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Azione nonviolenta – Gennaio-Febbraio 1998

DiFabio

Feb 7, 1998

Azione nonviolenta gennaio febbraio 1998

Le annate di «Azione nonviolenta» 1964-2004 sono state digitalizzate per iniziativa del Centro Studi Sereno Regis, nell’ambito del progetto «CoBis Digital Library & Archives», portato a termine nel 2019 da 17 enti del CoBis (Coordinamento delle Biblioteche Speciali e Specialistiche di Torino), con la Biblioteca Civica Centrale di Torino quale ente capofila.

Consulta il .pdf

– 1948 – 1988: Gandhi cinquant’anni dopo, di Mao Valpiana
– Gandhi, la nonviolenza e il nazionalismo, di Fulvio Cesare Manara
– La pace e il disarmo come ideali politici, di Carlo Cassola
– La capacitazione in Dolci, Weeks e Galtung, di Giovanni Scotto
– Hocu kuci – voglio tornare a casa, di Staša Zajovic
– Globalizzazione, ovvero com’e’ piccolo il mondo, di M. Luisa Terzariol
– I Veda, sacre scritture indù, di Claudio Cardelli

RICORDARE IL MAHATMA SERVENDO LA NONVIOLENZA

1948-1998: Gandhi, cinquant’anni dopo…

di Mao Valpiana

30 gennaio 1948, Gandhi muore assassinato.

Non aveva partecipato ai festeggiamenti per l’indipendenza indiana, dopo averla conquistata con il satyagraha (la forza della verità), perché non accettò la separazione tra India e Pakistan e non gli venne perdonata la sua azione per la riconciliazione tra indù e musulmani.

30 gennaio 1988, si celebra il 50° anniversario.

Oggi in India Gandhi è considerato il padre della patria, nel mondo intero è considerato il padre della nonviolenza. Nell’uno e nell’altro caso il rischio è quello di farne un santo, un eroe, un simbolo, un mito. Gandhi, invece, nel corso di tutta la sua azione sociale e politica si è sempre sforzato di far capire che ciò che lui ha fatto poteva farlo chiunque altro, che “la verità e la nonviolenza sono antiche come le montagne”. La novità emersa con Gandhi consiste nell’aver saputo trasformare le nonviolenza da fatto personale a fatto pubblico, da scelta di coscienza a strumento politico: con Gandhi la nonviolenza non è più solo un mezzo per salvarsi l’anima, ma diventa un modo per salvare la società. La nonviolenza è sempre esistita, presente in tutte le culture e in tutte le religioni, nei sacri testi della Bibbia e del Corano, nella Bhagavad Gita e nell’Upanishad. E’ stata incarnata da Buddha e da Maometto, da Giovanni Battista e da San Francesco. Ma è con Gandhi che la nonviolenza diventa un’arma di straordinaria potenza per liberare le masse oppresse. Il Mahatma ci ha fatto scoprire che la nonviolenza è insieme un fine ed un mezzo, che per abbracciare e farsi abbracciare dal satyagraha ci vuole fede, pazienza, sacrificio, dedizione, addestramento. Grazie a lui oggi possiamo utilizzare la teoria e la pratica della nonviolenza per tante battaglie di giustizia e libertà, in ogni parte del mondo.

Gandhi è stato un grande innovatore, è stato l’uomo che ha riscattato il ventesimo secolo che altrimenti sarebbe rimasto alla storia solo per gli orrori della guerra mondiale, per l’olocausto nei campi di sterminio. Gandhi e non Hitler è l’uomo simbolo del ‘900: un grande auspicio per il nuovo millennio. Lo dobbiamo a Gandhi se oggi i premi Nobel per la pace si appellano al mondo affinchè il 2000 sia dichiarato l’anno della nonviolenza.

“Se posso dirlo senza arroganza e con la dovuta umiltà, il mio messaggio e i miei metodi sono validi, nella loro essenza, per il mondo intero; ed è motivo di viva soddisfazione per me sapere che hanno già suscitato mirabile rispondenza nel cuore di un grande e sempre crescente numero di uomini e donne dell’Occidente”.

La lezione di Gandhi ha suscitato molti proselitismi, in ogni parte del mondo. Dal Sudafrica al Chiapas, dalla Birmania al Tibet, così come in Europa e in America Latina, ovunque sappiamo di iniziative e progetti che si muovono nello spirito della nonviolenza gandhiana.

Vi sono gruppi o popoli che lottano per i loro diritti ispirandosi alla forza attiva del satyagraha. Ma vi sono anche coloro che si richiamano strumentalmente all’esperienza di Gandhi, per dare una patente di legittimità a progetti e obiettivi altrimenti impresentabili.

“Il più grande onore che i miei amici possono farmi è attuare nella loro vita il programma che io sostengo, od opporvisi con tutte le forze se non vi credono”.

Da parte nostra cerchiamo di sostenere il programma di Gandhi anche con l’impegno culturale e politico. Gandhi non ha mai voluto definire compiutamente un sistema della nonviolenza, perché preferiva un approccio pragmatico, tant’è che ha voluto intitolare la sua autobiografia “Storia dei miei esperimenti con la verità”.

Il mondo è solo all’inizio dell’esplorazione delle potenzialità della nonviolenza e noi crediamo che essa sia una prospettiva indispensabile per il futuro dell’umanità.

Azione nonviolenta proporrà per tutto il 1998 articoli di approfondimento sul pensiero e l’attualità di Gandhi. Proseguire negli esperimenti con la verità e sul cammino della ricerca nonviolenta ci sembra il modo migliore di celebrare il 50° di Gandhi.

Appello per l’Algeria

In Algeria non stiamo solo assistendo a un’altra tremenda guerra contro i civili portata avanti da forze oscurantiste e totalitarie cresciute all’ombra, e nella connivenza, di un regime antidemocratico e corrotto, ma anche al diffondersi di un nuovo crimine che per odiosità eguaglia quelli del razzismo: l’uccisione di donne e bambini per motivi teologico-politici. È un crimine che non chiama in causa la religione in sé né una religione in particolare, ma il fanatismo di chi, in nome dell’Essere Supremo, fa strage di inermi, con modalità atroci dalla forte valenza simbolica e rituale e con l’obiettivo politico di prendere il potere: sulle anime con il terrore e sulle città con il disordine. L’Europa, che nella sua storia ha fatto esperienza degli orrori commessi in nome della presunta superiorità di una religione, di una razza, di una classe, o di una nazione, deve esigere che tali crimini siano riconosciuti internazionalmente come “Crimini contro l’umanità”, e perciò dichiarati imprescrittibili.

La storia recente e passata mostra quanto le motivazioni celesti possano spesso dissimulare sordidi interessi terreni e condotte mafiose o poliziesche. Ragione di più per esigere che ogni autorità morale, religiosa e politica sconfessi e condanni urbi et orbi solennemente e in linea di principio qualsiasi assassinio in nome di Dio. Ci sono parole che salvano.

Una pace vera potrà nascere in Algeria solo se avrà a fondamento il rigetto assoluto della guerra terroristica contro i civili. Chiediamo infine che l’Europa sostenga i democratici algerini la cui resistenza ha fatto fallire, per ora, il progetto totalitario dei terroristi islamisti. Ne va della loro vita, ne va della nostra sopravvivenza.

Primi firmatari

Marek Edelman, Selim Beslagic, Daniel Cohn Bendit, Paolo Flores D’Arcais, Dario Fo, Lisa Foa, Vittorio Foa, Chiara Frugoni, Carlo Ginzburg, André Glucksmann, Wlodek Goldkorn, Margherita Hack, Gustaw Herling, Jacek Kuron, Fabio Levi, Lea Melandri, Adam Michnik, Ernesto Olivero, Adriano Prosperi, Franca Rame, Peter Schneider, Clara Sereni, Giuliana Sgrena, Adriano Sofri, Gianni Sofri, Barbara Spinelli, Antonio Tabucchi, Gianni Tamino, Gianni Vattimo.

Per adesioni: Parigi – fax (+33)142467116;

Una Città (FO) – fax (+39)54330421;

Pro Europa (BZ) – fax (+39)471977691;

Circolo Culturale Montesacro (Roma) – fax (+39)686899243;

Cisa (Roma) – fax (+39)66864640.

 

 

Di Carlo Cassola

Trent’anni fa un fanatico induista uccise Gandhi. Scompariva così colui che Einstein avrebbe definito l’uomo politico più importante del nostro tempo.

Einstein questo giudizio lo formulò a metà del secolo, due anni dopo la morte di Gandhi. Oggi che ci siamo inoltrati un bel po’ nella seconda metà del Novecento, dobbiamo riconoscerne la giustezza. Le figure degli altri statisti, anche dei maggiori, Lenin, Trotzkij, Wilson, Roosevelt, Churchill, si sono appannate e hanno perso d’interesse per le nuove generazioni; la stella di Gandhi non soltanto non è tramontata, è salita in alto e dal mezzo del cielo abbiamo l’impressione che ci indichi la strada.

Se leggiamo le sue pagine, siamo colpiti dalla loro freschezza. Siano state scritte anche cinquant’anni fa, non sono invecchiate. Ricordo le parole di Carlo Levi a proposito dell’Autobiografia di Nehru, tradotta in italiano quasi un quarto di secolo fa: “È la prima volta che un politico da l’impressione di essere un uomo”. Avrebbe anche potuto dire: è la prima volta che un politico dimostra di essere un poeta. Gandhi si considerava discepolo di un uomo che, oltre ad essere un grande politico, è un grandissimo poeta, forse il massimo poeta moderno: Leone Tolstoj. Non sorprende quindi che gli scritti politici di Gandhi non siano aridi come in genere questo tipo di letteratura, ma al contrario, vi si rintracci uno straordinario fervore immaginativo.

Da bambino vidi una volta Gandhi, a Roma, durante una sua visita in Italia. La vista di quell’uomo piccolo, macilento, con gli occhiali, mi deluse profondamente. Avevo immaginato il campione della riscossa indiana come un novello Sandokan, col turbante, gli occhi lampeggianti e la barba a due punte.

Io ero un bambino e quindi potevo essere giustificato dall’età; ma i grandi che si comportano come bambini non sono giustificati da niente. Il loro infantilismo li porta a disprezzare Gandhi con la sua dottrina della “forza della verità” e della “nonviolenza”. Essi pensano che le buone cause possono farsi largo solo a colpi di arma da fuoco. È l’infantilismo generale che ha impedito al sogno di Gandhi di diventare realtà: anche nella sua stessa patria.

Egli non sognava solo l’indipendenza indiana. Questo per lui sarebbe stato solo il punto di partenza, la condizione necessaria perché potessero trionfare altre cose. La nascita della nazione indiana avrebbe dovuto essere qualcosa di assolutamente diverso dalla nascita delle altre nazioni. Egli fece in tempo ad essere crudelmente deluso: vide le città e i villaggi insanguinati dalla lotta insensata tra indù e musulmani. Si adoprò per far cessare quelle stragi e, come indù, considerò colpevole soprattutto la propria parte. Questo gli procurò l’odio dei fanatici: uno dei quali mise fine ai suoi giorni.

Se fosse vissuto, Gandhi ne avrebbe viste di peggio. Avrebbe visto l’india ripercorrere la strada degli Stati sovrani armati ed entrare in guerra col Pakistan e con la Cina per futili rivalità di confine.

La guerra tra India e Pakistan fu particolarmente turpe. Dopo pochi giorni i due contendenti erano esausti: avevano gettato nella fornace tutto quanto possedevano in fatto di armamento e di equipaggiamento militare: carri armati, artiglierie, aerei da combattimento. Che dovevano essere costati un occhio della testa a Paesi afflitti da gravissimi problemi sociali come la fame e l’analfabetismo!

Gandhi, dunque è uno sconfitto come Trotzkj, come Wilson, come lo stesso Lenin. Gli è riuscito sì far conquistare l’indipendenza al suo Paese, dopo una lotta quasi trentennale contro gl’inglesi, ma non era quello il suo scopo principale. La stessa vittoria contro i colonialisti non è una dimostrazione della bontà del metodo nonviolento, ma si presta a un’amara considerazione. Gandhi poté aver ragione degli Inglesi usando l’arma della disobbedienza civile perché aveva davanti un avversario ragionevole. Ma se avesse avuto davanti un avversario irragionevole come i nazisti?

Sappiamo bene che i fascisti disprezzavano chi non si opponeva loro con la violenza. Essi erano subito pronti a scambiare l’ostruzionismo nonviolento con la debolezza.

Per cui fu giusto combatterli con le loro stesse armi. Ma io vedo una parentela, non un’opposizione tra i due tipi di lotta. Un medesimo idealismo accomuna i membri della resistenza (violenta) al nazismo in Europa e i membri della resistenza nonviolenta agl’inglesi in India.

È l’idealismo che dobbiamo difendere, tutti insieme, contro i miopi cultori della Realpolitik. La differenza tra loro e noi è una differenza di fondo; quella tra violenti e nonviolenti no. In che consiste questa differenza di fondo? Nel fatto che loro i sedicenti realisti, credono che la politica debba adeguarsi alla realtà dominante; mentre per un idealista la politica dev’essere lo strumento che permette a una realtà emergente di diventare dominante. “L’utopia di oggi è la realtà di domani” diceva Victor Hugo. Ciò che oggi può sembrare utopistico, domani può diventare realtà. E lasciare con un palmo di naso i fautori della Realpolitik.

Qual è l’utopia che oggi aspira a venire alla luce? Quella della pace perpetua. Per raggiungere quest’obiettivo, bisogna cominciare col distruggere gli armamenti. Giacchè (è ancora Victor Hugo a insegnarcelo) “le guerre hanno tutte pretesti varii, ma hanno sempre la stessa causa: l’esistenza delle forze armate. Togliete di mezzo le forze armate, e toglierete di mezzo la guerra”.

Semplice, no? Ma proprio per questo, difficilissimo a fare. Perché? Perché si scontra con l’ostilità degl’indottrinati, in quanto distruggerebbe le complicazioni delle quali vivono. “Il comunismo è la cosa semplice che è difficile fare”. Lo diceva Brecht. La stessa cosa può dirsi di tutte le cose importanti: la poesia è la cosa semplice che è difficile fare, la politica è la cosa semplice che è difficile fare. “Il disarmo unilaterale dell’Italia è l’uovo di Colombo” mi diceva un amico. Già: le proposte serie, essendo semplici, fanno sempre quest’impressione.

Che cosa proponeva Gandhi? Il satyagratha, cioè la forza della verità e l’ahimsa, tradotta magistralmente da Aldo Capitini con la parola nonviolenza. Quella particella non può far credere che si tratti di un semplice momento negativo. Allo stesso modo che la particella anti, al tempo del fascismo, poteva far pensare a un’opposizione non costruttiva. Ma come costruire qualcosa se prima non si distruggeva il fascismo?

Non dimentichiamo, per carità, che la forza di rinnovamento, vale a dire la sinistra, ha prima di tutto il compito di distruggere il vecchio: spesso anzi il suo compito è solo quello. Non facciamoci fermare, per carità, dal problema di ciò che verrà dopo. È un falso problema: dopo, verrà per forza qualcosa: distrutto il vecchio, ne prenderà inevitabilmente il posto il nuovo. L’antico regime apparve improvvisamente un insieme di mostruosità ai francesi, che lo avevano sopportato per secoli: tra il 1789 e il 1790, la Costituente lo distrusse. E che lo si dovesse distruggere, è ormai ammesso da tutti.

Gandhi fu l’erede spirituale di Tolstoj. Chi furono a loro volta i suoi eredi? Secondo me, soprattutto Einstein e Russell, che nel 1955 dichiararono: “O l’umanità distruggerà gli armamenti, o gli armamenti distruggeranno l’umanità”.

Il dilemma davanti a cui si trova oggi il mondo non poteva essere enunciato con maggior efficacia. Così l’aspirazione alla pace di Gandhi trova il suo specifico strumento di lotta: l’antimilitarismo.

Questa lotta deve risultare vincente a ogni costo, altrimenti il mondo salta in aria. Per cui ai nonviolenti, che sono gli eredi diretti di Gandhi ma che costituiscono solo gruppi sparuti, devono affiancarsi le masse, che non hanno rinunciato all’idea della violenza ma detestano il piccolo cabotaggio imposto dal sedicente realismo politico.

Dal “Corriere della sera” del 28 gennaio 1978

 

Proseguire il lavoro di Danilo Dolci
La Capacitazione in Weeks e Galtung

di Giovanni Scotto

Le riflessioni che seguono sono nate dall’incontro con diverse persone che molto hanno contribuito alla pace. Già da tempo avevo pensato di condividere alcune riflessioni avviate dalla conoscenza diretta di questi maestri intorno alla categoria cruciale della capacitazione (empowerment), della conquista del potere di cambiare. Purtroppo, la scomparsa di Danilo Dolci dà un accento triste a quello che volevo dire. E credo che il miglior modo per ricordare Danilo sia quello di rifuggire dalla commemorazione e parlare come lui – ancora una volta – delle possibilità di trasformare noi stessi, la società e il mondo.

Struttura della capacitazione

Parto proprio da una riflessione di Danilo Dolci, durante un seminario alla Casa per la Nonviolenza di Verona nel giugno del 1995: una lingua possiede parole preziosissime che altre lingue non hanno – la parola “valorizzare” in altre lingue non esiste, indice di una mancanza fondamentale. Poter dire “valorizzare una persona” significa poter pensare la possibilità di educare la persona a esprimere tutto il proprio potenziale!

Naturalmente, altre lingue possiedono termini che l’italiano non ha. E infatti qualche tempo prima avevo incontrato una parola inglese che mi era subito sembrata importante: empower, letteralmente “dare potere, potenziare”, ed il sostantivo empowerment.

Nelle lingue neolatine si è diffusa da qualche tempo la parola capacitazione, che coglie il senso profondo del termine.

La capacitazione è un processo in cui persone o gruppi che si trovano in una situazione di impotenza apprendono modalità di pensiero ed azione che permettano loro di agire in maniera autonoma per soddisfare i propri bisogni fondamentali e incamminarsi lungo un processo di sviluppo: chi non aveva potere lo acquisisce, o meglio scopre di possederlo.

Il fascino della parola empowerment risiede secondo me nel suo carattere concretissimo: eravamo impotenti, deboli e disorientati, ora conquistiamo il potere di determinare da soli il corso dei nostri destini. Non solo: questo processo può essere facilitato da persone o gruppi già esperti, che sono in grado di capacitare altri senza dominarli.

Ad ogni dottrina politica, sistema di idee, persona pubblica (politico o intellettuale) possiamo rivolgere questa domanda: ci offre una capacitazione, un maggior potere di affrontare la nostra concreta situazione di vita? E, se sì, in cosa consiste concretamente questa capacitazione?

Proviamo a rivolgere questa domanda ai tre maestri Johan Galtung, Dudley Weeks e Danilo Dolci. Dolci è stato uno dei più grandi riformatori sociali ed educatori dell’Italia di questo secolo. Galtung è uno dei padri fondatori della ricerca sulla pace, autore prolifico di libri ed articoli, infaticabile insegnante e viaggiatore: a lui dobbiamo innumerevoli spunti teorici di grandissimo interesse (basti pensare alle nozioni di violenza strutturale e culturale, alle teorie sull’imperalismo, alla ricostruzione dell’agire nonviolento di Gandhi). Dudley Weeks, poco conosciuto in Italia, è un mediatore e formatore degli Stati Uniti, che ha lavorato in molti paesi, in particolare nella transizione nonviolenta in Sudafrica e ha elaborato un approccio costruttivo chiamato conflict partnership (“cooperazione nel conflitto”: Weeks 1995).

Galtung: jazz del pensiero e scoperta delle strutture

È impossibile riassumere in poche righe il contenuto della sterminata opera intellettuale di Galtung. Qui vorrei anzitutto portare l’attenzione sul suo stile. Due parole che frequentemente ricorrono nei suoi scritti sono “eclettico” e “globale”: da un lato lo studioso norvegese ci tiene a non rinchiudersi mai nel recinto di una verità o di una scuola, ma “forza” sempre il suo discorso intellettuale a ricomprendere tradizioni e punti di vista diversi, aspirando a descrivere i fenomeni nella loro globalità.

Nel fare questo, il suo stile ricorda la musica jazz: Galtung prende un tema, lo estende, “improvvisa” basandosi su conoscenze vastissime e metodologie sempre diverse, si fa ispirare da altri campi del sapere (la chimica, la biologia, l’arte medica), arricchendo e trasfigurando la melodia di base. Il suo primo contributo alla capacitazione è senza dubbio l’indicazione di pensare a possibilità sempre nuove, tentare nuove fecondazioni incrociate, nuovi livelli di complessità nell’esame dei fenomeni.

Galtung dà grande importanza alla creatività dell’impresa intellettuale. Sul momento iniziale della ricerca scientifica: “… la prima cosa da fare quando un problema comincia a bruciare dentro è non leggere la letteratura al riguardo… Perché, se si comincia con tutta la letteratura, si rimarrà paralizzati…. Si penserà sempre che c’è ancora da leggere il libro tale o l’articolo tal altro… Così, è meglio cominciare buttando giù per iscritto i propri pensieri. Ognuno ha il proprio stile. Spesso le ore più strane sono le migliori – all’alba, o a notte fonda… finché la febbre dura – perché è una febbre per davvero – fanne buon uso. Sentirai che i pensieri vengono facilmente, ti sembrerà di essere trasportato da loro…” (Galtung 1979).

L’appello di Galtung all’eclettismo e alla creatività mi sembra un ottimo viatico per chiunque si occupi di ricerca – studente, docente, o attivista che vuole comprendere il mondo per cambiarlo. Soprattutto a quest’ultima categoria è d’aiuto il secondo grande contributo che vorrei sottolineare qui: la costante attenzione prestata alle strutture, alle connessioni persistenti e spesso invisibili tra fenomeni sociali apparentemente eterogenei. Con la categoria della violenza strutturale (ispirata anche da Gandhi) Galtung ha permesso al pacifismo di fare un grande passo in avanti: non si trattava più solo di lottare contro gli eserciti e il riarmo, ma anche contro determinati rapporti sociali generatori di povertà ed oppressione (Galtung 1975).

Weeks: “attrezzi” per la risoluzione dei conflitti

L’approccio di Dudley Weeks è decisamente orientato alla pratica. Weeks è insieme mediatore e formatore. La sua capacità di presentare e di far mettere in pratica alcuni “attrezzi” di base per la risoluzione dei conflitti permette a chi partecipa ai suoi seminari di affrontare i conflitti che vive con una nuova fiducia nella loro soluzione. Weeks propone alcuni “passi” fondamentali per affrontare e risolvere i conflitti in maniera costruttiva (Weeks 1992, 1995):

curare anzitutto che l’atmosfera dell’incontro inviti al dialogo costruttivo;
verificare sempre con cura le percezioni delle persone coinvolte nei conflitti: la percezione di sé e dell’altro, dei propri e degli altrui valori, interessi, bisogni; la percezione del problema particolare che si ha di fronte e della relazione nel suo complesso;
individuare, al di là delle rivendicazioni rigide, i bisogni individuali ed in particolare i bisogni condivisi di tutte le persone coinvolte;
“rileggere” il passato come insegnamento per una futura migliore relazione, e non per distribuire colpe; agire nel presente pensando al futuro;
sviluppare il “potere-insieme”, abbandonando l’idea che la soddisfazione dei nostri bisogni passi per la dominazione sull’avversario;
identificare nuove possibili opzioni per risolvere il problema concreto e migliorare la relazione tra le parti in conflitto;
identificare doables, concreti passi praticabili per affrontare alcuni aspetti cruciali del conflitto, mettendo in moto il circolo virtuoso della cooperazione e della fiducia;
giungere ad accordi complessivi che siano soddisfacenti per entrambe le parti e che pongano le basi per una migliore relazione nel futuro.

La capacità di risolvere i conflitti concreti ha un impatto potentissimo sulla possibilità di mobilitazione per il cambiamento sociale. Anzitutto la risoluzione nonviolenta dei conflitti insegna che esistono soluzioni ai conflitti dove “tutti possono vincere”, dove anche gli avversari di oggi possono diventare partner di domani. In secondo luogo, la capacità di risolvere dissensi e contrasti in maniera costruttiva permette di superare le lacerazioni inevitabili tra coloro che lavorano per la trasformazione. Da sempre il divide et impera è stata una delle tattiche più efficaci usate dai poteri costituiti per evitare che qualcosa cambiasse e la risoluzione dei conflitti è un antidoto potente contro questa tattica.

Dolci: la capacitazione della struttura maieutica

L’idea della capacitazione unisce due fuochi delle riflessioni di Danilo Dolci: il concetto di valorizzazione – a cui ho accennato – e il potere.

Per Danilo è essenziale distinguere in maniera nettissima tra potere e dominio: “Le espressioni potenziale, potenziare indicano nella direzione di avere la facoltà, aver vigore ed efficacia, concreta possibilità di fare, forza, virtù, capacità di produrre o subire mutamenti. Impotente può significare non fertile.

La confusione, o peggio, l’identificazione tra potere e dominio non sorprende in certi bassifondi ma diviene perniciosa quando emana dai dotti delle Università…” (1988, p. 39). Ci troviamo di fronte alla frattura fondamentale nel pensiero politico: la riduzione del potere a dominio distingue il pensiero di Hobbes, Carl Schmitt, Max Weber e di tanta politologia contemporanea (tra i tanti Nevola 1994). In senso contrario, individuando il potere nella capacità degli uomini di cooperare, si muove il pensiero di Hannah Arendt (1983) e la tradizione della nonviolenza (Sharp 1985).

Per Dolci la capacitazione significa costruire un potere di cambiare estraneo alle logiche del dominio: questo è possibile solo instaurando rapporti di comunicazione autentica tra le persone.

La struttura maieutica è per Dolci la quintessenza della capacitazione: si tratta di un rapporto tra le persone in cui tutti partecipano attivamente ed hanno la possibilità di crescere, di apprendere.

Ogni essere umano riesce a comunicare e a conoscere in maniera profonda non appena si ritrova in una struttura comunicativa che ne favorisce la creatività. La struttura maieutica si rivela uno strumento fondamentale per potenziare le persone ad aprirsi e ad organizzarsi per cambiare. Non si tratta di un ideale per chissà quando, ma di una concreta esperienza educativa, sociale e politica – anche poetica: una esperienza sempre possibile, per tutti.

L’opera di Danilo Dolci – poeta, educatore, agente di trasformazione sociale – presenta una profonda unità. E forse proprio questo senso di unità è l’aspetto più sorprendente della sua esperienza: “Alla vecchia mente è arduo compenetrare poesia, educazione, rivoluzione nonviolenta ed ecologia fino a fonderle in una nuova realtà prospettica” (1988 p. 193).

Conclusioni

Galtung, Weeks, Dolci privilegiano diverse strade alla capacitazione. Per tutti è essenziale indicare nuove vie alla pace e alla trasformazione dei conflitti. Diversi sono gli accenti – conoscenza, azione, comunicazione – e diversissimi sono gli stili educativi: il libro e la lezione universitaria, il training, la struttura maieutica. Ciascuna di queste vie merita di essere percorsa, ci indica possibilità di sviluppo, ispirazioni per il pensiero e per l’azione. Alla fine di questa breve carrellata, proprio Danilo Dolci sembra indicare la via maestra per comprendere gli sforzi alla capacitazione in una nuova sintesi creativa.

Bibliografia

Arendt, Hannah (1983), Sulla rivoluzione, Milano: Edizioni di Comunità.

Dudley Weeks/ Giovanni Scotto/ Arno Truger (1995), Cooperazione nel conflitto. Un modello di formazione al peacekeeping e al peacebuilding civile, Quaderno DPN n. 28, Torre dei Nolfi: Qualevita.

Sharp, Gene (1985), Politica dell’azione nonviolenta. 1. Potere e lotta, Torino: Edizioni Gruppo Abele.

Galtung, Johan (1979), “On the structure of creativity”, in: Papers on Methodology. Theory and Methods of Social Research – Volume II, Copenhagen: Christian Ejlers.

Galtung, Johan (1975), “Violence, peace and peace resarch, in: Peace: Research – Education – Action. Essays in Peace Research Vol. I, Copenhagen: Christian Ejlers.

Weeks, Dudley (1992), The Eight Essential Steps for Conflict Resolution, Los Angeles: Tarcher.

Nevola, Gaspare (1994), Conflitto e coercizione, Bologna: Il Mulino.

Dolci, Danilo (1988), Dal trasmettere al comunicare, Torino: Sonda.

 

Non esiste il silenzio
Omaggio alle idee che sanno nuotare

Ho ricevuto da un amico amato la memoria di Danilo Dolci, ed ho acquistato in modo del tutto fortuito un suo scritto in un metà-prezzo di un’altra città, un mese prima della sua morte. È una copia di “Non esiste il silenzio” edita da Einaudi nel ‘74. Potrei dire: “una vecchia edizione”, trattandosi di quasi 25 anni fa – la mia età, all’incirca, e un tempo sufficiente per doppiare di molto la permanenza di molti saggi sui banchi dei librai.

Ho completato la lettura nei giorni della morte dell’autore e vorrei riferire un ascolto partecipe ed emozionato per il calore e la contemporaneità degli scritti che vi sono raccolti. Non sono ‘suoi’, poiché il volume raccoglie le trascrizioni di alcune riunioni risalenti, parte al ‘62, nel quartiere di Spine Sante a Partinico, e parte al ‘72, in una sorta di ‘campo scuola’ cui partecipavano circa 20 ragazzi siciliani di età tra i 9 e i 14 anni.

I temi sono importanti, riguardano il dolore e la gioia, il silenzio, il diritto di uccidere, il diritto di battezzare, la speranza, il progresso …

Quello che a me ha colpito è stato, nell’atteggiamento di Danilo Dolci per come traspare dal testo, la disponibilità all’ascolto e il tentativo di valorizzare il contributo di tutti al di là dell’età, della formazione personale e culturale, perfino dell’essere o meno in accordo con quanto veniva espresso.

Poi mi ha colpito come le persone intorno mostravano di volergli bene e, soprattutto i ragazzi, di sentirsi partecipi di un’esperienza importante, che presto avrebbe dato dei frutti.

Ancora, mi è piaciuto che la narrazione fosse vivace, sbriciolata, qua e là sporca di dialetto, e trasmettesse l’impressione di poter incontrare i diversi protagonisti nonostante il testo fosse in gran parte una traduzione, dal siciliano all’italiano. (Questo rispetto della lingua e del contesto, credo dica già molto dell’atteggiamento che può aver retto queste esperienze di riflessione e di azione).

Per ultimo, è stato bello rintracciare nella crescita del gruppo gli scatti, i momenti di crescita e quelli di ribellione, i punti critici in cui le persone imparavano a conoscersi, a contrapporsi con rispetto, a discutere dall’astratto al concreto. Sul dovere di non uccidere ad esempio tutti erano d’accordo per principio, ma se poi si toccavano le questioni dell’onore… dell’infedeltà… E però il gruppo ci arrivava, ad affrontare queste faccende, aveva sincerità e forza sufficienti per avvicinarsi alle proprie disgregazioni e debolezze.

Ad un certo punto Mimiddu dice press’a poco che non basta continuare ad incontrarsi per sé, bisogna che quell’esperienza serva agli altri, che abbia la possibilità di incidere davvero. E allora la riunione successiva viene destinata a stabilire che cosa è possibile fare insieme per portare un cambiamento. Così anche chi è, come me, lontano dalla militanza sociale o politica vera, ritrova l’emozione di idee che hanno una loro forza, di idee che ‘sanno nuotare’ – e di un qualche ‘insieme’ che può dire delle cose dentro la vita della gente.

Io queste cose le ho pensate prima per Capitini, per i miei amici nonviolenti, per don Lorenzo Milani, e grazie alla vostra rivista. Non voglio costruire un monumento a Danilo Dolci; se è un monumento giusto dovranno erigerlo altri, le molte persone importanti della vita sociale e culturale italiana che conservano il ricordo di lui e del suo pensiero. Dico invece che mi sembrano pochi, per lo meno nella realtà che conosco, gli spazi in cui è possibile seriamente fare delle cose insieme con altri – le oscillazioni vanno dall’indifferenza al parlarsi addosso. E incontrare, seppure casualmente – e la casualità è motivo di rammarico – personaggi come quelli citati mi dà da pensare. Come “mi diamo” da pensare tutti noi, adolescenti degli anni Ottanta e ora adulti all’incirca, che di tutto questo non sappiamo niente. E contemporaneamente i tentativi embrionali che osservo, ad esempio nel mondo della scuola, in cui lavoro, di mettere l’accento sulla comunicazione (buon esempio di parola passe-partout completamente svuotata), di trasformare il gruppo classe – di nuovo, in qualche modo, “l’insieme” – in esperienza educativa, inventando regole e risultati che c’entrino con la crescita delle persone e che invece sono, ahimè, spesso esclusivamente formali.

Non mi piace, in me e in molti coetanei, la mancanza di curiosità e attenzione per quello che va al di là del nostro naso, l’assenza di consapevolezza. Forse, mi dico – e di nuovo penso anche al ruolo della scuola -, la memoria sgretolata è possibile ricompattarla partendo da tempi vicini, attorno ad esperienze che ancora respirano e che hanno qualcosa a che vedere con noi. Il resto della ‘Storia’ l’abbiamo lasciato inchiodato sui libri, si ferma troppo indietro, non sappiamo dialogarci. Anche riguardasse appena i nostri nonni. È colpa anche nostra, certamente, se ci lasciamo portare via – ma è molto veloce la giostra, e troppo rari i tempi in cui poterla ripercorrere, ad un ritmo più lento.

Elena Ferrara

MAESTRI DEL PENSIERO INDIANO/1
I Veda, sacre scritture indù

Di Claudio Cardelli

Fin dalla preistoria molte popolazioni, di razze diverse, si stanziarono in India, in particolare nelle terre bagnate dall’Indo e dal Gange, dove fiorirono antiche civiltà. Intorno al 1500 a.C. nuovi invasori penetrarono nel territorio indiano attraverso i paesi del nord-ovest: erano gli Arii, un ramo della grande famiglia Indo-Europea, che comprende anche i Greci, i Romani, gli Iranici, i Germani, gli Slavi.

Dalla distinzione tra gli Arii dominatori e gli aborigeni assoggettati sorse il sistema delle caste indiane: 1) bramani (i sacerdoti); 2) guerrieri o nobili; 3) mercanti, agricoltori e allevatori; 4) servi. Questi ultimi furono probabilmente i dravidici di pelle scura, resi schiavi dai bianchi Arii (come attesta il fatto che in sanscrito, la lingua degli Arii, “casta” si traduce varna, termine che alla lettera significa “colore”). Oltre alle quattro caste menzionate, seguivano i fuori-casta, i cosiddetti “intoccabili”.

I Veda

I bramani elaborarono in un lungo periodo (tra il 1800 e l’800 a.C.) un insieme di inni e testi religiosi, che venivano tramandati a memoria da maestro a discepolo: i Veda (conoscenza), che gli Indù venerano come sacre scritture, rivelate agli antichi veggenti. Con il termine Veda si designano complessivamente quattro raccolte: 1) Rig-Veda, che è il testo più antico, composto da oltre mille inni indirizzati a varie divinità; 2) Samaveda, o Veda dei canti, tratti in gran parte dal Rig-Veda, ma diversamente disposti, secondo esigenze di recitazione e di notazione musicale; 3) Yajurveda o Veda delle formule rituali; 4) Atharvaveda o Veda dell’atharvan, che si presume fosse in nome di un sacerdote del fuoco, comprendente formule magiche.

La lingua in cui sono scritte queste raccolte è il sanscrito arcaico, notevolmente diverso dal sanscrito classico posteriore, fissato dal grammatico Panini (V-IV sec. a.C.).

La religione vedica

Gli Arii, inizialmente pastori nomadi, erano violenti guerrieri che conoscevano l’uso del cavallo e del ferro. La loro religione consisteva in un politeismo naturalistico, cioè gli dei vedici erano in buona parte divinizzazioni di fenomeni naturali: Surya, il sole, che percorre nel cielo il suo cammino col carro tirato da fulvi cavalli; Usas, l’aurora, con i suoi fratelli, gli Asvin, i due cavalieri celesti, nei quali si potrebbero riconoscere la stella mattutina e quella serale; Vayu, il vento; Agni, il fuoco consumatore del sacrificio degli altri dei, e via dicendo. Particolare rilevo ha Indra, vincitore di innumerevoli nemici umani e demonici, dio del cielo e della tempesta, coadiuvato dai Marut, che cavalcano le nubi e producono tempeste e piogge.

Altre divinità rivelano preoccupazioni di ordine morale, come Varuna, dio sovrano e misterioso, mantenitore dell’ordine cosmico e morale, punitore di chi lo trasgredisce, e Mitra, dio dei contratti e della legalità. Comunque l’uomo vedico, poco interessato alla vita ultraterrena, indirizza i propri desideri verso la vita presente: si augura di vivere a lungo, allietato da buona sposa, numerosi figli e abbondanti greggi.

Nascita della metafisica indiana

Entro il Rig-Veda (Inno X, 129) viene espressa anche l’esigenza di indagare l’origine prima dell’universo, e si affaccia l’idea di un Essere supremo (l’Uno), principio del cosmo e anteriore alla creazione e alla nascita degli dei.

1. Allora non c’era il non essere, non c’era l’essere; non c’era l’atmosfera, ne il cielo che è al di sopra. Che cosa si muoveva? Dove? Sotto la protezione di chi? Che cosa era l’acqua inscandagliabile, profonda?

2. Allora non c’era la morte, ne l’immortalità; non c’era il contrassegno della notte e del giorno. Senza produr vento respirava per propria forza quell’Uno; oltre di lui non c’era nient’altro.

3. Tenebra, ricoperta da tenebra, era in principio; tutto questo universo era un ondeggiamento indistinto. Quel principio vitale, che era serrato dal vuoto, generò se stesso come l’Uno mediante la potenza del proprio calore (Tapas).

4. Il desiderio (Kama) nel principio sopravvenne a lui, il che fu il primo seme della mente. I saggi trovarono la connessione dell’essere nel non essere, cercando con riflessione nel loro cuore.

5. Trasversale fu tesa la loro corda; vi fu un sopra, vi fu un sotto? Vi erano fecondatori, vi erano potenze: sotto lo stimolo, sopra l’appagamento.

6. Chi veramente sa, chi può spiegare donde è originata, donde questa creazione? Gli dei sono posteriori alla creazione di questo mondo; perciò chi sa donde essa è avvenuta?

7. Donde è avvenuta questa creazione, se l’ha prodotta o no, Colui che di questo mondo è il sorvegliatore nel cielo supremo, egli certo lo sa, seppure non lo sa.

(Inni del Rig-Veda, a cura di V. Papesso, Editrice Astrolabio-Ubaldini, Roma).

Sul tema delle origini una risposta più chiara viene fornita dalla posteriore riflessione delle Upanishad: al principio di tutta la realtà è necessario porre l’essere.

Essere soltanto, o caro, in principio era questo universo unico, senza secondo.

Alcuni davvero dicono non-essere soltanto nel principio era questo universo unico, senza secondo; da questo non-essere l’essere nacque.

Ma davvero o caro – disse – come potrebbe essere così? Come dal non-essere l’essere potrebbe nascere? Ma essere solo, o caro, era questo universo nel principio, unico, senza secondo. Esso pensò: possa io diventare molti, possa io generare. Esso emise il calore e il calore pensò: possa io diventare molti, possa io generare. Ed esso emise l’acqua.

(Chandogya Up., VI, 2 – da G. Tucci, Storia della filosofia indiana, Bari, Laterza, 1977, p.49).

Un seminario sul Kossovo

Da vari incontri diretti presso il nostro Ministero degli Esteri sappiamo che i vari governi sono restii ad organizzare una Conferenza Internazionale degli Stati su questo tema perché temono che questa faccia emergere le differenze delle politiche tra gli USA e l’U.E., e tra gli stessi paesi che compongono quest’ultima. Per questo una Conferenza delle ONG che elabori una piattaforma credibile e valida potrebbe servire, almeno così speriamo, come stimolo ai governi ed alle Organizzazioni Governative.

Ma l’iniziativa della Conferenza ONG al Parlamento Europeo, cui sta lavorando la Campagna per una Soluzione Nonviolenta nel Kossovo, dovrebbe essere preceduta da un seminario interno tra ONG che stanno lavorando per prevenire il conflitto e trovare valide soluzioni. In questo seminario si cercherà di elaborare una piattaforma comune da presentare ai rispettivi governi ed alla Comunità Europea ed all’ONU. La Comunità di S. Egidio, Roma, La Transnational Foundation for Peace and Future Research, Svezia, e la Bertelsmann Foundation, Germania, si sono dichiarate disponibili a partecipare al seminario ed a coorganizzare la Conferenza di Bruxelles. Stiamo mandando una lettera di invito e di richiesta di collaborazione a tutte le altre ONG che stanno lavorando in questo settore, ed anche al “Network Europeo per la Prevenzione dei Conflitti” della Commissione Europea, che in un incontro precedente a Bruxelles si era dichiarato interessato a collaborare ad iniziative di questo tipo. La sezione di Bolzano dell’Associazione dei Popoli Minacciati, che fa parte della nostra campagna, si è dichiarata disponibile ad organizzare il seminario in quella regione, ed ha chiesto l’appoggio al governo regionale. La risposta è stata positiva, almeno per la concessione di un contributo economico che non copre però la totalità delle spese. La suddetta sezione sta cercando altre organizzazioni in loco disposte a collaborare e sta chiedendo un appoggio finanziario anche ad altri Enti Locali della zona. Il progetto presentato prevede la copertura dell’ospitalità in loco di circa una ventina di partecipanti (uno per ogni organizzazione invitata), le spese dell’organizzazione dell’incontro (vedi sala ed interpreti), e le spese di viaggio dei partecipanti della Serbia e del Kossovo. Le spese di viaggio dei collaboratori delle varie ONG che decidono di appoggiare l’iniziativa e di partecipare (tranne quella delle due zone citate che sono incluse nel preventivo) dovrebbero essere sostenute da loro stesse. Le date fissate per il seminario, che si terrà a Bolzano in sede da definire, sono: il 27 Febbraio 1998, con inizio alle ore 18, il 28 Febbraio ed il 1 Marzo, con la chiusura all’ora di pranzo. Per le spese di viaggio dei partecipanti serbi ed albanesi sono bene accetti contributi anche da parte di altre organizzazioni, che possono, volendo, anche invitare queste persone in altra sede pagando loro il viaggio, e facendoli poi venire a Bolzano nelle date su indicate.

L’indirizzo dell’organizzazione che sta seguendo il progetto è: Associazione per i popoli minacciati (sezione Sudtirolo), Via Portici, 49, 39100 Bolzano; Tel/Fax: +471/972240; E-Mail: gfbv.bz@ines.org

Alberto L’Abate

Gandhi, la nonviolenza ed il nazionalismo

“L’amore non ha confini. Il mio nazionalismo include l’amore di tutte le nazioni della terra, indipendentemente da qualsiasi credo”. (2 maggio 1935)

di Fulvio Cesare Manara

1. I problemi del principio di nazionalità

Lo studio del pensiero e dell’azione dei “grandi leaders” della nonviolenza è per me non solo una questione di ispirazione, ma soprattutto un esercizio di analisi critica, ed una occasione per affinare gli strumenti con i quali guardiamo al nostro stesso presente. Ci piacerebbe molte volte sentire le loro risposte alle domande che noi ci poniamo oggi, di fronte a certe esperienze di violenza e di intolleranza, di sofferenza, di oppressione, di morte e disumanizzazione. Buona e lodevole intenzione, questa, che può essere risolta però solo attraverso il paziente lavoro di ricostruzione storica del loro pensiero, dello scenario in cui esso era esercitato e delle domande che essi si ponevano, le quali non necessariamente sono le stesse che ci poniamo noi. Così, chiedersi cosa ne pensava Gandhi dei nazionalismi è legittimo, ma la risposta non è di quelle facili, perché chiederebbe un lavoro lungo e paziente, e spazi che eccedono di molto quelli in cui siamo qui costretti. Alla domanda che talvolta mi viene rivolta sul rapporto fra Gandhi e i nazionalismi non so però mai rispondere con un “no comment” categorico. Mi propongo anche qui perciò di presentare brevemente il quadro complessivo in cui va inserito il pensiero gandhiano in merito al tema in questione, e poi di riferire, altrettanto schematicamente, quanto si desume da una prima veloce lettura dei volumi dell’opera del Mahatma, con particolare attenzione a quelli in cui si raccolgono gli scritti relativi agli ultimi dieci anni della sua vita. Cercheremo di lasciare il maggior spazio possibile alle parole di Gandhi, nonché di comprendere quali erano le coordinate secondo le quali Gandhi guardava alla questione delle nazionalità ed al nazionalismo, se e come egli ha affrontato il problema in quegli anni, e quali erano le sue considerazioni in merito.

La prima, essenziale constatazione verte sul significato attribuito da Gandhi alla parola “nazionalismo”. Al nostro orecchio odierno, di uomini degli anni novanta, suona come una brutta parola, con una valenza tendente al negativo. Ci richiama la sanguinosa ed assurda guerra nella ex-Yugoslavia; i duri conflitti in alcune regioni dell’ex-Unione Sovietica; gli scontri etnici e razziali in Africa; lo stesso fenomeno nostrano delle leghe, e via dicendo… Il termine è divenuto sinonimo di egoismo collettivo, di intransigenza e fondamentalismo – insomma, questo termine certo non ha un significato positivo. Non così per Gandhi: per lui, come per i suoi contemporanei e connazionali significava l’obiettivo per cui lottare. Così, prima di procedere oltre, magari incontrando la delusione di chi si aspetterebbe da Gandhi — con una legittima anticipazione — solo parole dure nei confronti di ogni nazionalismo, è opportuno ricordarlo.

Se infatti andiamo a controllare negli scritti gandhiani quali sono i contesti in cui Gandhi usa il termine “nazionalismo” e le parole connesse al concetto (nazione, nazionale, ecc…), scopriamo che esse hanno perlopiù un significato positivo. La lotta degli indiani contro i britannici era condotta appunto in nome della “nazione”, come principio pratico e concreto, che denotava l’appello alla sovranità nazionale ed all’autodeterminazione dei popoli. Proprio in nome della nazione indiana si combatteva l’imperialismo britannico, per il conseguimento dell’Hind Swaraj, ossia dell’autogoverno nazionale indiano. Questo non significa, come vedremo, che Gandhi non presenti opportuni distinguo per identificare ed isolare le ideologie che coltivano aspetti considerati “deteriori” del principio di nazionalità. Ma questa è faccenda di vecchia data, che riguarda intrinsecamente il problema in questione. I termini nazione, nazionalità e nazionalismo — di per sé ambigui e di difficile definizione —sono infatti stati intesi nella loro storia, vale a dire negli ultimi due secoli, almeno in due diverse accezioni, fra loro antinomiche e contrastanti. Inoltre, il nucleo stesso della nozione di nazione e nazionalità è attraversato da una strutturale ambiguità.

Una prima accezione identifica il principio di nazionalità come un diritto dei popoli, il diritto all’autodeterminazione, ed è un significato generalmente ritenuto positivo. La seconda accezione, dominante nell’ultimo periodo del XIX secolo e nella prima metà del XX (almeno nel vecchio continente), è invece parallela al concetto di imperialismo, e sostiene il principio dell’egemonia di una nazione sulle altre. Nella storia successiva alla Rivoluzione francese si possono trovare esempi sia dell’una che dell’altra nozione di “nazionalismo”.

La prima delle due accezioni del “nazionalismo” sopra identificata è quella venuta alla luce nel corso degli ultimi tre secoli in Europa in seguito alle rivoluzioni liberali e democratiche. Essa è fondata sulla cultura giusnaturalistica, e, sebbene il riconoscimento universale del diritto all’autodeterminazione dei popoli sia stato sancito solo nel nostro secolo, è quella che si è imposta in Europa dopo la Rivoluzione francese come uno dei principi guida della politica contemporanea. Il principio “nazionalistico” si è così variamente intersecato più o meno con tutti gli altri principi guida della politica: il liberalismo, la democrazia, il socialismo. Abbiamo in questo modo avuto esperienza di un nazionalismo liberale e di uno democratico, così come di un nazionalismo socialista. Tale nozione, in sé e per sé ambigua, ha, in questa prima accezione, comunque un nucleo meno oscuro, che è quello centrato sulla cultura dei diritti. Il nucleo “forte” della nozione di nazionalismo sembra infatti essere quello guridico e giurisdizionale: il riconoscimento di un diritto dei popoli all’autodeterminazione, ossia a scegliersi il tipo di vita e di governo che credono migliore. Il problema nasce non appena si debba porre il problema di come identificare la comunità soggetto del diritto. In effetti, per tale identificazione è necessario muovere da una tradizione, da una identità storica: il che vuol dire esattamente da un’istanza opposta rispetto a quella razionale e universale emergente dal diritto. Due istanze coesistenti ma contrapposte: da una parte, quella della ragione rivoluzionaria che riconosce i diritti universali, fra cui appunto il diritto dei popoli a disporre di sé stessi, principio “che non ammette altro fondamento all’esistenza delle collettività politiche se non la libera adesione”; e, d’altra parte, quella invece sempre particolare e contingente, che permette di riconoscere un popolo muovendo dalla sua identità storica, secondo il principio di storicità, “che riconosce la legittimità della durata”.

2. A monte della cultura dei diritti, il dovere: il Programma Costruttivo

Per comprendere come Gandhi concepiva il problema nazionale occorre far riferimento alla sua concezione dell’indipendenza dell’India. Per Gandhi lo swaraj è un sistema di autogoverno (self-rule) nonviolento, basato su di un Programma Costruttivo senza il quale il potere politico o l’indipendenza formale si sarebbero rivelati una mistificazione. Tale programma costruttivo è il progetto sociale scelto dai satyagrahi come momento di attuazione delle finalità economiche, sociali e politiche, per estendere dalla dimensione personale a quella sociale il “risveglio della coscienza”. “Qualsiasi lavoro politico doveva rientrare per Gandhi entro il programma costruttivo, e il suo valore poteva essere giudicato solo in termini di duratura trasformazione sociale”. Nell’opuscolo intitolato “Il Programma costruttivo: il suo significato e la sua funzione”, redatto nel 1941, e rivisto strutturalmente quattro anni dopo, prevedeva i seguenti punti cardine:

1) L’unità fra le comunità etniche e religiose;

2) La rimozione dell’intoccabilità: lotta contro la segregazione sociale degli “intoccabili” (che Gandhi chiamò “Harijan”, figli di Dio, per sottolineare l’uguaglianza con i membri delle altre caste) e rimozione di ogni abuso sociale;

3) La proibizione (lotta contro l’abuso dell’alcool e delle droghe);

4) Il Khadi: l’abito interamente fatto a mano, fin dal tessuto, e dalla filatura, che doveva essere casalinga, del cotone (assai famoso il charka, l’arcolaio, assurto a vero e proprio simbolo);

5) Le altre industrie di villaggio: sviluppo della piccola industria di villaggio e promozione dell’artigianato locale;

6) L’igiene e la sanità pubblica nei villaggi;

7) La nuova educazione di base;

8) L’educazione degli adulti, anche politica;

9) Il diritto delle donne di forgiarsi il loro destino;

10) L’educazione sanitaria e all’igiene (secondo il modello della perfetta armonia mente/corpo);

11) La lotta contro la perdita delle lingue provinciali del subcontinente indiano soffocate dall’intromissione dell’inglese, soprattutto nell’intento di eliminare il divario fra le masse e i ceti colti e adusi al pensiero politico (“politically minded”);

12) La lingua nazionale: sostegno all’Hindi, lingua parlata dalla maggior parte della popolazione, detta anche Urdu se scritta con i caratteri omonimi;

13) L’equità economica: ritenuta da Gandhi la chiave di volta della indipendenza nonviolenta (abolizione dell’eterno conflitto capitale-lavoro; eliminazione della enorme sperequazione fra ricchi e masse povere; idea della “amministrazione fiduciaria”), da costruire fin da subito, mattone dopo mattone;

14) Kisans: l’80% della popolazione, i contadini, devono essere aiutati a divenire protagonisti consapevoli della forza che rappresentano, non devono mai essere utilizzati come numeri della politica di potere;

15) Il lavoro: Gandhi auspicava la costituzione di un maggior numero di sindacati del tipo dell’Ahmedabad Labour Union, fondato sulla “pura e semplice” nonviolenza;

16) Adivasis: le popolazioni “delle colline”, gli aborigeni del continente indiano, che Gandhi considera soggetti da coinvolgere, pena lo svuotamento di senso del termine “nazione” per l’India;

17) I lebbrosi, la cui dimenticanza è segno di durezza di cuore, sono considerati da Gandhi “i più piccoli fra noi”, richiama il dovere per gli indiani di prendersene cura in prima persona, non delegando ai missionari tale servizio;

18) Gli studenti: vengono chiamati “speranza del futuro”, ma nello stesso tempo, vengono richiamati attraverso undici consigli, al fine di evitare che siano plagiati dal sistema educativo basato sul modello inglese, che è falso e innaturale;

19) Infine, il posto della disobbedienza civile. Gandhi sostiene che essa non è assolutamente necessaria allo scopo della liberazione mediante uno sforzo puramente nonviolento, che coinvolga l’intera nazione nel programma costruttivo stesso, tuttavia egli riconosce che può essere utilizzata con tre precise caratteristiche limitative (raddrizzamento di un torto locale; utilizzo del metodo senza riguardo per il risultato, soprattutto come strumento per risvegliare la coscienza della popolazione; sia sempre circoscritta attorno ad un obiettivo specifico, e mai diretta ad una causa generale, come potrebbe essere l’indipendenza).

In generale, il programma costruttivo consisteva in questo lavoro da parte di tutti, in un enorme sforzo di concertazione sociale, per promuovere il bene comune. Jean Marie Muller ne ha ben evidenziato il significato, all’interno di una campagna di azione nonviolenta. Durante una campagna di azione nonviolenta, adottare la prospettiva del Programma Costruttivo significava porre sin da subito in essere proposte di soluzione “dal basso” dei diversi problemi economici e sociali. “Dal basso” perché prevede e richiede la partecipazione diretta ed attiva delle stesse vittime dell’ingiustizia, che si fanno carico della risoluzione del conflitto, eliminando l’handicap della protesta, del rifiuto e della non-cooperazione, che tendono a imprigionare la lotta e le impediscono di essere momento di costruzione di una alternativa, momento di reale trasformazione e cambiamento. Significava costruire il nuovo ordine sociale mentre il vecchio era ancora esistente.

Alla base del Programma, come si è visto, stava il principio dell’unità fra le diverse comunità e gruppi da cui è composta l’India, comunità che si riconoscevano essenzialmente per la loro identità religiosa, oltre che per tradizioni e caratteri etnici diversi. Nella tradizione indiana, alla quale Gandhi si ispira, queste comunità diverse avevano convissuto, con un particolare modello di coesistenza. Il dominio occidentale prima e l’introduzione delle trasformazioni suggerite dalla civiltà industriale e tecnologica avevano trasformato queste diversità e contraddizioni interne alla civiltà indiana, sollevando conflitti con caratteri distruttivi. Gandhi quindi punta ad un cambiamento profondo e strutturale, volto in buona misura anche sul recupero della coesistenza comunitaria di tutti i diversi gruppi che componevano la Grande Madre India (incluse le popolazioni preariane).

Il progetto delineato da questo Programma ha ricevuto un apprezzamento ridotto e contenuto da parte del pubblico occidentale. Esso è infatti permeato completamente dalla cultura indiana, ed è attraversato, come si è visto, da elementi caratteristici del mondo indiano, inteso nella sua particolarità. Il progetto di indipendenza che Gandhi pensava di proporre all’India non è quindi rivolto ad un movimento politico, alla occidentale. Non si tratta di conquistare il potere. Non di organizzare un nuovo progetto di governo. Il progetto riguarda la ricostruzione di una società, di una comunità. Ci sono parecchi aspetti di tale programma che non si considererebbero “politici” agli occhi di un occidentale: il lavoro manuale e l’arcolaio (charka, per il progetto del khadi, il tessuto “nazionale”); l’abolizione dell’intoccabilità; la ricostruzione dei villaggi e la centralità delle comunità di villaggio; l’attenzione agli “aborigeni”, alle popolazioni di lingua e cultura preariana, e via dicendo.

L’attività e il pensiero gandhiani in merito alla indipendenza nazionale non possono quindi venir ridotte allo studio delle forme di lotta nonviolenta e di disobbedienza civile, e delle altre forme di resistenza sperimentate. Gandhi infatti riteneva che la disobbedienza civile e le altre forme di resistenza nonviolenta avrebbero potuto avviare il cambiamento sociale, ma non porre solide basi per un generale e continuo miglioramento della società, né per la piena realizzazione della libertà economica, sociale, politica e morale. Gandhi respingeva qualsiasi separazione fra i cosiddetti programmi politici e il Programma Costruttivo. Non avrebbe avuto senso per lui parlare semplicemente di una indipendenza politica. Così, il satyagraha è una sapiente combinazione di lavoro costruttivo (di carattere sociale) e di resistenza efficace (lotta nonviolenta), e questo ne fa uno strumento di radicale sovversione di qualsiasi politica elitaria ed esclusivista.

La libertà, l’autonomia, quindi, che stanno alla base di questo progetto, non avrebbero potuto essere una concessione, né una garanzia stabilita in termini di contratto sociale, e nemmeno, a maggior ragione, un privilegio gratuito, né una semplice questione di rivendicazione di diritti. La libertà si radica nell’autonomia morale dell’individuo, ed è perciò inalienabile. Essa si espande poi, secondo Gandhi, nella misura in cui la persona si sente parte di un “noi” più ampio, estensibile virtualmente all’infinito. Quel che conta è che, in ogni caso, quello che si richiede è l’adempimento puro di doveri.

Infatti, le dimensioni comunitarie e sociali della libertà, ovvero dello swaraj, dipendono enormemente dalla dimensione individuale. Ma quest’ultima è fondata sul riconoscimento della priorità dei doveri piuttosto che dei diritti.

Egli ebbe modo di scrivere infatti: “La vera fonte dei diritti è il dovere… Se ottempereremo tutti ai nostri doveri, non dovremo andare lontano a cercare i nostri diritti. Se inseguiremo i diritti lasciando inespletati i nostri doveri, essi ci sfuggiranno come un fuoco fatuo. Più li inseguiremo più essi voleranno via. Questo stesso insegnamento è stato incorporato da Krishna nelle imortali parole: “Solo l’azione è tua. Del frutto non ti curare”. L’azione è il dovere; il frutto è il diritto”.

L’obiettivo dell’autonomia è così identificato nella piena assunzione di doveri e responsabilità. È un elemento questo assai originale, che richiama il pensiero di Simone Weil, la quale, nel suo famoso testo La prima radice, intese mettere a fuoco i preliminari peruna “dichiarazione dei doveri verso l’essere umano”. Simone Weil, come Gandhi, riconosce che “La nozione di obbligo predomina su quellal di diritto, che le è relativa e subordinata”. E lo sradicamento della civiltà occidentale dipende in buona misura dal misconoscimento di questa verità primaria e fondamentale, messa in ombra dalla nostra enfasi sui diritti. Così, è giocoforza che cambi alquanto l’ottica con la quale guardiamo alla nostra libertà ed indipendenza, se il punto di vista non è più la rivendicazione di un diritto, ma l’affermazione di un dovere.

3. Hind Swaraj

Lo swaraj è aperto egualmente agli individui ed ai gruppi, come le nazioni, ma il suo primo grado si trova nella consapevolezza e nella coscienza individuale. “La libertà esteriore che noi perciò attingeremo sarà in esatta proporzione con la libertà interiore alla quale saremo giunti in quel dato momento”.

“La parola swaraj è una parola sacra, una parola vedica, che significa governo di sé e autodisciplina, e non libertà da ogni limite come spesso si intende per “indipendenza””.

La concezione gandhiana della nazione, quindi, è quella stessa dello swaraj, ossia un processo di liberazione vitalmente connesso con la capacità di auto-imposizione (self-assessment), con una incessante auto-purificazione, una continuo dominio di sé (self- restraint), una progressiva auto-realizzazione e una crescente fiducia in sé (self-reliance), o swadeshi. Per Gandhi — il quale, come si è visto, era profondamente convinto dell’interdipendenza della crescita morale e del rinnovamento sociale — l’evoluzione individuale e quella nazionale sembravano dover procedere simultaneamente. E l’autogoverno, data questa stretta e necessaria connessione fra swaraj individuale e nazionale, oltre ad essere incompatibile con qualsiasi forma di sfruttamento e oppressione, si costruisce altresì nella più ampia reciprocità.

Per Gandhi, è ovvio che “quando chiedi lo swaraj, non lo vuoi solo per te stesso, ma anche per il tuo vicino”. E dire “il tuo vicino” significava saper allargare lo sguardo verso le esigenze delle frange meno privilegiate e più abbandonate: “swaraj, per me, significa libertà per i più miseri dei nostri concittadini…”. L’obiettivo non è infatti solo la liberazione dell’India solo dal gioco inglese: “Miro a liberare l’India da qualsiasi giogo”. Questa nozione del servizio verso i più poveri e i più deboli divenne per Gandhi la base stessa del principio nazionale: “La regola d’oro per la promozione del nazionalismo è che, per quanto possibile, il più forte aiuti e si sacrifichi per il più debole”.

Già al tempo di Hind Swaraj egli aveva infatti preso posizione rispetto ad entrambi i fronti contrapposti del nazionalismo indiano: quello moderato, tipico ad es. di Dadabhai Naoroji e di Gokhale, che sosteneva la sostanziale positività dell’esperienza del British Raj; e quello estremista e terroristico, che intendeva tagliare alla radice qualsiasi segno della presenza britannica in India. Gandhi definisce questi due contrapposti nazionalismi anche come il partito “lento e timido” e quello “impaziente e audace”. Egli vuole superare la sterile rivalità e divisione fra i due, e, nello stesso tempo, potremmo dire, vuol “mirare più in alto” nella identificazione del futuro che auspica per l’India. Nel concludere quello scritto aveva indirizzato un messaggio a entrambi questi diversi gruppi di nazionalisti: “Agli estremisti direi: “So che volete l’autogoverno per l’India; non si verifica solo grazie alla vostra richiesta. Ognuno dovrà procurarselo da solo. Ciò che altri ottengono per me non è autogoverno, ma governo straniero; pertanto, non sarebbe corretto dire che avete ottenuto l’autogoverno semplicemente perché avete scacciato gli inglesi. Ho già descritto la vera natura dell’autogoverno. Non lo otterrete mai con la forza delle armi. La forza bruta non è nella natura dell’India. Dovrete quindi contare interamente sulla forza dell’anima. Non dovete pensare che la violenza sia sempre necessaria per raggiungere il nostro scopo.” Ai moderati direi: “Fare solo delle petizioni è degradante; in quel modo confessiamo la nostra inferiorità. Dire che il governo inglese è indispensabile è quasi negare la Divinità. Non possiamo affermare che qualcuno o qualcosa sia indispensabile eccetto Dio. Inoltre, il senso comune dovrebbe dirci che affermare che la presenza degli inglesi è per il momento necessaria, significa renderli presuntuosi””.

4. Swaraj e satyagraha, swadeshi e sarvodaya

Così, il vero autogoverno è dominio di sé, piena autonomia e autocontrollo, e non semplicemente indipendenza politica. Sarà tutta la popolazione indiana a doverlo conquistare, e non qualcuno in nome suo. A questo swaraj si giungerà solo attraverso la forza dell’anima, il satyagraha, che è una forma di lotta costruttiva, non di semplice protesta. Al fine di esercitare questa forza concorrerà lo swadeshi, ossia l’autosufficienza in ogni cosa. Il vero avversario non sono gli inglesi, ma la civiltà moderna. E infine, dato che non è possibile richiedere la liberazione solo per sé, è necessario avere sempre di mira il bene comune (sarvodaya).

Così l’autogoverno, la vera libertà, si doveva basare sull’autocontrollo personale e sull’autogoverno sociale del villaggio. Nessun aspetto della vita viene considerato irrilevante.

Al conseguimento dello swaraj — come si è visto — dovevano cooperare e lo swadeshi, ossia l’autosufficienza, la forza collettiva, e l’applicazione diretta e sistematica del “programma costruttivo”. Scriveva Gandhi: “Lo swadeshi è servizio, e se comprendiamo la sua natura noi immediatamente beneficheremo noi stessi, le nostre famiglie, il nostro paese e il mondo”. Lo swaraj non avrebbe potuto avere fondamento duraturo senza una piena applicazione dello swadeshi. Questa “autosufficienza” è da una parte l’uso di ciò che viene prodotto nel mio paese, nell’ambiente immediatamente circostante. Ma più in generale è l’affidarsi alle proprie forze, è lo sforzo di fare ciò che uno può fare per sé stesso, in ogni aspetto della vita, nel corpo, nella mente, nell’anima. Gandhi lo definì appunto quello spirito in noi che ci limita all’uso ed al servizio di ciò che è nelle nostre immediate vicinanze e l’esclusione di ciò che è più remoto.

Egli non si limitò a criticare il principio dominante della società occidentale (e quindi di quella britannica), riassunto nel principio benthamiano “il maggior benessere per la maggior parte delle persone”; bensì stabilì apertamente un principio eterogeneo e alternativo, basato sul concetto di auto-limitazione e di rinuncia. La sua è una concezione sinergistica del benessere collettivo: le sofferenze degli ultimi e dei più umili inevitabilmente interagiscono per Gandhi con la presunta ricchezza dei benestanti e più prosperosi, così da negare radicalmente il supposto valore sociale attribuito a tale prosperità. Il sarvodaya quindi si baserà sulle regolazione intelligente, ossia secondo giustizia, dell’economia, il che vuol dire non solo il criterio della ridistribuzione delle risorse, ma soprattutto il non-possesso delle risorse. Non-possesso delle risorse che significa, con parole di Gandhi, “la moderazione e la semplicità volontariamente adottate” In questa prospettiva il soddisfacimento dei bisogni non seguirà il criterio dell’incremento arbitrario, non sarà più lo scopo della vita “il soddisfacimento del maggior numero possibile di bisogni materiali”, perché, al contrario, il criterio consisterà nella limitazione di tali bisogni, compatibilmente con un minimo di benessere. “Non dovremo più preoccuparci di ottenere quello che possiamo, ma rifiuteremo di prendere quello che non tutti possono avere”.

Giuliano Pontara ha tentato di riassumere in uno schema le relazioni che sussistono fra i grandi principi cui il Mahatma fa riferimento nel suo pensiero:

Sarvodaya

­ ¯

Satyagraha

Satya

­

Ahimsa

Swadeshi

5. Interdipendenza e cooperazione. Contro ogni particolarismo e regionalismo. Nazione e cosmopolitismo.

Le forme intermedie di associazione che Gandhi vedeva fra il villaggio e l’umanità non prevedevano la necessità categorica dello stato-nazione. I grandi principi che egli auspicava si realizzassero per l’intera famiglia umana vertono su due concetti oggi piuttosto importanti: quelli dell’interdipendenza e della cooperazione. Gandhi illustrò questa sua visione della confederazione decentralizzata di repubbliche basate sul villaggio nel 1946:

“In questa struttura composta di innumerevoli villaggi, ci saranno dei cerchi in continuo ampliamento ma senza alcuna superiorità reciproca. La vita non somiglierà ad una piramide il cui vertice sia sostenuto dalla base. Sarà un cerchio oceanico, al cui centro starà l’individuo, sempre pronto a dare la vita per il villaggio, e quest’ultimo sempre pronto a farlo a sua volta per il cerchio dei villaggi, finché alla fine il tutto divenga una vita unica composta di individui, mai aggressivi nella loro arroganza ma sempre umili, nella condivisione della maestà del cerchio oceanico di cui sono unità integrali. Perciò la circonferenza più esterna non userà il potere per distruggere il cerchio interno, ma darà forza a tutto ciò che vi è compreso, e deriverà la sua forza da questo. Mi si può rinfacciare replicando che tutto questo è utopico, e perciò non degno di essere preso in considerazione. Ma come il punto di Euclide, sebbene sia impossibile da disegnare da parte dell’opera umana, ha un valore imperituro, così anche la mia idea ha il suo per la vita dell’umanità. Spero che l’India viva per questa idea vera, sebbene non sia realizzabile nella sua completezza”.

Il nazionalismo gandhiano quindi respinge apertamente qualsiasi forma di provincialismo, regionalismo, razzismo e campanilismo, quello che in quegli anni veniva chiamato in India “communalism”, ossia l’enfasi irresponsabile e intollerante sulle singole autonomie locali, sostenuta attraverso il rifiuto dell’altro e la lotta contro tutti gli altri gruppi. Il più noto esempio è certo il conflitto indo-mussulmano, ma in India esistevano molte altre comunità con identità particolare. Gandhi in proposito coniò addirittura il termine “religionismo”, per indicare quella particolare forma di settarismo e particolarismo guidata dall’aspetto religioso.

Il nazionalismo “non è un diritto naturale di un solo paese: lo swaraj è un diritto naturale per qualsiasi paese. […] É solo quando la verità, il coraggio e la nonviolenza sono fattori dominanti che una persona può dedicarsi disinteressatamente al servizio della nazione”.

“Non c’è spazio alcuno per l’esclusivismo e la gelosia fra provincia e provincia, altrimenti l’India verrà smembrata in paesi guerreggianti, ciascuno vivente per sé e anche alle spese del resto. Il Congresso avrebbe vissuto invano se una simile calamità si abbattesse sul nostro paese. Qualsiasi tentativo di dividere l’India in compartimenti impermeabili deve essere respinto. Il destino dell’India è quello di divenire una nazione forte ed indipendente, capace di portare il suo unico contributo al progresso del mondo intero. Il nostro patriottismo non è affatto esclusivo. Non desideriamo la prosperità a spese delle altre nazioni della terra. Ci sarà un tempo in cui potremo dire “Siamo cittadini del mondo altrettanto quanto cittadini dell’India”. Ma non verrà mai questo giorno finché non apprenderemo l’arte di essere cittadini di un’India indipendente. E non possiamo imparare quest’arte se lasciamo crescere un velenoso provincialismo. La giusta vita nazionale deve iniziare con quella individuale. Desidero essere forte e libero così non solo io, ma anche il mio vicino possa beneficiare della mia forza e della mia libertà. Come individui o come provincie noi dobbiamo portare il nostro frutto migliore all’altare della madre patria”.

E aggiunse, altrove: “Un’India divisa contro sé stessa non avrà alcun effetto sul consesso delle nazioni di tutto il mondo” .

Gandhi tracciava quindi una netta distinzione fra il principio nazionale e l’esclusivismo, identificando in quest’ultimo, oltre che nell’egoismo e nella grettezza, le cause principali della “sventura delle nazioni moderne” . Il patriottismo quindi non si contrappone per lui al cosmopolitismo, ma proprio perché il primo viene concepito dal punto di vista del servizio: “Il nostro nazionalismo non potrà essere di alcun pericolo per le nazioni in quanto noi non sfrutteremo nessuno, proprio come non permetteremo a nessuno di sfruttare noi. Attraverso lo Swaraj serviremo il mondo intero”.

E ancora: ” Il mio patriottismo non è qualcosa di esclusivo, perché abbraccia tutti. Bisogna respingere quel patriottismo che cerchi di innestarsi sul dolore o lo sfruttamento di altre nazionalità. La mia concezione del patriottismo non vale nulla, se il mio patriottismo non si rivela sempre compatibile, in ogni circostanza e senza eccezioni, con il più completo bene dell’umanità in senso lato. E non basta, ma la mia religione e il mio patriottismo, che deriva dalla mia religione, abbracciano tutta la vita. Voglio realizzare un’identità non solo con gli esseri chiamati uomini, ma con ogni forma di vita, comprese quelle che strisciano sulla terra”.

6. Identità culturale e multiculturalità

Del resto, con un aforisma di illuminante pregnanza, in “Young India” del 1 giugno 1921, Gandhi aveva fornito un motto che si rivela di grande utilità, oggi, da noi: “Non voglio che la mia casa sia recintata da ogni lato e le mie finestre murate. Voglio che le culture di tutti i paesi si aggirino attorno a casa mia il più liberamente possibile”.

L’immagine della casa senza recinzione, con porte e finestre aperte a chiunque, è ancor oggi assai pregnante per indicare l’ideale di una società multirazziale e multiculturale, di una città senza confini, in cui tutti possano trovare accoglienza e crescere insieme. Con una immmagine semplice, Gandhi riesce a ridimensionare e smitizzare, ad esorcizzare la paura del diverso, ed indica il respiro ampio che è bene adottare verso la diversità culturale, che è risorsa e ricchezza, non minaccia.

Peraltro, non si deve pensare che questa apertura “multiculturale”, che Gandhi ha manifestato in molti modi, si sia fondata su una nozione “debole” dell’identità individuale, su una “rinuncia” alla propria cultura e ai propri particolari tratti culturali e religiosi. Tutt’altro. Se è vero che si potrebbe documentare con moltissimi brani gandhiani l’apertura all’altro, alle religioni diverse, alle culture “altre”, altrettanto potremmo fare per testimoniare la consapevolezza che l’identità si costruisce su radici profonde, particolari e individue, su un radicamento nella propria tradizione. Prendiamone uno fra i tanti: “Niente può essere più lontano dal mio pensiero che il ritenere che si debba diventare esclusivi, o ereggere barriere. Ma io rispettosamente sostengo che un apprezzamento di altre culture può adeguatamente seguire, ma mai precedere un apprezzamento ed una assimilazione della propria. È mia ferma opinione che nessuna cultura abbia tesori così ricchi come la nostra. E noi non lo abbiamo saputo, anzi, ci siamo adoperati a deprecarne lo studio ed il valore. Abbiamo quasi del tutto smesso di viverla. Ed una appropriazione accademica priva di una precedente pratica è come un corpo imbalsamato, forse carino da vedere ma privo di qualsiasi capacità di ispirare e nobilitare. La mia religione mi proibisce di sottovalutare o ignorare altre culture, così come essa mi impone, pena il suicidio civile, di imbevermi della mia e viverne”.

7. Per la liberazione del “sud” del mondo: le alternative allo sviluppo occidentale

Ma si può dire di più: per Gandhi, il perseguimento dell’obiettivo dello swaraj per l’India ha come ulteriore e più globale scopo la liberazione delle “cosiddette razze più deboli della terra dal distruttivo calcagno dello sfruttamento occidentale, del quale l’Inghilterra è la maggior esponente”.

È noto che una buona parte del nostro secolo è stata attraversata dal fenomeno della cosiddetta “decolonizzazione”. Si tratterebbe del movimento “inverso” a quello della colonizzazione: la liberazione appunto dal giogo coloniale dei popoli ad esso sottoposti La lotta per l’indipendenza dell’India è considerata uno dei momenti significativi di questo processo. Gandhi era pienamente consapevole almeno dell’esigenza di questa liberazione, e dell’esigenza di una giustizia ed una equità economica su scala planetaria.

Così Gandhi sostenne che “Sull’India grava la responsabilità di indicare la via a tutte le razze sfruttate ed oppresse. Ed essa non sarà in grado di portare questa responsabilità se non assimileremo la nonviolenza molto più di quanto non abbiamo fatto sinora. Ho tentato di prepararci per questa missione dando un più ampio raggio alla nostra lotta. L’India diverrà il portafiaccola delle razze oppresse e sfruttate solo se potrà sostenere il principio della nonviolenza nel suo stesso caso, e non lo scaricherà non appena conseguita l’indipendenza dal controllo straniero”.

Come al tempo di Hind Swaraj, per Gandhi non si tratta di contrapporre l’Oriente all’Occidente, bensì di affrontare una critica serrata e radicale del modello di sviluppo occidentale, della civiltà sorta dall’industrializzazione, e di proporre una alternativa. Ed egli era convinto di aver almeno abbozzato il profilo di questa proposta di uno sviluppo alternativo, ed era altresì convinto che i punti cardine del suo stesso progetto (swadeshi, swaraj e sarvodaya, con annessi e connessi) potessero essere validi, su un piano universale, per tutto il sud del pianeta.

Questo ci porterebbe di necessità ad affrontare la nozione gandhiana di “sviluppo”, e quindi (come si è visto anche più sopra) a considerare altri aspetti della sua proposta: quelli relativi all’economia, per intenderci. Ma è questo un compito che per la sua natura esula dall’intento di queste pagine.

8. Altri aspetti della ricerca dello swaraj per l’India

Se guardiamo ancor più da vicino agli usi che Gandhi fa di questi termini negli scritti relativi all’ultimo decennio della sua vita, scopriamo che vengono utilizzati principalmente per presentare e discutere i seguenti punti:

1) il problema della lingua nazionale e della sua scelta ed adozione (ad es. in CW LXXV, p. 157; LXXVI, p. 94);

2) il governo nazionale (premessa di un’autonomo sviluppo economico indiano) (ad es. in CW LXXVII, 438);

3) la difesa nazionale (ad es. in CW LXII, p.194 sg; LXXVI, p.63 sg);

4) la nazionalizzazione di industrie di base (cfr. ad es. CW LXXX, p. 352- 3);

5) l’educazione nazionale;

6) la bandiera nazionale (ad es. in CW LXXXVI, pp. 396-7);

7) la “settimana nazionale” e la sua celebrazione (es: CW LXXI, p. 347; LXXIII, pp.387-88; LXXV, p.423; LXXIX, p. 334 e 349; LXXXIII, p. 402-3);

8) l'”inno nazionale” (Vandemataram) (CW LXXIII, p. 66).

Considerando questi diversi punti nel loro complesso, si può dire che Gandhi affrontò pressoché tutti gli aspetti determinanti del problema dell’indipendenza nazionale dell’India, quelli che in modi diversi avrebbero confluito nel costruire e rafforzare l’autonomia della nazione.

Segno del colonialismo e del British Raj era stata l’imposizione dell’uso dell’inglese, e questo si rivelava assai pesante per gli studenti indiani, che, per seguire i curricoli, dovevano studiare in una lingua loro estranea tutti i contenuti disciplinari, con una ipoteca che rallentava e rendeva più difficile il compito. La scelta e l’adozione di una lingua nazionale, il suo utilizzo come lingua scolastica a tutti i livelli, avrebbe dovuto essere uno dei primi passi nella direzione di una riscoperta dell’identità nazionale e di uno sviluppo socio-culturale della nazione.

Così la creazione di un sistema scolastico nazionale, con un modello alternativo alla pedagogia inglese, era un altro passo in questa stessa direzione. Gandhi lavorò assai attivamente in questo settore, a partire dal 1937 (anno della Conferenza di Wardha e dell’approvazione nazionale del suo piano per l’istruzione nazionale – la basic education), e poi con la proposta del progetto “Nai Talim”.

Su di un piano diverso, anche il riferimento all’Union Jack, alla bandiera nazionale, e la celebrazione annuale della “settimana nazionale” (nella ricorrenza del famoso satyagraha che si concluse con la strage di Amritsar) furono elementi simbolici a cui Gandhi diede grande rilevanza, e che avevano certamente una precisa valenza nel divulgare i concetti chiave del suo pensiero sulla nazione.

E infine vanno ribaditi altri due punti centrali nella visione gandhiana, ossia quello relativo al problema del governo della nuova nazione e quello della difesa nazionale, che qui per ragioni di spazio non possiamo approfondire.

Per concludere, si può affermare che l’indagine su cosa Gandhi pensasse del problema delle nazionalità e del nazionalismo si rivela ricca e significativa, almeno per le seguenti ragioni: a) presenta una prospettiva originale su questi problemi, degna di essere conosciuta; 2) fornisce un opportuno pendant per equilibrare alcuni eccessivi pregiudizi che oggi si sollevano troppo frettolosamente per squalificare qualsiasi discorso in merito al problema delle nazionalità, indicandone una concezione positiva e capace di far sintesi anche di elementi che nella tradizione occidentale sono talvolta antitetici (come a volte sono, ad es., nazionalismo e cosmopolitismo); 3) sottolinea un’idea sicuramente provocante dell’autonomia, centrata sul “servizio”, in quanto richiama in modo esplicito ad un principio il cui riconoscimento è oggi assai urgente, nell’era dei diritti: quello della priorità dei doveri verso gli altri.

In sostanza, Gandhi ci indica parametri del principio di nazionalità che sicuramente vanno “contro corrente”. Come quando, connettendo l’idea di ricchezza della nazione non al profitto e ai parametri economicistici, bensì alla qualità della società e dei suoi membri, disse, richiamando un detto confuciano: “In uno stato ben ordinato, il progresso non si misura in termini di ricchezza e benessere. La purezza della gente e dei loro governanti è la sola vera ricchezza della nazione”.

 

Globalizzazione, ovvero com’è piccolo il mondo

di M.Luisa Terzariol

Finanza ed industria agiscono ormai su scala planetaria e “Globalizzazione” sembra diventata la parola chiave per capire l’economia mondiale. Finalmente anche in Italia compaiono testi che studiano questo fenomeno.

Centodieci milioni di persone, di cui dieci milioni in Nord America e Europa, sono senza casa; quasi un miliardo e mezzo di persone vive in abitazioni indegne di questo nome; i 350 uomini più ricchi del mondo fatturano in un anno quasi la metà della ricchezza mondiale. La povertà, vecchia e nuova, sta risalendo dai confini del Sud del mondo per invadere spazi di presunta sicurezza.

Questi sono solo alcuni esempi di come si sta trasformando l’economia mondiale, aspetti di un fenomeno indicato col termine di globalizzazione che sta a indicare quel movimento “tritatutto” di capitali che, dispiegandosi su scala planetaria ben oltre le tradizionali modalità, elimina le specificità politico-economiche delle realtà locali e nazionali. Si tratta di un fenomeno potente che, facendo leva sulle reti informatiche che collegano ogni punto del pianeta e permettono di spostare masse enormi di capitali in “tempo reale”, sta cambiando le caratteristiche di base dello stesso capitalismo, orientando sempre di più la sua attività verso la finanza invece che verso la produzione di beni industriali.

Come ben illustra il libro di Jeremy Rifkin “La fine del lavoro”, il fenomeno non trascura gli investimenti tradizionali, che vengono effettuati però solo a patto di usufruire di speciali condizioni da parte degli stati nazionali. Il ricatto utilizzato dai grandi gruppi industriali è quello classico della disoccupazione: “O agevolate l’attività dell’impresa o spostiamo il nostro stabilimento da un’altra parte”. Agevolare l’attività del capitale significa garantire bassi salari, condizioni fiscali agevolate, flessibilità assoluta nella gestione dei lavoratori, massima “deregolarizzazione” dei rapporti sociali e civili, riscrittura liberistica dello stato sociale che ha segnato una delle grandi conquiste di questo secolo. Si tratta di un capitalismo che succhia ciò che c’è da prendere in loco e poi velocemente si sposta in altre aree più interessanti

Oltre al fondamentale testo di Rifkin, molti sono gli studi su questo fenomeno ai quali la nostra editoria sembra interessarsi, sia pure in ritardo di almeno dieci anni rispetto ai primi lavori di area anglosassone. Questo forse spiega anche la debolezza in Italia degli strumenti di analisi: il fenomeno viene interpretato in modo deterministico; la globalizzazione è troppo potente per poterla ostacolare, ci si limita allora a descriverne lo sviluppo e le conseguenze per gli stati nazionali, che vedono la propria dissoluzione a favore del rinascere delle comunità localistiche. In un mondo in cui i confini nazionali vanno perdendo di senso in nome di un mercato globale, in cui l’unica regola pare essere il solo interesse economico individuale, l’eclissi dei tradizionali valori di riferimento porta con sè un bisogno di identità sempre più legato a richiami ancestrali ed irrazionali come la razza, l’etnia o improbabili micro entità statali cancellate dalla storia e mitizzate in un immaginario collettivo che si nutre di fanatismo ed ignoranza. Il passato, poco e male conosciuto, diventa una sorta di rifugio a cui ricorre per trovare certezze in un mondo che ha fatto dell’incertezza e della mancanza di futuro la sua realtà.

Il testo di Brecher e Costello “Contro il capitale globale” è interessante proprio perché rifiuta l’inevitabilità del processo, per mettere in evidenza ciò che può essere fatto per coordinare le richieste e le pressioni esercitate da tutte quelle organizzazioni che si oppongono a quella sorta di “pensiero unico” che sembra essere diventato lo sviluppo secondo la logica della globalizzazione. Per gli autori si tratta di dare corpo all’esigenza di pensare globalmente per agire localmente, per attivare tutta una serie di iniziative che riescano a bloccare i giganti dell’economia mondiale, in particolare il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. La risposta non può essere solo la resistenza o la difesa, ma per essere veramente alternativa al processo deve saper individuare altre vie, altri modi, che non siano il solo economicismo, di realizzare l’emancipazione dei popoli e dei singoli. Si tratta di collegare tutti coloro che cercano strade altre, dai gruppi ecologisti, al pensiero e alla pratica delle donne, alle lotte dei contadini del Sud del mondo e degli operai del Nord sempre più soli di fronte al processo di riorganizzazione del capitale.

Anche il libro curato da Riccardo Petrella, ex braccio destro di Delors, con un gruppo internazionale di economisti, “I limiti della competitività”, dedica grande attenzione al nuovo protagonismo assunto dall’impresa e ai tre pilastri della globalizzazione: privatizzazione, deregolazione e liberalizzazione. L’autore, nell’indicare i limiti dello sviluppo, rappresentati dall’ideologia della competitività e nell’indicare alcune ipotesi per un efficace governo mondiale, giunge alla conclusione che un ruolo attivo è possibile solo per i grandi club internazionali di esperti, negando la possibilità stessa di un intervento efficace da parte dei movimenti sociali.

Infine il testo di Mario Calvo-Platero e Mauro Calamandrei, “Il modello americano”, porta l’attenzione sulla situazione americana leggendola come paradigmatica dei cambiamenti che la globalizzazione porta nella vita quotidiana delle persone attraverso le grandi rivoluzioni di fine millennio: comunicazione, informatica, genetica che lasciano aperta la domanda sulle prospettive per l’umanità nel prossimo millennio.

Domanda questa che sta alla base di tutti i testi citati, soprattutto quando si confrontano con fenomeni “oggettivamente” globali come la rinascita dei fondamentalismi e dell’estrema destra. Sono problemi che rimandano ad uno scenario ampio e complesso che vede la ridefinizione delle funzioni e delle competenze degli Stati, anche alla luce di entità sovranazionali come la Comunità Europea.

Jeremy Rifkin, LA FINE DEL LAVORO, Baldini & Castoldi, 1996

Jeremy Brecher e Tim Costello, CONTRO IL CAPITALE GLOBALE, Feltrinelli, 1996

Riccardo Petrella, I LIMITI DELLA COMPETITIVITÀ, Manifestolibri, 1996

Mario Calvo-Platero, IL MODELLO AMERICANO, Garzanti, 1996

 

Le due destre

A Cura di Pasquale Pugliese

L’assunto fondamentale del libro di Marco Revelli, che ne esplicita il titolo, è espresso fin dall’introduzione: “Di giorno in giorno (…) si fa più evidente che oggi in Italia non si assiste affatto ad una normale competizione tra quelle che si è soliti considerare una destra e una sinistra, ma che lo spazio politico è occupato, al contrario, in forma prevalente, da due destre: una destra populista e plebiscitaria (fascistoide), da un lato, e una destra tecnocratica ed elitaria (liberale) dall’altro. Due destre in conflitto tra loro sui mezzi, ma per molti versi unificate da un fine comune”. E, continua più avanti, “la sinistra che conta”, la sinistra che governa, “sembra più un’appendice della seconda destra che non un soggetto politico autonomo capace di progetto e di programma”.

Dopo una “autopsia della Prima Repubblica” e un’analisi della metamorfosi della destra fascista, Revelli affronta le profonde modificazioni economiche e sociali, interne allo sviluppo capitalista, che hanno condotto a questa egemonia culturale della destra ed alla subalternità della sinistra.

Avviene in questi anni – riassumendo l’analisi di Revelli – un “salto di paradigma” che segna il discrimine tra due forme di capitalismo.

Il cosiddetto modello fordista, fondato sul compromesso tra capitale e lavoro concretizzatosi in occidente nel welfare state, lascia il posto al modello postfordista, nel quale il compromesso si dissolve a vantaggio del capitale. Nel mostrare il “passaggio epocale” da un modello produttivo all’altro, Revelli focalizza il coinvolgimento culturale che entrambi i modelli implicano per la società. La filosofia della fabbrica fordista-taylorista ha plasmato l’organizzazione dei rapporti sociali e politici in forma “dualistica”, così come la filosofia della fabbrica integrata postfordista (secondo il modello Toyota) plasma rapporti sociali e politici di tipo “monistico”. Mentre nel capitalismo fordista lo Stato nazionale mantiene il ruolo di regolatore del conflitto e di redistributore, sotto varie forme, della ricchezza accumulata, nel capitalismo postfordista lo Stato regredisce drasticamente in compiti e funzioni, di fronte all’unico conflitto che il capitale riconosce: “la competizione planetaria per l’accaparramento dei flussi finanziari”. Pertanto, senza più alcuna regolazione sociale dei processi di sviluppo capitalistici, all’aumentare della ricchezza collettiva corrisponde un aumento, anziché una diminuzione, delle diseguaglianze; alla crescita della produttività corrisponde una distribuzione, anziché creazione, di occupazione.

È evidente che in virtù del nuovo ruolo nel quale le imprese relegano lo Stato, avviene una ridefinizione sostanziale della forma di democrazia. “La transizione da un modello di capitalismo all’altro, è così, anche, passaggio tra due modelli diversi, per non dire contrapposti di democrazia”. È questo il fulcro del ragionamento di Revelli.

“Tramonta” continua “la democrazia fondata sulla libera e aperta competizione tra sistemi contrapposti di opinioni, tra progetti alternativi di società (…) ed emerge la democrazia populista ed oligarchica di fine secolo, disponibile all’alternanza (tra élites omologhe, simili tra di loro) ma non all’ “alternativa” (tra politiche sociali opposte, tra antagonistiche “idee di società”)”. L’economia e la finanza, integrate su scala planetaria, sfuggono ormai al controllo democratico della politica. I governi non possono che applicare le linee guida in politica economica, le ricette, dettate dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale e da altri organismi “tecnici”, “sedi” ribadisce Revelli, “a tutti gli effetti sottratte al meccanismo decisionale democratico”.

In questo contesto, la sinistra, ed il cerchio si chiude, che aveva legato indissolubilmente socialità e statualità, si trova incapace – di fronte alla massiccia offensiva capitalista dissolvitrice delle funzioni storiche dello Stato – di qualsiasi proposta altra e alternativa. “Impotente di fronte a una trasformazione epocale”, è il pesante giudizio di Revelli, “la sinistra europea si limita a plaudire vacuamente ad un corso del mondo che non riesce più a guidare, e neppure a interpretare”. Appendice di una destra bifronte, culturalmente e socialmente egemone in questo cambio di secolo.

A testimonianza delle implicazioni culturali delle trasformazioni economiche attuali, Revelli inserisce due capitoli centrati sull’ideologia del razzismo e sulla “figura dello straniero”, nei quali mostra l’evoluzione di questi concetti nell’epoca della globalizzazione. Lo straniero, spiega l’autore, non è più definito in base a confini geografici, ad “alterità territoriali”, ma “sulla base di alterità nuove”: “è un confine metaspaziale quello che definisce l’Occidente e lo separa e lo distanzia dal resto del mondo: non più “luogo geografico” ma area di privilegio, la cui distanza dagli altri” – accusa Revelli – “non si misura in chilometri, ma in dollari, in consumo di beni e di energia, in accesso alle tecnologie”. E poiché il sistema di consumo occidentale è un sistema per pochi, non è generalizzabile al resto dell’umanità, è esso, il resto dell’umanità, che diventa straniero, “straniero assoluto”.

La parte propositiva del libro di Revelli è accennata in due capitoli significativamente intitolati “né Stato né mercato” e “fare società”. In essi Revelli mostra interesse verso la rinascita di forme di socialità alternative, sganciate dalla statualità, fondate sull’autorganizzazione mutualistica e solidale. Ma qui si apre un altro discorso.

Le due destre, di Marco Revelli, Ed. Bollati Boringhieri, Torino, 1996.

ROVERETO

I Corsi dell’UNIP

L’Università Internazionale delle Istituzioni dei Popoli per la Pace con il patrocinio della Commissione Nazionale dell’UNESCO organizza due corsi.

Il primo, che si avvale dell’appoggio del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, ha per titolo “Economia Globale, mercati illegali e solidarietà” e si terrà al Palazzo Todeschi di Rovereto da Gennaio a Maggio del 1998. Oltre ad una serie di seminari della durata di un giorno e mezzo, che vedranno la partecipazione di numerosi esperti di economia dei mercati internazionali, è previsto un viaggio studio di tre giorni (14 – 15 – 16 – 17 Maggio) a Vienna presso il Centro Internazionale delle Nazioni Unite.

Il secondo corso, appoggiato anche dal Segretario Generale del Consiglio d’Europa Daniel Tarschys, è dedicato a “Diplomazia popolare preventiva, nonviolenza e secessione” e si svolgerà da Gennaio a Settembre 1998. Esso è strutturato come corso itinerante: cinque seminari si terranno in località diverse, e dal 30 Aprile al 3 Maggio è previsto un viaggio studio presso le Ambasciate della Democrazia Locale nella ex-Jugoslavia di Zavidovici, Tuzla, Prijedor e la sede delle Nazioni Unite a Sarajevo.

INFO: segreteria UNIP, Palazzo Tedeschi (sede provvisoria), via Tartarotti, 9 – 38068 Rovereto (TN). Tel. (0464)424288, fax (0462)424299, e-mail iupip@inf.unitn.it
Si è tenuta a Sarajevo, 13 e 14 dicembre 1997

Hocu kuci – voglio tornare a casa
L’Assemblea Generale della Coalizione per il Ritorno

Di Stasa Zajovic

“Hocu Kuci” esprime la principale richiesta delle persone profughe e sfollate, riunite nella Coalizione per il Ritorno ed è anche diventato il “saluto ufficiale”. La Coalizione è diventata un movimento sociale fortissimo che riunisce ca. 180 associazioni di profughi e sfollati ed una cinquantina di ONG della BiH, RF Jugoslava e della Croazia e di paesi dell’Europa occidentale che sostengono il ritorno. Tra questi gruppi vi sono anche le “Donne in nero” di Belgrado.

Hans Shummaker, delegato dell’Alto Rappresentante per la BiH (OHR), ha parlato all’inizio dell’assemblea. Ha ripetuto quanto detto durante la Conferenza di Bonn (9-10 dicembre) sulla ricostruzione economica: l’aiuto economico della comunità internazionale sarà condizionato rigidamente al rispetto dell’accordo di Dayton, quindi verrà applicata una politica del condizionamento dell’aiuto. Shummaker ha affermato che i comuni che non favoriscono il ritorno non riceveranno aiuti e saranno compensati solo quelli che hanno un atteggiamento positivo verso il ritorno. Egli considera che “la federazione della BiH non può sopportare oltre la pressione del ritorno e che la stessa pressione verrà esercitata sul Governo dell’entità serba (RS)”. Che ciò non stia avvenendo è stato testimoniato dai profughi. È vero che i comuni (specialmente in RS) sono sottoposti a sanzioni economiche, ma nello stesso tempo i comuni “positivi” a causa degli ostacoli burocratici della UE non ricevono aiuti per mesi. Un profugo di Modrica (adesso RS) che vive a Gradacac teme che anche la Coalizione per il Ritorno possa diventare “un ornamento, una facciata della comunità internazionale” se i discorsi sul ritorno non si trasformano in un vero ritorno. Spesso si sono sentite le critiche verso UNHCR: “Non tolleriamo più la spontaneità nel ritorno” e verso la sua politica: “Dobbiamo mettere un punto su quella politica”. Le persone profughe sfollate rifiutano di essere soggetti passivi della politica sia nazionale che internazionale, “noi chiediamo di partecipare alle decisioni che riguardano noi stessi” (Rappresentante dell’Associazione di Bosanska Posavina, ora vive in Croazia).

Tutti sono decisi nel non volere desistere dalle richieste di ritorno “a casa propria” ed hanno maggiore fiducia nell’aiuto internazionale che in quello nazionale perché “abbiamo perduto la speranza e poco a poco stiamo perdendo la pazienza con le nostre autorità” (Associazione di Busovaca). Un profugo ha chiesto che “diventi ufficiale il protettorato internazionale” in quanto la cosidetta sovranità nazionale serve solo ai regimi.

Gli interventi, i commenti, le testimonianze dei profughi e degli sfollati hanno costituito la parte più importante ed interessante dell’assemblea. Smentiscono le tesi dei regimi per cui “i profughi non vogliono tornare e la gente non vuole vivere insieme”. La collaborazione tra la gente comune è buona, mentre con le autorità ci sono sempre problemi, ripetono quasi tutti. I profughi chiedono ai rappresentanti della comunità internazionale di invitare anche loro quando visitano le varie zone della BiH, non solo le autorità e la burocrazia internazionale.

Mile Marceta, rappresentante di una delle associazioni più attive (di Dvar) ritiene che il problema più grande sia dovuto al ritorno all’interno della stessa BiH, UNHCR non aiuta per nulla ed a Dvar sono tornati solo 55 rifugiati nei villaggi, nonostante che un numero di 17.000 sfollati di Dvar abbia firmato una petizione-richiesta collettiva per il loro ritorno. La popolazione di Dvar è di origine etnica serba, ora vive a Banja Luka e Bijeljina; oggi oltre l’80% degli abitanti di Dvar sono soldati e poliziotti (croati del HVO) che hanno occupato le case ed impediscono il ritorno. Questo ostruzionismo è attuato in collaborazione con le autorità serbe perché nè gli uni, nè gli altri vogliono il loro ritorno. Marceta pensa che la smilitarizzazione della zona sia necessaria per consentire il ritorno.

La libertà di movimento è garantita dall’Appendice 7 dell’accordo di Dayton, ma è solo un pezzo di carta. “Non possiamo nemmeno andare a vedere le nostre case” dice la maggior parte dei profughi. Per tale motivo considerano l’operazione “città aperte” (dell’UNHCR) “una manovra di potere, una farsa, un progetto finto, una forma di psicoterapia”. I profughi chiedono che tutto lo spazio della BiH sia aperto. Delle 25 “città aperte” 20 sono nel territorio della federazione, 1 nella Republika Srpska (Sipovo), 4 sulla linea di confine tra le due entità. La parte occidentale della RS è più aperta verso il ritorno mentre i comuni della parte orientale non ne vogliono nemmeno parlare.

I profughi si fidano dell’altro rappresentante Carlos Westendorp (OHR), gli chiedono di rafforzare la pressione sui partiti e leader nazionalisti (Izetbegovic, Krajisnik, Zubak) “che fanno gli stati etnici puri”. Purtroppo una delle associazioni (dei detenuti nei campi di concentramento di BiH, vicina al partito di Izetbegovic, SDA) segue quella politica: durante l’assemblea, ha imposto la discussione sulla gerarchia della sofferenza e sulla reciprocità del ritorno (“prima devono tornare coloro i quali sono partiti nel 92, poi quelli del 95…”).

La rappresentante della coalizione per il ritorno dalla Germania ha messo in guardia sul carattere forzato “del ritorno volontario”. In Germania vi sono 220.000 profughi della BiH; il Governo tedesco ha creato un progetto intransigente di ritorno per il 1998: in gennaio dovranno tornare tutte le famiglie senza figli, ad aprile quelle con figli ed in giugno tutti gli altri. I profughi vogliono tornare, ma oltre alla povertà ed alla disoccupazione sperimentano l’astio verso di loro. L’aiuto ricevuto dalla comunità internazionale è insignificante: 750 dem per famiglia. Quando tornano pagano le cosiddette tasse per la guerra (per punizione). Per ottenere qualsiasi documento personale presso le autorità ogni persona che torna deve pagare 300 dem per ogni mese di assenza. Non avviene per legge, ma a seguito di decreti arbitrari a livello comunale.

I profughi non tornano nel luogo da cui sono stati espulsi, ma laddove possono, specialmente nella federazione. I fatti dicono: secondo i dati dell’UNHCR in BiH ci sono 2.156.278 profughi, di cui 1.100.000 ca. sono sfollati; questo numero aumenta perché nel 1996 sono tornate 160.000 persone nel luogo in cui il proprio gruppo etnico è maggioritario. Se si calcola che dall’Europa occidentale torneranno sempre più (per forza), il numero di profughi che tornano dalla RF Jugoslava e dalla Croazia è insignificante (in RF Jugoslava ci sono ca. 250.000 profughi della BiH e 80.000 in Croazia). I ritorni avvengono quasi sempre nella federazione (16% del totale dei ritorni, solo 0,02 in RS).

“La gente ha perduto la pazienza, può scoppiare la guerra tra i profughi e la popolazione locale e la guerra tra due scelte politiche” avvertono i profughi di Modrica; altri hanno proposto le azioni di ritorno collettivo di massa “ci andremo con le tende e non ci muoveremo. Se non ci lasciano tornare ci scontreremo con le autorità (esercito e polizia)”. Le persone profughe e sfollate richiedono di porre fine allo sfruttamento della loro sofferenza e ripetono “non mandate la gente nelle case degli altri, perché anche questa è una pulizia etnica”.

HOCU KUCI resta la richiesta principale anche per il 1998, che sarà dichiarato l’anno del ritorno dei profughi.

Di Fabio