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La schiavitù di oggi. Siamo uomini o caporali?

DiDaniele Lugli

Feb 18, 2019

Nei giorni scorsi – 8 febbraio Giornata internazionale di preghiera e riflessione contro la tratta di esseri umani, in memoria di Santa Giuseppina Bakhita, schiava sudanese all’età di 7 anni – il Corriere della Sera ha titolato “Sesso e lavori forzati in un mondo di nuovi schiavi e cattivi caporali”. Mi ha ricordato il grande Totò: “L’umanità io l’ho divisa in due categorie di persone: uomini e caporali… Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare tutta la vita come bestie, senza vedere mai un raggio di sole, senza la minima soddisfazione, sempre nell’ombra grigia di un’esistenza grama – un po’ pessimista come descrizione di tutti gli uomini, ma perfetta per gli schiavi – I caporali sono appunto coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano… hanno tutti la stessa faccia, le stesse espressioni, gli stessi modi, pensano tutti alla stessa maniera”.

Noi vorremmo essere uomini e non caporali nei confronti dei nuovi schiavi. Gli schiavi sono tanti, più di 40 milioni secondo le stime di agenzie dell’Onu e della Walk Free Foundation (WFF), una Fondazione australiana guidata da donne. Elabora annualmente un Indice della schiavitù globale. Una visita al suo sito fa conoscere diffusione, forme, incidenza. C’è schiavitù ovunque, come sfruttamento estremo e costrizione alle quali è impossibile sottrarsi. Sono femmine al 71%, maschi al 29%. 25 milioni lavorano e producono come schiavi. Più di 15 milioni di donne sono costrette a matrimoni forzati. A milioni si contano tra India, Cina, Pakistan, Bangladesh, Uzbekistan… In Corea del nord una persona su dieci è chiaramente ai lavori forzati per il bene dello Stato. La seguono Eritrea, Burundi, Repubblica centrafricana, Afghanistan Mauritania, Sud Sudan, Pakistan Cambogia, Iran…

Povertà, regimi totalitari, guerre alimentano la produzione di schiavitù e il suo traffico in ogni parte del mondo, come vuole un incontrollato commercio globale di ogni cosa, inerte o vivente che sia. È un affare stimato in 354 miliardi di dollari l’anno per beni prodotti in condizioni di schiavitù consumati dai Paesi più sviluppati. La classifica delle importazioni nei Paesi del G20 vede in testa, per inclusione di lavoro schiavo, Smartphone e computer, abbigliamento, pesce, cacao, zucchero di canna… Di prodotti a rischio di schiavitù l’Italia ne importerebbe per 7 miliardi di dollari all’anno.

Noi, Europei, Italiani, non produciamo schiavitù, se non in piccola parte. La importiamo piuttosto. Ce ne avvaliamo nel lavoro agricolo stagionale, in edilizia, nel lavoro domestico e nelle strutture ricettive. Ancora mangiamo, ci vestiamo, comunichiamo, lavoriamo, ci trucchiamo, ci droghiamo con prodotti di quella provenienza. Usiamo e abusiamo di donne e minori, schiavi prostituti. Qualche volta facciamo loro l’elemosina. La stima di schiavi in Italia è di 145 mila persone. Per me non sono poche. Le più esposte sono persone senza diritti, giunte da noi tra speranza e disperazione. In particolare donne e bambini.

Le nostre democrazie sono colpite nei loro principi fondanti quando si accetta che in Europa e in Italia vi siano cittadini di serie A, B e C. E non considero i supercittadini di un sopramondo che decidono delle nostre vite, per nostra ignavia e incapacità. Senza tener conto dunque di abissali differenze di ricchezza e potere, ci sono A cittadini che hanno riconosciuti i diritti affermati nelle carte fondamentali, altri B semi-cittadini precariamente in regola, infine C i clandestini – alla lettera: i nascosti di giorno (clam e dies) – prodotti dalla negazione del fondamentale diritto alla libertà di movimento. Ci si avvia a considerare pure la categorie D, non persone, schiavi, a tempo o per sempre.

I diritti di libertà, civili e sociali sono dunque precari, malsicuri, incerti, revocabili arbitrariamente come la condizione dei migranti, come molti lavori dei nostri giovani. Opporsi alla schiavitù, ai suoi effetti e annunci nella realtà che ci è più vicina, è affare pienamente nostro.

Del 10 dicembre 1948 è la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Aveva scritto: Art. 4 Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma; Art. 13 Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese; Art.14 Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni.

Un anno dopo, il 2 dicembre 1949 l’Assemblea generale dell’Onu ha approvato la Convenzione contro il traffico di essere umani e lo sfruttamento della prostituzione. Il 2 dicembre è divenuta la giornata internazionale per l’abolizione della schiavitù.

Altre giornate sono state proclamate, da parte dell’Unesco nel 1950: 23 agosto Giornata Internazionale per la Commemorazione della Tratta degli Schiavi e della sua Abolizione; dall’assemblea generale dell’Onu nel 2013, 30 luglio: Giornata internazionale contro la tratta di esseri umani. Noi abbiamo una ricorrenza particolare il 18 ottobre – Giornata Europea contro la tratta – sarà la tredicesima. Infine, ma sono quasi certo di compiere omissioni, il 16 aprile è la straziante Giornata contro la schiavitù infantile, in ricordo del pakistano Iqbal Masih, schiavo a 4 anni e assassinato a 12. Così ogni stagione ha almeno un giorno per ricordare lo schiavismo, passato e presente.

Un importante convegno “La schiavitù nel XXI secolo” si è tenuto a Roma il 13 febbraio scorso. Il mauritano Biram Dah Abeid – già premio dell’Onu per i diritti umani nel 2013 – ha detto della sua lotta per abolire la schiavitù. Mette in pericolo la sua vita ed è stato più volte carcerato. Nel 1982 e nel 2007 la schiavitù è stata ufficialmente abolita, ma persiste, come in tutti i paesi arabo musulmani. In Mauritania è particolarmente diffusa: schiavo il 20% della popolazione e schiavo affrancato il 35%. C’è un breviario – Biram l’ha bruciato pubblicamente rischiando la vita – commento del Corano approvato dal Governo. Afferma che i negri e le negre sono naturalmente schiavi e come tali possono essere trattati: comprati, venduti, affittati, sfruttati, sottoposti a ogni tipo di violenza.

Il colore della pelle che ti marca come schiavo! Penso al nostro saluto più confidenziale “Ciao”, dal veneto “s-ciao”, ovvero schiavo e pure slavo, bianchissimo prigioniero di guerra. Potremmo deciderci a congedarci dalla schiavitù con un “ciao” non amichevole e definitivo. È imbarazzante questa compagnia che abbiamo al fianco fin dalla preistoria.

Biram si può ascoltare qui

Vigna di Mauro Biani

 

Di Daniele Lugli

Daniele Lugli (Suzzara, 1941, Lido di Spina 2923), amico e collaboratore di Aldo Capitini, dal 1962 lo affianca nella costituzione del Movimento Nonviolento di cui sarà nella segreteria dal 1997 per divenirne presidente, con l’adozione del nuovo Statuto, come Associazione di promozione sociale, e con Pietro Pinna è nel Gruppo di Azione Nonviolenta per la prima legge sull’obiezione di coscienza. La passione per la politica lo ha guidato in molteplici esperienze: funzionario pubblico, Assessore alla Pubblica Istruzione a Codigoro e a Ferrara, docente di Sociologia dell’Educazione all’Università, sindacalista, insegnante e consulente su materie giuridiche, sociali, sanitarie, ambientali - argomenti sui quali è intervenuto in diverse pubblicazioni - e molto altro ancora fino all’incarico più recente, come Difensore civico della Regione Emilia-Romagna dal 2008 al 2013. È attivo da sempre nel Terzo settore per promuovere una società civile degna dell’aggettivo ed è e un riferimento per le persone e i gruppi che si occupano di pace e nonviolenza, diritti umani, integrazione sociale e culturale, difesa dell’ambiente. Nel 2017 pubblica con CSA Editore il suo studio su Silvano Balboni, giovane antifascista e nonviolento di Ferrara, collaboratore fidato di Aldo Capitini, scomparso prematuramente a 26 anni nel 1948

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