• 3 Luglio 2024 1:18

A trent’anni dalle stragi. Per vincere l’inquietudine servono nuove domande

DiVincenzo Sanfilippo

Lug 14, 2022

Ieri sera a Palermo, Presso il NoMafia Memorial  1 si è presentato un libro dell’amico Augusto Cavadi, filosofo e teologo, impegnato su vari fronti sociali, primo fra tutti quello antimafia. Autore di diverse pubblicazioni 2 Augusto, in quest’ultimo volume dal titolo Quel maledetto 1992. L’inquietante eredità di Falcone e Borsellino, ha voluto ripercorrere un trentennio di impegno personale e collettivo in una città che ancora “non sa darsi pace” per la presenza di una mafia che è al contempo organizzazione criminale e sistema sociale, fenomeno che ha oltrepassato i confini regionali e nazionali intrecciandosi con analoghe organizzazioni e sistemi.

Nella storia tracciata da Augusto è ben descritto anche il tentativo che si fece insieme, nei primi anni 2000, di applicare teoria e metodo nonviolento per le azioni di contrasto alla mafia. E su questa tematica ci siamo ri-confrontati, su invito dell’infaticabile Umberto Santino, Presidente e fondatore, con Anna Puglisi del Centro Siciliano di documentazione Giuseppe Impastato.

Nell’invitare i lettori di questa rubrica alla lettura del volume, ma anche a non dimenticare di visitare il No Mafia Memorial nel caso in cui dovessero trascorrere qualche giorno a Palermo trascrivo le riflessioni condivise ieri sera, interrompendo con questa occasione un lungo silenzio, dovuto a quel generale rallentamento di attività sociali e culturali causato dalla pandemia.

È la terza volta nel giro di tre mesi che vengo invitato a presentare dei libri e tutte e tre le vote mi si chiede di riprendere questo tema a me molto caro che è quello del contributo della nonviolenza alla lotta alle mafie.
Lo abbiamo fatto recentemente a Cinisi presentando il volume con Umberto e Anna e anche con Augusto, a maggio per il libro La memoria e il progetto 3,  poi a Palermo con Anna Staropoli e il vescovo Don Corrado Lorefice per il loro libro Il Vangelo e la strada 4 e oggi qui al NoMafia Memorial per presentare questo libro di Augusto Quel maledetto 1992 dove a mio avviso è più intrigante il sottotitolo: L’inquietante eredità di Falcone Borsellino
L’inquietudine di Augusto che attraversa tutto questo libretto e che è anche la mia, penso possa essere riportata ad una certezza che è dentro le nostre coscienze e che viene implicitamente o esplicitamente ribadita nelle pagine di questo libro: la mafia, per come l’abbiamo concepita in tanti, da Umberto Santino a Giovanni Falcone ad Augusto e chi vi parla, non è mai stata sconfitta, si è soltanto evoluta, adattandosi ad altri elementi anch’essi in evoluzione storica.
Procedo allora nel tentativo comune di rispondere a quella sfida con la quale si conclude il libro: convincere i cittadini che la mafia non sia inevitabile, perciò, non sia velleitario ogni tentativo di scardinarla.
A quale idea di mafia facevamo riferimento quando costruimmo quel gruppo-laboratorio al quale avevamo dato un nome molto lungo, segno di una complessità della realtà e del progetto che volevamo intraprendere? Il nome era Percorsi nonviolenti per il superamento del sistema mafioso. Da che idea di mafia partivamo? Non certo un’idea di una semplice organizzazione criminale, ma di un elemento che conforma e struttura sistemi sociali generali, sistemi che continuano quindi a contenere al loro interno le componenti politico-amministrative, culturali, economiche e affettivo relazionali.  Non la mafia quindi come un bubbone, un cancro benigno che possa essere estirpato con intelligenza e tecnica chirurgica. E proprio in forza di questa capacità della mafia, che riconoscevamo e riconosciamo ancora oggi, di conformare i sistemi sociali, che utilizzammo la categoria di sistema sociale mafioso.
La mafia – ci sembra di ripetere concetti ormai quasi scontati – anche se uccide meno, continua comunque a fare del male e togliere vita e spazio vitale, sia dal punto di vista fisico sia da quello psicologico, relazionale, progettuale, spirituale.
Basta andare nei nostri quartieri periferici e non sarà difficile percepire la presenza del boss della zona, la presenza dell’intimidazione che si fa cultura fino alla deriva di una preoccupante complicità tra vittime e carnefici. Significative sono a tal proposito le intercettazioni in cui alcuni commercianti  segnalano agli estorsori (e a tutela degli stessi!), la presenza di forze dell’ordine per non parlare del fenomeno degli spacca-ossa…5 ; non sarà difficile ancora oggi percepire in queste aree la distanza siderale dallo Stato, della politica e dei valori a cui noi, che partecipiamo a eventi come questo di questa sera, ci rifacciamo.
E più ci avviciniamo ai nostri mondi fatti di persone di ceto medio, impiegati, insegnanti, liberi professionisti, più percepiamo un altro volto della mafia che è quello dell’assuefazione e dell’accomodamento, dell’interesse economico, nel quale ad una ritualità anti-mafia si accompagna – confessata o inconfessata – la convinzione che qualcuno esplicitò in maniera quanto mai semplice chiara, che è quella che con la mafia bisogna convivere.
La recente vicenda politica di Palermo è eloquente e drammatica.
Il non aver saputo dare da parte dello schieramento che ha vinto le elezioni amministrative, un taglio netto alla politica che ha trattato con Cosa Nostra ci ha lasciato sgomenti.
Pensavo a questo rileggendo la lettera aperta scritta da Manfredi Borsellino circa venti anni fa e che Augusto riporta a pag. 11 del suo libro, lettera scritta seguito della vicenda umana e giudiziaria di Padre Giuseppe Bucaro, il quale mentre intitolava, probabilmente con nobili intenti, un Centro Sociale alla memoria di Paolo Borsellino, riceveva donazioni da un docente universitario consulente e socio della famiglia di Vito Ciancimino.
In quella lettera Manfredi Borsellino cercava di gettare un grido di allarme anche alla parte “buona” della città: Questa vicenda – egli scriveva – è esemplare, ci insegna come a Palermo, ma non solo a Palermo, bisogna avere, si deve avere il coraggio di evitare o troncare amicizie, frequentazioni o semplici contatti con persone importanti o altolocate, chiacchierate, da cui si possono trarre favori più o meno leciti, si deve avere la forza di rinunziare a coltivare rapporti con persone che nel tempo hanno intrapreso, un’altra strada, la strada della contiguità e della complicità, come diceva mio padre, con il malaffare e la delinquenza in genere.
Quelle stesse parole potevano indirizzarsi ai leader della coalizione che ha vinto le elezioni nella nostra città. Il fatto di non aver saputo trarre nessun insegnamento da quelle parole di Manfredi Borsellino, che erano poi le parole del padre magistrato (e che tra qualche giorno ricorderemo con tanto di autorità politiche presenti,  richiamato più volte in quella lettera),  è, purtroppo, la cifra della nostra sconfitta culturale e spirituale.
E dire che quel messaggio fu scritto senza alcun tono aggressivo, direi quasi in uno stile nonviolento, che voleva mirare alla coscienza dell’interlocutore e non al suo dileggio o mortificazione.
Direi che dobbiamo partire da questo dato.
E questo dato non deve scoraggiarci.
Non vorrei infatti dare un contributo pessimista o fatalista a questa sconfitta.
E vorrei avanzare subito una notazione epistemologica cioè relativa alla comprensione del fenomeno mafioso e dire che la nostra inquietudine parte probabilmente da un nostro errore.
Partendo da questo errore dobbiamo anche riformulare le domande.
Infatti le domande che ci poniamo – anche se non ne siamo sempre consapevoli – non hanno un legame soltanto con la realtà che abbiamo di fronte, ma anche e soprattutto con la rappresentazione che di quella realtà ci siamo fatti, oltre che con il modo in cui ci avviciniamo ad essa. Queste domande sono sottese nel libro di Augusto, ma mi permetto di renderle più esplicite.
Se partiamo dall’idea della mafia come sistema sociale o come sistema sociale mafioso, come dicevo prima, la domanda se la mafia sia stata sconfitta non ha molto senso, così come non ha molto senso interrogarsi se lo potrà essere tra poco o tra molto, poiché i sistemi sociali, come i sistemi culturali, i sistemi linguistici ecc. non sono fuori di noi. C’è questo vizio di impostazione di fondo che proprio Falcone cercò si rappresentare con immagini e parole che mi hanno sempre colpito per la loro efficacia che io penso ci può aiutare ancora oggi a comprendere la mafia prima ancora che a sconfiggerla. Quando lui diceva “la mafia non è un cancro”, “la mafia ci rassomiglia” ci voleva proprio riportare a questa verità che cioè la mafia non è fuori da noi.
Noi non ci sentiamo mafiosi ma – parafrasando Giorgio Gaber – per fortuna o purtroppo, in qualche misura, lo siamo: siamo parte di un sistema mafioso,  siamo cellule di un corpo mafioso. Pertanto le domande più consone a questa rappresentazione potrebbero essere ad esempio:
  • Come può evolvere questo sistema di cui facciamo parte?
  • In quale parte del sistema ci poniamo e in che punto del sistema si può agire più efficacemente per trasformare il sistema stesso?
  • L’evoluzione del sistema mi chiama a gestire dei conflitti con altre parti del sistema stesso? [e qui il discorso chiama in causa la nonviolenza…]
  • Quale cambiamento è richiesto anche a me e alla mia parte?
Come dicevo un paio di mesi fa a Cinisi quest’errore ha attraversato tutto il fronte antimafia che avanzava spedito mentre noi ne iniziavamo a prenderne consapevolezza …
In tutto ciò, per inciso, c’è una forte analogia con la guerra e con la difficoltà che il fronte “pacifista” incontra per esempio quando propone una logica di non schieramento (stai con la Russia o con l’Ucraina, con Putin o con Zelensky?) Anche in quel caso infatti si vorrebbe allargare il campo geografico e storico delle cause e delle soluzioni ponendosi domande diverse.
Anche in quel caso si tratta di un cambiamento di paradigma.
Il fronte “antimafia”, in alcuni casi, e con tutto il rispetto per la generosità di molti amici, è stato un fronte interventista che ha adottato logiche e metodi mutuandoli forse in maniera troppo affrettata ed esclusiva dall’esperienza politica, scontando poi però sempre un senso di impotenza contro la piovra mafiosa e la sua complessità.
Noi che cercavamo di sposare una logica nonviolenta, d’altro canto, – e in questo accolgo la critica che mi muovono spesso Umberto e Augusto – abbiamo indugiato troppo nel passare dalla riflessione teorica alla pratica.
Non abbiamo mai voluto tuffarci anima e corpo nella “militanza”, nell’azione , cercando piuttosto di scoprire e di fare emergere nelle pieghe dei fatti sociali, una dimensione relazionale e di senso esistenziale degli attori sociali , sia quelli che giudichiamo “cattivi”, “complici”, “collusi”, sia quelli che ci appaiono “fragili”, “poveri” (economicamente o culturalmente) ma ancor più andrebbe scandagliato il senso esistenziale di quegli attori, in cui spesso includiamo noi stessi, che dipingiamo come “buoni” , “forti”, “intelligenti” e per questo “anti-mafia”.
Tornerò tra poco su questo punto.
Ho ripreso dal 2018 -con le successive difficoltà dovute al covid – la riflessione su nonviolenza e mafia che era iniziata con un mio contributo sulla rivista Quaderni Satyagraha nel 2003 e con un gruppo-laboratorio che si incontrò fino all’organizzazione di un convegno nazionale nel 2005 e alla scrittura collettiva di un volume curato da me ed edito da Di Girolamo nello stesso anno.
Nel 2019 avevamo ripreso il cammino anche con il Centro Impastato e La Scuola di Formazione politica Giovanni Falcone con un Seminario che si svolse qui, al NoMafia Memorial il 16 marzo e che aveva per tema Nonviolenza e mafia: proviamo a riparlarne? con un altro seminario tenuto con il Giudice Di Bella (che avevo intervistato per la rivista Mosaico di Pace) ai Cantieri culturali È possibile uscire dai sistemi mafiosi? Esperienze istituzionali e iniziative di comunità per sottrarre i minori di famiglie di mafia al destino criminale
Le tappe di questo nuovo percorso ( che ritrovate nel blog che ho curato nel sito della rivista Azione Nonviolenta) si sono concentrate su alcune storie di vita che hanno incarnato alcuni temi del rapporto nonviolenza/mafie.
Perchè le storie di vita? Perché la nonviolenza o si radica nella vita, cioè nei corpi fisici e nell’anima delle persone, o non è. Ho segnato a questo proposito  un punto di domanda  nell’incipit del quinto capitolo del libro di Augusto, a pag 61 che vorrei leggere:
Che contro i mafiosi vadano attivati tutti gli strumenti di repressione previsti dall’ordinamento costituzionale democratico è ovvio, fuori discussione. Altrettanto scontato è che le istituzioni principali debbano attivare, nella stessa ottica di resistenza e di contrasto, le più opportune strategie di prevenzione. Ciò assodato, fa però capolino una domanda: queste strategie necessarie sono anche sufficienti? O, prima/accanto/dopo l’intervento giudiziario dello Stato, è altrettanto necessario l’intervento terapeutico – dunque essenzialmente nonviolento – da parte della società?
Qui è forse necessario un chiarimento. A mio avviso l’aggiunta nonviolenta (termine caro ad Aldo Capitini) non è qualcosa che si sperimenta in addizione a qualcos’altro, l’ultimo addendo di una somma tra elementi spuri.
La nonviolenza – e le storie che ho raccolto in questi ultimi anni ne danno testimonianza – può essere agita nei contesti più disparati in cui l’uomo agisce: nei contesti interni ai mondi mafiosi e nei contesti istituzionali. Le realtà istituzionali non vanno sacralizzate: esse possono essere violente quanto quelle mafiose. Pensiamo alla violenza nelle carceri e ai gravissimi episodi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere lo scorso anno. Ma, al di là di questo singolo episodio, c’è da dire che il sistema penale che non riesce mai a tener fede alla funzione costituzionale, rieducativa della pena. La questione dell’ergastolo ostativo su cui il nostro paese è stato richiamato dalla Corte Europea ha riaperto questo problema. Ci sono dimensioni strutturali di violenza nel nostro sistema penale, che dobbiamo trasformare nello stesso momento in cui contrastiamo le mafie. La nonviolenza ci insegna il rapporto tra giustizia e legalità, laddove la giustizia è il valore primo e la legalità è un valore secondo. Per questo motivo la nonviolenza deve darsi sia nello Stato sia nella società… Certamente prima/accanto/dopo l’intervento giudiziario dello Stato …ma soprattutto durante ogni intervento dello Stato, durante ogni lotta alla mafia, durante ogni situazione conflittuale sia essa personale, istituzionale statale o di rapporto tra stati.
C’è ormai una letteratura ambia sulla teoria e la tecnica nonviolenta. Corsi di laurea in scienze per la pace, training sulla comunicazione nonviolenta. Approcci e discipline che l’hanno studiata e proposta con rigore scientifico.
Dobbiamo incoraggiare questi studi che andrebbero strutturati con le stesse energie e risorse che impegniamo per la ricerca bellica.
Ma – e torno con questo alle storie di vita – le teorie e i power point non appassionano tutti. L’argomentare filosofico non potrà mai eguagliare la testimonianza di un mio simile che ha superato il male e che si è riconciliato con se stesso e con il suo avversario. Io penso che questo possa essere il punto di partenza, raccontarci queste storie. A tutti i livelli: educativi, politici, giudiziari, ecc
Provo ad accennare ad alcune storie come quella del Giudice Elvio Fassone e della sua relazione epistolare con un giovanissimo boss catanese da lui condannato all’ergastolo, ancora oggi in carcere dopo 40 anni. Storia esemplare di come la nonviolenza possa essere agita anche dentro il contesto più violento del sistema penale: comminare l’ergastolo da parte di un giudice! Ma quella storia, troppo poco narrata che cosa ci ha insegnato? 6
O quella di Lucia Di Mauro, vedova di Gaetano Montanino, guardia giurata uccisa nell’agosto del 2009 da una banda di giovanissimi camorristi: Conosco la storia intensa del suo incontro con il giovane autore dell’omicidio del marito che la giovane Lucia riesce a perdonare, prendendosi cura di questo ragazzo tirandolo fuori dal giro della camorra o ancora quella di Giuseppe Cimarosa, parente per parte di madre del boss Messina Denaro e figlio di un mafioso di Castelvetrano, del suo tormentato rapporto con il padre che riesce grazie al coraggio suo, della madre e della nonna ad uscire dall’organizzazione e a collaborare con la giustizia.7
Ecco, senza nulla togliere a tante altre azioni, pure importanti, la narrazione di queste storie di nonviolenza nate dentro contesti di mafia, potrebbe a mio avviso essere una risorsa per creare sentieri di trasformazione del nostro sistema, ridimensionando i nostri progetti a volte troppo teorici e distanti, ancorandoli ad esperienze di vita, trovando anche i modi di far ritornare queste esperienze dentro i confini delle nostre comunità evitando che le esperienze di fuoriuscita dalle mafie siano anche di fuoriuscita definitiva dalle comunità e dai nostri territori. Il lavoro di trasformazione del sistema mafioso può realizzarsi quindi a partire dalla narrazione del suo superamento, incarnato in storie di vita che mostrano concretamente questa possibilità, attraverso la conversione dei cuori, delle anime, dei corpi, prima ostaggio della violenza ovunque questa sia stata agita. Solo così le azioni sociali e politiche, che abbiamo visto scemare in queste ultime stagioni, potranno ripartire con nuovo vigore.
¹ Il Il NO Mafia Memorial è uno spazio polivalente creato nel 2017 all’interno di una palazzina sita in Via Vittorio Emanuele, di proprietà del Comune di Palermo per iniziativa del Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato che ha stipulato un protocollo d’intesa con il Comune ,realizzando un Memoriale-laboratorio che si struttura in un percorso museale, ad alto impatto emotivo, che guida il visitatore in un percorso tematico con riferimenti cronologici, che rappresentano il fenomeno mafioso dalle origini ai giorni nostri e le lotte contro di esso , in un’area di studio e di approfondimento e un’area didattica, che attiva laboratori per le scuole, con il coinvolgimento di docenti e studenti.
² Ricordiamo qui Il vangelo e la lupara. Materiali su chiese e mafia Dehoniane, Bologna, 1994;  Liberarsi dal dominio mafioso. Che cosa può fare ciascuno di noi qui e subito, Dehoniane, Bologna, 2003, La mafia spiegata ai turisti, Di Girolamo, Trapani, 2007; Centouno storie di mafia che non ti hanno mai raccontato, Newton Compton, Roma, 2011).
U.Santino, A. Puglisi, S. Proniewcz, La memoria e il progetto. Dal Centro Impastato al No Mafia Memorial, DiGirolamo, 2022
C.Lorefice, A. Staropoli, V. Impellizzeri, Il Vangelo e la strada. Palermo come Gerico, San Paolo Edizioni 2022
Cfr. in questa stessa rubrica V. Sanfilippo, Il prezzo è troppo alto. Storie di miseria e … “spacca-ossa”  https://www.azionenonviolenta.it/il-prezzo-e-troppo-alto-storie-di-miseria-e-spacca-ossa/
6 Consiglio vivamente la lettura del libro che racconta questa storia: E.Fassone, Fine pena ora, Sellerio Editore, 2015 vedi  https://www.azionenonviolenta.it/se-suo-figlio-fosse-nato-dove-sono-nato-io/
7 Anche queste due storie sono raccontate in questa rubrica:
https://www.azionenonviolenta.it/se-alla-mafia-parla-un-cavaliere-nonviolento/
https://www.azionenonviolenta.it/lucia-e-antonio-pentimento-e-perdono-in-terre-di-mafia/

Di Vincenzo Sanfilippo

Svolgo la professione di sociologo nell'ambito di un Dipartimento di Salute Mentale. La mia formazione spirituale e sociale mi hanno portato in gioventù all'obiezione di coscienza e alla nonviolenza. Sono abbonato ad Azione Nonviolenta dal lontano 1975 e non posso che ringraziare questo strumento che ha contribuito alla mia formazione e che, con altri percorsi variegati (scoutismo, studi universitari a Trento, comunità del dissenso cattolico) mi ha portato alla nonviolenza gandhiana e alla Comunità dell'Arca fondata da Lanza del Vasto di cui faccio parte dal ‘95. Con amici palermitani e catanesi abbiamo costituito una Fraternità di cui potete avere notizia visitando il sito http://www.trefinestre.flazio.com/home  

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