L’ultima volta che sono rientrato dall’Egitto è stato cinque settimane fa. Arrivai dal Cairo a Verona il mattino del 25 aprile, per partecipare all’Arena di Pace e Disarmo, portando con me una notizia cattiva e una buona. Quella cattiva era che, il giorno precedente, il governo americano aveva autorizzato la vendita di dieci elicotteri Apache all’Esercito egiziano per la lotta al terrorismo in Sinai, rompendo un embargo sugli aiuti militari che durava dalla repressione delle proteste contro la deposizione di Mohammad Morsī. Cattiva anche perché la storia e la cronaca ci insegnano che le bande armate in Egitto si combattono con la giustizia sociale, l’istruzione e la sanità. La buona notizia è che il 25 aprile è festa nazionale anche nel Paese del Nilo: si festeggia il 25 aprile del 1982, il Giorno della liberazione del Sinai, quando le truppe israeliane si ritirarono da esso definitivamente. Italia e Egitto sono dunque legate a doppio filo: dalla memoria della liberazione dal giogo straniero, ma anche dal ruolo dei militari all’interno e all’esterno. Dico questo perché la questione degli F-35 o degli Apache non riguarda solo filosofia e modalità della politica estera, ma anche la questione della spesa pubblica nazionale e quella della concezione della difesa dello Stato. Mentre ascoltavo gli interventi che sfilavano sul palco dell’Arena, i miei pensieri andavano verso e rimbalzavano dall’altra parte del Mediterraneo, e molti interrogativi si sovrapponevano.
Ritorniamo in Egitto. Da pochi giorni sono state celebrate le elezioni presidenziali. In aprile, avevo incontrato ʿAbdallah Dawastāshī, il fotografo della rivoluzione ad Alessandria d’Egitto per eccellenza, uno che era stato minacciato di morte dai Fratelli musulmani, uno che aveva girato il documentario End of World sugli scontri tra Islamisti e manifestanti contro la Costituzione imposta da Morsī – avvenuti lo stesso giorno che secondo il calendario Maya segna la fine del mondo, il 22 dicembre 2012 – un comunista. «È ritornato il regime di Mubārak, ma noi stiamo zitti» mi aveva detto in un caffè a Mustafā Kāmel, un quartiere sulla Corniche alessandrina. «Perché mai?» avevo reagito, conoscendo il personaggio. «Perché non è il momento, perché ti arrestano, perché la propaganda è schiacciante. Guardiamo, osserviamo, e aspettiamo». «E che farete alle elezioni?». «Non andremo a votare, o forse sì, se Hamdīn Sabbāhī alzerà la voce». Sabbāhī, il candidato nazional-progressista che ha osato candidarsi contro il Generale, ha preso invece solamente il 3,1% dei voti e il Generale il 96,9%, secondo i risultati ufficiosi. Al primo turno delle Presidenziali del 2012, Sabbāhī aveva preso il 21%, piazzandosi terzo tra tutti e primo tra i candidati che avevano sostenuto la Rivoluzione fin dall’inizio.
O ʿAbdallah e i ragazzi della Rivoluzione non sono andati a votare, oppure le schede sono state contate male. Molto probabilmente, entrambe le cose sono vere. Alla fine dei due giorni di apertura dei seggi, il 26 e 27 maggio scorsi, il numero dei votanti era così basso, stimato attorno al 30-35%, che la Commissione elettorale ha deciso di estendere il voto di un altro giorno e di imporre un’ammenda di 500 lire egiziane a chi non si fosse recato a votare. Una barbaridad, direbbero gli spagnoli, se pensiamo che molti salari pubblici sono inferiori a quella cifra. «Sono stupidi ed arroganti» mi spiegherà l’attivista Nagwān al-Ashwal, che stava in piazza Tahrīr durante i famosi diciotto giorni del 2011, commentando i risultati elettorali con me a Firenze. «Come possono pretendere di perseguire milioni di non-votanti? Queste elezioni sono truccate, non è vero che il 45% degli aventi diritto al voto alla fine ha votato, come hanno dichiarato i giornali, e le intimidazioni e le interferenze durante l’esercizio del voto sono state numerose. Al-Sīsī ha preso i voti delle vecchie generazioni». Nagwān appartiene a quella corrente di giovani molto religiosi che hanno abbracciato i principî della Rivoluzione, e sta ora facendo un dottorato in Italia sui movimenti salafiti. Il Generale non poteva vincere con pochi milioni di voti, perché sarebbe stata la prova che il modo in cui è avvenuta la deposizione di Morsī è illegittima [nel 2012, il tasso di partecipazione al voto alle Presidenziali fu del 46,5% al primo e del 52% al secondo turno, ndr]. Quindi, ricapitolando: sicuramente meno della metà degli egiziani ha votato, i giovani e non solamente gli Islamisti hanno disertato le urne, e le condizioni nelle quali si è svolta la campagna elettorale prima e le elezioni poi non sono state equilibrate e trasparenti. Durante le elezioni, ho ricevuto le relazioni degli osservatori dell’associazione egiziana ʿĀlam Wāhid / One World, che denunciano varie irregolarità: mancanza di liste dei votanti affisse nei seggi, votazioni di gruppo, chiusura arbitraria di alcuni seggi, incitamenti, canti e balli in favore del Generale davanti ai seggi, allontanamento ed in alcuni casi aggressione fisica dei giornalisti, arresti e detenzioni arbitrarie, intimidazione degli osservatori. E scarsa partecipazione anche il terzo giorno di voto. Il Generale nasce Presidente vecchio, anzi vecchissimo. «Al-Sīsī è l’anello di un sistema, una pedina, non è un uomo libero» aveva aggiunto Nagwān. Pensate che il primo provvedimento emesso dal presidente ad interim ʿAdlī al-Mansour dopo queste ultime elezioni (il passaggio delle consegne avverrà tra qualche settimana) è stato di dichiarare punibile con l’arresto o con ammende onerosissime chi disonora la bandiera egiziana o non si alza in piedi quando si suona l’inno nazionale!
D’altro lato, l’Europa e l’Occidente sembrano disinteressarsi sempre più dei fatti egiziani e di quelli dei Paesi della cosiddetta «Primavera araba». Credono forse che lo spirito rivoluzionario sia morto e che la gente abbia smesso di chiedere pane, libertà e giustizia? Non cadiamo in questo errore. In questi Paesi si è verificato un salto generazionale, e anche se la guerra civile imperversa in Siria, il disordine ostacola la ricomposizione istituzionale in Libia o l’Ancien Régime ritorna in Egitto, non è vero che sia tutto come prima. Il cuore e la mente delle giovani generazioni è irrimediabilmente cambiato con il 2011, e non fare i conti con loro significa affidarsi ancora una volta alla Ragion di Stato e alla sottomissione della volontà di riscatto popolare agli interessi geostrategici. Se continuiamo a pensare in questi termini, siamo vecchi quanto il Generale egiziano. Noi abbiamo avuto l’Arena di Pace e Disarmo contro gli F-35, ma la vicenda degli Apache come quella degli aiuti militari russi all’Esercito egiziano ha sollevato molto dibattito anche in Egitto, dove tra i circoli di attivisti e su alcuni mezzi di informazione si rimettono in discussione il ruolo dell’Esercito e le finalità del suo riarmo. Molti giovani associano ormai molti passi fatti dall’Esercito recentemente con la stabilizzazione desiderata da Israele, quando, ancora oggi, molti attivisti laici continuano ad essere accusati dalla propaganda di regime di essere «agenti» sionisti o americani. Lo scrittore ʿAlā al-Aswānī ha riportato recentemente un fatto molto emblematico: su un vagone della metropolitana del Cairo riservato alle donne è salito una gruppo di uomini; alcune ragazze si sono lamentate ed hanno chiesto ai ragazzi di cambiare vagone; questi si sono rifiutati e le donne mature e anziane che stavano nel vagone, invece di difendere le ragazze, che volevano che venisse rispettata la legge, le hanno accusate di sobillare il disordine e di ribellarsi per niente; le ragazze, pur essendosi trovate sole, hanno resistito e hanno bloccato il treno, costringendo il macchinista ad intervenire e ad allontanare il gruppo di uomini. È un vero e proprio scontro generazionale quello che ha fatto emergere l’energia latente della rivoluzione.
Stare con la rivoluzione vuol dire stare con le nuove generazioni, che rappresentano il 60% della popolazione di quei Paesi. Stare con la rivoluzione e con chi ha gridato «pane, libertà e giustizia» vuol dire scegliere il futuro, anche se è lontano, anche se i regimi che quei giovani hanno messo in discussione continuano a piacere ad alcuni per essere (stati) socialisti, terzomondialisti o antimperialisti. Stare con la rivoluzione vuol dire starci anche ora, in Egitto, in Siria o in Libia, nonostante quelle limpide rivendicazioni di riscatto siano state confiscate da grandi potenze, partiti islamisti o pezzi di regime che non cedono. Anzi, soprattutto ora si riconoscono gli amici, non quando tutto sembrava facile per la cosiddetta «Primavera araba». E stare con quei ragazzi significa anche stare con i nostri, che soffrono la precarietà, la sfiducia e il disincanto. Per questo, quando qualcuno dice che quelle rivoluzioni hanno fallito fa il gioco di chi vuole schiacciare i giovani di quelle rivoluzioni. È triste vedere come l’Europa si sia richiusa a riccio invece di prospettare una nuova politica mediterranea, ed è altrettanto triste ascoltare sedicenti progressisti che prendono le distanze e paiono rimpiangere la tranquillità che garantivano il colonnello Gheddafi o l’elegante al-Asad (e forse anche il signor Mubārak).
Costruire reti transmediterranee per sostenere i giovani che si sono ribellati, promuovere gli scambi tra Nord e Sud perché si apprenda dagli errori e si impari da storie di successo, dotarsi di infrastrutture e servizi per imparare a difendersi dalle grinfie del Potere e a fare politica mobilitando persone di diverse classi sociali, trasmettere saperi su come avanzare verso una democrazia compiuta dei diritti non solo civili e politici, ma anche economici, sociali e ambientali: di questo vi è bisogno sia a Nord che a Sud del Mediterraneo, e solo una prospettiva politica comune può dar speranza al cambiamento, e evitare che gli Europei «si facciano gli affari loro» – che sarebbe in realtà il peggior modo per tutelare stabilità e coesione. Anche nelle questioni di disarmo e sicurezza, una prospettiva mediterranea di critica sociale e politica darebbe nuovi assi al movimento: pensiamo all’installazione del sistema di telecomunicazioni satellitare della marina militare statunitense MUOS a Niscemi, pensiamo ai nuovi armamenti russi e americani che arrivano in Egitto, e pensiamo a quanto bene potrebbe fare una campagna transnazionale per la difesa civile nonviolenta in tanti paesi, da Israele alla Libia, dal Marocco alla Siria, dove abbiamo lasciato soli i ragazzi che iniziarono la rivoluzione del 2011 con i nostri tentennamenti e le nostre ideologie.
Anche se in Egitto ha vinto il Generale, le cose non sono più come prima del 2011. Quando superi la barriera della paura, non sei più lo stesso, sei diverso dentro, e se arriva un nuovo Uomo Forte, non si troverà più di fronte a dei sudditi. Se i giovani di quei Paesi hanno bisogno di noi, noi abbiamo altrettanto bisogno di loro per alimentarci della loro energia, apprendere a ribellarci, imparare a mobilitare la gente comune, e soprattutto imparare a dividerci di meno e ad essere inclusivi, oltre le identità. Il Generale è arrivato, ma è già vecchio. Tocca a noi mostrare che siamo giovani, come quelle ragazze della metropolitana del Cairo.
Giugno 2014