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E’ morto Gene Sharp, l’incubo nonviolento dei dittatatori

DiRedazione

Gen 31, 2018

Il 28 gennaio scorso all’età di 90 anni è morto Gene Sharp,  fondatore dell’ Albert Einstein Institution,  obiettore di coscienza al servizio militare, studioso della teoria e della pratica della nonviolenza, e autore di fondamentali manuali per la politica dell’azione nonviolenta. Tradotti e messi in pratica in tutto il mondo, per rovesciare dittature e regimi oppressivi. Ne ripubblichiamo un profilo curato da Mairi Mackay, tradotto e pubblicato nel 2012 dal Centro studi Sereno Regis di Torino   

È una buia sera di gennaio, e in un’anonima casa  vicino alla stazione di Paddington un uomo sta parlando su come organizzare una rivoluzione.

Una giovane iraniana chiede: “I giovani in Iran sono molto disillusi dalla brutalità della violenza adoperata contro di loro… Ha bloccato tutte le proteste. Che cosa direbbe loro? Come possono riorganizzarsi?”

L’uomo ci pensa un momento. È un radicale d’aspetto inverosimile: lievemente ricurvo, coi capelli bianchi, la figura rannicchiata nella bassa sedia su cui siede.

Quando sta per rispondere, ha tutti gli occhi fissi su di lui.

“Non si marcia per strada verso soldati coi mitra. … Non è saggio. Ma ci sono altre cose ben più estreme. … Potreste far stare tutti a casa. Silenzio totale in città”, dice, abbassando la voce a un sussurro, puntualizzando le parole con le mani ricurve, come per scacciarne il rumore lui stesso.

“Tutti a casa; silenzio” ripete piano sondando la stanza con lo sguardo.

“Pensa che il regime lo noterebbe?”

Lui guarda attorno, annuendo quasi impercettibilmente. Sulla parete dietro la sua testa è appesa un’enorme stampa con la bomba atomica di Hiroshima che s’espande nel cielo come un fungo.

Lui è il politologo Gene Sharp, e le idee esplosive sono una sua specialità.

È stato chiamato padre della lotta nonviolenta. Lo si potrebbe anche descrivere come il miglior amico di un rivoluzionario. O forse, più precisamente, il peggior incubo di un dittatore. Ora 84enne, l’accademico americano ha dedicato gran parte della vita allo studio dell’idea ardita – qualcuno direbbe azzardata – che la nonviolenza, anziché la violenza, sia il modo più efficace per rovesciare regimi corrotti o repressivi.

In questa serata invernale tiene una conferenza al Frontline Club, perno giornalistico di Londra, dove c’è solo posto in piedi.

Chi non ha posto a sedere fa ressa in fondo alla saletta sotto una gran foto di una ragazza che offre un fiore a una fila di poliziotti anti-sommossa. Potrebbe essere stata ispirata dagli scritti di Sharp.

Il suo manuale pratico su come rovesciare le dittature “Dalla dittatura alla democrazia” si è diffuso come un virus da quando lo scrisse 20 anni fa ed è stato tradotto dagli attivisti in più di 30 lingue.

Ha anche elencato “198 metodi di azione nonviolenta” — modi vigorosi, talvolta sorprendenti, per strappare il potere dalle mani dei regimi. Esempi di loro utilizzo da parte di dimostranti e rivoluzionari riaffiorano continuamente.

In Ucraina, durante la Rivoluzione arancione del 2004 che sospinse il leader d’opposizione Viktor Yushchenko al successo elettorale, centinaia di migliaia di dimostranti trasformarono piazza Indipendenza a Kiev in un mare di bandiere arancione – colore della campagna di Yuschenko.

Il n° 18 nell’elenco di Sharp: esibizione di bandiere e colori simbolici.

In Serbia, attivisti in lotta con l’allora presidente Slobodan Milosevic nelle elezioni presidenziali del 2000 stamparono “Gotov Je!” “È finito!” su adesivi, T-shirt e manifesti per contribuire a chiarire alla popolazione che non era invincibile.

Il n° 7 nell’elenco di Sharp: slogan, caricature e simboli.

Al Cairo durante la rivoluzione egiziana dell’anno scorso, i manifestanti stazionavano in una tendopoli in piazza Tahrir, dove producevano arte, facevano musica e cantavano canzoni anti-Hosni Mubarak. Molti egiziani si radunavano per le preghiere del venerdì seguite da adunate politiche di massa.

I numeri 20, 37 e 47 nell’elenco di Sharp: preghiera e liturgie, canti e raduni di protesta.

Le sue idee sulla rivoluzione si basano su una premessa di una semplice eleganza: “Nessun regime, neppure il più brutalmente autoritario, riesce a sopravvivere senza il sostegno della propria gente”. Allora, propone Sharp, glielo si tolga.

L’azione nonviolenta, dice, può erodere i pilastri del potere di un regime come termiti in un albero. Alla fine tutto quanto crolla.

Per mezzo secolo, Sharp ha raffinato la teoria del conflitto nonviolento e creato gli strumenti del proprio mestiere. I suoi metodi hanno liberato milioni di persone dalla tirannia — il che fa tremare i regimi, da Myanmar all’Iran.

Nel 2009, fu nominato per il Premio Nobel per la Pace. Durante le sommosse della Primavera Araba i suoi metodi vennero ripetutamente citati.

L’applauso giunge dopo “decenni di stenti,” dice. I suoi metodi sono stati respinti e mal interpretati — è stato perfino accusato di lavorare per la CIA.

Ma ha continuato con “il lavoro”, a volte quasi senza soldi. Gestisce dalla sua casa di Boston est la sua organizzazione, l’Istituto Albert Einstein, perché non può permettersi degli uffici.

Dedica quasi a chiunque mezz’ora del suo tempo, anche a uno studente delle scuole superiori che svolga un progetto. E continuano ad arrivare pellegrini. Da tutto il mondo perché vogliono cambiare la propria situazione.

Arrivano per sentire le idee straordinarie che Sharp ha cocciutamente costruito in una vita: idee che hanno innescato rivoluzioni.

La prima ribellione

Quando Sharp si laureò nel 1951, si trasferì a New York facendo lavori strani pur di mettere qualcosa in tavola. Passò parte del suo tempo rinchiuso nella Biblioteca di New York City lavorando a un libro sul leader politico indiano Mahatma Gandhi, che descrive tuttora disinvoltamente come il suo eroe.

Stava allora cercando di evitare la leva.

Gli USA combattevano la guerra di Corea, e Sharp rifiutava di cooperare con l’ufficio leva militare, non presentandosi all’esame fisico né rispondendo alla cartolina precetto.

“Avevo scelto un tipo particolare di obiezione di coscienza, credo il più antipatico che esistesse: la disobbedienza civile”.

Che equivaleva a renitenza, reato punibile fino a 14 anni di carcere.

Suo padre, un ministro di culto protestante, e sua madre erano sconvolti. Era uno studente eccellente. Perché buttava via il suo futuro?

“Esercitarono ogni genere di pressione, forte, forte, su di me”, rammenta. Ma continuò a resistere. “Era qualcosa che dovevo fare coinvolgendomi quanto era necessario”.

Dapprima, Sharp fece domanda come obiettore di coscienza ma venne rifiutato. Poi cambiò idea: “Mi resi conto che non avrei dovuto farlo all’inizio, non avrei dovuto fare domanda”.

E quando infine l’ufficio gliela concesse, non l’accettò.

Col 1953, le cose non sembravano mettersi bene per Sharp. Era stato arrestato dal FBI e detenuto in un carcere federale in attesa di giudizio. Ma durante quel duro periodo ebbe un alleato importante e insperato: Albert Einstein.

Sharp aveva solo 25 anni, ma mostrava già la grinta intellettuale che avrebbe contraddistinto la sua opera successiva. Scrisse al fisico chiedendogli di fare la prefazione al suo libro e raccontandogli del suo caso giudiziario.

Einstein, noto pacifista e già in età avanzata, condivideva l’ammirazione di Sharp per Gandhi. E fu d’accordo di scrivergli la prefazione.

“L’ammiro davvero per la sua forza morale e posso solo sperare che avrei agito come lei, anche se in realtà non ne sono sicuro, qualora mi fossi trovato nella sua situazione” scrisse Einstein in una lettera del 2 aprile 1953.

Einstein scrisse anche la prefazione al libro di Sharp, descrivendolo come “l’arte di uno storico nato” e aggiungendo: “Com’è possibile che un giovane sia stato in grado di creare un’opera così matura?”.

Sharp usò il nome di Einstein in un discorso che tenne al proprio processo. Alla fine fu condannato a due anni di prigione.

Sua madre, Eve, che era venuta dall’Ohio per la sentenza, scrisse anch’essa a Einstein. che le rispose, dicendole che suo figlio era “irresistibile nella sua nobile sincerità”. La lettera, dice Sharp, fu “un grosso aiuto” per i suoi genitori.

In conclusione Sharp fece nove mesi e 10 giorni di carcere.

“Si contano i giorni in posti del genere” dice adesso, aggiungendo che se non avesse seguito la sua coscienza, per lui sarebbe stato tragico.

“Non avrei avuto il rispetto di me stesso e l’integrità interiore per fare in futuro quel che poteva presentarsi dinnanzi”.

 

Momento d’eureka

Dopo il rilascio dalla prigione, Sharp si concentrò nuovamente sul suo lavoro.

Dopo un breve interludio a Londra da redattore della rivista pacifista Peace News, si trasferì in Norvegia dove entrò nell’Istituto di Ricerche Sociali di Oslo.

“Non era la prima volta che avevo un sostegno finanziario per le mie ricerche e per svolgere la mia linea di pensiero e i miei scritti” dice Sharp.

Era stato invitato dal filosofo Arne Næss, che condivideva l’interesse di Sharp per Gandhi e che molto più tardi si sarebbe messo in evidenza come padre dell’ambientalismo.

Per un po’ le cose parvero promettenti. Næss persuase l’istituto a finanziare un sostanzioso programma di ricerca sul conflitto nonviolento.

Ma quasi ancor prima che iniziasse, il programma fu aggirato a favore di un settore di studi nuovo e più di moda: la ricerca per la pace (peace research).

Tuttora Sharp rifiuta di far sì che il suo lavoro venga assorbito nella più ampia narrativa degli Studi per la Pace (Peace Studies), sebbene questo comporti enormi perdite in termini di finanziamenti.

“Penso ancor sempre che molti ricercatori per la pace (peace researchers) siano alquanto ingenui e romantici pur sotto le loro spoglie scientifiche”, dice.

Sorprendentemente, Sharp fu mantenuto all’istituto a fare la sua ricerca per un paio d’anni. Fu lì che pose le fondamenta della sua opera, scrivendola pagina dopo pagina sulla sua piccola macchina da scrivere portatile.

Ma in Norvegia Sharp cominciò pure a vedere le pecche nel suo lavoro: non considerava adeguatamente il potere politico.

 

Bashar al-Assad: presidente definito dalla violenza

“È un grosso vantaggio sapere quel che non si sa”, dice ora “Si ha così un’opportunità d’imparare — se si vuole e non si è superbi”.

Così se ne tornò in Inghilterra per ottenere una laurea come politologo all’Università di Oxford. Studiò con Alan Bullock, primo biografo di Adolf Hitler, leggendo tutto da Machiavelli ad Auguste Comte e David Hume; analisi del totalitarismo; storie di dittature.

E, mettendo a poco a poco insieme le tessere del puzzle, Sharp cominciò a rivedere la sua opera e a porsi domande critiche.

Che cosa dà il potere di governo a un governo, perfino a un regime repressivo? La risposta, si rese conto, era la fede della gente nel potere di quei decisori. Anche alle dittature servono necessariamente la cooperazione e l’obbedienza della gente che governano per restare in carica.

Allora, ragionò, se si riesce a identificare le fonti del potere di un governo — chi lavora nella pubblica amministrazione, la polizia e i giudici, addirittura l’esercito — si sa da che cosa anche una dittatura dipende per la propria esistenza.

Dopo aver stabilito questo, Sharp tornò alle sue teorie di lotta nonviolenta: “Qual è la natura di tale tecnica?” si chiese. “Quali sono i suoi metodi … vari tipi di scioperi, proteste, boicottaggi, scioperi della fame … Com’è che funziona? Può non riuscire, perché? Se riesce, perché?”

Improvvisamente, arrivò alla soluzione: se una dittatura dipende dalla cooperazione della gente e delle istituzioni, allora basta ridurre quel sostegno.

E questa fu la sua illuminazione. E’ appunto quello che fa una lotta nonviolenta; per sua natura, essa distruggepoliticamente i governi, e anche le dittature più brutali.

È un’arma potente come una bomba o un mitra, forse di più.

“Quello fu il momento dell’eureka” dice Sharp, che ricorda di essersene stato lì nella sua stanzetta a Oxford, colpito e sollevato.

“Non si trattava solo di una teoria, ma di qualcosa di effettivamente applicato in molti svariati casi storici”.

Quel momento sarebbe evoluto nel primo grosso testo di Sharp, “La politica dell’azione nonviolenta” (edizione italiana in 3 voll., EGA, Torino 1985-1997, fuori commercio, ma disponibile presso il Centro Sereno Regis, ndt) che fu pubblicato nel 1973, e immediatamente salutato come un classico e tuttora considerato studio fondativo della lotta nonviolenta.

 

L’opuscolo virale

L’opera più nota di Sharp, “Dalla dittatura alla democrazia”, è un manuale effettivo per il rovesciamento delle dittature.

Cominciò a essere scritto in Myanmar con poche paginette di consigli incendiari surrettiziamente scambiate da attivisti sotto una dittatura militare. Chi ne veniva trovato in possesso era condannato a sette anni di prigione.

Da Myanmar fu portato in Indonesia, poi in Serbia. Dopo di che, dice Sharp, perse le tracce del libretto. Che però assunse vita propria, diffondendosi da un attivista all’altro, fino a ispirare, secondo alcuni, le sommosse note come la Primavera Araba.

Ahmed Maher, uno dei leader del movimento giovanile 6 Aprile che ha avuto un ruolo chiave nella rivoluzione egiziana dell’anno scorso, ha detto al New York Times che il gruppo aveva letto dei testi sul conflitto nonviolento; e che alcuni membri andarono in Serbia per uno scambio d’idee con i membri del Centro per le Azioni e Strategie Nonviolente Applicate con sede a Belgrado, istituto costituito nel 2004 da parte di ex-membri di Otpor!, gruppo giovanile che contribuì a rovesciare Slobodan Milosevic nel 2000 utilizzando i metodi di Sharp.

Il giornalista e cineasta Ruaridh Arrow, che ha fatto un documentario sull’opera di Sharp intitolato “come innescare una rivoluzione”, era in Egitto durante le rivolte dell’anno scorso e riferisce che un giovane attivista gli ha detto che era stata ampiamente distribuita l’opera di Sharp in arabo, ma che si è rifiutato di parlarne davanti alla cinepresa temendo che sapere dell’influenza USA destabilizzasse il movimento.

Sharp ha scritto circa 30 libri e una guida di 900 pagine per l’auto-liberazione scaricabile gratuitamente sul suo sito web. Dice che i militari hanno preso la sua opera sovente più sul serio che i pacifisti, “capendo lo scontro di forze e l’utilizzo di strategia e tattica”.

Uno di tali convertiti è stato Robert Helvey, un colonnello in pensione dell’esercito USA che incontrò Sharp all’ Università di Harvard nel 1987. Sharp era direttore del Programma per le Sanzioni Nonviolente al Centro Affari Internazionali a Harvard, e Helvey, veterano decorato del Vietnam, ne era membro anziano.

L’esperienza di Helvey nella guerra del Vietnam l’aveva convinto che doveva esserci un’alternativa all’uccisione di persone. Avendo sentito parlare Sharp, ne fu attratto. Myanmar, decise Helvey, era il luogo perfetto dove portare le teorie di Sharp. Era stato addetto militare USA a Rangoon (ex-capitale di Myanmar, ora chiamata Yangon) ed era diventato simpatizzante dei gruppi che si opponevano al regime. Ritiratosi dall’esercito, cominciò un lavoro di consulenza per la Karen National Union, tenendo una serie di corsi sulla lotta nonviolenta alla dirigenza dell’opposizione democratica.

I birmani erano stupiti dalle teorie di Sharp. Non riuscivano a credere di star combattendo e uccidendo da 20 anni quando c’era un’alternativa.

Il defunto U Tin Maung Win, un insigne democratico birmano in esilio, chiese a Sharp di scrivere qualcosa per loro.

“Non potevo scrivere onestamente sulla Birmania non conoscendola bene” dice Sharp “e si dovrebbe almeno avere l’umiltà di non scrivere su qualcosa di cui non si sa. Sicché dovetti scrivere genericamente: ove ci fosse un movimento che volesse farla finita con un dittatore, come potesse farlo”. E così nacque “Dalla dittatura alla democrazia – una struttura concettuale per la liberazione”. Oggi il libro è stato tradotto in amarico, farsi, francese, tedesco, serbo, tibetano, ukraino, uzbeko, arabo e dozzine d’altre lingue.

“Chiaramente si sta spargendo la notizia che la lotta nonviolenta esiste” dice Sharp. “E chiaramente giunge quasi come una rivelazione per la gente facendo loro capire che non sono privi di speranza”.

Benché la Primavera Araba abbia messo in evidenza la sua opera nel 2011 come mai prima, Sharp resta scettico sulla sua effettiva, misurabile influenza.

“Anche oggi mi si attribuisce una qualche importante influenza in Egitto, per esempio”, dice, ma “non ho visto dati seri che lo provino”.

 

L’eredità di Einstein

Oggi Sharp occupa molto del suo tempo a gestire l’Istituto Albert Einstein — l’organizzazione che fondò nel 1983 per diffondere le proprie idee e assicurarsi finanziamenti quanto mai necessari, cosa per cui ha lottato per tutta la sua carriera.

“(La lotta nonviolenta) non è stata ritenuta realistica o potente”, dice.

La sua è un’iniziativa con mezzi esigui che gestisce a fianco della direttrice esecutiva Jamila Raqib, sua mano destra; una agile influenza organizzativa, cane da guardia e cervello di ricambio quando occasionalmente a Sharp fa cilecca la memoria. E sovrintende anche alle persone che vengono da tutto il mondo in visita a Sharp, permettendole di vedere l’influenza di lui su chi lotta contro la tirannia o su chi vive sotto una dittatura.

Vengono dall’India, dalla Siria, dalla Russia, dallo Sri Lanka — dappertutto. E ripartono, dice Raqib, “con occhi sfavillanti”. “Succede qualcosa” aggiunge. “Spesso dicono, sa, ‘Questo non può funzionare per noi, la mia situazione è unica, è peggiore, la repressione è particolarmente aspra’. E che cosa non riesce a fare in quei colloqui: se ne vanno con la convinzione che si sia piantato un seme, che ci sia una nuova possibilità”.

Sharp si considera come una specie di mentore.

“Mi rifiuto sempre di dirgli che fare. Cerco di fargli capire che capiscono forse più di quanto non sappiano”.

“C’è un’espressione spesso citata: ‘Le dittature non sono mai forti quanto credono, e la gente non è mai debole quanto pensa’.”

A inizio anno ha pubblicato “Sharp’s Dictionary of Power and Struggle: Language of Civil Resistance in Conflicts.” (Il dizionario di Sharp su potere e lotta: linguaggio di resistenza civile nei conflitti). Sostiene che i principali problemi irrisolti dei nostri tempi — genocidio, dittatura, guerra — esigono che ripensiamo la stessa lingua utilizzata per definirli. Il dizionario contiene circa 900 termini. Ridefinisce molte parole che diamo per scontate — come potere o difesa. “Le forze di difesa talvolta attaccano” dice Sharp.

L’istituto sovrintende anche alle traduzioni in altre lingue delle opere di Sharp — compito reso più complicato dai concetti definiti con precisione. Si affidano ad attivisti per le traduzioni, anziché a traduttori professionisti, perché quelli capiscono la natura del lavoro descritto.

Per Sharp è cruciale il linguaggio: “Se il nostro linguaggio non ha termini chiari e precisi, non si può pensare chiaramente. Se non si può pensare chiaramente, non si ha la capacità di valutare o influenzare ciò che accade. Quindi le distorsioni del nostro linguaggio contribuiscono a renderci privi di risorse”.

Sharp non ha progetti per un comodo pensionamento, non adesso, quando finalmente si decolla. Ammette di “stancarsi talvolta”. Ma c’è tanto da fare.

“Nelle ultime settimane mi sono svegliato nel bel mezzo della notte con qualche idea … o una soluzione a un problema che avevo cercato di risolvere da una settimana, o due o tre”.

Al Frontline Club, continuano a giungere domande dal pubblico. Le risposte di Sharp più che altro sottolineano la sua modestia e mancanza di pretese.

E con chi defeziona dal governo per unirsi a gruppi libertari?, chiede un altro iraniano. Quando li si dovrebbe ammettere e quando no?

“Un estraneo come me non vi può dire che fare” dice Sharp “e se lo facessi non dovreste credermi. Abbiate fiducia in voi stessi. Bisogna essere svegli, ci vuole tempo ed energia … cercate di conoscere in profondità la vostra situazione”.

Per chi ha intenzioni serie, Sharp ha una versione condensata di quel che dice con le letture necessarie sulla sua opera, una guida di auto-liberazione, disponibile gratuitamente sul sito web dell’Istituto Albert Einstein.

“Sono solo 900 pagine in inglese” dice senza fare una piega e suscitando risolini.

E se non v’interessa leggere 900 pagine, vuol dire che non v’interessa togliervi di mezzo il dittatore” ribatte lasciando il segno. “Dico sul serio”.

Alla fine la gente si assiepa davanti per parlargli, inginocchiandosi alla sua sedia manco fosse un reale, chiedendogli di firmare copie dei suoi libri.

In seguito, mentre lo aiutano a infilarsi la giacca nera a chiazze e gli porgono il bastone da passeggio, sorride soddisfatto per la serata: “Domande valide e toste”.

Mairi Mackay

Traduzione di Miky Lanza per il Centro Sereno Regis

Titolo originale: Gene Sharp: A Dictator’s Worst Nightmare

http://www.transcend.org/tms/2012/06/gene-sharp-a-dictators-worst-nightmare/

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