Una raccolta di racconti intrigante e coinvolgente. Dopo averli letti tutti e sette, in successione, l’impressione è che si tratti di una sorta di ‘concept album’ di De Andreiana memoria: come fotografie di un album di famiglia che, a furia di guardarle, ti mostrano dettagli e colori sconosciuti. Siamo nel mondo dell’editoria e la fauna è varia e pittoresca: scrittori vanagloriosi e mai pubblicati; agenti letterari, consulenti editoriali nevrotici e senza scrupoli; critici soffocati dal loro stesso sterile sarcasmo; in una parola un mondo schiavo del ‘marketing’, lontano dalla ricerca di un valore di consapevolezza da stimolare in chi legge.
Si ride, ma è un sorrido amaro, cinico, sofferente nello scoprire quanto esista di poco autentico in chi, invece, dovrebbe difendere la purezza della comunicazione.
Sì, certo, siamo in un’opera di finzione, ma già dal titolo l’allusione a una disincantata messa in scena della realtà fa capolino prepotentemente e ti segue pagina dopo pagina.
La bravura dell’autore sta nel rendere talmente credibili tutti i personaggi da evitare il rischio, concreto, di scadere nel già detto, o nel ripetersi, visto che il taglio critico e l’ambiente sono esplicitati fin dalla prima frase e rimangono, sostanzialmente, invariati in ogni storia. Ma ogni carattere esce dalla pagina, non rimane prigioniero dell’idea che sta dietro alla sua costruzione, cioè quella di descrivere la deriva di una realtà, quella legata ai libri, sempre più incatenata alle ferree logiche di mercato.
Qui sta la forza di questo libro: ogni personaggio è lineare e controverso; razionale e imprevedibile; coinvolto, ma solo fino s un certo punto. E ognuno di loro ti lascia un segno, una traccia per comporre il mosaico di una rappresentazione tragicomica di un mondo ben definito.
Con l’idea, suggerita, ma non dichiarata, che solo attraverso la semplicità dello sguardo, l’umiltà nelle intenzioni, la capacità di ascoltare prima di giudicare si possano ritrovare di nuovo il gusto e la potenza del racconto come strumento principe di costruzione di un senso profondo di comunità.
Con un linguaggio secco, come una rasoiata della falce su un prato di erba alta, Manzini disegna parabole di identità perdute, che, piano piano, quasi con stupore, intravedono un barlume di cambiamento.
Libro che attrae e imprigiona, che ti fa ridere e spaventare nello stesso istante, che ti commuove e ti fa arrabbiare, ma che ti accompagna in un cammino verso l’incanto della narrazione.
Chapeau.
Evviva!