Nell’effimera – in gran parte illusoria – primavera araba l’Algeria non c’era. L’hanno preservata un relativo benessere (esportazione petrolifera) e la ferrea padella dei militari, che l’ha sottratta alle braci islamiste. Mi ha colpito un titolo recente su La Stampa: “Un presidente eterno e i militari al potere. L’Algeria corre rapidamente verso il baratro”. Lo stesso giornale nei mesi passati aveva parlato di quel paese solo per le magnifiche prospettive aperte ad Eni, Saipem e Maire Tecnimont in campo energetico. L’articolo è dello scrittore Tahar Ben Jelloun, marocchino d’origine, critico verso la politica del suo paese e dell’Algeria, in nome di una solidarietà progressista maghrebina. Così mi è venuto voglia di ricercare qualcosa sul momento attuale. La mia scarsa conoscenza era ferma da cinquanta anni.
Abdelaziz Bouteflika, presidente dal 1999, sarebbe in pessime condizioni di salute – paralitico, senza capacità di movimento e parola, in un ricovero dal 2013 – se non addirittura morto da tempo, qualcuno dice già dal 2012. Si ipotizza per lui un quinto mandato. I militari hanno vinto, negli anni Novanta – un decennio di sangue – la guerra contro gli islamisti, vincitori delle elezioni nel 1992. Però le moschee sono raddoppiate e ce n’è una ad Algeri, ribattezzata “Moschea Bouteflika”, la più grande dopo quelle saudite della Mecca e di Medina. Gli algerini hanno evitato la sharia, non un islam onnipresente e reazionario, che impone la sua visione di quel che è haram, proibito, in differenti gradazioni.
Leggo su le Monde diplomatique di giovani che non pensano all’impegno per liberarsi da un regime autoritario e corrotto, come già i loro bisnonni nei confronti di un’oppressione esterna. Cinque preghiere al giorno piuttosto, per accumulare hassanate (punti positivi, un po’ come le nostre indulgenze) e compensare gli inevitabili syiate (punti negativi, i nostri peccati, credo). La differenza tra le due cifre deciderà l’accesso al paradiso, non so se con posti unici o differenziati. È bene pregare alla moschea perché lì si hanno 27 volte hassanate in più di quanti se ne avrebbero pregando in casa. Le donne, di ogni condizione, sono tornate a velarsi. Non mancano le proteste per la difficile situazione economica, esposta alle fluttuazioni del mercato petrolifero, ma come osserva la studiosa dei movimenti sociali algerini, Naoual Belakhdar, un vero segno di mutamento politico vi sarà quando i manifestanti scenderanno in strada con le loro ragazze, mogli, sorelle.
Ci sono poi i migranti – Camerun, Nigeria, Mali, Costa d’Avorio – verso l’Europa, in Algeria, per mesi o anche anni, per rimettere insieme un po’ di soldi e proseguire il viaggio. Il razzismo è forte: sono neri e cristiani in un paese musulmano. Non possono regolarizzare la loro posizione, non hanno diritti, i bambini non vanno a scuola. “Simbolo di convivenza”, “Fraternità umana“, “Orano, capitale del vivere insieme“: questi sono solo titoli della stampa algerina dell’8 dicembre scorso per la beatificazione di diciannove religiosi cattolici vittime di attacchi islamisti tra il maggio 1994 e l’agosto 1996. Speriamo sia di buon auspicio anche per l’accoglienza dei non musulmani, in un paese laico e democratico.
Un’occasione buona è stata mancata. Avrebbe risparmiato molte sofferenze. L’aveva indicata Camus, nel maggio del ’45, in occasione di una rivolta algerina. “Ho una sola cosa da dire a questo proposito: la Francia costruisca realmente la democrazia nei paesi arabi. La democrazia è un’idea nuova in un Paese arabo. Per noi varrà più di cento eserciti e di mille pozzi di petrolio”.
Un’eco possiamo trovare – con molta buona volontà – nelle parole di Macron nel febbraio scorso: “Se voi siete d’accordo, mi piacerebbe che quest’anno la Francia potesse ospitare una prima riunione dei leader e delle società civili di diversi paesi europei del sud e di alcuni paesi del Maghreb, per vederci, parlare e decidere insieme una strategia comune nel Mediterraneo”. Che i nostri destini siano legati più che non si creda, che un compito particolare spetti ai paesi mediterranei per la collaborazione tra Europa ed Africa è convinzione da tradursi in pratica politica ed economica. Ce lo ricorda tutti gli anni Euromediterranea, il maggiore evento pubblico della Fondazione Alexander Langer.
Il Presidente del Consiglio Conte è stato recentemente in Algeria. L’Italia ne è il primo partner commerciale. Sarebbe bello pensare a una collaborazione anche per difendere ed ampliare i ditti fondamentali: di libertà, civili, politici, sociali. Ne abbiamo bisogno pure da questa parte del Mediterraneo. Per quel che più direttamente ci riguarda si può sottolineare che l’italiano è la terza lingua straniera nelle scuole algerine e che l’Italia è generalmente amata e non vista come un paese già coloniale. Inoltre il film più famoso in Algeria è italiano: “La battaglia di Algeri”, di Gillo Pontecorvo. Lo trasmette la tv due volte all’anno a novembre (Anniversario della Rivoluzione) e a luglio (Giorno dell’Indipendenza). Bello rivederlo assieme, algerini e italiani, riscoprirne il significato di lotta per la dignità di un popolo, per la sua liberazione, per l’affermazione dei diritti fondamentali di donne e uomini. Triste che le lotte per la liberazione – condotte in tempi e condizioni diverse nei nostri paesi – siano dimenticate nel loro messaggio più profondo e comune, per ridursi a ottusi nazionalismi e a povere identità.