I fatti sono stati accertati da più parti, agenzie internazionali, ONG e molti seri reporter hanno documentato chiaramente ciò che sta succedendo. Non sono quindi accettabili reticenze, silenzi e men che meno bugie da parte del governo di Yangon e della sua esponente più importante e conosciuta, Aung San Suu Kyi.
Le pur vistose attenuanti – legate alla “pasta” sanguinolenta e nauseabonda di cui è fatta la casta militare birmana, che ha ancora saldamente in mano i ministeri della Difesa, degli Interni e dei Confini, un vicepresidente, il 25% dei parlamentari, nominati per legge, e una Costituzione che consente loro ampi margini di potere e di manovra, tra i quali anche l’impossibilità di modifiche alla carta fondamentale del paese senza i voti dei rappresentanti dell’esercito e che potrebbe, in ogni momento, operare un colpo di mano, riportando il paese nei tempi più bui – non possono essere una giustificazione per la Lady.
Le iniziative di denuncia e di pressione che vengono da attivisti, associazioni e ONG sono sacrosante e vanno sostenute con forza e determinazione. Giusti e condivisibili i richiami forti e autorevoli di molti Nobel.
Credo però che chiunque sia cimentato con un minimo di attenzione con l’esperienza di Aung San Suu Kyi non possa non ritenere che il suo contributo ed il suo agire, all’interno della storia politica che si è determinata a cavallo del millennio e alla storia della nonviolenza più in generale, sia stato, e resti, uno dei più originali e significativi emersi in quegli ambiti.
Proprio per questo l’attacco concentrico, trasversale e diffuso alla Daw pone molte più domande di quante non appaiano a prima vista.
Ci sono gli agitatori violenti per vocazione, che attaccano Suu Kyi con l’unico strumento che sono in grado di manovrare: la gogna! E’ doveroso e necessario non solo guardarsi bene da costoro ma anche prendere nettamente le distanze da modi, linguaggio e, si fa per dire, opinioni di questa parte. Il nemico (violento) del mio nemico non potrà mai essere un mio amico.
I più pericolosi però sono i tanti commentatori mainstream, compresi alcuni pentiti dell’ultim’ora, che nei mesi scorsi con “viva e vibrante” indignazione hanno lanciato strali sul personaggio pubblico. La gran parte dei quali, e delle testate per cui essi scrivono, prende parola alla voce “diritti umani” solo quando il titolo può fare notizia o quando quelle violazioni possono essere usate come clava strumentale e di parte.
A me sembra del tutto evidente che l’offensiva che arriva da questo lato sia un pesante attacco personale. Questo ampio filone di pensiero però ha un traguardo più sostanzioso, sottilmente nascosto. Assieme alle scelte odierne di Aung San Suu Kyi l’obbiettivo è azzoppare e ridimensionare anche tutto il percorso politico e di lotta che si è venuto a manifestare attorno alla leader birmana. Non casualmente costoro sono i beatificatori della prima ora, dei tempi della detenzione e dell’isolamento i quali, senza averne mai compreso nulla, senza avere probabilmente letto più di due pagine di un qualsiasi suo testo, ne fecero, in quegli anni, una santa e un’eroina d’altre epoche, raggiungendo la punta più farsesca di questa adorazione nel celeberrimo paragone con Giovanna D’Arco, messo in copertina da Vanity Fair nel 1995.
Questa costruzione però, culturalmente e politicamente, era già preordinata e finalizzata, più o meno consapevolmente, all’esito di oggi: se anche una santa ed un’eroina senza macchia, come la Signora, cade chi altri potrà mai riuscire a percorrere quelle strade? Il messaggio che si vuole veicolare è che la scelta nonviolenta e la difesa senza armi dei diritti di ogni uomo e ogni donna può avviare solo battaglie deboli – bisognose, giustappunto, di inesistenti santi – che possono portare facilmente alla sconfitta. Il tentativo è quello di mostrare il fallimento di quei percorsi e indirizzare l’opinione pubblica a pensare che solo attraverso altre strade, con altre le priorità, strumenti e scelte si può “fare” politica in maniera credibile ed efficace.
In realtà a questo filone di pensiero interessano i Rohingya tanto quanto i bambini yemeniti, le donne siriane, gli adolescenti palestinesi e i diseredati di tutto il mondo.
Un filone di pensiero distante anni luce da chi considera la lotta un agire collettivo, un sapere condiviso, un’assunzione di responsabilità ampia e diffusa. Da chi considera imprescindibili queste caratteristiche dalla scelta nonviolenta. Da chi crede che un leader possa essere tale solo se nella sua prassi giungano a più chiara sintesi questi elementi, rappresentandone simbolicamente forza e passione, e che il suo agire sia l’esatto opposto di quello del classico capo, specializzato nel comando e nell’imposizione di scelte e obbiettivi.
Aung San Suu Kyi è stata, per lunghi anni, quella sintesi nel suo paese. Le sue posizioni odierne sulla minoranza musulmana possono prestarsi a molte ipotesi e supposizioni. Nessuna potrà cancellare la gravità delle scelte prese fino ad ora dal governo di cui è esponente di rilievo ma unirsi, o anche solo blandire o rilanciare, opinioni e opinionisti del secondo coro è davvero inaccettabile e incomprensibile, visto il pensiero che lo ha originato.
Questo pensiero solo apparentemente sembra ragionevole e condivisibile, in realtà è intrinsecamente violento, autoritario e intollerante. Ha la medesima origine, sia pure trasfigurata, in questo caso, attraverso la metafora della caduta, che abbiamo visto più volte sventolare nell’ultimo quarto di secolo: la supponente e insopportabile idea che l’occidente abbia una sorta di diritto di prelazione calato dal cielo, e possa arrogarsi, di volta in volta, il potere di individuare il cattivo di turno (gli esempi più celebri e drammatici riguardano i vari Saddam e Gheddafi con le eccezioni “misteriose” degli Assad e degli Erdogan) trovandosi poi “costretto”, nelle situazioni più gravi, per salvare non un popolo ma l’umanità intera, alla scelta ovviamente obbligata, dell’annientamento del soggetto in questione. Questo pensiero, che chiaramente nasce sempre e solo per la tutela di interessi politici, geostrategici ed economici, spesso indicibili ed occultati, ha però bisogno di questa narrazione per acquisire il consenso necessario. La via più semplice, più diretta, resta sempre quella dell’individuazione di un bersaglio in carne ed ossa, dell’antichissimo capro espiatorio.
Ora se ogni attacco personale, per qualsivoglia motivo, diretto verso chicchessia, fosse pure il satrapo più feroce e sanguinario, ha sempre e sistematicamente quelle orribili radici – radici che comprese, con largo anticipo, Jean Amery quando, in prefazione al suo imprescindibile “Intellettuale ad Auschwitz” scrisse, “Talvolta si ha l’impressione che Hitler abbia conseguito un trionfo postumo. (…) la distruzione dell’uomo nella sua essenza” – in questo caso è evidente che vuole solo e sistematicamente demolire una donna e la sua intera storia. Prova ne sia che quasi nessuno di questi accorati opinionisti nemmeno tenta di indicare, o solo suggerire, quali mosse dovrebbe fare la Lady per porre termine all’oppressione dei Rohingya, nessuno che si eserciti, come spesso accade in questi frangenti, a ipotizzare scenari possibili, soluzioni intermedie, soggetti da mettere in campo. Ma è ovvio che sia così, se vesti i panni, sia pure dissimulati, del tiratore scelto, se sei ottenebrato dal delirio di chi crede di possedere il giudizio divino. L’obbiettivo è uno solo: centrare il bersaglio, additarlo e marchiarlo definitivamente.
Una delle derivate più macroscopiche di questo pensiero riguarda l’incredibile consenso raccolto dalla proposta di revocare alla politica birmana il Nobel per la Pace. Aung San Suu Kyi iniziò la sua vita politica proprio nel periodo in cui si stava preparando l’8/8/88, il giorno in cui prese avvio una delle più importanti rivolte popolari e studentesche birmane contro la dittatura. Quel giorno e durante i mesi successivi, le vite di molti giovani furono annegate nel sangue, nel carcere più violento e degradante e nella tortura di migliaia di loro. Nel discorso di accettazione del Nobel, che potè ricevere solo ventun anni dopo il suo conferimento, anni passati in gran parte agli arresti e isolata dal mondo intero, Suu Kyi più volte ricorderà quegli uomini e quelle donne, le tante vite mute e spezzate senza le quali lei stessa e la lotta per la democrazia in Birmania non sarebbe mai potuta esistere. Più volte, durante i decenni del terrore e del dolore, sarà in nome di quegli studenti e assieme alle migliaia di oppositori dal coraggio smisurato che la sua leadership prenderà corpo e la resistenza potrà durare e vincere. Chi ha caldeggiato, organizzato e sottoscritto quella insulsa proposta forse non ha cognizione di queste vicende, forse non sa che quel Nobel “rappresenta” ed è indissolubilmente legato a quelle vite, a quelle esistenze, ma soprattutto, forse, non si rende conto di partecipare ad un rito oscuro e necrofilo di cancellazione di una vicenda importante non solo per la Birmania ma per tutta la storia della nonviolenza e della lotta per i diritti umani.
Infine, in controluce, questa vicenda mette in evidenza forse l’elemento più grave, che riguarda l’approccio alla dimensione della politica di un’ampia parte dei suoi rappresentanti, di coloro che vogliono raccontarla, e di una fetta dell’opinione pubblica: l’estrema difficoltà sia di vivere che di affrontare le contraddizioni che si aprono nello spazio pubblico, con l’insofferenza, per non dire l’avversione, nel tollerare chi vi si mette in gioco lo stesso senza soluzioni pronte e definitive; sia di immaginare possibili gestioni del conflitto che non siano indirizzate esclusivamente verso esiti distruttivi.
L’assegnazione del Nobel avviene, come per qualsiasi altro riconoscimento, alla luce della considerazione di una vicenda, o di alcuni accadimenti, così come essi si sono determinati fino a quel momento. Certo, l’auspicio che tutto quanto di significativo e di importante, previsto nel nucleo del riconoscimento assegnato, possa perpetuarsi sine die, è legittimo, ma nessuna ragionevole previsione potrebbe darlo per scontato, come un fatto definitivamente acquisito. Per qualsiasi altro riconoscimento, qualsiasi altra categoria di Nobel, la penseremmo in questo modo.
In questo caso invece – e non credo sia secondario che stiamo parlando di una donna – Aung San Suu Kyi deve dimostrare di essere una sorta di angelo, ovvero, in caso contrario, precipitare direttamente all’inferno, esattamente come la vicenda luciferina racconta. La richiesta di cancellazione e di revoca del Nobel è palesemente motivata dalla valutazione di questa sorta di inaccettabile “tradimento”, mettendo in luce un legame culturale trasversale attorno a un pensiero la cui natura intollerante e integralistica è esplicita: la difficoltà, che si avvicina all’impossibilità, di accettare un errore, anche grave, soprattutto da parte di chi hai ritenuto a lungo un tuo compagno di strada, chiudendo ogni porta, elevando subito muri che magari, altrove, si chiede incessantemente di abbattere.
Accade così quando prevalgono – ed anche questo è un tratto diffuso e trasversale – prese di posizioni istintuali attizzate principalmente dalla visceralità, laddove la politica si eclissa, in luogo delle scelte meditate e razionali alimentate dalla forza durevole e inesauribile della passione.
Credo che pochissimi abbiano davvero letto il suo discorso del 19 settembre 2017, le parole di Suu Kyi sulla difesa assoluta dei diritti umani, nessuno escluso, non possono lasciare spazio a dubbi, come pure è evidente la sua richiesta di tempo e di aiuto, interno ed esterno, il suo palesare le evidenti difficoltà e i ristretti margini di manovra nel suo governo. Naturalmente si possono valutare in maniera più o meno condivisibile, o accettabile, queste prese di posizione ma anche il giudizio più severo – a meno di non pensare che la Lady sia proprio un’artefice e una mandante del massacro dei Rohingya, parte attiva e propulsiva delle azioni intraprese dal Tatmadaw e stia, quindi, spudoratamente e vergognosamente mentendo – non potrebbe giustificare alcuno degli apprezzamenti, dei verdetti e dei punti vista di cui sopra.
Che fare allora? Aung San Suu Kyi e il governo civile birmano sembra stiano iniziando a dare qualche seguito alle conclusioni del rapporto di Kofi Annan in relazione alla “Rakhine State AdvisoryCommission”. Sono iniziati i primi colloqui col Bangladesh e si è avviata la discussione sul possibile rientro in Birmania dei rifugiati Rohingya ma le difficoltà e gli ostacoli sono numerosissimi. Le ombre lunghe e minacciose, i tempi assolutamente incerti. E’ evidente che l’azione internazionale di pressione e di denuncia, in primis gli appelli e le iniziative di organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch, sono fondamentali e non possono assolutamente fermarsi. Ma le pressioni vanno fatte anche sui nostri governi, presso le istituzioni internazionali.
Il consiglio europeo ha adottato una presa di posizione di condanna nella quale si dispone un embargo di forniture militari e sulle attrezzature che potrebbero essere utilizzate per la repressione interna ma ha lasciato una porta aperta al dialogo in vista della prossima riunione dell’ASEM che si terrà nella nuova capitale birmana il 20 e 21 novembre prossimi. L’Europa non ha certo il peso di India e Cina – che hanno i maggiori interessi su quell’area e hanno scelto non casualmente la strada del silenzio o di qualche blanda dichiarazione asettica e formale – o degli Stati Uniti che, nella traccia della nuova presidenza, ha ripreso modalità aggressive anche in Asia, ma potrebbe introdurre qualche elemento di novità e di rottura di schemi triti e senza futuro iniziando ad abbandonare la strada che mette gli interessi geopolitici rigorosamente nel solco di uno spietato neoliberismo che si nutre di una globalizzazione predona di uomini e terre.
Se l’Europa iniziasse a porre con forza il tema che i diritti umani e la dignità per ogni uomo e per ogni donna del pianeta sono la pietra angolare con cui guardare e valutare ogni scelta di natura, sociale, politica ed economica potrebbe segnare un’autentica e storica differenza. Sarebbe un segno forte di speranza non solo per il popolo Rohingya ma per una parte grande del pianeta. Su questo terreno Papa Francesco, che visterà Myanmar tra meno di due settimane, potrebbe anch’egli giocare un ruolo importante. Vedremo, nelle prossime settimane, cosa accadrà.
Come sempre, ogni cambiamento politico dipende solo da noi, da come e quanto siamo disposti a metterci in gioco. Senza dimenticare di tenere vivo il pensiero critico, principalmente rispetto ai percorsi che si intraprendono, alle nostre scelte. Prendendosi il tempo che occorre per riflettere, soprattutto in quest’epoca, nella quale le tecnologie, e in particolare chi pensa di trarne sostanzioso profitto politico ed economico, spingono a magnificare il “tempo reale”, a pensare che le cose accadono per noi, e solo per noi, in quel preciso momento oppure le abbiamo perse per sempre. Consapevoli dei nostri limiti che, a pensarci bene, forse non sono così diversi da quelli di chiunque altro.