutto ciò ricorda l’omnicrazia di Aldo Capitini…

Altra realizzazione è il Forum Europeo per la sicurezza urbana – e qui è evidente, invece, l’attenzione alla difesa dalla devianza, dalla criminalità. Il Forum dispone di dossier, di progetti, ed il concetto di fondo è il seguente: se ammettiamo che le inciviltà sono la piaga della nostra città, che i giovani ne sono in gran parte gli autori, allora rispondiamo in maniera civile.

Si apre (ed è un risultato magnifico) il decennio dell’educazione alla pace ed alla nonviolenza, ebbene il nostro contributo potrebbe essere quello di costituire l’avanguardia di un movimento più esteso che sia attento alla ricostruzione della buona convivenza tra di noi.

Tutto ciò è intimamente legato (educazione alla pace, nonviolenza, economia, convivenza), e siamo costretti ad occuparcene.

UN ANNO DOPO LA STRAGE CAUSATA DALL’ARROGANZA MILITARE
Cermis: l’ora del ricordo o della rimozione ?
di Luigi Casanova

E’ passato il primo anniversario della tragedia del Cermis causata dal passaggio a bassa quota di un aereo militare statunitense che il 3 febbraio 1998 ha sfiorato e poi tranciato le corde metalliche della funivia: venti morti. Oltre alle vittime, al dolore dei loro familiari e quello degli abitanti della valle, dopo un anno cosa possiamo leggere dentro questa tragedia ?

Già l’avevamo annunciato un anno fa, la solita Italia dei segreti di stato, anche tante piccole miserie, speculazioni, opportunismi e da parte dei responsabili tanta ipocrisia. Cominciamo da questi ultimi, individuabili con l’equipaggio dell’aereo, ma come vedremo non saranno soli.

In particolare il capitano-pilota Richard Ashby ha da subito collaborato con il suo comandante della base a nascondere la realtà dei fatti: appena atterrato ad Aviano ha distrutto la cassetta che aveva registrato il volo e si è negato agli interrogatori dei giudici italiani. Poi, anche in questi ultimi mesi ha contribuito ad uccidere simbolicamente una seconda volta le vittime, mantenendo nelle interviste, negli incontri con i reduci militari americani atteggiamenti che negavano il valore della vita, arroganza, il mix tipico della tradizionale cultura militare.

È stato ipocrita il comandante della base di Aviano, perché mentre è stato efficace nel mascherare e confondere prove, ha anche rifiutato il confronto con la nostra magistratura, perché ha gettato sull’inchiesta una valanga di informazioni ben poco credibili: prima sulle quote di volo, poi sulla frequenza di questi voli radenti per finire con la scusa delle mappe incomplete. A suo dire queste non segnavano la presenza di una funivia in funzione da ben 25 anni e che già aveva visto protagonisti piloti militari in simili follie, scommettere e volare sotto quelle funi, scivolando sull’alveo del torrente Avisio.

È stato ipocrita il governo italiano, un governo di centrosinistra, con sottosegretario alla difesa dei DS, da qualche mese rappresentato da un presidente del consiglio diessino che ha voluto firmare la più totale subalternità alla politica e alla strategia militare della potenza americana.

Non abbiamo letto una parola o un gesto amministrativo che abbia tentato di impedire i voli di addestramento sulle zone urbanizzate, non una parola nel bloccare il previsto potenziamento della base americana ad Aviano, non una parola nel criticare anche l’aviazione militare italiana nel passato protagonista continua di sorvoli a bassa quota delle basi trentine, Fiemme compresa.

Il governo di centrosinistra italiano ha addirittura impugnato tramite l’avvocato dello stato e con costituzioni di alto valore simbolico e politico, priva di richieste di risarcimento, che aveva due obbiettivi, la tutela dei lavoratori degli impianti sciistici e la richiesta forte di verità e quindi giustizia.

Il massimo dell’ipocrisia è stata letta nei comportamenti dell’ambasciatore americano in Italia, Thomas Foglietta: lo ricordiamo inginocchiato sul piazzale delle funivie mentre prega, ovviamente sotto l’occhio delle telecamere e flash dei fotografi, rivolto verso il fondovalle. Pochi minuti prima aveva impedito alla stampa ed ai cittadini di Cavalese di partecipare ad una seduta del consiglio comunale sull’argomento, trovando complice nella decisione un sindaco anch’esso fin troppo succube.

Governo italiano, potere militare e politico americano hanno voluto il processo negli Stati Uniti obbedendo ad una norma del diritto internazionale firmata dai paesi della NATO nella convenzione di Londra nel 1952 . Un simile atto di pirateria aerea, rivolto contro la sicurezza della popolazione civile, doveva portare il nostro governo a pretendere la modifica di quella norma, a volere il processo in Italia. Invece anche su questo aspetto si è fatto silenzio e ci si è affidati alla presunta serietà e celerità della giustizia italiana.

Ad un anno dalla tragedia non c’è ancora una condanna, e quando questa ci sarà leggeremo le giuste severe pene rivolte ai piloti, ma saranno omesse le più importanti responsabilità dei vertici militari dell’aeronautica sia americana che italiana.

Torniamo ora a Cavalese, in Fiemme, nel Trentino. Nel paese si è aperto uno scontro fra amministrazione comunale ed un gruppo di cittadini appartenenti al Comitato 3 febbraio. C’è voglia di protagonismo, c’è volontà di apparire e una buona dose di cinismo e opportunismo che ha consigliato a qualcuno di salire sul palcoscenico di una tremenda tragedia.

Ecco quindi un personaggio che in pochi anni ha navigato in aree autonomiste dissidenti dal PATT con dure posizioni contro la solidarietà internazionalista, passare alla corte di Carlo Palermo per poi chiedere con insistenza nell’estate del 1998 la candidatura nelle elezioni regionali con i DS, costruire accanto ad altri questo comitato ed oggi riciclarsi politicamente nel perfetto raccoglitore privo di idealità e disegno sociale rappresentato dall’Italia dei Valori dell’ex magistrato Di Pietro, il contenitore ideale per chi viene respinto da gruppi che alle spalle hanno storia e cultura politica e che comunque intendono mantenere visibilità e riconoscimento pubblico.

Il Comitato 3 febbraio a Cavalese paese ed in valle più che adesioni ha raccolto diffusa diffidenza: certo, Debora Compagnoni ed altri personaggi che passano in qualche albergo firmano in quanto non conoscono la realtà dei fatti, certo, i media italiani offrono spazio al comitato proponendo come “l’altra voce”, l’antistituzione della tragedia, non potendo conoscere l’entità ed i motivi dell’abbaglio.

Nell’opportunismo è caduto anche il Presidente del Consiglio uscente, Carlo Andreotti. Si organizza il viaggio negli Stati Uniti e Clinton lo lascia sulla porta della Casa Bianca, voleva essere il portavoce delle vittime ed invece è stato solo il ricostruttore, con soldi pubblici e su terreni pubblici, della nuova cabinovia.

Cos’è stato dato fino ad oggi ai parenti delle vittime? Un magro anticipo del risarcimento, certo, ma anche tanti sonori schiaffi, non hanno letto verità, né giustizia ed invece hanno visto in soli dieci mesi risorgere l’impianto di risalita.

Provincia di Trento e Comune hanno subito offerto risposta alle esigenze della Società Funivie, all’economia turistica, una risposta così veloce che mortifica il dolore dei parenti delle vittime.

La ricostruzione di questa funivia è stata anche un’ulteriore mortificazione della natura e dell’ambiente. Con tempi ragionevoli, con riflessione e sensatezza era possibile limitare alcuni devastanti ed irreversibili impatti ambientali negativi.

L’impianto andava ricostruito, ma perché progettare parcheggi sulla sponda del torrente Avisio restringendone l’alveo, costringendolo in un ulteriore lungo tratto di muraglione, ben sapendo che fra pochi anni l’area verrà ampliata?

Perché incidere l’area sinistra della valle, tra Masi e la Cascata, con la costruzione di una nuova stazione di passaggio degli sciatori che ha stravolto un’area boscata, un paesaggio che era delicato? E perché ci si prepara a costruire una pista di discesa che arriverà fino a fondovalle quando solo fino all’anno scorso il Sindaco, che ancora governa Cavalese per motivi ambientali e paesaggistici, rifiutava una simile prospettiva e non l’aveva giustamente inscritta nel Piano Regolatore?

Ed ancora, perché ci si prepara ad ampliare l’area sciistica di quota del Cermis quando sempre il Piano Regolatore reclamava con forza un Piano di Ripristino Ambientale?

E che senso avrà costruire un “parco delle rimbembranze” nel fondovalle, quando quest’ultimo sarà stato sconvolto dal nuovo impianto, quando si saranno imposte le sole regioni dell’economia contro la natura?

È così passata l’ora del primo ricordo della tragedia, in troppi hanno usato quest’anno per scopi ben poco nobili e hanno fatto, se possibile, ulteriore violenza su una situazione di sofferenza collettiva.

Ed invece ancora oggi non si legge giustizia né verità.

Ancora oggi non sappiamo quali fossero i veri obbiettivi del volo.

Ancora oggi non sappiamo quali siano le reali omissioni e le complicità dell’aeronautica italiana nei voli a bassa quota, che lo ripetiamo, nelle valli di Fiemme e Fassa si ripetevano con regolarità.

Ancora oggi in Italia non si sono impediti i voli sulle aree urbanizzate.

Ancora oggi l’Italia rimane un paese a sovranità limitata e subisce le imposizioni delle esercitazioni di forze armate straniere.

Ancora oggi i parenti delle vittime non sono stati risarciti.

È invece attiva la nuova cabinovia grazie ai militari americani e agli anticipi generosamente devoluti alla società funivie, con legge apposita, della Giunta Provinciale di Trento.

Sono state ormai celebrate più messe, è stata scoperta una lapide a ricordo delle vittime.

Gran bel passo istituzionale!

ATTUAZIONE DELLA LEGGE 230/98
L’Ufficio Nazionale per il Servizio Civile

di Roberto Minervino

Sono ormai passati sei mesi dall’approvazione della legge di riforma 230/98. A che punto siamo arrivati?

Nel settembre ‘98 è stato nominato il direttore dell’Ufficio Nazionale per il Servizio Civile, il dott. Guido Bertolaso, che ha attualmente una sede, un numero di telefono, uno di fax e una casella di e-mail; l’8 gennaio ‘99, il Consiglio dei Ministri ha inviato alle commissioni Difesa (per un parere definitivo) il DPR relativo alla sua organizzazione; nella Finanziaria 1999, recentemente approvata, i centoventi miliardi di pertinenza del servizio civile sono stati spostati dal bilancio del Ministero della Difesa a quello della Presidenza del Consiglio.

Nel frattempo, Levadife ha continuato a svolgere i suoi compiti con maggiore lentezza del solito, mettendo ogni tanto qualche bastone tra le ruote: le nuove convenzioni e gli allargamenti sono stati bloccati in attesa dei nuovi modelli che deve predisporre l’Ufficio Nazionale (non sempre è così, visto che soggetti forti come la Regione Emilia Romagna e il Ministero di Grazia e Giustizia hanno ottenuto rapidamente ciò che volevano); nel gennaio 1999 sono stati bloccati i pagamenti a enti e obiettori “visto che a bilancio del Min. Difesa non vi erano più denari a copertura”; il caos relativo alla gestione degli obiettori, all’assistenza sanitaria e a tutte le modifiche introdotte dalla 230 e dal D.L. 504/97 regna sovrano.

Va detto che l’Ufficio nazionale, nei limiti di ciò che ha a disposizione, sta lavorando alacremente alla preparazione di quanto previsto dalla legge e ha stabilito rapporti civili con noi e con i maggiori enti di servizio civile (sono state create alcune commissioni informali in cui enti, obiettori e Ufficio lavorano fianco a fianco).

Quella che pare mancare oggi è soprattutto una chiara volontà politica in materia: se il Governo Prodi credeva in un servizio civile maturo (anche se estraneo all’obiezione di coscienza e subordinato alla ristrutturazione interventista e belllicista delle nostre Forze Armate), il Governo D’Alema sembra ignorare anche questa prospettiva.

Il nuovo Ministro della Difesa Scognamiglio ha iniziato il suo magistero avviando la campagna d’inverno pro esercito professionale, la destra attacca sui suoi organi di stampa il servizio civile, Valdo Spini presenta disegni di legge in cui si negano pronunciamenti della corte costituzionale sull’obiezione totale e si propone di tornare a un servizio di leva della durata di dodici mesi: si coccolano i professionisti e si bastonano i giovani obbligati al servizio di leva.

D’altronde l’attuale Governo non ha avuto esitazioni nemmeno a dichiarare la disponibilità all’uso delle nostre basi per i bombardamenti prossimi venturi sulle città serbe e nessuno al suo interno mette più lontanamente in discussione le politiche interventiste di tutto l’occidente, ponendosi così in perfetta continuità con tutti i Governi che l’hanno preceduto: per i nostri politici l’obiezione di coscienza è un optional di principio per poche anime pie, un fiore all’occhiello di non grande fastidio destinato a scomparire una volta raggiunto l’obiettivo principale delle Forze Armate professionali, sulle quali solamente si intende investire denaro, tempo ed energie.

Da parte nostra, nel ringraziare chi sta comunque lavorando bene per tentare di costruire un servizio civile maturo e adeguato alle necessità del nostro paese (e la vicenda delle paghe di gennaio è stata per noi un segnale incoraggiante), non possiamo che rinsaldare l’impegno perché l’obiezione di coscienza al servizio militare sia ancora un aspetto centrale delle politiche pacifiste tese alla costruzione di alternative nonviolente alla attuali modalità di gestione dei conflitti.

In quest’ottica non ci deve sfuggire la possibilità offerta da questa situazione contraddittoria: ci sono strade nuove che si stanno aprendo e vanno rapidamente percorse.

Il rapporto con l’Ufficio nazionale e il ruolo da svolgere in Consulta, le collaborazioni con gli enti pubblici nel campo della formazione e della progettazione del “nuovo servizio civile”, l’estensione e l’arricchimento dell’attività della Rete Caschi Bianchi, sono tutti passaggi significativi di una strategia politica nonviolenta che può malgrado tutto risultare efficace e vincente.

Formazione: cambiare mentalità

di Stefano Guffanti

In questi anni la mentalità più diffusa tra gli enti di servizio civile, fatte salve le debite eccezioni, ha avuto come dato centrale l’idea che l’obiettore dovesse essere considerato un supporto a costo zero per l’ente. In parallelo a quanto avviene con i giovani in servizio militare, da cui il servizio civile ha mutuato molto, troppo, il rapporto obiettore – ente è univoco a favore dell’ente.

Nel servizio civile non è previsto o progettato che all’obiettore torni qualcosa, se non per caso o di riflesso. L’eventuale inserimento in progetti adeguati alle competenze dell’obiettore è finalizzato ad aumentarne la produttività, non certo a far sì che il giovane possa avvalersi di questa esperienza per formarsi ad un ruolo lavorativo e/o sociale.

In questo contesto gli enti hanno sempre visto la formazione degli obiettori come un onere gravoso da evitare. L’approvazione della Legge 230/98, invece, introducendo l’obbligo, per gli enti, di attivare corsi di formazione per i propri obiettori, ha ribaltato la prospettiva.

L’obiettore eroga un servizio che, seppur gratuito sul piano monetario, viene ricompensato fornendo opportunità formative a più livelli: culturale, sociale, di cittadinanza, di competenze.

Il giovane, finalmente, viene considerato soggetto di diritti ed il servizio civile diventa occasione per una crescita personale, ricercata e progettata attraverso l’organizzazione di un percorso formativo. Questo aspetto della riforma, però, stenta a decollare anche perché il trasferimento delle competenze sulla gestione del servizio civile, all’Ufficio Nazionale per il Servizio Civile, è alquanto travagliato e lungo.

Fino ad ora le istituzioni preposte alla gestione del servizio civile non sono state in grado o non hanno voluto effettuare controlli sull’effettiva realizzazione di corsi di formazione e la maggior parte degli enti ne ha approfittato, rimanendo nell’immobilismo più totale.

Per evitare che lo spirito della legge rimanga lettera morta è necessario che gli enti di servizio civile modifichino profondamente la mentalità con la quale affrontano e gestiscono obiettori e servizio civile, accettando di:

coordinarsi tra loro, al fine di ottimizzare le risorse e ridurre i costi; è impensabile che ogni ente (soprattutto se si tratta di enti di dimensioni medio – piccole) progetti e realizzi corsi di formazione in proprio;

investire risorse sul piano organizzativo (istituendo dei gruppi capaci di progettare e realizzare i corsi) ed economico (stanziando dei budget annuali indispensabili per rimborsare i relatori, preparare il materiale didattico, affittare le sale etc);

sottrarre l’obiettore, per la durata del corso, ai progetti di servizio in cui è inserito, riducendone di fatto la produttività.

E’ difficile dire su quale delle tre novità si incontrino più resistenze ma, sicuramente, senza l’avvio di momenti di collaborazione e coordinamento tra enti, sarà assai difficile che possa decollare qualcosa di positivo e duraturo.

Pertanto, in questa fase, i gruppi sensibili alle tematiche dell’obiezione (p.e. LOC e MN), anche se non convenzionati per la gestione diretta di obiettori, dovrebbero assumersi il compito di promuovere Coordinamenti provinciali di enti (eventualmente affiliati al CESC nazionale), con i seguenti scopi:

garantire un servizio informativo e di consulenza sulla gestione degli obiettori, rivolto ai responsabili degli enti;

verificare la qualità dell’impiego degli obiettori;

appoggiarsi al CESC Nazionale per la centralizzazione delle richieste nominative di obiettori;

attivare corsi di formazione periodici per gli obiettori di tutti gli enti, dedicando una parte alla formazione generale, valida per tutti, ed una specifica ad ogni area di impiego;

ricercare il coinvolgimento delle istituzioni locali (soprattutto i Comuni, spesso convenzionati), che potrebbero intervenire patrocinando i corsi.

Se vogliamo che la formazione rivolta agli obiettori rispecchi anche i contenuti che andiamo proponendo da più di cinque lustri, è nostro compito elaborare modelli concreti, sperimentarli e renderli operativi e proponibili a tutti.

Se non passa una formazione sui valori, il rischio è che si affermi una formazione burocratica, che equivarrebbe alla fine dell’obiezione di coscienza e dell’idea di un servizio civile collegato, seppur per un esile filo, ad un progetto di difesa nonviolenta.

DECALOGO MEDITERRANEO / 2
Alla ricerca di un’economia senza denaro
Il paradosso dei soldi

di Christoph Baker

“…bien sûr l’argent n’a pas d’odeur

mais pas d’odeur vous monte au nez…”

– Jacques Brel

Ho un problema. Da tempo, sognando una vita diversa, meno frenetica, più dolce, più tranquilla, quando la mia mente comincia a spiccare il volo, si addensano subito all’orizzonte delle nuvole nere. E hanno sempre la forma dei dollari… Il sogno viene colpito nel lato più debole, la mente si rattrista, e – per la felicità del conformismo – i miei piedi ricascano per terra. Ammetto dunque un rapporto in qualche modo depressivo con i soldi, e con tutta la visione economica della vita. Sento tuttavia il “dovere”, prima di inseguire i sentieri mitici dell’ozio, di affrontare questo tasto dolente, anche se sono conscio di possedere solo argomentazioni deboli e un po’ ovvie. Pazienza.

Una cosa è certa: la questione dei soldi è forse la sfida filosofica più grande dei nostri tempi. Di fatti, essi permeano ogni discorso, ogni momento, ogni rapporto del nostro vivere quotidiano – che uno li abbia o meno. Si erigono in Muro di Berlino incrollabile sulla strada dell’utopia. Sono come un secchio d’acqua sulla prima scintilla di un pensiero liberatorio. Non fai in tempo a fiutare un sogno, che si abbatte implacabile la domanda, “ma senza soldi, come fai?”. La legge dei soldi è ferrea. Non ammette alternative, non accetta un ruolo relativo, non vuole comporre. La legge dei soldi è onnivora, vuole comandare su tutti e tutto.

Come al solito, quando una cosa sembra così ovvia, così accettata da tutti, mi viene il nervoso. Mi chiedo: possibile che dobbiamo essere tutti schiavi dei soldi (perché anche i straricchi ne sono dipendenti)? Possibile che tutto debba essere inquinato da un riferimento al proprio valore economico? E soprattutto: possibile che un mezzo possa diventare così potente da offuscare qualsiasi visione non monetaria della vita?

I soldi come la droga

Oggi a prima vista, la centralità dei soldi sembra una certezza inamovibile. Una fatalità. Come ti giri, ti ci imbatti. Fino al cuore dei nostri affetti più cari, l’ombra lunga dei soldi condiziona il nostro pensiero, il nostro agire, i nostri sentimenti. Se i soldi si limitassero a determinare i percorsi di sopravvivenza, di funzione alimentare, di minima sicurezza vitale, si potrebbe dargli un significato “normale”, un posto adeguato nel nostro universo quotidiano. Se i soldi servissero solo a risolvere certe necessità immediate, quelle che uno si deve togliere di mezzo per essere poi libero di contemplare, pensare, creare, volare, oziare, allora sarebbero un aiuto.

Il problema è che non si limitano a questo. I soldi sono una droga. Hanno un potere di distorsione sul nostro immaginario. Velocemente invadono i nostri processi mentali. Siccome sono un mezzo rapido di soddisfazione personale, ci spingono a cercare di ottenere tutto quello che vogliamo con una ulteriore dose, una ulteriore siringata. Insidiosamente, i soldi penetrano fino al cuore delle nostre aspirazioni, finché non riusciamo più a concepire una minima azione che non sia mediata da un pagamento, che non rientri nella logica del credito-debito. In questo dilagare, hanno fatto tabula rasa di tutti gli altri modi e mezzi economici che l’uomo si era inventato lungo il faticoso e lento cammino della storia, come il baratto, il dono, la reciprocità, la gratuità…

Hanno determinato una serie di sconquassi sociali micidiali. Senza i soldi, la proprietà privata non avrebbe mai annientato i luoghi di appartenenza comune (the commons), l’arte non si sarebbe ridotta ad un mercato scontato ed elitario, i viaggi non sarebbero diventati spostamenti di corpi verso paradisi artificiali. Non ho prove scientifiche (di cui, fra l’altro, poco m’importa), ma secondo me il trionfo dei soldi ha determinato anche una riduzione di idee, di slanci poetici, di gesti generosi ed “inutili”, di ricerca dell’altro, di osare e di rischiare. I soldi hanno un grosso potere soporifero sull’anima, anzi direi che sono una specie di anestesia dei nostri impulsi più profondi. Poi, azzerano i nostri interrogativi più gravi, ci bloccano sulla strada del dubbio. Perché i soldi, in fondo, sono una medicina rassicurante per le nostre angosce esistenziali, sono un palliativo, una grande scusa.

Tuttavia, i soldi si fermano al confine del mondo materiale. E’ qui che si evidenzia il paradosso. Viviamo una vita intera condizionati dai soldi, sapendo benissimo che il loro campo di applicazione risulta poi ben poca cosa. Non sono i soldi che ci aprono la mente, non sono i soldi che commuovono il nostro cuore, tanto meno il nostro animo. Ma siccome hanno questo potere di “distrazione”, ci siamo lentamente convinti che le cose che non possono risolvere, in fondo non hanno molta importanza. La disfatta umana sta proprio in questa resa unilaterale di fronte al denaro, questa ritirata nella solitudine, nell’individualismo, nell’egoismo endemico che i soldi ci impongono.

Quanto costa un tramonto?

Sappiamo benissimo che la generosità non si misura nel valore di un regalo, bensì nella nobiltà del gesto. Provate a quantificare in dollari o in euro la mano tesa, le braccia aperte, l’invito a sedersi a tavola. C’è di più. Pensate alle emozioni, ai sentimenti. Quanto può valere un innamoramento? (Sento i sarcastici tirare fuori le ricevute di ristoranti, alberghi e negozi di abbigliamento…, ma ovviamente sto parlando d’altro!). Dov’è lo scontrino di un tramonto al mare? A quale cassa bisogna passare dopo un pomeriggio primaverile, sdraiati nell’erba con gli odori della natura a riempirci i polmoni? Si potrebbe continuare ad aeternum, la canzone è sempre la stessa. Sappiamo tutti nel nostro intimo che le cose più importanti della nostra vita non c’entrano niente con il vil danaro.

Allora perché è così difficile ridimensionare il potere dei soldi? Perché non si riesce a ribaltare gli equilibri? Qual è il blocco psicologico che ci impedisce di relativizzare il loro predominio?

Probabilmente, la risposta a queste domande bisogna andare a cercarla nel nostro tessuto mentale, nelle nostre abitudini intellettuali. In fondo la “tossicodipendenza” dei soldi riflette una atavica ricerca della sicurezza a tutti i… costi! Il mito della ricchezza è un perfetto amo per le nostre paure. E anche se pochi fra noi riusciranno a raggiungere il vertice della finanza, ci consola fare parte della gara, testimoni vivi di uno spirito decoubertiano impressionante…

I soldi ci permettono di rimandare a più tardi gli interrogativi più significanti. Ci danno il pretesto per convogliare le nostre energie verso l’obiettivo più semplice da raggiungere. Misurare la propria esistenza in aumento o diminuzione degli introiti, ci consente di non fare caso alle domande troppo complicate tipo: guadagno centinaia di milioni, come mai non sono sereno, ma dove sono finiti gli amici, perché questo letto è così freddo e vuoto?

Ma se si è convinti che la vita è un’altra cosa, allora l’interrogativo sui soldi deve darci l’opportunità di riscoprire valori nobili e troppo trascurati nella nostra società materialista, a cominciare dalla gratuità. Il nostro quotidiano è pieno di momenti dove a parlare non sono i soldi. Senza entrare nel mondo dell’acqua di rosa, evitando di riferirmi al valore di un sorriso o di un bacio, si può partire da una chiacchierata al bar sotto casa. Quando con eleganza verbale si passa dal commento sulle partite di calcio ad una riflessione sui guai della vita o a rincuorare un amico in difficoltà. Ci sono anche quei gesti estemporanei nel bel mezzo della logica commerciale, come l’invito del mercante di tappeti a scendere in cantina e bere il tè alla menta, aldilà dell’affare concluso o meno. E che dire di quelle vecchiette che ogni giorno portano avanzi ai gatti del Colosseo?

Il limite della ricchezza

La lista è lunga e propongo al lettore di fermarsi qui, di versarsi un bel bicchiere di vino e per qualche istante di fare viaggiare la mente e la memoria per individuare i mille gesti, le mille occasioni di gratuità che uno incontra nella vita di tutti i giorni. Per esempio, il gran dono che ci fanno i musicisti, gli scrittori, i pittori, chiunque ha dato priorità alla creazione, alla composizione e che offre in regalo il proprio talento anche dopo, molto dopo la propria morte. (Non so cosa farei senza Bach, Rouault, Katzanzakis o Brel…)

Forse con questo sguardo illuminato dalla gratuità, potremmo cominciare a smantellare pezzo per pezzo il mito dei soldi, della ricchezza materiale, della crescita quantitativa. Perché non applicare le nostre menti a porre dei limiti al mito, cercando all’interno delle stesse teorie dell’economia – dopo anni di masturbazioni sulla soglia di povertà – di individuare un tetto alla ricchezza? Il giorno che uno degli studiosi così osannati dal Wall Street Journal, dal Fondo Monetario Internazionale o dal Forum di Davos, si degnerà di studiare questa dimensione dell’economia, cioè la fine del mito della crescita illimitata, un punto dove i troppi soldi dell’uno devono per forza ricadere nelle troppe tasche vuote degli altri, allora forse si potrà dire che ci sono degli economisti che non sono solo dei mercanti al tempio, sacerdoti spacciati per esperti del grande tempio del denaro, idolatri del vitello d’oro già condannati da qualche parte, se non sbaglio, un po’ di secoli fa…

Ho volutamente provato ad evitare un’analisi tecnica del sistema economico che ci troviamo oggi come una spada di Damocle sopra la testa. Ma, nel momento in cui ci dicono da tutte le parti che ormai i mercati finanziari mondiali non c’entrano quasi più niente con la produzione di beni né con il commercio (difficile immaginare una tale assurdità!), ma sono soldi che si fanno astrattamente su altri soldi, di fronte a questa constatazione, mi sembra che il momento storico possa essere anche favorevole ad una uscita dal predominio dei soldi.

Seguo con interesse i vari tentativi in atto, nel bel mezzo delle società cosiddette ricche, di individuare economie alternative dove i rapporti monetari sono sempre più rari. Dove si riscoprono la miriade di volti che può assumere lo scambio. Dono e reciprocità, concetti una volta interrati nei libri di storia del capitalismo, ritornano sani e salvi a riproporre una economia più umana, come si è praticato per millenni e millenni in tutto il mondo, prima della sciagurata equazione inventata da Adamo Smith. Per certi versi, la tanta famigerata crisi dell’occupazione, delle nuove povertà, potrebbe contribuire ad accelerare la voglia della gente di sperimentare modi di organizzazione economica fuori dalle leggi ferrei e tutto sommato “povere” dei soldi.

I bisogni e i desideri

Potremmo così avviarci verso un’organizzazione economica che ritorni al suo posto nel grande tessuto della vita quotidiana. Tornare ad occuparci di altre cose fuori dai costi e ricavi, dagli investimenti e ritorni, dagli interessi e tasse, e soprattutto smettere di mettere un prezzo su tutto. Lasciare che i nostri bisogni non si trasformino immediatamente in soddisfazione (o frustrazione, ovviamente) materiale, ma fare sì che aspettino un po’. Perché dietro ai bisogni – o sotto, o sopra – ci sono i nostri desideri. E sono i desideri che i soldi hanno sempre odiato, perché non si lasciano così facilmente e miseramente inscatolare in prezzi e merce. Grazie ai nostri desideri, se siamo capaci di riporli al centro dell’attenzione, si potrà voltare lo sguardo su altre priorità non più economiche. Si potrà scoprire il valore anti-economico della curiosità, del fare ogni passo lento e necessario per vederli avverarsi, della cura dei dettagli, perché un desiderio abbraccia anche la ricerca del benessere, non solo del “ben-avere”.

Insomma, il paradosso dei soldi, questo strazio di essere schiavi di un padrone che si sa essere fondamentalmente futile, si potrà superare nel momento in cui ci si ricorda che non siamo solo homo economicus, e che i nostri sogni valgono molto di più di tutte le azioni quotate nelle borse di Tokyo, Londra o New York messe insieme. E quando avremo ridotto il numero delle volte che ogni giorno portiamo la mano al portafoglio.

LA NONVIOLENZA NELLA LETTERATURA / 2
Pace e nonviolenza nel teatro greco

di Claudio Cardelli

Nella nostra civiltà il teatro, sia tragico che comico, è stato inventato dai Greci, che lo trasmisero ai Romani (Plauto, Terenzio, Seneca) e all’Europa moderna (Shakespeare, Molière, Goethe, ecc.). In Grecia la rappresentazione teatrale fu un evento anzitutto religioso, che aveva luogo in occasione delle celebrazioni del dio Dioniso: la tragedia, in particolare, trattava episodi mitici, appartenenti alla storia remota del popolo greco (le vicende di Agamennone, Edipo, ecc.).

Gli spettacoli teatrali erano anche un fatto politico: venivano organizzati dallo Stato e svolgevano una funzione educativa verso la collettività, che assisteva alle rappresentazioni dei drammi con intensa partecipazione, attraverso una diretta fruizione visiva-auditiva dei testi. Il teatro divenne lo strumento per l’approfondimento dei valori morali e religiosi della coscienza collettiva, nella quale maturarono progressivamente gli ideali di pace e di giustizia.

L’Orestea di Eschilo

Eschilo è il primo dei grandi tragediografi; tra le sue opere ha particolare rilievo la trilogia intitolata Orestea (458 a.C.), comprendente l’Agamennone, le Coefore, le Eumenidi. Agamennone, tornando da Troia, viene ucciso dalla moglie Clitennestra, che intende vendicare il sacrificio della loro figlia Ifigenia, immolata dal padre in Aulide. Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra, vendica il padre trucidando la madre e l’amante Egisto. Tormentato dalle Erinni, gli spiriti vendicativi della defunta, viene assolto dal tribunale ateniese dell’Areopago e trova infine la pace.

Nell’Agamennone Eschilo esprime la propria religiosità attraverso le parole del coro, formato da vecchi abitanti di Argo. Il suo pensiero intuisce la presenza di un Dio supremo, che i greci chiamano Zeus, ma che può assumere anche altri nomi.

Zeus, quale mai sia il tuo nome, se con questo ti piace esser chiamato, con questo ti invoco. Né certo ad altri posso pensare, nessun altro all’infuori di te riconoscere, se veramente questo peso vano dall’anima voglio scacciare. Chi con cuore devoto canta epinici a Zeus, questo soltanto avrà colto suprema saggezza.

Le vie della saggezza Zeus aprì ai mortali, facendo valere la legge che sapere è soffrire. Gene anche nel sonno, dinanzi al memore cuore, il rimorso delle colpe, e così agli uomini, anche loro malgrado, giunse saggezza; e questo è beneficio dei numi che saldamente seggono al sacro timone del mondo (p.II3).

La religione di Escilo si avvicina molto al monoteismo e ha il suo fondamento nell’ideale di giustizia: Zeus con la sua bilancia infallibile, assegna secondo giustizia il male ai malvagi e il bene ai buoni:

C’è tra i mortali antichissimo detto che quando una grande fortuna è giunta al suo colmo non muore senza figli, e da prosperità rampolla e fiorisce insaziabile male. Io penso diverso dagli altri. E dico che solo la colpa produce altre colpe a lei simili, e solo nei focolari governati da giustizia il destino sempre genera bella prole di figli. Violenza partorisce tra i malvagi violenza, antica violenza sempre nuove violenze, ogni volta che del nuovo parto spunti il giorno segnato.

Giustizia risplende nei fumosi tuguri perché il vivere onesto ella onora; dalle regge costellate di oro; dalle mani macchiate di sangue torce gli occhi e fugge; pie dimore cerca; non cura ricchezze segnate da falsi sigilli di lode; e tutto conduce al suo fine (p.121).

Sofocle ed Euripide

La tragedia in cui compare un chiaro esempio di disobbedienza civile è l’Antigone (441 a.C.) di Sofocle. In pagina di grande profondità e bellezza l’autore descrive il dramma di Antigone, che disobbedisce a una legge ingiusta in nome dei principi religiosi della coscienza umana. La protagonista mette n atto una prima forma di obiezione di coscienza.

Creonte, re di Tebe, ha proibito di dar sepoltura al cadavere di Polinice, traditore della sua città. Antigone, la sorella dell’ucciso, crede suo dovere, dovere religioso ed eterno, seppellire il fratello e infrange il decreto di Creonte.

Il re, sordo alle implorazioni del figlio Emone, fidanzato di Antigone, condanna a morte la giovane, che rinchiusa in una caverna sceglie la strada del suicidio. Emone, dopo aver maledetto il padre, a sua volta si uccide. Infine appare Creonte, col cadavere del figlio tra le braccia: piange la sua rovina e invoca la morte. Euripide nelle Troiane (415 a.C.) presenta drammaticamente i lutti e gli orrori del conflitto tra Greci e Troiani. La guerra è vista dalla parte dei vinti in tutta la sua crudeltà e inutilità: le donne troiane, Ecuba, Andromaca e Cassandra sono assegnate come preda di guerra ai Greci vittoriosi. Molto commovente l’addio di Andromaca al figlioletto Astianatte, che i Greci gettarono dalle mura della città espugnata.

Contemporaneo di Euripide, anche Aristofane espresse l’aspirazione alla pace in due commedie: La pace (421 a.C.) e Lisistrata (411). Memorabile soprattutto quest’ultima che racconta la congiura delle donne ateniesi e spartane per indurre gli uomini alla pace: esse mettono in atto una forma originale di lotta nonviolenta, il rifiuto delle prestazioni coniugali ai mariti, che sono costretti in tal modo, per riavere le mogli nel talamo, a concludere rapidamente la pace.

Le citazioni sono tratte da Il teatro greco. Tutte le tragedie, Sansoni, Firenze, 1970.

IL POTERE CINESE E INTERNET
Liberiamo Lin Hai condannato a 15 anni

Ha usato Internet per diffondere un appello per i diritti umani e per darci la possibilità di inviare in Cina i nostri messaggi. Condannato a 15 anni di carcere.

di Alessandro Marescotti

Lin Hai è un ingegnere elettronico cinese. E’ stato condannato il 20 gennaio 1999 per aver diramato per posta elettronica un appello dei dissidenti. Si era procurato 30 mila indirizzi e-mail e aveva “sparato” il messaggio su Internet. Arrestato il 25 marzo 1998, ora deve scontare 15 anni di prigione per “incitamento a sovvertire lo Stato”. In particolare Lin Hai si è messo in contatto via Internet con un gruppo di dissidenti cinesi (con la denominazione di Vip Reference) in America il quali avevano collezionato già 250 mila indirizzi di posta elettronica. Lin Hai aveva contatti all’interno della società cinese grazie alla sua posizione di quadro altamente specializzato. Ma perché collezionare tutti quegli indirizzi di computer cinesi collegati ad Internet? Semplice. Fino a tre anni fa il potere la Cina non era collegata ad Internet, anche per timore che ciò provocasse un’infiltrazione indesiderata di messaggi provenienti dal di fuori dei confini. Ma ora il mercato cinese non può fare a meno di questo strumento ormai essenziale per gli scambi economici e, a malincuore, i dirigenti cinesi hanno avviato quest’avventura telematica che però controllano con particolare sospetto. Tutti gli utenti telematici cinesi, ad esempio, vengono schedati prima di poter accedere ad Internet. E tutti i nodi di accesso ad Internet (che corrispondono ai i nostri “providers”) non si allacciano direttamente alla rete mondiale ma devono passare da un centro di controllo statale, il China Net. E’ qui che – con molta probabilità – i messaggi vengono “processati” e analizzati elettronicamente per parole chiave in modo da individuare quelli sospetti e poter risalire alla fonte. A tal fine è stata creata una rete di controllo nelle città. Ma ora gli utenti di tutto il mondo – grazie a tutti gli indirizzi di posta elettronica esportati da Lin Hai – possono inviare milioni di messaggi con informazioni libere in Cina.

Quello di Lin Hai è un esempio di uso positivo della telematica. Occorre avviare una campagna per la sua liberazione. Del resto quello strumento che il potere totalitario cinese tanto teme, noi lo possiamo usare liberamente. Allora usiamolo e facciamoci sentire, diffondiamo in rete un appello per la liberazione di Lin Hai da spedire all’ambasciata della Repubblica Popolare Cinese, via Bruxelles 56, 00198 Roma, tel.06/8557369.

Dura repressione per i verdi cinesi

Zhaba Doje era un tibetano, vice segretario della cellula del partito comunista in un villaggio nella regione del Qinghai, una zona poco abitata dagli uomini ma ambiente privilegiato dalle rare antilopi tibetane – ne restano solo tra i 75.000 e i 100.000 esemplari – cacciate per la pelle pregiata. Doje è stato trovato nella sua abitazione a Yushu in un lago di sangue: ‘giustiziato’ con una pallottola sotto l’orecchio sinistro. L’inchiesta della polizia, riferisce la stampa ufficiale, è orientata verso i cacciatori di frodo che agiscono nella riserva di Hoh Xil, rifugio di antilopi, asini selvatici e leopardi delle nevi, che era diretta da Doje, il ‘santo degli animali’. Anche il suo predecessore finì male, ucciso quattro anni fa in uno scontro a fuoco con i cacciatori. Almeno ventimila animali vengono soppressi ogni anno dalle bande di bracconieri. La pelle, il cui commercio è illegale dal 1976, è contrabbandata in India. Doje ha avuto il suo funerale celeste, nella tradizione tibetana.

Nel sud della Cina, un professore di scienze naturali sta pagando carissimo il suo impegno a difendere una delle foreste più grandi del paese dalle scuri dei taglialegna. Wei Yunlong, direttore di una società proprietaria di una cava di granito nel Sichuan, ha paura ad uscire di casa dopo aver denunciato in un programma televisivo che a Hongya, a monte del fiume Yangtze (Azzurro), gli alberi venivano abbattuti malgrado la proibizione imposta dal governo. «I taglialegna mi accusano di avergli tolto il lavoro e si sono impossessati della cava ma a me piangeva il cuore a veder morire gli alberi dei nostri avi». Il professore, che è titolare della società ‘Chongqing Long Teng’, ha cercato di fermare la distruzione della foresta, 72.000 ettari, avvisando il governo locale, ma le sue proteste sono state ignorate. Allora si è rivolto alla televisione di stato e ha convinto una troupe a recarsi con lui a Hongya. Il programma ha fatto infuriare il primo ministro Zhu Rongji che ha mandato un’ispezione. L’abbattimento degli alberi è stato fermato. Ma i taglialegna hanno fatto saltare in aria la cava con cariche di dinamite e i dipendenti della ‘Long Teng’ sono fuggiti. Ora vivono nel terrore.

CONCLUSA LA SOTTOSCRIZIONE
Mattoni per la pace: obiettivo raggiunto!

Qualcuno la chiama “Provvidenza”, altri “manna dal cielo”, c’è persino chi cita il Vangelo “chiedete e vi sarà dato” o addirittura “i gigli del campo non cuciono e non tessono, eppure…”. Fatto sta che un piccolo miracolo è davvero avvenuto nella Campagna dei Mattoni per la Pace.

I fatti sono questi. Chi ha seguito fin dall’inizio le vicende della nostra Casa per la Nonviolenza ricorderà, forse, che nel 1988 abbiamo acquistato il primo piano posto in vendita a prezzo di favore dai tre fratelli Caliari che liquidavano il loro negozio fotografico e dopo una vita di onesto lavoro si ritiravano in pensione andando ad abitare al piano superiore. Abbiamo sempre mantenuto un ottimo rapporto con questi nostri simpatici e pittoreschi vicini, Teotimo, Maria e Walter. Seppure persone anziane e “d’altri tempi”, erano forse incuriositi dalla nostra attività per la pace e la nonviolenza: di tanto in tanto se ne interessavano con un misto di curiosità e condivisione. Noi ricambiavamo con qualche semplice gesto, come portargli a casa la spesa quando la stanchezza o l’inclemenza del tempo impediva loro di uscire per la quotidiana passeggiata. Piccoli episodi di buon vicinato. Col passare degli anni i due fratelli maggiori, Teotimo e Maria, sono morti d’infarto a breve distanza l’un dall’altra. Il più giovane, Walter, detto Paolo, non era in grado di rimanere da solo e così ha messo in vendita l’appartamento al secondo piano, dando a noi del Movimento Nonviolento il diritto di prelazione e facendoci un prezzo di favore. Con il ricavato Paolo si è ritirato in un pensionato e noi abbiamo avviato la Campagna Mattoni per la Pace per raccogliere il denaro necessario alla ristrutturazione. Qualche mese fa anche il cuore di Paolo ha ceduto. Siamo andati al funerale per salutare una persona semplice, onesta, un simpatico vicino di casa. Qualche mese dopo abbiamo scoperto che, oltre a tutto questo, Walter Paolo Caliari era anche un vero amico della nonviolenza. Nel suo Testamento ha diviso i risparmi di una vita tra i poveri della sua parrocchia, alcune opere di beneficenza ed il Movimento Nonviolento, con la volontà di “sostenere l’opera della nonviolenza”. Quando l’abbiamo saputo ci siamo davvero sorpresi e poi commossi. Quei 63 milioni lasciatici da Paolo Caliari, e ricevuti il 23 dicembre 1998, sono serviti per completare il pagamento dei lavori di ristrutturazione e restituire i prestiti avuti per l’acquisto della Casa per la Nonviolenza. Un dono tanto inaspettato quanto necessario. Un grazie ai fratelli Caliari e all’esecutore testamentario Giulio Rocca, che con tanto impegno, precisione e passione ha portato a termine il delicato compito.

Abbiamo raccontato tutto questo, oltre che per doverosa riconoscenza, anche per testimoniare che non esiste solo l’Italia del superenalotto o delle lotterie; storie così, tra i titoli gridati di un giornalismo senz’anima, è impossibile trovarle. Anche se esistono, come la Provvidenza…

“Fa più rumore un albero che cade, che un’intera foresta che cresce”.

Gli elenchi dei sottoscrittori sono pubblicati in AN di marzo, maggio, ottobre 1996, gennaio-febbraio, maggio e novembre 1997, giugno e ottobre 1998.

Nono elenco dei sottoscrittori aggiornato al 28 febbraio 1999

La cifra dopo il nome, cognome e città, indica il numero di mattoni acquistati

Nicolino Barra (Roma) 3, Cristian Biscuola (Casale Scodosia) 6, Zeno Muttinelli (Verona) 5, Paolo Grigiolato (Mirano) 11, Roberto Cardarelli (Reggio Emilia) 1, Lanfranco Mencaroni (Collevalenza) 12, Associazione Cà Fornelletti (Valeggio sul Mincio) 100, Giovanni Esposito (Salerno) 1, Eva Franchi (Verona) 4, Alfredo Mori (Brescia) 10, Luciano Raineri (Brescia) 2, Stefano Andrico (Milano) 1, Angelo Angher (Roma) 1, Salvo Zedda (Sassari) 1, Riccardo Neri (Torino) 23, Stefano Vernuccio (Vattaro) 3, Paolo Frigoli (Coccaglio) 1, Grazia Honegger Fresco (Varese) 8, Egle Medri (Forlì) 5, Maurizio Mauri (Mantova) 5, Massimiliano Pilati (Bologna) 1, Tiziana Valpiana (Verona) 6, Pierlorenzo Emiliani (San Marino) 8, Tiziano Cardosi (Firenze) 10, Mario Martini (Perugia) 1, Ferruccio Petrucci (Ferrara) 1, Luigi Casanova (Cavalese) 3, Renato Campagnaro (Cittadella) 1, Guido Lamberti (Torino) 30, Elvira Posocco (Vittorio Veneto) 1, Italo Stella (Clusone) 3, Silvana Cortinovis (Chiuduno) 3, Gerardo Orsi (Firenze) 3, Sara Melauri (Firenze) 1, Alberto L’Abate (Firenze) 2, Attilio Belloni (Montecalvo) 2, Francesco De Luca (Catania) 1, Roberto Bassi (Lodi) 5, Roberto Allegrini (S.Pietro Incariano) 1, Eros Tommasi (Sasso Marconi) 3, Maurizio Lonardi (S. Martino Buon Albergo) 4.

Totale parziale: 284 mattoni (=L. 2.840.000)

Totale complessivo: 2.268 mattoni (=L. 22.685.000)

Làscito di Walter Paolo Caliari (Verona) 6.321 mattoni (L. 63.215.000)
Conclusione della Campagna Mattoni per la Pace: L. 85.680.000

Un grazie grosso così a tutto coloro che hanno contribuito, e anche a coloro che avrebbero voluto farlo, ma per i più svariati motivi non hanno potuto. In fondo quello che conta è il pensiero…

Di Fabio