Questa volta, per un attimo, l’opinione pubblica Usa «ha compreso in che modo il resto del mondo giudica i droni». Ma la realtà di luoghi come Pakistan e Yemen «è troppo lontana per essere capita dagli americani»; appaiono «luoghi misteriosi e deumanizzati» (era già così per il Vietnam, per dichiarazione successiva di Mc Namara), dove le vite di civili innocenti non sono da considerare. Non solleva dubbi il fatto che «nel decennio dei droni le organizzazioni terroristiche si sono rafforzate» (Rafia Zakaria, Dawn, Pakistan, in Internazionale 30 aprile, p. 26-27).
Il programma «permette alla Cia di uccidere senza dover sapere chi sono le persone colpite». Dunque le uccisioni non sono mirate, ma molto casuali.
Nel 2012 un alto ufficiale americano ha detto che per la Cia «tre ragazzi che saltellano a gambe divaricate potrebbero essere dei terroristi in fase di addestramento». L’organizzazione non governativa American civil liberties union ha citato in giudizio la Casa Bianca. L’amministrazione Obama «sembra molto compiaciuta di aver fatto la scelta saggia, etica e responsabile (alternativa a guerre estenuanti) di uccidere persone di cui non si conosce l’identità». Infatti, bersaglio dei droni non sono singoli terroristi, ma una casa, un mezzo di trasporto «associato a sospetti terroristi». La Nsa e la Cia sostengono che «le operazioni con i droni devono continuare «altrimenti molti statunitensi moriranno». Adam Schiff, della commissione del Congresso che vigila sui servizi segreti (i quali nel 2016 costeranno 53,9 miliardi di dollari) fa capire che «gli Stati Uniti non smetteranno di uccidere i loro obiettivi anche senza sapere se si tratta davvero di nemici» (The Guardian, ivi).
Enrico Peyretti