Giuseppe Savagnone nel suo articolo “Allargare la cittadinanza fa bene a tutti” focalizza l’attenzione sulle due fazioni contrapposte: i fautori dell’accoglienza e quelli dei “respingimenti”.
I primi per invocare un “pronto soccorso” ai migranti, i secondi immaginando di poter arginare con misure poliziesche quella che interpretano come un’invasione.
Ma a parte questo dialogo inconciliabile io mi concentrerei sull’accoglienza che c’è in Italia e il tipo di dialogo instaurato fra gli autoctoni e i migranti.
Dalla mia osservazione della realtà i modi di interazione più efficaci sono quelli che nascono dalla spontaneità delle persone e nella condivisione degli stessi contesti, come ad esempio nelle periferie urbane.
Ho scoperto di recente un film di Fabio Donatini “San Donato Beach” che descrive molto bene la vita delle persone d’estate a San Donato, un quartiere di Bologna.
E poi la storia di Khabi Lame, nato in Senegal 21 anni fa, vive a Chivasso in Piemonte ed è senza cittadinanza ma non se ne cura molto perché si sente un cittadino “di fatto”, come racconta nell’intervista a Sette del Corriere.
Ha 98 milioni di persone che lo seguono su Tik Tok, secondo a livello mondiale dopo una ballerina di 17 anni del Connecticut, Charlie D’Amelio, che presto, dicono gli addetti ai lavori, supererà.
Tanto per dirla tutta: ha superato di ben 9 milioni, Chiara Ferragni su Instagram.
Per il New York Times, che gli ha dedicato un articolo, è un ragazzo italiano.
Ebbene lui ha sempre vissuto sereno e tranquillo – a parte la preoccupazione economica sua e della sua famiglia fino al tempo della pandemia – e senza mai subire episodi di razzismo.
Quando va a Milano per lavoro – lui dice – dopo un po’ gli manca il cortile di periferia dove abita, di cui addirittura dichiara: “Devo tutto a quel posto!”
Non è stata una fortuna, sembrerebbe, vivere a Novellara (RE) per Saman Abbas, la ragazza pakistana di 18 anni scomparsa, vicenda nota sulle cronache nazionali…
La domanda che mi pervade è: come è potuta accadere un’azione così violenta in un contesto culturale come quello di Novellara, così avanzato nelle politiche interculturali e interreligiose.
In passato ho partecipato a vari convegni e manifestazioni a Novellara, ho parlato con gli amministratori e funzionari del comune su progetti per favorire il più possibile la coesione sociale del paese. Ho fatto articoli sui sikh, l’etnia straniera prevalente a Novellara.
A che è servito attivare il dialogo interculturale e interreligioso se poi accadono certe cose?
Si potrebbe dire: noi cosa c’entriamo in tutto questo orrore?
Una questione che ho registrato in tanti anni di esperienza è che la cultura viene promossa al di là dei contesti dove si pronuncia. Certamente si tematizza a seconda dei luoghi, ma è più come una sorta di maquillage che strizza l’occhio al marketing rispetto a un approfondimento che vada ad interloquire con la realtà.
Generalizzando, credo che qualsiasi operazione culturale in Italia vada bene per qualsiasi territorio.
Vi è una sorta di quieto vivere per cui chi produce cultura si debba occupare del proprio programma, ben architettato, senza preoccuparsi del contesto nel quale si immette.
Una cultura che non dia fastidio: non si impiccia degli affari concreti delle persone, non si interessa delle storie vissute di chi abita il territorio.
E se poi agiamo in un contesto multireligioso: chi siamo noi cattolici per dire agli altri cosa debbano fare?
Ci siamo costruiti degli alibi inattaccabili: il coinvolgimento costerebbe fatica, si dovrebbe andare controcorrente e soprattutto ci farebbe perdere un sacco di tempo senza un risultato tangibile da spendere su qualsiasi tavolo…
Certamente la morte di Saman Abbas ci addolora e staremo male per un po’, ma poi tutto passa: del resto che colpa ne abbiamo se il padre aveva sentenziato la sua morte?
Mettersi in relazioni con le persone richiede un tempo incalcolabile, voglia, entusiasmo, forza di volontà, desiderio di mettersi in gioco.
Istituzionalizzare il dialogo interculturale/interreligioso non garantisce lo sviluppo effettivo di un percorso di coesione sociale.
Semmai salvaguarda l’illusione di essere stati protagonisti di una storia.
Si ha l’illusione che fare un buon progetto, perseguendone scrupolosamente gli obiettivi, sia di per sé una garanzia di un buon lavoro.
In una parrocchia di campagna, la Caritas Diocesana coinvolge i parrocchiani – i quali almeno in parte aderiscono – per l’inserimento di donne straniere presso la parrocchia.
Il progetto va bene e i risultati sono ottimi, ma improvvisamente, com’è iniziato, così svanisce, cessato, chiuso, finito, lasciando a bocca asciutta chi ci aveva lavorato.
Nessuna verifica all’interno del gruppo dei volontari.
Nessuna verifica sulla ricaduta effettiva che ha avuto nella comunità parrocchiale.
Nessun processo di elaborazione cogliendo l’opportunità di un salto quantico della comunità parrocchiale.
Nessun tentativo di accedere a una nuova fase, a una prospettiva di futuro.
Gino Strada è rimasto nel cuore di una moltitudine immensa di persone perché lanciava dei messaggi semplici e comprensibili a tutti e soprattutto agiva molto.
Poche parole e molta sostanza…direbbe qualcuno…
“Eh ma Gino Strada è Gino Strada!!!”
Visto, vi ho già creato l’alibi!
Dormite sonni tranquilli, che siate certi, nessuno vi disturberà!