Uno si chiama “nominalismo” e consiste nell’affermare che tra le parole che diciamo e la realtà non c’è alcun nesso. Le parole non sono altro che suoni nell’aria o segni su di un foglio, su cui noi ci “mettiamo d’accordo” per dare loro un significato.
L’altro, invece, si chiama realismo, perché ritiene che alle parole – anche le più astratte come “bellezza” o “verticalità” – corrisponda qualcosa di concreto.
Se si sposa la prima posizione, è un dramma.
Perché se le parole smettono di essere collegate alla realtà, parlare – comunicare, relazionarsi, esprimersi – diventa inutile.
Quando Polonio chiede ad Amleto (che sta perdendo la ragione a causa dell’assassinio del padre) cosa stia leggendo, Amleto risponde con la proverbiale battuta:
“Parole, parole, parole”
(a scanso di equivoci: Mina e Alberto Lupo non c’entrano).
Allora Polonio insiste, con la cortesia che si riserva ai pazzi: “Voglio dire, che cosa dicono le parole che leggete, monsignore…”
E qui Amleto taglia: “Calunnie, signore.”
Dove le parole non significano più nulla, la vita è calunnia.
Fine del discorso.
Se si sposa, invece, la seconda posizione, il gioco si fa più sensato, ma anche molto più difficile. Se è vero che le parole hanno un significato, occorre stare a questo gioco fino in fondo, e accettare la grande fatica di scoprire quale sia la verità.
Che esiste.
Ce lo dice Giulietta, l’innamorata:
No, questo lo capiamo tutti: anche se la rosa prendesse il nome di “pistone”, non smetterebbe di essere bellissima e di spargere profumo.
Tutto questa lunga premessa per arrivare a dire cosa?
Una cosa molto semplice: che cessare la ventilazione forzata, l’idratazione e il nutrimento per il piccolo Alfie – per quanto malato e senza speranza – non è e non diventerà mai “cessare l’accanimento terapeutico”.
Chi sostiene questo dice, sostanzialmente, quello che dice Humpty Dumpty in “Alice nel paese delle meraviglie”: «Quando io uso una parola», disse Humpty Dumpty in tono alquanto sprezzante, «essa significa esattamente quello che decido io … né più né meno.»
E poco importa che a prendersi il potere di decidere quale vita sia degna di essere vissuta e quali siano cure palliative sia stata l’Alta Corte di Giustizia, la Corte d’Appello, la Corte Suprema o che altro… “Forse che quella che chiamiamo rosa cesserebbe d’avere il suo profumo se la chiamassimo con altro nome?”