Nell’approssimarsi del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, è un sollievo apprendere della liberazione di Nasrin Sotoudeh, l’avvocata iraniana per i diritti umani. Non è un lieto fine – Sotoudeh è in attesa di processo – ma una tappa di una lotta nonviolenta portata avanti dalle donne insieme a una parte consistente di uomini. Un movimento simbolicamente così potente e disarmante, di così grande rilievo, da avere ricevuto quest’anno due riconoscimenti di massimo prestigio: il premio Nobel per la pace all’attivista iraniana Narges Mohammadi “per la sua battaglia contro l’oppressione delle donne in Iran” e, dal Parlamento Europeo, il Premio Sakharov. La liberazione di Nasrin Sotoudeh acquisisce maggior significato se si ripercorrono le tappe che l’hanno preceduta.
Il 27 ottobre scorso, dopo quasi un mese di coma, è morta Armita Garavand, 16 anni, picchiata da un agente della “polizia morale” perché non indossava l’hijab. Le autorità hanno affermato che la ragazza era caduta a terra per un calo di pressione, probabilmente temendo un nuovo caso Mahsa Amini, la 22enne morta in circostanze analoghe il 16 settembre 2022. La protesta si è propagata in tutto il mondo al grido “Donna Vita Libertà” e in Iran è costata oltre 22mila arresti accompagnati da torture, stupri e intimidazioni, processi irregolari e condanne a morte per impiccagione. Circa 500 manifestanti sono stati uccisi, in gran parte ma non soltanto donne.
Dopo il ricovero di Armita l’ospedale è stato circondato da un cordone di polizia per impedire le visite e perfino la madre, quando ha cercato di vedere la ragazza, è stata tratta in arresto. Ma la rete diffonde le informazioni, apre spazi di libertà per i movimenti e le testate giornalistiche iraniane indipendenti. Il volto esuberante di Armita accompagna ormai quanti hanno a cuore i diritti umani, come la piccola folla che ha partecipato al funerale della ragazza ed è stata circondata dai poliziotti. Una sessantina di persone sono state arrestate e Nasrin Sotoudeh era tra queste.
«Hanno sfinito i partecipanti dopo averli picchiati e trascinati lungo la lunga strada sulle lapidi», ha riferito Reza Khandan, ex prigioniero politico e marito di Nasrin. «Circa 50 persone li hanno attaccati contemporaneamente, senza che la folla cantasse o facesse alcuna mossa. Almeno quattro parenti stretti di Armita e della sua famiglia erano tra i detenuti identificati al centro di detenzione e poi rilasciati».
Nasrin, 60 anni, è stata picchiata brutalmente e arrestata mentre cercava di difendere l’amica Manzar Zarrabi, 65, entrambe ferme nel rifiuto di indossare l’hijab. Una parte dei fermati è stata rilasciata in tempi brevi su cauzione, per altri come Nasrin Sotoudeh il pagamento è stato rifiutato e questo ha destato non poche preoccupazioni poiché l’avvocata per i diritti umani soffre di problemi cardiaci e cardiovascolari. Già nel 2018 era stata condannata a 148 frustate e 33 anni e mezzo di carcere ma la pena era stata sospesa per motivi di salute. Quelle accuse contro di lei risuonano ancora inconcepibili. Comprendono l’appartenenza a gruppi “illegali e pericolosi per la sicurezza pubblica” come Defenders of Human Rights Centre e National Council of Peace, favoreggiamento della corruzione dei costumi e perfino prostituzione, per essersi presentata senza hijab nell’ufficio del magistrato.
Anche in questo caso Nasrin è stata arrestata, ufficialmente, perché non indossava il velo e, stando all’agenzia di stampa Fars, affiliata al Corpo delle Guardie rivoluzionarie islamiche (Irgc), per aver agito «contro la sicurezza psicologica della società», accusa che nemmeno esiste nel codice penale iraniano. Forse non è indifferente che Nasrin abbia definito pubblicamente quello di Armita «omicidio di Stato».
Sotoudeh è stata trattenuta nella prigione femminile di Qarchak, un ex allevamento di bestiame utilizzato come ricovero per tossicodipendenti e poi convertito in carcere. Un luogo, ha raccontato in più occasioni Khandan, «in cui l’aria risulta perennemente impregnata dall’intenso odore di fogna, non essendo dotato di un vero e proprio sistema di scarico. Un posto popolato da insetti e con un sovraffollamento così grave che ogni cella di dieci metri quadrati contiene dodici letti, con quattro file di letti a castello. Nessuna delle stanze ha finestre o sistemi di filtrazione dell’aria e l’acqua è così salata da provocare, col tempo, danni irreversibili ai reni e ad altri organi. Il cibo è immangiabile, come in tutte le prigioni iraniane. Ma quella di Qarchak risulta essere un vero e proprio di tortura, non solo fisica, ma anche psicologica, cercando di punire le donne in ogni modo possibile: le sale per le visite, infatti, sono costruite in modo tale che i bambini troppo piccoli non possano raggiungere il vetro per vedere i volti delle madri».
Per la liberazione di Nasrin si sono mobilitati avvocati e giudici negli Stati Uniti, in Sudafrica, in Canada e in Europa. Oltre trenta organizzazioni internazionali hanno chiesto alle Nazioni unite, al Consiglio d’Europa, alla Commissione e al Parlamento Europeo e ai singoli governi un intervento urgente. L’appello chiedeva inoltre di condannare tutte le violazioni dei diritti umani in atto in Iran.
Per Reza Khandan i movimenti nonviolenti sono i più pericolosi per il regime, i più difficili da vincere. «Quanto più pacifiche e non violente sono le proteste, tanto più violenta e crudele sarà la reazione del governo e dell’apparato di repressione». Al contempo, «questo governo deriva e definisce la propria identità in termini di sottomissione delle donne e la rivolta delle donne contro questa dominazione è ciò che minaccia la sua identità. Inoltre, la protesta delle donne assume una forma più civile ed è non violenta. Le dittature hanno più facilità a combattere i gruppi armati che i movimenti non violenti».
È dello stesso parere Narges Mohammadi, giornalista 51enne, vincitrice del Premio Nobel per la pace e attivista per i diritti delle donne in carcere, che dalla cella dove è rinchiusa ha fatto avere alla figlia, rifugiata in Francia, un messaggio divulgato dal Premio. «L’hijab obbligatorio è un mezzo di controllo e di repressione imposto alla società e da cui dipende la continuazione e la sopravvivenza di questo regime religioso autoritario. Un regime che ha istituzionalizzato la privazione e la povertà… Noi stiamo lottando attraverso la solidarietà e attingendo alla forza di un processo non violento e inarrestabile per ravvivare l’onore e l’orgoglio dell’Iran, la dignità umana e il prestigio del suo popolo… La vittoria non è facile, ma è certa».
La forza della verità e il coraggio di queste donne sono di insegnamento per tutti noi. «Tutti gli esseri umani hanno limiti fisici ed emotivi», ha commentato ancora Reza Khandan parlando della moglie Nasrin Sotoudeh, ma «ciò che le dà così tanta forza e potere è che non sopporta che i diritti delle persone vengano calpestati. Semplicemente non può rimanere in silenzio».
Anche grazie alle pressioni internazionali, il 15 novembre scorso Nasrin è stata scarcerata su cauzione. Una via d’uscita impossibile per molti altri detenuti che non possiedono quella somma e sono ancora in cella, sottoposti a torture fisiche e psicologiche.
Nel suo discorso in occasione del “Civil Courage Prize”, Nasrin Sotoudeh ha dedicato il premio al «vasto movimento Donna, Vita, Libertà, alla donna che si è sollevata per liberarsi dal giogo oppressivo del patriarcato. E, naturalmente, difendere i loro diritti è costato molte vite. Gli occhi dei manifestanti furono cavati per non vederli, ma i loro occhi si moltiplicarono a migliaia in modo che il mondo potesse vedere uomini e donne che lottavano per una vita semplice e ordinaria. (…) In mezzo a noi, ci sono molte donne che hanno preso di mira l’anello del patriarcato nella catena della tirannia, mentre molti uomini prendono di mira la povertà e l’indigenza, con artisti e scrittori che lottano contro la censura che tanto li fa ammalare. (…) Forse è necessario che questi piccoli corsi d’acqua all’interno del nostro paese si uniscano. Ognuna delle nostre scelte di rompere il ciclo della tirannia non significa la negazione di altre scelte. (…) Per concludere, oltre a condannare la violenza contro gli artisti in Iran, manifestata nell’omicidio del regista Dariush Mehrjui e di sua moglie, offro questo premio ad Armita Geravand e a sua madre».