Intervista a cura di Linda Maggiori per Peacelink
L.M: Si sente dire che i bambini che sono andati al nido “hanno una marcia in più”, diventeranno alunni più preparati e che raggiungono risultati migliori nei test Invalsi1…Lei che ne pensa?
G.F: Cosa può significare “più preparati”? è una espressione vaga che non specifica di quali abilità, conoscenze o competenze stiamo parlando. Non è per nulla facile dimostrare scientificamente la correlazione tra l’essere andati al nido (quale nido, con quali caratteristiche, dove, con quale vissuto e quale famiglia alle spalle?) e il diventare “più preparati” in una certa fase dell’età scolare. Ma, pur ammettendo che fosse così, la domanda è ulteriore: cosa vogliamo fare dei nostri bambini nelle prime fasi della vita? Qual è il nostro obiettivo educativo, quale immagine ne abbiamo in quanto bambini e in quanto futuri adulti? Io credo che ci troviamo davanti a una tendenza generalizzata a forzare le tappe e a saturare i tempi giornalieri dei piccoli, quando la migliore pedagogia da due secoli e mezzo ci ripete che è necessario osservare e ascoltare i bambini, uno per uno, una per una, per comprenderne i bisogni di crescita, accoglierli in un ambiente ricco e rispettoso, in cui protagonisti – o per dirla con Dewey “cittadini” – sono loro, non gli adulti e le loro proiezioni narcisistiche, non il sistema economico con la sua fame di consumatori/lavoratori.
L.M.: Il nido è necessario per crescere e “socializzare”? Quali consigli per chi sceglie di non fruirne o non può fruirne?
G.F: Pensare che il nido – parola che può indicare strutture molto diverse tra loro – sia l’unica risposta possibile alle esigenze infantili è quanto meno ingenuo. Non possiamo più parlare di bisogni dei bambini e delle bambine secondo categorie astratte di sviluppo, che standardizzano tappe su griglie o check list. Il nido è solo una delle tante possibili risposte alle esigenze di crescita dei piccoli e quanto sia adeguato a quel bambino particolare non possiamo dirlo in anticipo. Una struttura per lo 0-3 può arricchire di stimoli la vita dei suoi piccoli ospiti, oppure li può deprivare di figure di riferimento che sono in quella fase della vita più importanti di ogni “stimolazione” funzionale a farne bambini “preparati”, “intelligenti”, adattati alla logica della perfomance. Dipenderà, ad esempio, da quanto è ricco di stimoli, “caldo e pieno di comprensione” il contesto familiare (se ne è povero, il nido sarà una benedizione!).
I “nidi” dovrebbero assomigliare il più possibile a microcosmi famigliari in cui è possibile una cura educativa adeguata e non spersonalizzante. Tuttavia in molti “asilo nido” già in tenerissima età si assiste a una standardizzazione dei tempi quotidiani, il rapporto educatrici/bambini è spesso insostenibile (anche 1/10!!!) e non può garantire una cura sufficiente e personalizzata. Il “modello Ikea” nell’organizzazione spaziale domina su tutti, gli ambientamenti sono spesso condotti in modo brusco e senza prendere in carico l’intero nucleo. Basti pensare a quanto spesso ancora venga scoraggiato l’allattamento al seno quando il bimbo entra al nido.
La mia opinione personale è radicale: al netto della libertà di ogni famiglia di scegliere, sono convinta che la ricchezza di un ambiente familiare (che immagino ovviamente aperto al mondo, non certo confinato tra 4 mura) non può essere facilmente riprodotto all’esterno. Perché – ci piaccia sentircelo dire oppure no – esiste una differenza incolmabile tra il calore di care giver efficaci che hanno legami familiari ed educatrici pagate per fare un mestiere. Di questo tassello è letteralmente vietato parlare nell’epoca dei “professionisti di troppo” (Illich), della professionalizzazione della cura, ma ogni tanto dovremmo ricordarcene. Sono dell’idea che per i primi 6-7 anni i bambini debbano poter vivere il più possibile “allo stato brado”, magari in natura, senza particolare strutturazione di attività e con la libertà di soddisfare il naturale bisogno di esplorazione (di qualunque ambiente di vita, casa, parco, mezzi di trasporto, mercato, i paesaggi), sono convinta che la ricchezza assorbita in questo modo non strutturato sia di gran lunga superiore a quella possibile dentro una struttura chiusa, dalla quale raramente si esce nella città (se va bene nel giardinetto adiacente, che potrebbe anche non presentare neppure un filo d’erba!) e dove movimento, azione ed esplorazione sono organizzati e confinati dentro un perimetro di possibilità predefiniti. E questo anche di fronte alla migliore progettazione pedagogica.
Quindi, in definitiva, i genitori che non intendono fruire dei servizi nella fascia 0-3 non hanno di che preoccuparsi. A meno che non si tratti di famiglie deprivanti o peggio, nessun bambino che eviti il nido crescerà con turbe psichiche, deficit cognitivi o chissà quali danni. Godersi il più possibile quel tempo insieme ai propri figli (e anche di più, se si vuole) può essere un’avventura meravigliosa e ineguagliabile. E che prepara nel miglior modo e con i tempi del cucciolo alla tanto decantata “socializzazione” esterna alla famiglia. La socializzazione inizia ben prima che il bimbo o la bimba entri in una struttura “educativa” o “scolastica”! Né entrarci favorisce questo processo, anzi spesso, con il suo portato di precoci routine omologanti, con la convivenza forzata e non spontanea e con la pretesa che bambini piccolissimi e fisiologicamente immaturi a recepirle apprendano “regole” di convivenza, si spiana la strada a strambe deformazioni della socialità.
L.M: Al nido i bambini possono essere portati fin dai 3 mesi e per molte ore al giorno, (anche 8 ore e più). Non è un po’ troppo?
G.F: Ogni genitore può osservare i limiti fisiologici dei suoi bambini. Le loro esigenze si dispiegano in modo palese a chi sappia fermarsi ad ascoltare, ad osservare, ad abbracciare. La nostra società però non ha il suo centro sui bambini e lo sappiamo bene tutti. Ruota intorno all’adulto in quanto risorsa economica che può essere spremuta dentro un sistema profondamente violento e alienante. L’organizzazione sociale depriva i genitori del tempo adeguato all’accoglienza dei piccoli e le strutture di supporto come i nidi sono pensate tutt’ora soprattutto come un aiuto ai lavoratori e alle lavoratrici. Se fosse diversamente, vedremmo l’organizzazione sia del lavoro adulto sia delle realtà educative trasformarsi nel segno della flessibilità e della sinergia (che sono già due modalità molto più rispettose della fisiologia), invece che continuare ad essere binari paralleli ed entrambi piuttosto rigidi.
L.M: Spesso le famiglie sono serrate in ritmi frenetici, corrono in una ruota del criceto, lavorano per consumare, e hanno poco tempo da dedicare ai bambini e agli stili di vita più ecologici… La tradizione nonviolenta e il movimento per la decrescita felice possono aiutare a superare questa impasse?
G.F: La tradizione nonviolenta può aiutare sempre, perché tiene ben salda e aperta la riflessione critica e problematizzante sulle forme di violenza presenti nella società (e negli individui) e richiama costantemente all’invenzione creativa di soluzioni che le riducano il più possibile. Questa riflessione si focalizza su tutte le forme di violenza, da quella fisica e psicologica a quella strutturale e culturale (Galtung), svelando ai nostri occhi la miriade di impasse in cui siamo bloccati e che non ci permettono di vivere felicemente, tutti, insieme. Nello stesso tempo, la tradizione nonviolenta rappresenta nel suo cuore pulsante un metodo di lotta. Nessuno dall’alto ci regalerà una vita rispettosa e felice, dobbiamo lottare.
Da “illichiana” convinta, inoltre credo che l’educazione di oggi sia quasi totalmente fuori pista rispetto a quello che sarebbe urgente, che sia sorda alle esigenze del futuro, cieca alla necessità di trasformare rapidamente il mostro onnidistruttivo e divorante dell’economia e della cultura a suo supporto, per sposare un ideale di rispetto della Terra e di fratellanza umana ben espresso da Alexander Langer nel motto lentius, profundius, suavius (più lento, più profondo, più gentile). Questi sono assi precisi di una “pedagogia della decrescita”. Purtroppo, gli stili di vita cambiano faticosamente e le scelte alternative sono ancora molto di nicchia, mentre le istituzioni, l’industria, i media le ignorano del tutto perché poco appetibili per le lobbies del mercato. Siamo ancora molto al di qua da una rivoluzione, che potrà avvenire solo allargando la massa critica (e in questo l’educazione è fondamentale). Spero di poter assistere a qualche cambiamento in questa direzione prima di morire.
Gabriella Falcicchio è anche autrice di numerosi libri, tra cui: “Profeti scomodi, Cattivi Maestri, imparare ad educare con e per la nonviolenza” ed Meridiana.