Noi non facciamo mai notizia! Forse è meglio perchè quando si parla di noi “volontari” vuol dire che è successo qualcosa di male. Il lavoro silenzioso continua, continua, continua, e quando torni a casa, però, è difficile spiegare. E’ difficile spiegare quello che si ha dentro perchè pare che chi incontri, familiari o amici, non abbiano gli strumenti per capirti. Ti sembra di parlare un’altra lingua. E’ frustrante perchè una delle cose che la gente ci chiede, nelle guerre, nei campi profughi o in altre situazioni simili, è di raccontare la loro storia di dire che non sono terroristi o di raccontare la loro sofferenza.
Quando poi i profughi diventano nemici da combattere e da criminalizzare perchè qui “c’è ne sono troppi” e perchè “non c’è nemmeno lavoro per gli italiani!” ti senti quasi in imbarazzo a dire che forse questa gente non ha scelta. Ti senti quasi in colpa per aver vissuto mesi in una tenda di plastica e cartone per stare vicino alle vittime di una guerra. Il nostro volontario qui di seguito prova a ragionare su questo tema e mi sento di condividere con voi questa sua riflessione che è stata mia e di molti altri volontari in zone di conflitto.
Ciao Fabrizio
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Sono passati quasi tre anni da quando ho deciso di partire con Operazione Colomba, e sono più di due mesi che per un’altra volta ho lasciato casa.
Sto cominciando a fare l’inventario dello zaino del ritorno e spesso la mente si ferma a ripercorrere tutte le facce, i sorrisi e le lacrime che mi porterò in Italia. Non è facile per me capire tutto quello che ho vissuto e condiviso: c’è così tanta roba che in certi momenti mi sembra di scoppiare, di essere saturo di tutto e di dover affrontare la prova più difficile, il rientro. Condividere con amici, parenti e conoscenti, tutto il dolore a cui sono stato vicino.
È un momento delicato perché so già che le parole e le immagini che metto in ordine qui sul campo, saranno trasformate al mio arrivo dal senso di frustrazione per l’immobilità del mio Paese davanti al l’ingiustizia più grande, la guerra. Saranno filtrati i miei pensieri, dai problemi quotidiani di casa, che scaldano i primi giorni, ma che dopo un po’ ti fanno recedere alla tua vita di “prima”, quando ancora non sapevo sognare. Saranno rimescolati i miei sentimenti, dal sentire che non avrò mai le parole giuste per comunicare la vita a cui sono stato accanto. Perché, ora che ci penso, è proprio questa la mia preoccupazione: come faccio a dire a mio fratello cosa vuol dire abitare in un campo profughi? Come faccio a passargli la composta disperazione di R. che piuttosto che stare un altro anno se ne andrà per mare da clandestino, mettendo a repentaglio la propria vita e quella della sua famiglia, piuttosto che aspettare qua nel campo profughi, un domani che non arriva?
Come faccio a far capire ai miei amici del bar il perché ho deciso di vivere così, adattandomi in 10 mesi a 3 continenti, 6 case, 10 gruppi di volontari diversi, un’ottantina di compagni, 4 conflitti diversi (in cui le vittime sono sempre le stesse, i piu’ deboli), migliaia di profughi, migliaia di oppressi, contadini, pastori, allevatori, i piccoli della società, gli invisibili delle lotte, (invece che fare volontariato al paese) , senza passare per un disadattato? Come faccio a spiegare il fiume di dolore che attraversa questa gente senza passare per un empatico sentimentalista visionario che crede ancora che al mondo ci debba essere la Pace?
Come faccio a dire a mio padre che sono disposto sinceramente, e con la più assoluta tranquillità interiore, a soffrire con tutta questa gente e PER tutta questa gente senza che lui mi veda come un deficiente-senza-futuro o un eroe, ma come il frutto di tutti i suoi insegnamenti?
Come faccio a spiegare a mia madre che il pensiero di Compagna Morte è un pensiero che mi è sempre vicino e si, che sono disposto a condividerla con profughi, contadini, allevatori, pastori, senza essere per lei un tradimento, ma bensì il frutto del suo amore incondizionato e si smisurato?
Come faccio a far capire a tutti i “compagni” che hanno la rivoluzione o la lotta in tasca, o a tutti i “fratelli” che hanno la bibbia sulla bocca, che a niente serve parlare, discutere, arrabbiarsi, progettare e sentirsi nel giusto, se non si FA, se non si è disposti ad ammettere la nostra sofferenza, anche la più grande e più estrema?
Perché è di questo che si tratta, sapere PER cosa si è disposti a vivere e morire, sapere che se si vuole vedere il cambiamento bisogna non avere paura dei propri sogni e andare in “all in”, mettere tutto su quel dannato tavolo.
Tirarsi indietro, non è da vigliacchi, è solo che non è all’altezza di tutta la rabbia e l’amore che mi porto dentro in ogni angolo di mondo che tocco.
Come faccio a spiegarlo, io, questo?
(foto di operazionecolomba.it)