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Mafia, giustizia, nonviolenza…

DiVincenzo Sanfilippo

Giu 13, 2019

Il 14 giugno si è svolto a Palermo un convegno dal titolo “È possibile uscire dai sistemi mafiosi? Esperienze istituzionali e iniziative di comunità per sottrarre i minori di famiglie di mafia al destino criminale” Hanno  aperto i lavori Roberto  Di Bella, Presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria ed Enza Rando, Vice Presidente nazionale di LIBERA.

Il Dott. Di Bella è noto in Italia per aver sperimentato un orientamento giurisprudenziale che prevede l’adozione di procedimenti civili di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale e, nei casi più gravi, il contestuale allontanamento dei minori da nuclei familiari apparteneti alla ‘ndrangheta. Si tratta quindi di esperienze nate all’interno di un sistema, quello giudiziario (sia civile, sia penale) che in alcuni casi è indicato come sistema giudiziario-repressivo.

Il sistema giudiziario nel suo complesso è infatti un sistema che esercita un certo grado di violenza, anche se agita in nome di valori e tutela dei diritti, in questo caso sanciti dalla Convenzione ONU sui diritti del fanciullo ratificata in Italia nel 91. Dal punto di vista penale, inoltre,   non dovremmo mai dimenticare la finalità rieducativa delle pene  sancita dall’art. 27 della Costituzione italiana.

Perché la nonviolenza si interessa a queste storie di mafia?

Per rispondere a questa domanda provo a ripercorrere qualche passaggio personale che ha dato il via all’incontro di domani.

Tutto parte dall’ascolto di una trasmissione radio in cui per la prima volta ho sentito il nome del Dott. Di Bella e  conosciuto la sua esperienza. In quella trasmissione lui raccontava di giovani e di donne che – allontanate coercitivamente dal contesto ‘ndranghetista di appartenenza – avevano  successivamente accettato e vissuto positivamente questo distacco. In alcuni casi ciò che era stato imposto è stato successivamente richiesto.

Quest’ esperienza mi ha riportato alla riflessione, che con alcuni amici di Palermo, avevamo avviato alcuni anni fa, sulla possibilità di un approccio nonviolento al superamento dei sistemi e delle culture mafiose. In quegli anni, ci eravamo anche soffermati, sul rapporto tra azioni nonviolente e azioni repressive dello Stato per combattere la mafia.

Chi conosce i maestri della nonviolenza (Gandhi, M.L. King, Capitini, Lanza del Vasto…) sa bene che l’approccio nonviolento non vuole estirpare il male dal mondo come qualcosa di “altro da sé”.

Il giudice che commina una pena o adotta un provvedimento di limitazione della libertà, non può certo, nell’esercizio della sua funzione, adottare questo orientamento. Egli tuttavia non può  ignorare come la nozione di “reato” sia una semplificazione, che non tiene conto della rete di responsabilità, complicità e condizionamenti all’interno dei quali i reati vengono commessi. Un contesto che egli non può fare a meno di rilevare e che consegna ad altri che possono agire, con diversi strumenti, affinchè si prevengano quei tipi di reato in futuro.

I giudici più avveduti lanciano spesso grida d’allarme alla società, alla scuola ai servizi sociali, al mondo dell’economia, convinti che le risposte repressive a volte possono fare ben poco. Falcone, a proposito della criminalità organizzata, diceva che “la mafia non è un cancro” ravvisando non soltanto negli autori-di-reati-di-mafia i responsabili dei sistemi mafiosi.

Qual è allora il rapporto che la nonviolenza deve avere con il sistema giudiziario, in particolare quando questo si occupa di mafie?  Il nonviolento che non accetta il male, l’omicidio, la menzogna, addirittura la morte [ ci sono pagine bellissime di Aldo Capitini su tutto ciò…] non può certamente accettare le mafie, non ne può accettare il sistema di regole e la “cultura” che essa incarna, non può accettare che esse esisteranno sempre.

Nello stesso tempo la preoccupazione del nonviolento,  sociologica e spirituale al tempo stesso, è in primo luogo distinguere il male da chi lo commette. E – legata a questa preoccupazione –  la convinzione (Capitini direbbe persuasione) che dalle mafie non si uscirà mai senza percorsi che attraversino l’intimo di persone che sono state interne o contigue a questi sistemi e che da questi sistemi sono uscite o hanno preso le distanze. Ricordiamo che si entra nei sistemi mafiosi per scelta, ma spesso anche per cooptazione violenta, plagio, semplice “biografia”, come recentemente Dario Cirrincione ha raccontato nel libro Figli di Boss, ed. San Paolo)

Detto in altre parole, dalla violenza, di qualunque tipo essa sia, non si può uscire senza atti di coscienza. E stiamo attenti: ciò non è vero solo nelle situazioni  individuali, è vero anche in quei casi in cui la violenza si fa sistema.

E proprio da alcune violenze fatte sistema abbiamo appreso, nel secolo appena trascorso e nei primi di questo,  delle modalità nuove di fuoriuscita: mi riferisco al regime di apartheid in Sudafrica con la Commissione verità e riconciliazione voluta da Nelson Mandela e presieduta da Desmond Tutu e mi riferisco  al terrorismo in Italia, rispetto al quale sono state rese in qualche modo pubbliche, non solo alcune narrazioni di travaglio interiore di persone che avevano scelto la lotta armata negli anni 70, ma anche le storie di incontro tra alcuni ex terroristi con parenti di vittime: significativo Il libro dell’incontro (ed. Il Saggiatore) curato da Bertagna Ceretti e Mazzuccato, pubblicato qualche anno fa, sintesi di un percorso interessante e denso, durato diversi anni.

È bene dirlo, a scanso di equivoci: né l’apartheid in Sudafrica né il terrorismo in Italia si sono conclusi per il pentimento di qualche torturatore o di qualche brigatista. Queste esperienze di cui ho parlato non hanno coinvolto la totalità degli attori e non si può certo dire che quei processi storici di fuoriuscita hanno preso le mosse solo da percorsi di conversione individuale.

Altri percorsi e azioni di tipo penale e politico sono stati necessari, nei periodi in cui quei conflitti sociali si sono superati.

Ma forse potremmo dire che quei percorsi hanno portato a compimento quelle fasi storiche così tragiche , fasi in cui tutto l’organismo sociale ha sofferto e ha poi fatto tesoro di quelle esperienze di incontro, in cui la verità è stata narrata dagli stessi protagonisti. Si trattava spesso – come nelle violenze mafiose – di esperienze durissime, agghiaccianti… che qualcuno però  ha avuto il coraggio di raccontare: sia chi le aveva compiute, sia chi ne era rimasto vittima.

E l’incontro tra autore e vittima e, in alcuni casi, la loro riconciliazione ha assunto un valore catartico (“che purifica interiormente e porta a una contemplazione comprensiva e superartice della colpa o delle passioni”). Forse quelle esperienze potranno fondare  società e  culture umanamente più solide, in cui il ricorso alla violenza sarà allontanato, o non si ripresenterà nelle stesse forme, in cui senz’altro oltre alla memoria della morte, si porterà la memoria della rinascita e della possibile riconciliazione.

Questi due esempi, ma altri se ne potrebbero citare, danno forse la  cifra di quell’aggiunta nonviolenta di cui parlava Capitini che costituisce la novità della storia del novecento.

Sono delle novità storiche assolute, modalità diverse di uscire dai conflitti che non sempre sono state messe in atto: per esempio nella fuoriuscita dal nazifascismo non abbiamo assistito a niente di tutto questo dal punto di vista della narrazione collettiva.

Ecco allora che possiamo tornare alla nonviolenza, perché il cardine della nonviolenza è  il lavoro sulle coscienze.

Non è necessario smontare i sistemi istituzionali: Roberto Di Bella, ma direi anche Falcone, Borsellino e tanti altri uomini che lavorano dentro istituzioni tra virgolette “repressive” hanno incontrato e incontrano delle coscienze. E più le coscienze emergono, più le istituzioni, anche quelle repressive, potranno mutare  assumere un volto sempre più umano e nonviolento.

E possiamo tornare alle mafie, fenomeno certamente diverso da quelli sopra ricordati, ma non per questo irraggiungibile dall’azione nonviolenta.

La riflessione su nonviolenza e mafia del 2003-2005 si apriva e con l’amarezza del suicidio, nel 92, di Rita Atria, una ragazza di Partanna, che voleva uscire dalla mafia, ma che non ce la fece e si suicidò perché il suo unico interlocutore era Paolo Borsellino. Ma dopo di lei, con l’aiuto di una società civile più matura, con il concorso di esperienze importantissime come quella di Libera, tante altre persone hanno fatto percorsi analoghi.

Qualcosa che solo alcuni anni sembrava impossibile, comincia ad emergere nei sistemi mafiosi. Qualche giorno fa analizzando i titoli della sezione mafia di una Libreria di Palermo mi sono imbattuto in diverse pubblicazioni che non conoscevo, fatte da ex mafiosi o comunque da persone di famiglie mafiose che rivedono criticamente la loro vita o che vogliono liberarsi da un destino che solo un cognome poteva fissare per sempre. Sono storie spesso “minori” di persone autori di reati di mafia o di semplici familiari dilaniati tra la scelta di accusare e mandare in galera il padre o il fratello o quella di aderire, solo con un silenzio compiacente o con piccoli gesti di collaborazione, ad un sistema violento che li possederà, violentando loro stessi, per tutta la vita. Tutti ricordiamo le recenti dichiarazioni  di Antonio Piccirillo, figlio di un boss della Camorra, che si è dissociato pubblicamente dalla cultura camorristica dopo l’agguato di Piazza Nazionale a Napoli,  in cui è rimasta ferita la piccola Noemi di soli 4 anni.

Questi percorsi non possono restare dei percorsi individuali. Dobbiamo trovare i modi e le parole per trasformarli in prassi e culture collettive. Penso che domani  a Palermo faremo un piccolo passo avanti in questa direzione.

Per troppo tempo i movimenti di contrasto alle mafie si sono concentrati su due concetti certamente fondamentali: quello di legalità e quello di memoria. Questi concetti, a distanza di tanti anni dalla loro prima proposizione, rischiano di assumere un sapore rituale e retorico. Dire che è possibile uscire dai sistemi mafiosi e trovare le parole per dirlo è il compito che ci è assegnato in questo nuova fase storica.

Per questo vorrei fare una timida proposta a Libera: ogni 21 marzo, piuttosto che un interminabile lista di vittime, proviamo a raccontare un’ esperienza di fuoriuscita dalle mafie. Ognuna di queste esperienze, rompendo con  il fatalismo e l’ineluttabilità delle mafie, rende giustizia ad ogni persona innocente morta per mano mafiosa.

 

Di Vincenzo Sanfilippo

Svolgo la professione di sociologo nell'ambito di un Dipartimento di Salute Mentale. La mia formazione spirituale e sociale mi hanno portato in gioventù all'obiezione di coscienza e alla nonviolenza. Sono abbonato ad Azione Nonviolenta dal lontano 1975 e non posso che ringraziare questo strumento che ha contribuito alla mia formazione e che, con altri percorsi variegati (scoutismo, studi universitari a Trento, comunità del dissenso cattolico) mi ha portato alla nonviolenza gandhiana e alla Comunità dell'Arca fondata da Lanza del Vasto di cui faccio parte dal ‘95. Con amici palermitani e catanesi abbiamo costituito una Fraternità di cui potete avere notizia visitando il sito http://www.trefinestre.flazio.com/home  

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