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Alessandra e Alice: due lutti evitabili?

DiElena Buccoliero

Ago 30, 2022

Continuano a morire donne che avevano chiesto aiuto e non sono state protette. Ogni volta si riaccende il dibattito e qualcuno, tra chi amministra la giustizia, dice la sua, lasciando insoddisfatto il pubblico.

L’ultimo dramma è la morte di Alessandra Matteuzzi, bolognese, uccisa dall’ex partner dopo che lo aveva denunciato per stalking. La stampa dice che nessun provvedimento era seguito, tranne per una testata che parla di un divieto di avvicinamento.

Mi ricorda la morte di Alice Scagni avvenuta per mano del fratello, a Genova, nel maggio scorso. Alice aveva 34 anni, era sposata, madre di una bambina di 14 mesi. I genitori dei due giovani si erano rivolti a psicologi, psichiatri, forze di polizia, senza ottenere nulla. A posteriori la madre afferma: “Potevano evitare tutto quanto. Mio figlio è colpevole perché aveva lui in mano l’arma, ma sicuramente lo Stato ha permesso questo omicidio. I colpevoli sono due”.

È questo il fatto: i colpevoli sono due. Chi commette materialmente l’omicidio e chi, pur avendone la possibilità, non lo impedisce.

Parlando del femminicidio di Bologna, in seguito al quale il Ministro Cartabia ha inviato un’ispezione, il Procuratore Giuseppe Amato precisa: “La Procura si muove con richieste di misure cautelari che vanno al Gip. Le nostre richieste devono essere riscontrate. Se poi ci sono situazioni emergenziali è la polizia giudiziaria che deve intervenire e, nel caso, procedere all’arresto. L’ordinamento non si può stravolgere”.

Per la morte di Alice Scagni si legge che nessuno aveva sporto formale denuncia – comprensibile, difficile denunciare un figlio, un fratello – le richieste di aiuto però c’erano state ma dallo psichiatra erano andati solo i familiari perché Alberto si era rifiutato, dunque non c’era neppure un riscontro, una diagnosi. Il Centro di Salute Mentale aveva compreso la necessità di un trattamento ma non si poteva fare, mancando il consenso dell’interessato o fino a quel momento – è l’unica alternativa – un comportamento tanto grave da motivare un trattamento sanitario obbligatorio.

Tre mi sembrano le questioni che la specializzazione e l’inasprimento della norma sulla violenza di genere non ha risolto miracolosamente, né poteva farlo: capacità di valutare la situazione; tempi e personale adeguati alla gravità e all’urgenza; assunzione di responsabilità.

Capisco, per la sua parte, il giudice Amato quando sostiene: “La denuncia era per fatti di molestie da riscontrare. I processi non si fanno sul sentito dire o solo sulle denunce. Non c’era la rappresentazione di una possibile violenza”. Senza quella, era difficile anche applicare una misura cautelare. Ce lo diciamo adesso, se Padovani avesse avuto il braccialetto elettronico e il divieto di avvicinarsi ai luoghi di Alessandra l’infrazione sarebbe stata rilevata e il femminicidio impedito, ma se violenze fisiche precedenti non ne risultavano…

Per questo mi pare che la capacità di valutare la situazione stia al primo posto e per me significa affinare a tutti i livelli la capacità di ascolto, accrescendo e formando il personale dedicato, diffondendo strumenti per rilevare la gravità delle aggressioni.

I processi non si fanno sul sentito dire e meno male, eppure spesso le vittime di violenza di genere non hanno di più da offrire, questo cortocircuito bisognerà pure risolverlo. Le operatrici dei centri antiviolenza ripetono da anni che le donne quando denunciano hanno bisogno di essere credute. (Già non farle sentire in colpa – aggiungo io – sarebbe un bel passo avanti. Non sempre accade, ma ancora accade). Ora però io capisco chi dall’altra parte ha la responsabilità di una risposta giudiziaria proporzionata e non può né credere a tutte le denunce senza verificarle – le false dichiarazioni sono possibili per ogni fattispecie di reato – né imprigionare tutti gli uomini querelati per maltrattamenti o stalking indipendentemente dalla gravità accertata.

Il fatto è che la gravità è subdola, si riconosce dai dettagli. Una donna lo sa che cosa significa sentirsi in pericolo. Sa quando l’accanimento di uno sguardo o l’asprezza di un tono di voce trasformano una parola detta male in una minaccia concreta e allora non querela per divertimento, neppure per cercare un profitto secondario. Lo fa per essere protetta e perciò, prima e necessariamente, per essere creduta.

Da parte di chi la ascolta entrare in quei dettagli, saper chiedere anche ciò che non sempre viene detto spontaneamente – segnali di violenza verso le cose o altre persone, disponibilità e inclinazione all’uso di armi, rappresentazione di sé ossessivamente perfetta, maggior frequenza negli episodi che costellano un maltrattamento… – può essere decisivo per dare il giusto peso alle parole, se si può accettare che quegli elementi abbiano un rilievo nel motivare le decisioni successive.

Qualcosa di simile ho pensato leggendo di Alice Scagni. Il fratello “aveva manifestato l’intenzione di uccidere i familiari, in particolare la sorella e il genero. I due (genitori) avevano chiesto l’intervento delle volanti. La polizia, però, aveva ritenuto quella minaccia non particolarmente preoccupante”. Su quale base, saputo di ripetute minacce di morte, le forze dell’ordine possono invitare a non drammatizzare e lasciare sola una famiglia invece di effettuare una verifica?

Poi c’è la questione dei tempi, che hanno a che fare in parte con le risorse, in parte con l’assunzione di responsabilità. Il tempo che serviva alla Procura di Bologna per completare la raccolta delle testimonianze e richiedere una misura cautelare, o quello per il CSM genovese di incontrare Alberto Scagni abbastanza da formulare una diagnosi e una previsione di pericolosità.

Attenzione però. Se si chiede questa assunzione di responsabilità bisogna prepararsi ai contraccolpi, perché chi rapidamente propone un provvedimento cautelare in più o invia una volante in più rischia – questo è certo – di essere contestato in seguito, per avere leso i diritti e la libertà di una persona basandosi su elementi ancora scarni.

Io poi per vecchio vizio riporto sempre tutto anche ai bambini, ché se molte donne sono almeno in grado di chiedere protezione – e non sempre è sufficiente – un bambino maltrattato non può fare neppure questo. Occorre che altri abbiano il coraggio di proteggerlo, ma quando prudenzialmente vengono decisi accertamenti o emanati provvedimenti a sua tutela i difensori della famiglia lanciano i loro strali.

E intanto a Napoli, per nove anni, una bambina disabile nemmeno si sapeva esistesse…

 

Di Elena Buccoliero

Faccio parte del Movimento Nonviolento dalla fine degli anni Novanta e collaboro con la rivista Azione nonviolenta. La mia formazione sta tra la sociologia e la psicologia. Mi occupo da molti anni di bullismo scolastico, di violenza intrafamiliare e più in generale di diritti e tutela dei minori. Su questi temi svolgo attività di formazione, ricerca, divulgazione. Passione e professione sono strettamente intrecciate nell'ascoltare e raccontare storie. Sui temi che frequento maggiormente preparo racconti, fumetti o video didattici per i ragazzi, laboratori narrativi e letture teatrali per gli adulti. Ho prestato servizio come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2008 al 2019 e come direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati dal 2014 al 2021. Svolgo una borsa di ricerca presso l’Università di Ferrara sulla storia del Movimento Nonviolento e collaboro come docente a contratto con l’Università di Parma, sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti.

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