Il 20 giugno scorso, le agenzie battono una notizia che trova pochissimo spazio sui media italiani: l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni – che tiene un tragico conteggio – comunica che, dall’inizio del 2017 fino alla metà di giugno, sono già 2000 le persone annegate nel Mediterraneo. Bambini, donne, uomini morti in mare, mentre tentavano di raggiungere la sponda nord del “mare nostrum” in fuga dalle guerre, dal terrorismo, dalla fame, dalle devastazioni ambientali. 2000 persone che si aggiungono alle decine – e forse centinaia – di migliaia annegate negli ultimi vent’anni: un’ecatombe che fa del Mediterraneo il cimitero della speranza.
I media italiani, danno invece molto risalto alle dichiarazioni del ministro Marco Minniti (quello del “decreto Minniti-Orlando” che il loro compagno di partito Luigi Manconi, presidente della Commissione per i diritti umani del Senato, ha definito “diritto etnico” ndr) che il 28 giugno, una settimana dopo il rilascio dei tragici numeri dall’OIM, minaccia l’Europa di chiudere i porti italiani alle navi che non battano bandiera italiana, ma che salvano i profughi dalla morte certa. Il tema posto con decisione dal ministro dell’interno italiano all’Unione Europea non è, dunque, come salvare la vita delle migliaia di persone che annegano nel tentativo di raggiungere la salvezza, ma come impedire che quelli che si salvano giungano sulle nostre coste. Ossia – di fatto – l’emergenza non è data dalle troppe morti ripetute, ma dalle troppe vite salvate.
Del resto che il governo italiano non abbia molto a cuore la salvezza di vite umane è testimoniato dall’aumento senza precedenti delle autorizzazioni governative per l’esportazione di armamenti, come dichiarato dallo stesso governo nell’annuale relazione al parlamento: + 452 % tra il 2014 e il 2016, passando da quasi 3 miliardi a 14,6 miliardi di euro di profitti bellici, in due anni. Armi vendute prevalentemente (58,8 %) ai Paesi africani e mediorientali, ossia proprio ai Paesi dai quali fuggono i profughi che finiscono in mare e che quello stesso governo che ne autorizza la loro vendita non vuole che trovino salvezza (le persone, non le armi ndr) sulle coste italiane. In fondo – è il caso di dirlo – è questo ciò di cui si tratta: il disprezzo del governo per la vita umana.
Come se non bastasse, negli stessi giorni, Matteo Renzi segretario del principale partito di governo – improvvisatosi antropologo – trova il modo di farci sapere che no, lui non vuole una società “multiculturale” ma al massimo “multietnica” nella quale difendere “l’identità” – scambiata per “cultura” – “che anima questo territorio”. In verità, anch’io – nella mia vita civile e professionale, cioè educativa – ho sempre pensato che “multiculturale” non fosse poi così bello, perché la società nella quale vorrei vivere – e dove le mie figlie vivono già, beate loro – è quella “interculturale”, che diventerà man mano “transculturale”, dove le culture si mescolano perché le persone sono fatte di intrecci e relazioni e le culture sono elaborazioni complesse, vive e fluide, non semplici, povere e reificate “identità” giustapposte. O, peggio, contrapposte.
Del resto, lo spiega bene anche Francesco Remotti – decano degli antropologi italiani – “una cultura povera, riducendo in modo radicale la complessità, sostituisce alle relazioni, agli intrecci, alle sfumature, ai coinvolgimenti, alle reciproche implicazioni una logica fatta di mere divisioni, di separazioni, di opposizioni, una logica che alla radice è puramente dicotomica: “noi” e gli “altri”, identità da una parte e alterità dall’altra. L’identità di cui tanto si parla è il principio che maggiormente esprime, riflette e ispira la povertà culturale del nostro mondo” (L’ossessione identitaria, 2010).
Evidentemente, l’impoverimento culturale del Paese e il disprezzo per la vita umana sono funzionali alla ricerca di voti xenofobi e razzisti. Anzi contribuiscono, pedagogicamente, a crearne di nuovi.