• 2 Luglio 2024 20:23

Agenti violenti. Rassicurazione o oltraggio alla libertà di espressione?

DiDaniele Lugli

Mag 13, 2024

Le proteste contro la guerra vengono soppresse in tante università e non è improprio tornare con la memoria al 2015. Prepariamo un numero della rivista Azione nonviolenta dedicata alla formazione alla nonviolenza per le forze dell’ordine, con il proposito di contribuire a ridurre (ogni volta che è possibile) la violenza esercitata dalle forze di polizia durante il loro lavoro.

È una violenza che ammette letture molteplici e contrastanti. Sarà abuso di potere, giusto argine a comportamenti individuali lesivi della comunità, espressione di una politica cieca e sorda davanti ai cittadini oppure espressione di un limite tutelante per la libertà di ciascuno.

Sarà tutto questo e altro ancora, da ricercare nel caso concreto e da ponderare in base alle informazioni disponibili e al modo in cui ci poniamo dinanzi ai fatti. Nelle righe che seguono ne parliamo con Daniele Lugli. L’intervista è stata raccolta da Elena Buccoliero.

La violenza delle forze dell’ordine più visibile è quella che si riscontra in attività di controllo su strada verso persone fuori controllo, oppure nei casi di grandi manifestazioni. Su questo tipo di violenza mi pare che la condanna collettiva non tardi ad arrivare.

Non ne sono così sicuro. Mi pare che anche su questo si verifichi una polarizzazione, enfatizzata dalla stampa e dalla televisione, nella lettura degli avvenimenti. Di fronte a violenze del tutto ingiustificate e che hanno assunto il carattere di vera e propria tortura, fino a condurre alla morte un ragazzo nella mia città, c’è voluta tutta la determinazione dei genitori e un’attività di indagine per giungere a una sentenza che rompesse il muro di omertà e di vere e proprie falsificazioni che avrebbe garantito, come normalmente avviene, l’impunità. E anche quando i fatti sono risultati accertati aldilà di ogni ragionevole dubbio, è rimasto l’applauso con cui i responsabili di quei fatti sono stati salutati in un convegno di colleghi e affermazioni largamente condivise secondo le quali, quella morte, il ragazzo in fondo se l’era cercata.

Perché poi intervengono meccanismi di giustificazione o che danno un diverso peso alla vita delle persone. Per esempio se Federico Aldrovandi fosse stato un marocchino senza familiari probabilmente la vicenda giudiziaria sarebbe andata diversamente. Oppure il tema dell’uso di sostanze, nel suo caso, è stato molto utilizzato per sminuire la violenza degli agenti – o per rafforzarne la necessità.

Io resto convinto che se gli agenti avessero avuto un’idea di chi avevano di fronte i loro comportamenti sarebbero stati molto diversi. In un caso egualmente drammatico l’uso, in quel caso accertato, di sostanze è stato evocato per motivare la particolare fragilità del soggetto, morto per percosse che per altri sarebbero state resistibili. Ricordo una vicenda ormai lontana nel tempo, quella di Serantini, ucciso durante una manifestazione, per il quale nei rapporti si è messo in rilievo una peculiare fragilità delle ossa del cranio, che era stato giustamente e moderatamente colpito.

Mi hai detto tante volte di avere parlato con Capitini del ruolo della polizia nelle manifestazioni.

Ero a Perugia nel ’63 al convegno internazionale sulle tecniche della nonviolenza. Era in corso una petizione promossa dalla Federazione Giovanile Comunista per il disarmo della polizia nelle manifestazioni sindacali e politiche, ad evitare incidenti fatali. Ricordo che in quel convegno avevo sostenuto l’opportunità di aderire alla petizione. L’uso delle armi da fuoco nelle manifestazioni mi pare si fosse fermato ai morti di Reggio Emilia ai tempi del governo Tambroni, nel ’60, e ricordo però che nel ’62, non per uso di armi ma schiacciato da una camionetta lanciata per spezzare una manifestazione, era morto a Milano un mio coetaneo, Giovanni Ardizzone. Io argomentavo che, auspicando che nessuno si facesse male nel corso di grandi manifestazioni, era quasi più comprensibile che a farne le spese fosse un esperto in sicurezza, come un poliziotto appunto, capace di affrontare i rischi, proprio come accade a un vigile del fuoco in caso di incendio.

E Capitini che cosa rispondeva?

Capitini, attento a tutte le argomentazioni e anche alle più bislacche e meno fondate, mi fece allora intravvedere l’importanza di contribuire a manifestazioni che allontanassero o riducessero un possibile impatto violento. Che fossero cioè manifestazioni, come ho imparato a ripetere da allora, tese a rendere manifesto ai molti quello che è una convinzione di minoranze; dimostrazioni, tese cioè a dimostrare il buon diritto di lavoratori in sciopero, o di studenti, e non a spaventare i cittadini accompagnandole magari con atti vandalici o aggressioni nei confronti delle forze dell’ordine.

(Nella fotografia, Daniele presenta un numero di Azione nonviolenta dedicato alla formazione delle forze dell’ordine. Siamo a Ferrara, in un chiosco lungo le mura estensi, il 19 settembre 2019).

 

Di Daniele Lugli

Daniele Lugli (Suzzara, 1941, Lido di Spina 2923), amico e collaboratore di Aldo Capitini, dal 1962 lo affianca nella costituzione del Movimento Nonviolento di cui sarà nella segreteria dal 1997 per divenirne presidente, con l’adozione del nuovo Statuto, come Associazione di promozione sociale, e con Pietro Pinna è nel Gruppo di Azione Nonviolenta per la prima legge sull’obiezione di coscienza. La passione per la politica lo ha guidato in molteplici esperienze: funzionario pubblico, Assessore alla Pubblica Istruzione a Codigoro e a Ferrara, docente di Sociologia dell’Educazione all’Università, sindacalista, insegnante e consulente su materie giuridiche, sociali, sanitarie, ambientali - argomenti sui quali è intervenuto in diverse pubblicazioni - e molto altro ancora fino all’incarico più recente, come Difensore civico della Regione Emilia-Romagna dal 2008 al 2013. È attivo da sempre nel Terzo settore per promuovere una società civile degna dell’aggettivo ed è e un riferimento per le persone e i gruppi che si occupano di pace e nonviolenza, diritti umani, integrazione sociale e culturale, difesa dell’ambiente. Nel 2017 pubblica con CSA Editore il suo studio su Silvano Balboni, giovane antifascista e nonviolento di Ferrara, collaboratore fidato di Aldo Capitini, scomparso prematuramente a 26 anni nel 1948