• 24 Novembre 2024 20:17

Il maiale non fa la rivoluzione – Antispecismo e nonviolenza

Diadmin

Gen 16, 2014
Daniele Taurino

Dibattito precongressuale

Il maiale non fa la rivoluzione – Antispecismo e nonviolenza

di Daniele Taurino

A Simplon Dorf, paesino di 329 abitanti (almeno così dice Wikipedia ma in queste giornate non ne ho visti così tanti) letteralmente circondato dalle Alpi svizzere, è una domenica assolata, di quelle che l’imponente profilo delle montagne non riesce ad oscurare e che ti rendono più facile vedere al di là della finitezza umana. Qui, dove la Natura presente in tutta la sua vastità e potenza ci denuda della nostra abituale arroganza, forse un po’ per compensazione, mi arrogo l’iniziativa di prendere una posizione, anche in vista del prossimo Congresso del Movimento Nonviolento, filosoficamente coerente e amica della nonviolenza nel dibattito sull’antispecismo. E perché mi sento una povera cosa, ecco che vengo tra voi se sorgerà una liberazione.1 I valori capitiniani ci impongono di non stare con le mani in tasca, anzi dovremmo – ma non sempre ne siamo capaci – essere sempre alla punta di ogni azione, di ogni rivoluzione; anche di quella che il maiale non può fare e che Leonardo Caffo, giovane filosofo catanese, auspica ed argomenta in un ben scritto ed agile volumetto edito da Sonda richiamato nel titolo.2 Ho scelto, come punto di partenza per costruire una posizione per aggiunta, questo libro e non un altro perché è la più recente proposta antispecista – Leonardo con ironia socratica la chiama “debole” – e certamente quella più vicina ad una filosofia per la nonviolenza. Infatti Caffo sceglie il punto di vista dell’animale e la domanda che guida questo saggio è: che cosa penserebbe un maiale se avesse avuto la possibilità di indicarci la strada per quella rivoluzione che è la sua liberazione? Caffo ha ben chiaro che il suo obiettivo è tutt’altro che “debole”. Il suo, come di altri, è un antispecismo che “contrasta l’idea che si possa usare come una ‘cosa’ un individuo solo perché è di un’altra specie”. E noi ben sappiamo quanto cruciale sia nell’azione nonviolenta la questione del rapporto tra mezzi e fini, di saperli tenere in un sol colpo nella mano nella mente e nel cuore. Peccato poi che Caffo proprio nella conclusione di un ragionamento, su cui torneremo dopo, che lo porta ad identificare la disobbedienza civile come l’unica strada percorribile sia per l’antispecismo sia per il vegetarismo, concede un ammiccamento al mondo eterogeneo degli attivisti animalisti affermando che siamo tenuti “a liberare i nonumani con qualunque strumento ci sia concesso”. Ma, dato l’utilizzo del verbo al passivo, è lecito domandarsi: “concesso da chi?”. Dai mezzi che disponiamo, dalla nostra forza contingente, dalla situazione storico-politica mondiale o dalla nostra coscienza persuasa? È chiaro che nella nostra prospettiva ha senso solo l’ultima di queste possibilità mentre le altre lasciano adito a comportamenti ambigui e persino violenti. La frase ci pare quindi avventata ma la posizione di Caffo piuttosto chiara: una nuova strada di convivenza va costruita e bisogna muoversi verso un’idea di umanità che non investa, come oggi succede, con raggio distruttivo ogni aspetto della natura. Un’idea di umanità, scrive Caffo, che passando proprio dalla liberazione dell’animalità – ritrovando gli animali che dunque siamo – forse potrà conquistare una liberazione complessiva. Qualunque cosa essa sia e a qualunque conseguenza ci porti. Detto questo, il primo e quasi unico 1 Aldo Capitini, Colloquio corale, pag. 43 l’ancora del mediterraneo, Napoli 2005 2 Leonardo Caffo, Il maiale non fa la rivoluzione. Manifesto per un antispecismo debole, Sonda 2013 obiettivo di questo antispecismo è la fine della violenza istituzionalizzata contro gli animali nonumani. Perché non possono essere dimenticati i 50 miliardi di animali che vengono uccisi in un anno. Uccisi per essere mangiati, indossati, usati per la ricerca scientifica o, se fortunati, messi dietro le sbarre di uno zoo oppure esposti alla berlina in un circo. Chi ignora tutto questo, avverte il filosofo catanese, forse è felice e inconsapevole perché vive pensando che i peggiori dei mali siano oggi superati e che, nonostante tutto, la nostra vita sia una vita innanzitutto morale. Un po’ come accade quando ci si dimentica di guerre lontane e della fame del mondo (ecco, per inciso, dove sta l’ulteriore valenza della pratica del digiuno come avvicinamento e recupero della sofferenza in vista di un atto di unità-amore). Ma così facendo chi chiude gli occhi e il cuore sceglie paradossalmente la via dell’amoralità, di chi non vuol battere questa realtà inadeguata e accettare le sfide della persuasione. “Non bisogna lasciarsi andare, vivere e agire ripetendo gli altri – scrive Capitini riecheggiando il troppo spesso dimenticato Carlo Michelstaedter – ma andare più in profondo”. Lentius, suavius, profundius, ci ricorda anche Alexander Langer. In termini più espliciti non è pienamente morale una vita che non si fa pienamente responsabile della vita, che non rifiuta l’ambigua idea secondo cui in fondo è la violenza a dominare “naturalmente” i rapporti tra la specie e, di conseguenza, con le altre specie. Riprendendo l’ultimo Capitini l’idea di una ”liberazione” non è chiusura del futuro, cioè mantiene aperte vie creative e plurimi mondi possibili e su questo Caffo si trova d’accordo e spende buone energie speculative. Tuttavia, l’aggiunta nonviolenta ci spinge a dire qualcosa in più: la liberazione non è obbligatoria. Come un individuo può essere inconsapevole di trovarsi nella compresenza può anche rifiutarsi ad una realtà liberata. Nel futuro c’è posto perché il persuaso della compresenza vi incontri una realtà liberata e il non persuaso non la veda, liberissimi in ciò: se non si comincia ad agire, tenendo in un sol colpo il mezzo e il fine con questa corale gentilezza d’animo si continuerà a dibattere inutilmente su questioni di carattere generale e a costruire muraglie psico-sociali nella maggior parte dei non addetti ai lavori. Come quando in un punto del testo Caffo inizia un paragrafo scrivendo, forse avventatamente: “uno stile di vita vegan (nonviolento)”. È un’affermazione che pecca sia sul piano formale sia contenutistico e che rischia di rendere elitaria una lotta che deve diventare di tutti. Pecca sul piano formale poiché uno stile di vita non può mettere logicamente tra parentesi un sistema, seppur costitutivamente aperto, come quello della nonviolenza. Sarebbe un po’ come far passare la gomena d’una nave per la famosa cruna dell’ago. Pecca, dal nostro punto di vista, a livello del contenuto perché un tale assunto mette fuori dalla definizione di “nonviolento” non solo, ed è già assurdo, individualità come Capitini, Martin Luther King e Nelson Mandela ma anche un’infinità di altri Tu, vicini e lontani, che la nonviolenza aspetta amorevolmente di poter abbracciare. Manca, parlando in termini capitiniani, del significato intimo della tensione profetica e liberante dove “l’energica suscitazione etica”, spinta dall’indignazione e dal rifiuto della realtà così com’è, viene associata “con la persuasione di una realtà che si apre, di una tramutazione, di un meglio che si instaura” e dove la critica delle altrui ideologie e stili di vita viene affermata insieme al “dolore di portare il taglio su qualche cosa, di annunciare la rovina a ciò che dovrà rovinare perché insufficiente moralmente” e al sollecitamento della responsabilità di tutti e per tutti.3 Con queste basi teorico-pratiche è poi facile trovarmi d’accordo con Caffo quando scrive che “l’antispecismo è tale se e solo se rinunciamo a una parte della natura umana”. Ma questo è possibile argomentarlo, forse con minor rigore certo, ma con più speranza, attraverso l’ontologia escatologica di stile capitiniano invece di quella del nuovo realismo di Ferraris di cui si avvale il giovane filosofo catanese. In ogni caso, proprio perché l’antispecismo di Caffo si pone in contrasto a un concetto di natura umana considerata immutabile, esso è affine 3 Aldo Capitini, L’atto di educare, La Nuova Italia editrice, Firenze 1951 alla nonviolenza e “l’antispecista debole” così come “l’amico o amica della nonviolenza” può affermare senza contraddizione che “i comportamenti individuali sono fondamentali come gesto di disobbedienza civile alla Thoreau: lo sterminio animale non può continuare nel consenso e col contributo economico dei cittadini. Quindi bisogna violare apertamente la legge non pagando tasse che comportano violenza animale, ecc., accettando, se serve, la reclusione in carcere, le multe, e tutti gli altri problemi che questi gesti comportano”4 . Con un’unica differenza: l’amico o amica della nonviolenza non pronuncerebbe né praticherebbe quel “se serve” poiché avendo come mezzifini l’esempio e la persuasione sente che non deve spingersi fino alla rottura con l’ordine delle leggi – le quali magari, per il restante 99%, considera giuste e degne di essere seguite – e di conseguenza dichiara in anticipo il proprio obiettivo, le modalità con cui intende raggiungerlo e di essere disposto a pagare le conseguenze delle proprie azioni illegali (nonmenzogna politica). Nonostante questa differenza, di certo non solo linguistica, non credo di inventarmi qualcosa scrivendo che, secondo Caffo, il “compito primario dell’antispecista debole” va inteso nel senso di una non collaborazione al male piuttosto che di una cooperazione al bene. L’antispecismo così inteso diverrebbe una nuova frontiera dell’obiezione di coscienza: questo spazio d’azione se confermato e approfondito andrebbe a costituire, a nostro avviso, uno dei punti più qualificanti della costruzione teorica del catanese. Tra l’altro proprio grazie a ciò Leonardo Caffo potrebbe affermare con ancor più forza che l’antispecismo se vuole essere davvero oltre la specie “deve accettare solo argomenti diretti per la comunicazione e la lotta animalista anche quando gli effetti potrebbero causare problemi alla società umana” e/o agli individui che lo praticano. Inoltre, sfruttando il suo dichiarato impianto platonico nel quale non è fuori luogo parlare di un’idea del buono e un’idea del cattivo connotate moralmente, si potrebbe anche assumere la priorità assiologica della non collaborazione al male rispetto alla cooperazione al bene (alla quale, per inciso, secondo la dottrina della compresenza di Capitini partecipiamo tutti anche col solo atto della nascita); priorità assiologica che sola sarebbe capace di far compiere al vegetarismo, al veganesimo e all’antispecismo il salto qualitativo da a-violenza a nonviolenza. E così finalmente, attraverso la pronuncia quotidiana di un Tu d’amore ai vivi e ai morti, agli umani come ai nonumani riuscire a stare finalmente anche dalla parte del maiale facendoci carico del “dare tutto senza nulla chiedere” posto alla base della responsabilità morale in una prospettiva nonviolenta. Perché dare è avere già in cambio la visione dei valori della festa in una realtà finalmente liberata dalla violenza, per quanto è in nostro potere. Il resto della tramutazione verrà, forse, da sé. Intanto sarebbe bello e giusto cominciare ad agire, subito. La nostra ipotesi di lavoro, ovvero la tesi che vorremmo spingesse il Movimento Nonviolento, in accordo con l’articolo 4 della nostra Carta5 , a portare più spesso di quanto non faccia ora la propria aggiunta sul tema del rapporto con i nonumani magari fornendo competenze sulle tecniche e la formazione a coloro che di queste lotte fanno la loro ragion d’attivismo, è questa. Che l’antispecismo senza nonviolenza non esiste perché agire con la violenza sarebbe ancora un colpevole residuo umano, troppo umano; e che, d’altro canto, la nonviolenza se non recepisce l’aggiunta antispecista rimarrà antica come le montagne senza pagare il prezzo di coerenza innovatrice che dobbiamo alla ricerca e agli esperimenti con la verità. 4 Leonardo Caffo, Il maiale non fa la rivoluzione. Manifesto per un antispecismo debole, pag.74-75 edizioni Sonda 2013 5 La Carta indica, tra le fondamentali direttrici d’azione del Movimento Nonviolento, “la salvaguardia dei valori di cultura e dell’ambiente naturale, che sono pratimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un’altra delle forme di violenza dell’uomo”

Di admin

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.