• 23 Novembre 2024 9:55

Azione nonviolenta – Agosto-Settembre 2003

DiFabio

Feb 4, 2003

Azione nonviolenta agosto settembre 2003

– Ripartire da Gubbio in cammino per la nonviolenza, di Mao Valpiana
– Per una psichiatria nonviolenta che vada al cuore del dolore mentale, di Paolo Rigliano
– Mio fratello è morto nelle torri. Era un americano innocente. Per questo oggi mi batto contro la guerra che fa strage di innocenti, di Elena Buccoliero
– L’11 settembre ci ha trasformati: prima abbiamo conosciuto la violenza e poi la capacità di superare l’odio. Da allora lavoriamo per un futuro di pace
– Il Cile precipita nel baratro. La coraggiosa testimonianza di Salvador Allende
– Per la sicurezza europea, addio alle armi, di Daniele Lugli
– Lettera aperta dei beati costruttori di pace

Rubriche

– Alternative
– Cinema
– Economia
– Educazione
– L’azione
– Lilliput
– Storia
– Libri
– Lettere

Ripartire da Gubbio In cammino per la nonviolenza

Di Mao Valpiana *

Un passo avanti per la nonviolenza organizzata del nostro paese.
Si è conclusa l’iniziativa promossa dal Movimento Nonviolento dal 4 al 7 settembre “In cammino per la nonviolenza”.
Quattro giorni di cammino, festa, laboratorio, convegno, in un clima raccolto, sereno, fraterno, conviviale, riflessivo, reso ancor più piacevole dalla bellezza di Gubbio.
Persone di tutte le età e di varie provenienze geografiche, hanno percorso il sentiero francescano da Assisi a Gubbio, giungendo alla Chiesa della Vittorina, dove Francesco convertì il lupo. Qui si è concluso il cammino, con una testimonianza laica di Daniele Lugli (segretario del Movimento Nonviolento), una preghiera del reverendo Morishita (monaco buddhista) e una riflessione di Padre Angelo Cavagna (sacerdote dehoniano).
Gli oltre cento partecipanti al Convegno dal titolo “Al posto della guerra” hanno riflettuto insieme sulla necessità di costruire un’Europa disarmata.
L’Europa che gli amici della nonviolenza vogliono è l’Europa delle municipalità, senza eserciti, rivolta al Mediterraneo, con un modello di sviluppo sostenibile. I lupi della guerra, della cultura, dell’economia, del commercio, dell’informazione, possono essere resi inoffensivi solo dalla nonviolenza, da quel “potere di tutti” che già altre volte si è manifestato nella storia. Il cambiamento profondo può venire solo dal basso, dalle scelte personali che i cittadini possono fare. Ciò che hanno fatto i movimenti nonviolenti di Gandhi, di Martin Luther King, delle donne, è stato cambiare la cultura profonda delle persone, ed è ciò che dobbiamo fare anche noi oggi. Non esistono scorciatoie elettorali. Il potere è già nelle mani di ognuno, non c’è necessità di conquistarlo. Come diceva Aldo Capitinini “da una periferia onesta, pulita, nonviolenta, avverrà la resurrezione del mondo”.
Al convegno sono intervenuti tra gli altri Gianni Tamino, Paolo Bergamaschi, Nanni Salio, Angela Marasso, Rocco Pompeo, Peppe Sini, Daniele Lugli. La proposta emersa con forza è stata quella di costituire un Corpo Civile Europeo di Pace come strumento per la politica estera europea, di prevenzione e soluzione dei conflitti.
Anche i bambini presenti hanno dato il loro contributo con un laboratorio creativo, lasciando sui rami degli alberi di Gubbio messaggi di pace per gli eugubini.
I 40 anni della rivista mensile “Azione nonviolenta” (fondata da Aldo Capitini) sono stati celebrati con una festa al Teatro Comunale di Gubbio e l’inaugurazione di due belle Mostre: una su “40 anni di storia in copertina” ed un’altra su Aldo Capitini.
I resoconti dell’iniziativa saranno pubblicati sul numero di ottobre 2003 di “Azione nonviolenta”.

* Direttore di “Azione nonviolenta”

Ammettere il sogno dell’altro, farsi carico della sofferenza del diverso.
Per una psichiatria nonviolenta che vada al cuore del dolore mentale.

di Paolo Rigliano*

Il problema della risposta violenta alle angosce, alle domande sociali deve essere visto da un punto di vista nonviolento in termini di mancanza o di mancata creazione di un pensiero delle alternative.
La nonviolenza è una strategia creativa, cioè mira a dare forme di pensiero e forme di azione alternative, un dato fondamentale e non scontato nel momento in cui si pensano i fenomeni sociali. Per questo oggi è necessario creare nuove forme di pensiero, di interpretazione, di significazione e risposta al dolore – personale e interpersonale – che sta alla base della sofferenza sociale.
L’ipotesi forte è che la nonviolenza non sia un’aggiunta esteriore, secondaria, un palliativo di un sistema più potente di cui si vogliono correggere gli effetti. Esattamente al contrario, ritengo che la questione della violenza e dunque della nonviolenza sia il cuore del dolore mentale.
La mia ipotesi è che una forza, o delle forze sociali, culturali, scientifiche che intendessero porsi solo su un piano di opposizione alle storture, alle carenze, alle derive – istituzionali o meno – della violenza, non riescano ad essere persuasive. In questo momento siamo chiamati ad avere il coraggio e la forza scientifica e culturale di andare oltre una pur necessaria, assolutamente necessaria capacità oppositiva, per articolare un pensiero interpretativo e propositivo.

L’imposizione di un sogno

In una definizione di Simone Weil, la violenza è la pretesa, la volontà di far sognare i propri sogni agli altri, di considerare il proprio mondo mentale – significati, valori, procedure, bisogni – come l’unico degno di esistere, che per essere glorificato va imposto a ogni essere vivente che si trovi a farne parte. Se così è, l’altro va ridotto all’impotenza, piegato perché il proprio sogno si dispieghi, a tal punto che anche l’altro lo sogni suo malgrado, cioè lo accetti coscientemente o comunque lo subisca; in caso contrario l’altro deve essere piegato, neutralizzato o eliminato. Ancora prima c’è l’idea che solo un mondo, tra i tanti infiniti possibili, possa avere valore, ed è il mio.
Di questo processo si possono dare esempi infiniti, dal piano più interpersonale a quello globale. Se l’unico valore è la razza, il sesso, il genere, chi vuole contestare o far venir meno l’unicità di questo mondo di valore deve essere eliminato. Questo è un passaggio cruciale anche per una interpretazione violenta del dolore psichico. Dentro questo principio base, la violenza si pone non come una sostanza.
Uno dei paradossi della violenza – miniera straordinaria di paradossi – è la mancanza di un pensiero. Se si prova a fare una ricerca in libreria, si scopre che i libri sulla violenza sono estremamente limitati, a significare una scarsità di pensiero, di concettualizzazione, come se il problema fosse talmente banale da non meritare riflessione, o quasi si volesse sostenere l’impossibile, cioè che si può fare a meno di pensare.
Una delle conseguenze è che tutti viaggiamo dentro degli stereotipi, pregiudizi scientifici infondati. La violenza viene interpretata di volta in volta come sostanza, come guasto, deviazione, patologia, altro dalla normalità. Deviazioni neurobiologiche, genetiche, biochimiche oppure cromosomiche o cerebrali vengono poste a radice della violenza. Comunque eccezioni limitate ad alcuni individui.
Al contrario, la storia umana collettiva recentissima ci dimostra che la violenza è una possibilità per tutti gli esseri umani.

La violenza come bersaglio mancato

Un’idea che anche noi nonviolenti abbiamo nutrito e superato è una sorta di demonizzazione della violenza, come fosse generativa soltanto di negatività, ma nella mente degli attori questo non è vero. Se vogliamo articolare un minimo di pensiero nonviolento, non facciamo l’errore di iscrivere tutto il mondo che pretende di trovare risposta nella violenza sotto il segno del male. Chi fa violenza ricerca a suo modo un bene. Bisogna saper contestare ogni anello della catena che sorregge questa azione.
Il pensiero nonviolento vuole proporre un altro paradigma sociale. Se è capace di esprimere una contestazione dei singoli passaggi, di evidenziare la contraddizione tra i mezzi e il fine, l’azione critica della nonviolenza non ha limiti, si applica ai fini, agli obiettivi, ai singoli passaggi e al pensiero complessivo, ricerca azioni e desideri facendoli esplodere, mettendoli in contraddizione, cogliendone le ragioni.
Violenza come possibilità, dunque, come struttura di pensiero e di azione perfettamente coerente che si automantiene in modo dinamico appropriandosi di tutti gli elementi che vengono fatti rientrare nella propria sfera di azione, in grado di assorbire ogni elemento.
La violenza non è un oggetto, una sostanza, una cosa che sta nelle cose, ma è la strutturazione di un piano di pensiero e di un piano di azione. La violenza è uno sguardo sul mondo, un’azione relazionale, perché sempre implica l’altro, il mondo.
Nella sua costruzione entrano piani diversi: l’incapacità, la non volontà di bloccarsi, di trovare soluzioni alternative, di sperimentare ad ogni livello dell’azione delle modalità differenti; l’incapacità di superare la lettura dell’altro come ostacolo che blocca, come impedimento a sognare il proprio sogno magnifico; la violenza come possibilità accessibile, necessaria e utile.
Sì, la violenza è utile. Impariamo a cogliere il miracolo che sa compiere! La grande strage inutile della I Guerra Mondiale è il sogno della violenza come chance eccezionale che risolve, porta un intervento dominatore, costituisce la sovranità sul tempo modificando la realtà, propria e dell’altro. Questa è una delle radici eccezionali della violenza che ritroveremo parlando di psichiatria. Certo, si tratta di correre e far correre dei rischi. Se per risolvere basta eliminare l’altro, allora tanto vale provarci. L’azione violenta, dunque, è strutturata come contesto, mentale e psicosociale, come potentissima calamita. Un polo di aggregazione che ristruttura tutto il campo sociale.
Tutto ha il suo contraltare speculare nel pensiero nonviolento: laddove il tempo della violenza è l’istante, il tempo della nonviolenza è la durata. La violenza è un fattore unico, la nonviolenza è pluralità, distribuzione del potere, il contrario della calamita, l’opposto del pensiero magico. La nonviolenza è la distruzione di ogni magia, di ogni pretesa di risoluzione miracolistica, istantanea.

La violenza è una logica

Della violenza possiamo analizzare almeno tre piani: l’azione immediata, eclatante, che accade; i suoi antecedenti e i suoi effetti, cioè lo sviluppo del processo; infine, il piano che è proprio della nonviolenza, la logica e il significato della violenza.
Oggi vediamo il proliferare di squarci, lampi, situazioni di violenza. Che cosa accomuna tanti eventi sparsi, qual è la logica, quali sono i nessi? C’è un rapporto tra la normalità del quotidiano e l’eccezionalità di alcuni eventi?
La mia ipotesi è che bisogna cercare la logica, i metacriteri, i criteri superiori che si richiamano e rafforzano l’un l’altro. Siamo in un sistema in cui i singoli e i popoli cadono quando tutto il loro orizzonte mentale è costruito attorno a questi schemi.
La logica della violenza è un sistema organizzato e molto preciso, in cui tutto può diventare mezzo e modo di violenza. Non dobbiamo cercare la violenza nell’oggetto, ma nella logica che guida questo sistema che tutto è capace di assorbire. Oggetto, causa, terreno di scontro può essere tutto.
Vediamo alcuni di questi criteri:
– RIGIDITÀ E FISSITÀ: è la tendenza a precostituire il proprio mondo, per cui l’ordine imposto non si può cambiare. Le leggi fissate una volta per tutte valgono di fronte ad ogni altra novità, e chi vuol cambiarle è il nemico.
– CHIUSURA: è progressiva, costante, sempre più grave, e scatta in risposta ad una situazione di violenza subita.
Nella storia di una persona paranoica, se si va ad indagare con attenzione e sensibilità, si riscontra una chiusura di eccezionale importanza che ha portato alla esplosione del delirio e della crisi psicotica in forma non più sostenibile, un processo di terribile impenetrabile incoercibile chiusura; il costituirsi del mondo mentale, espressivo e relazionale all’interno di una cortina sempre più chiusa, impermeabile, coriacea, respingente.
Nello sviluppo della paranoia la chiusura coincide con il secondo tempo, mentre il primo è l’invalidazione, la squalifica di sé, il collasso, la catastrofe della stima, del senso del proprio valore intimo e non contenibile. Quando tutto è compiuto si è pronti per il terzo passaggio: la tragedia. Se io sono una nullità perché non ho in me una fonte primigenia del mio spessore, se sono sempre più isolato, costretto a rintanarmi, se i miei tentativi di valorizzarmi nel mondo hanno prodotto il nulla e mi sento costretto ad arroccarmi in un fortino ancorché invivibile perché qualcuno ha agito per togliere valore, senso, dignità, sostanza alla mia vita… Allora l’altro può figurare solo come nemico, l’altro deve essere responsabile, colpevole. Il distanziamento è già avvenuto, l’altro è il nemico e come tale va attaccato. La violenza prosegue come una forma difensiva e il cerchio si chiude.
– ESTREMIZZAZIONE, ESCALATION: non si dà violenza senza escalation, senza un sistema che progredisce e si rafforza. È un sistema mobile, vivente, che cresce e fa maturare i suoi frutti fino a concepire il potere assoluto. Non sono ammessi spazi di mediazione, di compromesso. Il solo pensarli sarebbe ammettere che il mio non è l’unico sogno possibile.
– NEGAZIONE DI CIÒ CHE È FUORI DI ME: nella logica della violenza l’altro non è mai ascoltato, interrogato, visto. È un’entità pericolosa da allontanare con la volontà di colpirlo, di procurargli un danno, di annichilirlo oltre ogni confine, limite, vincolo.
È tragicamente ridicolo chi si meraviglia perché nelle guerre non vengono rispettati certi codici di comportamento. Laddove c’è violenza tutti i piani devono essere invasi, non è possibile che qualcosa si salvi. Nel momento in cui si sposa la logica della violenza tutto l’universo ne è dominato, e invocare dei territori franchi significa commettere una criminale ipocrisia. La logica della violenza è un universo coerente, il sogno è un sogno totale.

La logica della violenza in psichiatria

Alcuni tratti caratteristici di questa dinamica si riscontrano anche in certa parte della psichiatria, ad esempio la schematizzazione dell’altro, l’indisponibilità ad entrare nell’autocritica, l’incapacità di ascoltare e di ricostruire la storia.
Cartelle, relazioni, rapporti trasformano i pazienti in schegge, meteore di un universo vuoto. Non esistono più contesti familiari o relazionali, appartenenze, vincoli, legami – e questa è una violenza inaudita. E sì che gli strumenti concettuali ci sarebbero tutti. Eppure si assiste sistematicamente all’abolizione della storia del paziente. Si parla magari di una persona con una crescita “normale” che poi in adolescenza, o durante il servizio militare… manifesta una “inspiegabile” crisi psicotica. È proprio il segno di una mancanza di attenzione allo sviluppo interiore e mentale del paziente.
Il rammarico non ha presupposti buonisti, non è un discorso etico ma scientifico, ancorché eticamente fondato, perché non operare una ricostruzione – che è sempre interpretazione e si espone sempre al fallimento – della storia che ha portato la persona a diventare ciò che è oggi, significa non capire nulla delle strutture cognitive del paziente, rinunciare a dare un significato. Punto cruciale e irrinunciabile di un pensiero nonviolento è proprio la capacità di ricostruire i significati che quella persona e non altre dà alla propria storia.

Verso una psichiatria nonviolenta

La nonviolenza è la capacità di costruire ipotesi, di non dare per scontata la verità. L’apporto scientifico della nonviolenza è quello di una filosofia che ha un’idea contestuale della verità. La verità non è scritta fuori dalle interpretazioni.
Gandhi, vivendo in culture profondamente diverse tra loro, ha pensato la differenza, che non a caso è il problema cruciale del nostro mondo. Come pensare alla diversità? È richiesta la capacità di costruire consensualmente, ma in modo niente affatto pacificatore, il significato della propria storia.
Ogni paziente ci pone di fronte ad una domanda forte: qual è il significato del suo soffrire? Quand’anche la persona stessa abbai incapacità di arrivare ad una conclusione, c’è il tentativo di raggiungere comunque un senso.
Il fronte avanzato della psichiatria ha sempre tentato di ripercorrere questo cammino: come si sono costruite le strutture, come la persona ha eretto una impalcatura concettuale ed emotiva per cui dentro una storia molto precisa, e sempre individuale, ha intrapreso un percorso di sofferenza che in un processo realmente terapeutico, cioè di incontro, umano e professionale, deve essere decodificato, non semplicemente andando a ritroso ma ricercando i presupposti di questo universo.
Cosa c’entra allora la psichiatria con l’ottica nonviolenta? Poco, se si illude di intervenire per bloccare, per mettere a tacere, per stabilire e imporre un ordine statico senza ricostruire.
Fuori dalla consapevolezza che tutti i nostri strumenti interferiscono su questa rete di relazioni, la psichiatria rischia di farsi garante della violenza del più forte sul più debole. Corre il rischio di produrre oppressione nel momento in cui sogna di imporre un ordine senza capire quali sono i contesti, la storia, il significato che hanno portato quella persona a vivere quegli incubi.
In un paradigma nonviolento, cioè che ammette il sogno dell’altro, il diverso per eccellenza – il folle – ha bisogno di essere compreso nelle proprie radici di chi ritiene di aver subito violenza. Il fallimento della psichiatria non è dato solo dalla violenza che esercita, ma dal non sapersi fare carico del significato del dolore su cui interviene.

* dall’intervento di Paolo Rigliano, psichiatra, al convegno “La normalità della violenza” promosso a Verona nell’ottobre 2002 da Movimento Nonviolento e Psichiatria Democratica. Il testo, non rivisto dall’autore, è a cura di Elena Buccoliero.

Mio fratello è morto nelle Torri. Era un americano innocente.
Per questo oggi mi batto contro la guerra che fa strage di innocenti.

Nostro incontro con Dawn Peterson

“Sono uscita di casa, potevano essere circa le nove, e mi sono recata al lavoro a piedi. Era passato da due giorni il mio ventiquattresimo compleanno, mi sentivo benissimo, era una meravigliosa giornata d’autunno e non avevo altro per la testa che godere la luce del mattino”.
Incomincia così, nei ricordi di Dawn, l’11 settembre 2001. Suo fratello, due anni più vecchio di lei, era già al lavoro. In una delle Torri Gemelle.
“Ho visto del fumo, ma in una città come New York è abbastanza normale e non ci ho fatto caso. Al lavoro ho sentito due persone parlare tra loro, chiedere una all’altra se avesse visto l’aeroplano. Ancora non sapevo cosa fosse successo. Ho ho avuto un presentimento e ho tentato di telefonare a mio fratello. Era forse un minuto dopo lo scoppio. Insieme ai suoi amici e alla sua ragazza ho cercato di raggiungerlo, in tempo per vedere il secondo aereo abbattersi sulle due torri. Ci siamo resi immediatamente conto che non c’era nessuna possibilità che mio fratello fosse ancora vivo. Nella sua ditta lavoravano 700 persone. Nessuna è sopravvissuta”.
Dawn Peterson, ventisei anni, newyorkese, grandi occhi sgranati su un orrore che non cessa. Dawn è insegnante universitaria di fotografia e attivista di Peaceful Tomorrows, l’associazione fondata da un gruppo di familiari delle vittime dell’11 settembre per destare le coscienze contro ogni atto di violenza e di guerra. O per dire, quantomeno, di non strumentalizzare i propri cari per seminare dolore.
“Quando una cosa come questa coinvolge una persona che ti è così vicina, che occupa un posto centrale nella tua vita e ha avuto una parte tanto importante nella tua crescita come persona, ti trovi di fronte al grossissimo problema di continuare a vivere, di dare un senso alla tua vita”.

Quando la morte innocente diventa un alibi.

“Il giorno in cui gli Stati Uniti hanno deciso di bombardare l’Afganistan ho avuto la sensazione che il mondo non avesse imparato nulla dalla morte di mio fratello, o quanto meno non il governo americano. Mi sembra sconvolgente che si possa guardare alla morte e farne un alibi per dare altra morte. Vendicare così l’11 settembre era sbagliato due volte: perché non ha senso rispondere ad un atto di guerra con un altro atto di guerra, e perché si andavano a colpire persone innocenti, così come era innocente mio fratello”.
Ma ancora i legami con i fatti dell’11 settembre sembravano consistenti e, commenta Dawn, “nonostante tutto questo attacco è sembrato in qualche modo giustificato. Quando sono iniziati i bombardamenti in Iraq, di nuovo l’attentato alle Twin Towers è stato usato come pretesto, come mezzo per scaldare gli animi e creare un senso di paura. Il messaggio era: attacchiamo per non avere un altro 11 settembre. Da qui è nato il mio desiderio di imparare, di saperne di più, per capire fino a che punto il governo stava strumentalizzando il nome di mio fratello e di tutte le vittime. Mi è parso chiaro che l’attentato alle Torri Gemelle non avesse assolutamente nulla a che vedere con Saddam Hussein e con quello che accadeva in Iraq. In questo modo non c’era solo una strumentalizzazione, ma si cancellava la memoria di ciò che era successo. Con il risultato che, secondo un sondaggio, il 50% degli americani ritiene Saddam Hussein responsabile dell’11 settembre”.
Questa presa di coscienza è stata, per Dawn, l’inizio di una nuova stagione di impegno.
“Rifletto sul passato e sul tempo che stiamo vivendo e in buona sostanza il risultato mi sembra sempre lo stesso, abbiamo imparato molto, disponiamo di tecnologie avanzatissime, ma non possiamo fare a meno di ucciderci l’un l’altro, non riusciamo a risolvere i conflitti in un modo che non sia violento. Credo davvero che un obiettivo di pace si realizzi solamente con mezzi pacifici, non riesco a vedere come possa essere raggiunto con la guerra. Per questo ho deciso di raccontare la mia esperienza e di testimoniare che non sono d’accordo: la guerra non è solo sbagliata, è anche inutile”.
Il passo successivo è stato trovare l’occasione giusta per concretizzare la propria scelta.
“Ho saputo che un gruppo di familiari delle vittime aveva creato un’associazione, Peaceful Tomorrows, e ho preso contatto. Ho incontrato molte persone come me che sentivano il bisogno di rifiutare la strumentalizzazione dei loro cari e si ispiravano all’impegno di Martin Luther King, per uscire dal circolo della violenza attraverso mezzi nonviolenti”.
Proprio la questione dei mezzi è per Dawn il distinguo fondamentale.
“Nel suo messaggio alla nazione del 7 ottobre 2002 il presidente Bush ha spiegato il suo modo di agire. “Come americani vogliamo la pace”, ha sostenuto, “lavoriamo e ci sacrifichiamo per la pace”, e ha concluso il suo discorso dicendo: “con le nostre azioni vogliamo assicurare la pace e costruire un mondo migliore”. Io concordo completamente in quanto agli obiettivi, come americana sento di lavorare per la pace e per un domani migliore, l’unica differenza è sul come. Il sistema che lui adotta mi sembra profondamente sbagliato. L’unica strada per un domani di pace, per me, è aprire un dialogo, coinvolgere le persone che ancora pensano alla guerra come soluzione di tutti i problemi”.

Guardare oltre l’immediato

Una delle caratteristiche di Peaceful Tomorrows è l’attenzione che perdura oltre i tempi mediatici per comprendere che cosa avviene nelle zone di conflitto, che cosa si trasforma, come cambia la vita della gente, quali problemi ulteriori si aggiungono dopo. Con questo spirito Dawn porta l’attenzione sui danni dei conflitti armati che vanno oltre l’immediato.
“Un atto di guerra ha delle conseguenze a lungo termine che difficilmente ci vengono spiegate. Le due torri sono state colpite all’altezza di 104 piani, 40.000 finestre sono state infrante ed è stato liberato un migliaio di tonnellate di amianto e una quantità enorme di piombo. Un impatto ambientale impressionante. Chi ha lavorato alla ricostruzione, oltre che all’estrazione delle vittime, ha dovuto respirare queste sostanze tossiche. Per non parlare di quanti vivevano intorno all’area colpita, o di chi si trova dove le macerie sono state trasportate e smaltite. Tutte queste persone vivono in un ambiente con un altissimo tasso di tossicità e moltissime si sono ammalate. Per questo possiamo comprendere la situazione di quanti in Afghanistan o in Iraq subiscono la guerra e che, pur non essendo stati colpiti direttamente, ne conoscono i danni di più lunga durata”.
La comprensione non è solo intellettuale, passa attraverso l’incontro, il riconoscimento, l’identificazione con l’altro.
“Un gruppo di famiglie di Peaceful Tomorrws è andato in Afganistan mentre gli Usa stavano bombardando. Qualcosa di analogo è successo con l’Iraq. Lo scopo del viaggio era stabilire legami con famiglie che, come le nostre, erano state colpite dai bombardamenti, che in quel caso erano stati decisi proprio dalla nostra amministrazione. Si è stabilito un legame di solidarietà che prescinde dalle idee politiche ed è basato sull’aver subito lo stesso tipo di violenza”.
Dawn sente che, pur nelle situazioni più drammatiche, essere cittadina di una grande potenza mondiale porta ancora con sé qualche privilegio…
“Dopo l’11 Settembre molti ci hanno inviato delle offerte in denaro, ci hanno comunicato la loro solidarietà. In Afghanistan ci sono persone che hanno visto morire i membri delle loro famiglie e soffrono la nostra stessa situazione ma non sono trattate allo stesso modo. Uno degli obiettivi di Peaceful Tomorrows è stato far sì che il governo degli Stati Uniti stanziasse i soldi promessi per la ricostruzione in Afghanistan, il che è avvenuto con oltre un anno di ritardo”.
Un altro tema importante è quello della memoria.
“Io ho perso mio fratello ma quando ho cominciato a parlare ho trovato tante persone disposte ad ascoltarmi. Nel mondo ci sono molte persone come me che hanno vissuto la stessa tragedia ma non sono ascoltate, non hanno la possibilità di parlare della loro esperienza. Sappiamo tutto di cosa è successo l’11 Settembre, conosciamo il numero esatto e i nomi delle vittime, ma a pochi importa conoscere le vittime dell’Afghanistan. Sul sito dell’associazione (www.peacefultomorrows.org) pubblichiamo i documenti di un nostro osservatorio, c’è il numero delle persone uccise e ci sono informazioni sul loro conto, perché ogni vita ha lo stesso valore, la stessa dignità”.
Per molte strade, e nell’incontro con altri, l’esperienza più dolorosa viene trasformata e diventa occasione di conoscenza, di condivisione, di costruzione.
“Io so che non potrò più vedere mio fratello, parlare con lui, ridere con lui, sederci a tavola insieme. L’unica cosa che mi sembra avere senso”, conclude Dawn, “è usare la coscienza di questa esperienza per far capire alle persone quanto inutile sia una guerra. Quanto inutili siano tutti gli atti di guerra”.

Intervista a cura di Elena Buccoliero

11 settembre 2001
L’ 11 settembre ci ha trasformati: prima abbiamo conosciuto la violenza e poi la capacità di superare l’odio.
Da allora lavoriamo per un futuro di pace

Messaggio dell’Associazione dei familiari delle vittime dell’11 settembre “Peaceful Tomorrows” (New York) in occasione del secondo anniversario della tragedia.

L’Associazione dei familiari delle vittime dell’11 settembre “Peaceful Tomorrows” di New York ha inviato alla Tavola della Pace un messaggio in occasione del secondo anniversario degli attentati perché venga diffuso in tutto il nostro paese. I fondatori di “Peaceful Tomorrows” parteciperanno alla Marcia Peugia-Assisi “per un’Europa di pace” e alla 5a Assemblea dell’Onu dei Popoli che si svolgeranno dal 9 al 12 ottobre 2003 a Perugia.

Due anni fa, in questo giorno, i nostri cari hanno perso tragicamente la vita nell’atto terroristico che ha scosso gli Stati Uniti e il mondo intero. Dal momento della loro morte, mentre proseguiamo il nostro percorso di dolore, siamo stati confortati dalla partecipazione solidale e premurosa di persone di tutto il mondo che hanno dato il loro sostegno alle vittime di questo terribile attacco. Eppure, l’approccio del nostro governo in risposta alla morte dei nostri cari è in forte contrasto con il buon senso e con le azioni confortanti della gente comune. In occasione di questo secondo anniversario, ci fermiamo a riflettere sulla pericolosa direzione intrapresa dall’attuale politica statunitense e sulla necessità di un nuovo approccio agli eventi dell’11 settembre volto a produrre reale giustizia e sicurezza.

La morte dei nostri cari ha spinto il governo statunitense ad attaccare l’Afghanistan e a rovesciare il governo talebano con lo scopo di catturare Osama Bin Laden e altri membri di Al Queda, considerati responsabili dell’attacco. Sebbene, inizialmente le azioni militari abbiano avuto successo, Bin Laden è ancora ricercato e recenti sviluppi rivelano il ritorno dei talebani e di Al Queda nonostante il governo centrale continui a fare richiesta di ulteriori fondi per la ricostruzione e la stabilizzazione del paese. Di sicuro la nostra campagna militare in Afghanistan un risultato lo ha avuto: ha aumentano il numero delle famiglie che come noi sono in lutto. Afgani innocenti sono stati uccisi da ordigni statunitensi, feriti da bombe a grappolo, sfollati a causa dei combattimenti. Tutto ciò si è aggiunto a 23 anni di guerre precedenti. Nei nostri viaggi in Afghanistan abbiamo incontrato alcune di queste famiglie e sono entrate nei nostri cuori come altre vittime della tragedia dell’11 settembre.

Poco dopo l’11 settembre 2001, il Congresso americano ha approvato la legge “Patriot” con lo scopo apparente di rafforzare la sicurezza negli Stati Uniti, senza però prestare troppa attenzione alle conseguenze. In questo clima di paura e di panico, la legge Patriot e altre misure adottate, hanno eroso le libertà civili americane minacciando soprattutto le comunità degli immigrati. Ancora oggi, persone senza nome languiscono in luoghi sconosciuti a causa di colpe ignote in nome della giustizia americana. Ad oggi, non c’è nessuna prova che queste misure ci abbiano reso più sicuri. Allo stesso tempo, l’amministrazione statunitense ritarda l’avvio di un’indagine aperta e onesta sugli eventi dell’11 settembre.

Lo scorso anno, di questi tempi, il presidente Bush durante la commemorazione del primo anniversario della morte dei nostri cari, colse l’occasione per iniziare la campagna per invadere l’Iraq. Nonostante l’assenza di un collegamento provato tra Saddam Hussein e gli eventi del 11 settembre, le insinuazioni dell’amministrazione Bush, alimentate dalla paura pubblica di nuovi attentati, hanno condotto il nostro paese verso una guerra inutile, illegale e immorale, giustificata dalla morte dei nostri cari defunti. Mentre le menzogne che nascondevano le reali motivazioni di questa guerra stanno lentamente venendo alla luce, i soldati iracheni e statunitensi continuano a soffrire, con il bilancio dei morti che cresce ogni giorno. Oggi ci fermiamo per onorare i morti iracheni e tutte le vittime della guerra e per chiedere ai nostri leader di riportare a casa sani e salvi i nostri soldati che hanno messo a repentaglio la propria vita in questa incauta missione e di restituire il controllo della ricostruzione dell’Iraq alle Nazioni Unite.

Uno dei nostri membri, il 14 settembre 2001, ha scritto al New York Times: “Prego che questo paese che è stato così profondamente ferito non dia libero sfogo a forze che non avrebbero il potere di restituirci ciò che abbiamo perduto.” E’ stato dato libero sfogo a queste terribili forze? Dopo l’11 settembre l’America ha ricevuto la solidarietà del mondo intero. Con la guerra in Iraq il sostegno e la solidarietà internazionale si sono tramutati in odio e disperazione. Il sentimento antiamericano sta crescendo in tutto il mondo: quale migliore strumento per il reclutamento del terrorismo?

Come membri delle famiglie colpite, sappiamo che sentimenti di paura e rabbia fanno parte di un processo di guarigione. Abbiamo imparato però, che non è salutare agire spinti da queste emozioni. La risposta del governo all’11 settembre ci ha intrappolato nella paura e nel panico che abbiamo condiviso dopo gli eventi scioccanti dell’11 settembre. Piuttosto che basare la nostra politica sulla paura e la rabbia, chiediamo che il governo agisca nel miglior interesse del popolo americano riunendosi alla comunità delle nazioni per lavorare insieme costruttivamente alla soluzione dei problemi mondiali del terrorismo e della guerra.

Mentre l’11 settembre rappresenta una tragedia unica nell’esperienza americana, è triste riconoscere che altri popoli hanno avuto il loro 11 settembre senza alcun clamore. I membri di Peaceful Tomorrows hanno incontrato altre vittime della violenza nel mondo che sono diventate il punto di riferimento dei nostri sforzi per trasformare il nostro dolore in azioni di pace. Dai genitori palestinesi e israeliani che hanno perso i propri figli nella violenza, alle vittime dell’ambasciata americana in Kenya, alle madri delle persone scomparse nell’America Centrale e in Sudamerica, ai sopravvissuti della violenza più estrema – le bombe atomiche buttate dagli Stati Uniti su Hiroshima e Nagasaki – i membri di Peaceful Tomorrows si sono trovati ad esser parte di una famiglia mondiale che ha conosciuto il terrore e che ha risposto con la pace.

L’11 settembre ci ha insegnato che gli esseri umani possono commettere violenze terribili gli uni contro gli altri. Ci ha anche insegnato però, che il cuore umano è capace di superare la paura e l’odio per costruire un mondo in cui non si ripetano mai più altri “11 settembre”, in nessun luogo del mondo. Questa è la speranza che ci deve far crescere come persone e come nazioni.

Il 15 febbraio 2003 ha evidenziato un enorme cambiamento mondiale, tanto che il New York Times lo ha messo in prima pagina. Milioni di persone nelle strade di tutto il mondo hanno marciato contro la guerra in Iraq dimostrando che ci sono due superpotenze nel mondo: l’amministrazione Bush e l’opinione pubblica globale. Siamo onorati di essere a fianco delle sorelle e dei fratelli che nel mondo sanno di dover cercare un altro modo di vivere insieme su questo pianeta.

Così, oggi, mentre piangiamo i nostri cari, riflettiamo e ricordiamo, vi chiediamo di unirvi a noi per cercare insieme la pace vera, la sicurezza e la giustizia. Lo dobbiamo ai defunti, ne abbiamo bisogno per i vivi e dobbiamo farlo per le generazioni che verranno. Camminiamo insieme verso un futuro di pace.

Peaceful Tomorrows, New York, 11 settembre 2003

Traduzione a cura di Emilia Mastropierro, segreteria della Tavola della Pace

Per ulteriori informazioni:

Tel. +390755736890
Email: info@perlapace.it
http://www.tavoladellapace.it

11 Settembre 1973
Il Cile precipita nel baratro. La coraggiosa testimonianza di Salvador Allende

Riproponiamo l’ultimo discorso di Salvador Allende, trasmesso da Radio Magallanes: “La storia è nostra e la fanno i popoli”; perchè è troppo vero, è troppo bello, è troppo giusto ed opportuno. “Pagherò con la mia vita la difesa dei principi che sono cari a questa patria. Cadrà la vergogna su coloro che hanno disatteso i propri impegni, venendo meno alla propria parola, rotto la disciplina delle Forze Armate. Il popolo deve stare all’erta, vigilare, non deve lasciarsi provocare, nè massacrare, ma deve anche difendere le sue conquiste. Deve difendere il diritto a costruire con il proprio lavoro una vita degna e migliore. Una parola per quelli che, autoproclamandosi democratici, hanno istigato questa rivolta, per quelli che, definendosi rappresentanti del popolo, hanno tramato in modo stolto e losco per rendere possibile questo passo che spinge il Cile nel baratro.
In nome dei più sacri interessi del popolo, in nome della patria vi chiamo per dirvi di avere fede.
La storia non si ferma nè con la repressione nè con il crimine; questa è una tappa che sarà superata, è un momento duro e difficile. È possibile che ci schiaccino, ma il domani sarà del popolo, sarà dei lavoratori. L’umanità avanza per la conquista di una vita migliore. Compatrioti: è possibile che facciano tacere la radio, e mi accomiato da voi. In questo momento stanno passando gli aerei. È possibile che sparino su di noi. Ma sappiate che siamo qui, per lo meno con questo esempio, per mostrare che in questo paese ci sono uomini che compiono la loro funzione fino in fondo. Io lo farò per mandato del popolo e con la volontà cosciente di un presidente consapevole della dignità dell’incarico. Forse questa sarà l’ultima opportunità che avrò per rivolgermi a voi. Le Forze Aeree hanno bombardato le antenne di radio Portales e di radio Corporacion. Le mie parole non sono amare ma deluse; esse saranno il castigo morale per quelli che hanno tradito il giuramento che fecero. Soldati del Cile, comandanti in capo ed associati – all’ammiraglio Merino – il generale Mendoza, generale meschino che solo ieri aveva dichiarato la sua solidarietà e lealtà al governo, si è nominato comandante generale dei Carabineros.
Di fronte a questi eventi posso solo dire ai lavoratori: io non rinuncerò. Collocato in un passaggio storico pagherò con la mia vita la lealtà del popolo.
E vi dico che ho la certezza che il seme che consegnammo alla coscienza degna di migliaia e migliaia di cileni non potrà essere distrutto definitivamente.
Hanno la forza, potranno asservirci, ma non si arrestano i processi sociali, nè con il crimine, nè con la forza.
La storia è nostra e la fanno i popoli.
Lavoratori della mia patria, voglio ringraziarvi per la lealtà che sempre avete avuto, la fiducia che avete riposto in un uomo che è stato soltanto interprete di grande desiderio di giustizia, che giurò che avrebbe rispettato la costituzione e la legge, così come in realtà ha fatto. In questo momento finale, l’ultimo nel quale io possa rivolgermi a voi, spero che sia chiara la lezione. Il capitale straniero, l’imperialismo, insieme alla reazione ha creato il clima perchè le Forze Armate rompessero la loro tradizione: quella che mostrò Schneider e che avrebbe riaffermato il comandante Araya, vittima di quel settore che oggi starà nelle proprie case sperando di poter conquistare il potere con mano straniera a difendere le proprietà ed i privilegi.
Mi rivolgo, soprattutto, alla semplice donna della nostra terra: alla contadina che ha creduto in noi; all’operaia che ha lavorato di più, alla madre che ha sempre curato i propri figli.
Mi rivolgo ai professionisti della patria, ai professionisti patrioti, a coloro che da giorni stanno lavorando contro la rivolta auspicata dagli ordini professionali, ordini di classe che solo vogliono difendere i vantaggi di una società capitalista.
Mi rivolgo alla gioventù, a quelli che hanno cantato la loro allegria ed il loro spirito di lotta.
Mi rivolgo all’uomo del Cile, all’operaio, al contadino, all’intellettuale, a quelli che saranno perseguitati, perchè nel nostro paese il fascismo è già presente da tempo negli attentati terroristici, facendo saltare ponti, interrompendo le vie ferroviarie, distruggendo oleodotti e gasdotti. Di fronte al silenzio di quelli che avevano l’obbligo di intervenire, la storia li giudicherà. Sicuramente radio Magallanes sarà fatta tacere ed il suono tranquillo della mia voce non vi giungerà. Non importa, continuerete ad ascoltarmi. Sarò sempre vicino a voi, per lo meno il ricordo che avrete di me sarà quello di un uomo degno che fu leale con la patria.
Il popolo deve difendersi ma non sacrificarsi. Il popolo non deve lasciarsi sterminare e non deve farsi umiliare.
Lavoratori della mia patria: ho fiducia nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno il momento grigio ed amaro in cui il tradimento vuole imporsi.
Andate avanti sapendo che, molto presto, si apriranno grandi viali attraverso cui passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore. Viva il Cile, viva il popolo, viva i lavoratori!
Queste sono le mie ultime parole, ho la certezza che il sacrificio non sarà vano.
Ho la certezza che, per lo meno, ci sarà una punizione morale che castigherà la vigliaccheria, la codardia e il tradimento”.

Per la sicurezza europea, addio alle armi

“Per un futuro senz’armi” si è intitolato il seminario promosso dai Beati i costruttori di pace tra il 6 e il 9 agosto, ricorrenze dellle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Suo scopo dichiarato era avviare l’elaborazione di un vademecum per rispondere alle motivazioni, paure, luoghi comuni che giustificano necessità e legittimità della produzione ed uso delle armi.
I lavori, ottimamente coordinati da don Albino Bizzotto e Lisa Clark, hanno avuto un prologo significativo alla caserma Ederle di Vicenza, per ricordare il lancio della bomba su Hiroshima con la consegna di una lettera ai soldati statunitensi, che non hanno però voluto riceverla. Significativo è stato anche l’epilogo, la mattina del 9 davanti alla base di Longare, già sito atomico e ora sede di una scuola di guerra, per ricordare la bomba di Nagasaki. I partecipanti hanno usufruito della perfetta ospitalità dell’Associazione e potuto assistere anche alla proiezione di film, nella serata, all’aperto.
Il seminario ha preso l’avvio con la formulazione, frutto di un brain storming, di motivazioni tra le più ricorrenti a giustificazione di progettazione, fabbricazione ed uso delle armi e delle forze armate. Il primo dei temi individuati riguarda l’efficacia delle armi – “risolvono i conflitti”, “servono per difendersi”, “sono un deterrente”, “danno potere”.-e della guerra, come “difesa contro la criminalità organizzata e il terrorismo” e come “portatrice di democrazia”. Un altro aspetto mette in relazione la guerra con lo sviluppo sociale, e le affida un ruolo di motore dell’economia e della ricerca, portatrice di lavoro e di progresso.
Vi è infine una sorta di impotenza diffusa di fronte all’ineluttabilità della guerra che “c’è sempre stata e sempre ci sarà”, ed è “una forma di selezione naturale”. In quest’ottica “la violenza è insita nell’uomo”, “uno stato non può esistere senza un esercito armato” e “un cittadino da solo non può fare nulla contro la guerra”.
Elementi di risposta e confronto sono emersi nelle conversazioni introdotte da Daniele Lugli, segretario del Movimento Nonviolento e Massimo Toschi, consulente del Presidente della Regione Toscana per i problemi della pace, su “Realismo politico della nonviolenza” e sulle “Contraddizioni nelle scelte delle chiese”.
Un’intera giornata è stata dedicata a “Scenari per la sicurezza europea. Il punto di vista politico. Produzione di armi e posizione del sindacato”, con gli interventi del senatore Tino Bedin, della Margherita, di Gianfranco Benzi della Cgil e di Achille Lodovisi, esperto di industria militare. Proprio Achille Lodovisi ha formulato puntuali risposte a molte delle motivazioni sopra ricordate.
La giornata conclusiva del seminario è stata caratterizzata dal contributo, particolarmente rilevante, di Lidia Menapace, della “Convenzione permanente di donne contro le guerre”, su “Neutralità attiva per l’Europa: realismo di una proposta”.
Il seminario si è concluso con il contributo di Francesco Iannuzzelli, portavoce di Peacelink e impegnato sui temi del disarmo, con la proposta di produrre materiale rivolto ai giovani per una riflessione sul tema, e con l’impegno a ritrovarsi per una stesura partecipata.
Come Movimento siamo grati dell’occasione offerta, anche in questo caso, da Beati i costruttori di pace per un lavoro comune degli amici della nonviolenza su un tema cruciale. Per parte nostra non faremo mancare il nostro contributo già nelle giornate di Gubbio. Ai lettori proponiamo di considerare le giustificazioni delle armi proposte al seminario, di formularne sinteticamente delle altre e di offrire possibili, concise, convincenti confutazioni.

Daniele Lugli

Lettera aperta dei “Beati i costruttori di pace”
ai soldati ed agli ufficiali delle basi di Vicenza e di Longare

Vogliamo rivolgervi un saluto, augurarvi una buona giornata.
Nonostante tutti i nostri sforzi, non siamo riusciti ad ottenere l’autorizzazione dal vostro comandante a parlare con voi. E’ come se fossimo noi quelli pericolosi, come se delle persone che vogliono condividere con voi un’opinione, seppure diversa, fossero una minaccia da cui difendersi.
Noi crediamo che il rispetto reciproco, il dialogo e lo scambio possano creare quel rapporto di fiducia che, tutto sommato, e’ la miglior difesa che si possa avere. Ne siamo convinti.
Negli anni abbiamo avuto modo di conoscere e collaborare con molti soldati il cui compito era prevenire la guerra. Noi non crediamo di essere prevenuti nei confronti delle persone in divisa e vorremmo che lo sapeste. Sebbene abbiamo sempre condannato tutti coloro che decidono le guerre, riconosciamo quanto sia diverso dare ordini da distante e affrontare dal di dentro il
macello della guerra. Spesso sono i militari stessi ad essere contrari alla guerra perche’ la vedono da vicino, la soffrono sui loro corpi. Sappiamo che un reduce su quattro della guerra del Golfo del ‘91 e’ oggi un disabile. E questo non e’ la conseguenza di azioni nemiche.
Vorremmo che sapeste che per noi ogni vita umana e’ di valore inestimabile: e’ vero che spesso nell’esprimere la nostra opposizione alla guerra parliamo solo della tragedia dei morti civili, ma vi vogliamo assicurare che le vite dei militari per noi sono ugualmente preziose perche’ vite umane.
La pace sara’ il frutto dello sforzo e del concorso di tutti. Molte volte proprio l’azione di soldati che si ribellano ad ordini ingiusti ha salvato molte vite, ha cambiato la situazione, dando la svolta alla guerra.
Abbiamo letto documenti di soldati Usa che denunciano la grande ingiustizia di questa e altre guerre. Non sono obiettori di coscienza (anche se poi molti di loro lo sono diventati), sono uomini e donne che hanno scelto carriere militari e che desiderano tenere alto l’onore militare. Cio’ che
hanno scritto ha aiutato anche noi a mettere a fuoco la realta’: riconosciamo la grande differenza tra l’uso della forza regolamentata per il mantenimento della pace, per la difesa delle popolazioni inermi, per la prevenzione della violenza, e invece l’uso sproporzionato, la mancanza di
distinzione tra obiettivi militari e civili, ecc. Le testimonianze di alcuni soldati e ufficiali vostri compatrioti da dentro l’Iraq ci dipingono una realta’ diversa da quella riferita dai portavoce governativi o dai capi di stato maggiore.
Proprio perche’ vedete le cose da dentro, non possiamo insieme costruire qualcosa di nuovo?
I reduci statunitensi che hanno combattuto altre guerre hanno scritto parole commoventi e convincenti (ad esempio l’appello di coscienza da parte dei reduci delle forze armate degli Stati Uniti ai militari effettivi ed ai riservisti http://italy.peacelink.org/pace/articles/art_1196.html). Vi
preghiamo di trovare il tempo per ascoltare le voci di questi vostri compatrioti. Perche’ e’ sempre e solo dopo che arrivano le denuncie dei crimini? Perche’ non e’ possibile vedere gia’ prima le conseguenze delle nostre azioni, prima di compierle? Il presidente Bush ha sdoganato il nucleare. Le armi atomiche non sono piu’ un tabu’. Ormai, da decenni, pensavamo tutti che il nucleare sarebbe presto stato messo al bando e che nel frattempo sussisteva solo come deterrente. Invece, adesso e’ stato dichiarato dall’amministrazione Usa che si svilupperanno nuove atomiche tattiche da usare come primo colpo. A noi sembra che gia’ l’uso di armi all’uranio impoverito abbia avuto conseguenze devastanti per i soldati che le hanno lanciate, per le loro famiglie e ancor di piu’ per le popolazioni che sono state colpite. Se guardiamo le conseguenze, non possiamo forse dire che le armi all’uranio impoverito sono gia’ armi di distruzione di massa?
*
Oggi commemoriamo Hiroshima, la prima bomba atomica sganciata 58 anni fa. Non ripetiamo la storia, i suoi errori, i suoi crimini. Il colonnello Paul Tibbetts, che quella mattina del 6 agosto 1945 pilotava l’Enola Gay, alla vista del fungo atomico, grido’ disperato: “Mio Dio, che cosa abbiamo fatto!”.
Voi siete in Italia adesso, fuori dal vostro paese, siete in un certo senso rappresentanti del popolo statunitense. Forse non vi sentite molto amati, ma anche su questo vorremmo poter discutere con voi. Vorremmo che vi poneste qualche domanda sulle certezze di cui vive la vostra cultura, guardando la storia anche dal punto di vista degli altri popoli del mondo. I vostri governanti vi dicono che le vostre azioni servono a portare liberta’ e democrazia, ma poi quando incontrate gli altri popoli non e’ amore o gratitudine che vi esprimono. Vi ricordiamo le parole dei reduci: “Affinche’ un giorno tutte le persone del mondo possano essere libere, dovra’ pure arrivare il momento in cui sara’ piu’ importante essere cittadino del mondo che non essere soldato di un paese”.
Tutti abbiamo bisogno degli altri. Non abbiamo bisogno di armi e dell’uso della forza; abbiamo bisogno di comprensione e tenerezza. L’11 settembre una giovane palestinese scrisse una lettera aperta al popolo degli Stati Uniti:
”Cari fratelli e sorelle americane, noi sentiamo il vostro dolore e ci stringiamo a voi; ma voi lo sentite il nostro?”.
Dopo l’11 settembre anche noi scrivemmo una lettera aperta al popolo statunitense. Lasciate che ve ne citiamo un brano. “Ci chiediamo come puo’ essere veramente significativa l’espressione della nostra solidarieta’ a tutte le vittime e ai loro familiari. Vorremmo che tutto il popolo statunitense potesse capire e soprattutto sperimentare in questo momento di smarrimento e sofferenza quanto e’ importante la solidarieta’ e la tenerezza degli altri popoli. E vorremmo che i suoi governanti e responsabili politici avessero la saggezza di comprendere che non l’egemonia costruita sulla forza economica e sulle armi, ma la collaborazione con tutti alla pari e’ la grande risorsa politica per garantire la sicurezza mondiale e per rispondere alle urgenze dell’umanita’ e del pianeta”.
Un saluto di pace.
6 agosto 2003, anniversario della bomba su Hiroshima

Beati i costruttori di pace,
via Antonio da Tempo 2, 35131 Padova, tel. 0498070522, fax: 0498070699,
e-mail: beati@libero.it  sito: www.beati.org

ALTERNATIVE
A cura di Gianni Scotto
Tradurre in pratica la nonviolenza: l’esempio del Centro Studi Difesa Civile

La crisi del sistema normativo internazionale dopo la guerra in Irak da un lato, il proliferare di conflitti e guerre “dimenticate” dall’altro, impone la necessità di materializzare il pensiero e i valori della nonviolenza in opzioni politiche praticabili qui ed ora. Non è inutile volgere l’attenzione a esperienze innovative all’interno del movimento italiano, tra cui va annoverata quella del Centro Studi Difesa Civile (CSDC). Il Centro è diventato nel corso degli ultimi anni una delle realtà più impegnate in Italia nei settori della ricerca, della proposta politica e della formazione di operatori di pace. Chi scrive ne ricopre la carica di presidente da circa un anno
Nato all’interno del movimento per la pace degli anni ottanta, il CSDC ha operato con continuità e perseveranza, in particolare promuovendo l’idea dei corpi civili di pace fin dal 1987. Un altro importante filone di ricerca nei primi anni di vita del centro è stata la ricostruzione delle forme nonviolente di lotta al nazifascismo nella Resistenza italiana.
L’attività del Centro negli ultimi anni è andata intensificandosi. Il CSDC ha contribuito al lavoro di ricerca sui temi dei corpi civili di pace e della gestione costruttiva dei conflitti internazionali, in particolare con due volumi: “La difesa civile e il progetto Caschi bianchi”, pubblicato nel 2000, ricollegava il tema dei corpi civili di pace al dibattito sulle forme di difesa nonviolenta la cui sperimentazione era prevista nella riforma del servizio civile. La ricerca era stata finanziata dal Centro militare di studi strategici: le istituzioni militari per la prima volta mostrava attenzione non solo ai temi del movimento, ma alla capacità di elaborazione di una sua componente.
Nel 2002 è stata pubblicata una ricerca approfondita sul ruolo delle organizzazioni non governative italiane nella gestione civile delle crisi e nel confidence building (costruzione della fiducia) in situazioni di conflitto. Il lavoro faceva il punto dell’esperienza italiana e indicava le linee fondamentali per incoraggiare e sviluppare il lavoro delle ONG nel campo della gestione civile delle crisi e della costruzione della pace.
Quanto al lavoro di formazione, il CSDC offre tradizionalmente laboratori formativi di uno o più giorni su temi connessi alla gestione costruttiva dei conflitti. Negli ultimi tempo il centro ha accumulato una esperienza importante di progettazione e realizzazione di corsi di formazione: con il Comune di Roma è stato realizzato nel 2002 un corso di alta formazione per “mediatori internazionali di pace” finanziato dal Fondo Sociale Europeo e dalla Regione Lazio. In Campania, a Pozzuoli, il CSDC ha promosso con l’Istituto Orientale un corso per “Tecnico esperto in monitoraggio e tutela dei diritti umani e degli immigrati”. In ottobre partirà un corso di formazione per operatori di pace a Bolzano, progettato dal CSDC in collaborazione con la Fondazione Langer e la provincia di Bolzano. In prospettiva il percorso formativo potrebbe essere replicato in altre regioni.
Questo importante lavoro di formazione ha permesso di qualificare il profilo professionale degli operatori di pace. Il prossimo tassello sarà la valorizzazione piena di queste nuove professionalità, con la sperabile creazione dei corpi civili di pace, ma anche con l’assorbimento degli operatori nei diversi contesti che potrebbero esserne arricchiti – dalla cooperazione allo sviluppo, al volontariato e al “terzo settore”, dal mondo dell’educazione e della formazione agli enti locali.
Nel lavoro di questi anni, il Centro studi difesa civile è riuscito a farsi centro propulsore di iniziative di formazione e ricerca per la pace di ampio respiro. Senz’altro gran parte del merito va attribuito al lavoro e alla passione di Francesco Tullio, che ha guidato il CSDC fino a qualche tempo fa e continua a dare un contributo insostituibile.
Per la costruzione di una ampia “piattaforma” nazionale per la pace e la diffusione della nonviolenza sono certo necessari cambiamenti profondi anche a livello istituzionale: l’università (che ha cominciato a muoversi), i corpi civili di pace, un centro di ricerca su pace e conflitti di livello internazionale. Ma il contributo che si può dare dal basso è assai prezioso, non va solo visto come preparazione di qualcosa di migliore e più grande che forse verrà in futuro, ma porta già in sé ricchezza e valore. È questo, credo, che il Centro studi difesa civile ha dimostrato nella sua attività fino ad oggi.

Il sito internet del Centro Studi Difesa Civile è: www.pacedifesa.org

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi

Cinema per la Pace, la Biennale di Pisa

Approfittando della pausa estiva, nell’attesa che ricominci la stagione cinematografica , abbiamo pensato di ospitare, nella consueta pagina di cinema di Azione Nonviolenta, l’invito ad un’iniziativa che pensiamo interessante per gli amici della nonviolenza: la “Biennale del Cinema per la Pace” di Pisa. Abbiamo chiesto a Tommaso Buquicchio, coordinatore della Biennale, di parlarci di quest’iniziativa e della sua storia, e ci piace pensare che, comunicandola con un certo anticipo, forse a qualcuno dei nostri lettori verrà voglia di partecipare!

Nei giorni 13, 14 e 15 novembre 2003 si terrà nei locali della Stazione Leopolda di Pisa la VII edizione della Biennale del Cinema per la Pace.
Organizzata dal Gruppo “F. Jägerstätter” per la nonviolenza e dall’Associazione “Casa della Città Leopolda”, con il patrocinio del Centro Interdipartimentale di Scienze per la Pace e del Corso di Laurea in Cinema Musica e Teatro dell’Università di Pisa, la manifestazione è presente a Pisa dal 1988-89.
La Biennale si propone di ricercare, valorizzare, promuovere e stimolare la produzione di opere “cinematografiche”, video e multimediali aventi temi quali il rapporto dell’uomo con il concetto di Pace e con il complesso contesto umano e ambientale in cui vive, i diritti umani, l’antimilitarismo, la nonviolenza; opere in grado di suscitare negli spettatori stimoli alla ricerca, all’approfondimento e al confronto su questi temi.
La manifestazione si articola in due iniziative congiunte:
un concorso per cortometraggi e opere multimediali con una particolare attenzione alle autoproduzioni indipendenti realizzate con l’utilizzo delle moderne tecnologie;
una serie di proiezioni, seminari e laboratori sulla pace e la nonviolenza con una specifica attenzione al rapporto che i mezzi di comunicazione stabiliscono con le tematiche relative alla pace e alla guerra.
L’edizione 2003 darà ampio spazio ad una serie di “lezioni” dal tema “La Televisione va alla Guerra – il reportage televisivo fra propaganda e denuncia”, curate da noti autori e giornalisti quali Ennio Remondino, Fulvio Grimaldi e Padre Jean-Marie Benjamin. Saranno poi realizzati due laboratori creativi rivolti agli studenti delle scuole medie superiori, il primo di produzione di un video per la pace condotto dal videoartista Giacomo Verde, l’altro di fumetto per la pace condotto dal fumettista Marco Turini.

Nelle edizioni passate la Biennale ha presentato, tra le altre, opere provenienti da luoghi come l’Africa, la Palestina, l’Iran e la ex Yugoslavia che hanno testimoniato l’impegno a far conoscere i tentativi di dare voce alla pace ed alla riconciliazione anche nelle situazioni più gravi e difficili.
Ricordiamo tra le altre l’edizione della III Biennale nel 1993 con la presentazione di film realizzati da autori bosniaci nella Sarajevo assediata e la premiazione della regista Plema Arnautalich, giunta in Italia grazie ad un volo organizzato dall’ONU, così come la IV Biennale del 1995 con la premiazione del video “Presenze” che ricostruisce le tragiche vicende della strage di S.Anna di Stazzema del 1943.
Anche in questa edizione, oltre alle opere attese da autori e scuole italiane e straniere, verrà presentata una selezione della filmografia internazionale, a rappresentare alcune delle realtà più drammaticamente coinvolte nella ricerca della pace.
Il Concorso 2003 della Biennale del Cinema per la Pace è aperto ad autori italiani e stranieri di cortometraggi girati in qualsiasi formato e si compone delle seguenti sezioni:
Corti di Pace – concorso internazionale di cortometraggi della durata massima di 30 minuti.
E-peace – concorso internazionale di cortometraggi concepiti e realizzati appositamente per essere diffusi via internet della durata massima di 150 secondi.
A scuola di pace – concorso internazionale di cortometraggi prodotti dalle scuole di ogni ordine e grado della durata massima di 20 minuti.

Le opere che giungeranno entreranno a far parte dell’Archivio del Cinema per la Pace che si costituirà presso la Stazione Leopolda di Pisa. Lo scopo dell’Archivio è quello di raccogliere e conservare le opere e di promuoverne la visibilità ad esclusivo fine di studio. Infine i video selezionati e quelli della sezione E-peace verranno pubblicati sul catalogo multimediale della Biennale del Cinema per la Pace che verrà ospitato sulle pagine del sito www.leopolda.it/biennale dove è già possibile prendere visione del bando e di tutte le informazioni necessarie per partecipare alla manifestazione.

———-

Per informazioni e comunicazioni:
Tel.: 050/21531
Fax: 050/2207886
e-mail:  biennale@leopolda.it
web: www.leopolda.it/biennale

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Bilancio sociale del progetto Presenza Amica a Torino

Si conclude in questi mesi estivi, dopo cinque anni di attività, l’esperienza torinese di Presenza Amica (www.presenzamica.net). “Un’esperienza di valore significativo, anticipatrice rispetto ad uno degli indirizzi contenuti nella nuova normativa sull’obiezione di coscienza, cioè di avviare un’esperienza di difesa popolare nonviolenta e di realizzare una attiva presenza dei giovani in servizio civile in situazioni segnate da episodi di maggiore conflittualità”. Con queste parole l’assessore Eleonora Artesio comunicava alla cittadinanza l’inizio di un servizio che comunque il Comune non ha mai pubblicizzato adeguatamente, quasi temendo gli strali dell’opposizione su un’iniziativa così alternativa.
Nato nell’inverno 1997-98 su impulso del Telefono Rosa e del Centro Studi Sereno Regis con il contributo del Comune di Torino, Gi.o.c., Confcooperative, Cooperativa Frassati, Ispettoria Salesiana, Lega delle cooperative, in seguito ad alcuni episodi di violenza nei confronti delle donne accaduti nel Parco del Valentino nell’autunno dello stesso anno, fu presa in considerazione la possibilità di progettare un intervento di prevenzione della violenza che vedesse l’impiego degli obiettori di coscienza in servizio civile, attuando lo spirito della legge 230/98 che prevede appunto la possibilità di sperimentare forme di difesa civile nonviolenta.
Raro caso in Italia quindi dove non si trattava di difesa nei confronti di una minaccia esterna, bensì di un servizio che consentiva ai cittadini e alle cittadine di recuperare uno spazio pubblico urbano senza interventi di natura repressiva. Invece di organizzare ronde padane fai-da-te oppure di militarizzare il territorio, come stava avvenendo in altre parti del paese su sollecitazione dei cittadini inferociti dagli odiosi episodi di violenza avvenuti, con tutte le tensioni sociali che ne sarebbero derivate, l’amministrazione scommetteva su un nuovo modo di presidiare il territorio, dai modi “gentili e amichevoli” non solo affidato alle forze dell’ordine, ma ad altre figure, come quelle degli obiettori di coscienza, stimolando in tal modo un maggiore civismo e senso di responsabilità e di partecipazione.
Durante il sevizio gli obiettori, riconoscibili da una pettorina con i simboli di Presenza Amica, avevano a disposizione un camper fisso e, nell’area del parco, erano dotati di biciclette e di automezzi elettrici. Ad essi si univa il supporto dato dalle volontarie del Telefono Rosa in alcuni momenti dell’attività. Le loro presenze costituivano già di per sé un servizio preventivo e dissuasivo nei confronti di episodi di violenza, garantendo maggiore sicurezza soprattutto nelle donne. Gli obiettori inoltre potevano comunicare direttamente, mediante telefoni cellulari, sia con i responsabili presenti nel camper sia, in casi di estremo pericolo, con le stesse forze dell’ordine. Infine era previsto un servizio di accompagnamento a casa oppure di scorta all’autovettura per le persone che si sentivano minacciate dalla presenza di individui loschi.
Un apposito corso di formazione, con interventi di responsabili dei servizi di sicurezza cittadini e coordinato dal Telefono Rosa e dal Centro Studi Sereno Regis, aveva il compito di introdurre i ragazzi in quell’impiego sul territorio chiarendo ad essi il ruolo, l’importanza e il significato della loro presenza nel progetto, attraverso un cammino che passava dalla storia del progetto stesso, alla questione della sicurezza, alle modalità di relazionarsi e al mondo della solidarietà.
Il progetto vedeva coinvolte ogni anno circa trenta persone tra obiettori, coordinatori sul territorio, formatori e responsabili organizzativi. Nel 2001 sei obiettori di coscienza si alternavano, dal lunedì al sabato e dalle 20,30 all’1,30 con il camper, di un vistosissimo rosa fucsia, che percorreva le vie del centro città, pattugliando le stradine e l’uscita dai locali più turbolenti. Nel 2002 gli obiettori in servizio erano portati ad otto e significativa è rimasta l’esperienza del marzo 2002 a Borgo Dora, nei pressi della sede del Sermig e luogo di convivenza tra le etnie più disparate: in un momento di grande recupero di visibilità di una zona importante della città, nelle manifestazioni ad essa correlate, il servizio di Presenza Amica offriva in pochi giorni l’accompagnamento a 32 donne.
A fronte di un costo di qualche centinaio di milioni di vecchie lire, la collettività torinese ha potuto beneficiare in questi anni di impalpabili ma sicuri benefici. Quanto avrebbe dovuto spendere il Comune per militarizzare in alternativa le aree a rischio? E a quali costi sociali sarebbe andato incontro? Ora l’iniziativa è stata realizzata al Parco delle Cascine di Firenze (www.dsgozzolisanti.it/L’albero/Mar_01/obiettori.htm) e si spera in futuro possa essere replicata in varie altre parti d’Italia.

EDUCAZIONE
A cura di Angela Dogliotti Marasso
Come possiamo cambiare il modello di riferimento?

La formazione si può porre a tre diversi livelli:
-livello 0: si possono insegnare processi anche elaborati, ma colui che impara può solo riprodurre
fedelmente ciò che ha appreso;
-livello 1: apprendimento per accumulazione. Le nuove conoscenze vengono inserite nel proprio sistema di premesse, e tutto ciò che non è riconoscibile non viene considerato.
-livello 2: apprendimento che mette in crisi le proprie categorie e punta l’attenzione proprio su ciò che stona, che è difficilmente comprensibile.
Solitamente l’apprendimento scolastico, di tipo cognitivo, si muove da un livello 0 ad un livello 1, aggiunge nozioni senza cambiare le premesse.
Il lavoro formativo inizia quando stimola un apprendimento 2. L’animazione e l’informazione (livello a cui spesso restano i pacifisti) non si pongono a livello di apprendimento 2.
Il gioco di solito è utilizzato per passare dal livello 0 al livello 1, ha una finalizzazione funzionale, oppure è usato per distrarre, fare ricreazione.
Occorre smontare l’idea che il gioco sia solo un’attività ricreativa, esso infatti coinvolge le emozioni ed esse mostrano le premesse implicite. Attraverso il gioco è possibile stimolare un cambiamento di livello. Prestare attenzione alle emozioni ci può aiutare ad uscire dal nostro modo di interpretare, in quanto esse rendono evidente come guardiamo, le premesse implicite, mentre le parole mostrano cosa guardiamo.
Nei conflitti i processi di rimozione sono molto forti: più siamo in una situazione di stress, più tendiamo a non ascoltare le emozioni.
Gli esseri umani si distinguono da come rispondono allo stress. Alcuni ritornano al livello 0, altri rafforzano il modello sicuritario (cioè si difendono e quasi meccanicamente ripropongono soluzioni magari già sperimentate senza successo o con risultati difformi rispetto alle aspettative) e reagiscono piuttosto che agire, altri fanno un salto. Un livello di stress molto alto può essere un’occasione per uscire dal livello 1, creando quindi le premesse per entrare in una situazione creativa. Lo stress rappresenta un’opportunità.
Non sempre cambiamenti, anche grandi, implicano uno spostamento rispetto al modello interpretativo a cui facciamo riferimento per comprendere gli eventi.
Spesso tendiamo a mantenere le stesse premesse implicite e ad espellere tutte le conoscenze nuove che non riusciamo a forzare, a spiegare utilizzando il nostro modello.
Sottolineiamo le somiglianze per non cambiare, le somiglianze ci rassicurano.
Con le somiglianze creiamo sicurezza, ci difendiamo dalle differenze, che invece potrebbero indicarci qualcosa.
Infatti, se noi prestassimo attenzione a questo qualcosa che stona e riflettessimo su di esso, avremmo la possibilità di capire perché stona e con che cosa stona e quindi vedremmo, diverremmo consapevoli delle nostre premesse implicite. Di qui la possibilità di cambiare premesse, di uscire dal modello, di trovare soluzioni creative.
Spesso fuggiamo l’imbarazzo, lo riteniamo negativo, vogliamo starci il meno possibile. Invece non possiamo creare niente di nuovo, se non siamo imbarazzati.
Siamo imbarazzati quando sentiamo qualcosa che non possiamo inserire o spiegare con il nostro modello di riferimento.
Proviamo a riflettere sulla radice etimologica di “imbarazzo”: in spagnolo “embarasada” significa incinta, contemporaneamente pesante, limitata e con qualcosa dentro di nuovo che uscirà; in italiano “imbarazzato” sta per costipato, con qualcosa dentro che vorrebbe espellere.
Un vero cambiamento richiede di trasformare le proprie premesse e non può procedere per accumulazione.

L’atto fondamentale in quanto nonviolenti è cambiare il nostro immaginario, traslando dal modello 1 al modello 2.
L’idea che la forza non sia violenza, per esempio, implica un apprendimento 2.
Tutto sta in che mondo vivi, che immaginario hai, solo cambiando paradigma sarai ingestibile da qualsiasi governo.
Si tratta di immaginare un’altra metafora, cominciare a vivere diversamente.
Nel circuito fiducia/nonviolenza ognuno si fa carico dei rischi per sé e per l’altro, così si struttura la fiducia, mentre in quello sicurezza/violenza, per costruire la mia sicurezza, abbasso la sicurezza globale.
L’umiliazione stimola rivalsa, in quanto se l’altro viene destrutturato oltre il suo limite consentito, avrà bisogno di attaccare per riordinarsi.
I pacifisti rischiano di restare in questi presupposti, vogliono evitare la guerra, ma non cambiando modello di riferimento non escono dal circolo.
Il circuito della nonviolenza parte da un altro circolo, da quello della fiducia.

L’AZIONE
A cura di Luca Giusti
Monumento antimilitarista ai caduti di tutte le guerre

Come una scultura in una piazza, immobile e silenziosa, può spingere ognuno a prendere posizione, dimostrando come la misura di un’azione è il movimento nell’animo di chi sta intorno.

Canale (CN), 30 ottobre 1977
Gino Scarsi inaugura un grande monumento in ferro e bronzo, per xxxxx metri di altezza. Rappresenta un soldato caduto a terra, infilzato da un mostro a tre teste: una ha il cilindro, un’altra il fez fascista, la terza il cappello del generale. Il capitalismo, il fascismo e il militarismo sono le cause delle guerre.

La gente è incuriosita e coglie facilmente il messaggio: i soldati non si dividono in eroi ed aguzzini; i caduti di tutte le guerre sono vittime di coloro che, in ogni nazione, creano le condizioni perché altri debbano armarsi e partire.
In molti approvano, qualcuno si arrabbia e querela l’autore; “per alcune frasi pronunciate durante l’inaugurazione”, dicono; o forse perché si identifica con gli aguzzini. Il procuratore di Cuneo opta per il non luogo a procedere.

Il monumento viene caricato su un camion e portato in giro per le piazze del Piemonte. A metà ottobre ’79 è a Verona, spinto attraverso la città da un corteo silenzioso, organizzato dal locale gruppo del Movimento Nonviolento. Pietro Pinna parla di disarmo alla folla che si è raccolta intorno, mentre i giovani del gruppo veronese teatro popolare stradale nonviolento ambulante, travestiti da militari, simulano delle provocazioni con urla e spinte.
Giunti all’Arco dei Gavi, il monumento viene posizionato e inizia un’inaugurazione insolita, caratterizzata da un clima di serenità, alternata a commozione; niente solennità nè onori di armi o parate, solo un vigile in bicicletta; niente fanfare e inni nazionali: si canta insieme “we shall overcame”.

Il Comune ha rilasciato il permesso di occupazione del suolo pubblico per il giorno del corteo. E poi? La giunta avrebbe dovuto discuterne già da due giorni, ma nessuna comunicazione è arrivata. Così, il mattino successivo, gli organizzatori si recano in Comune e apprendono che la discussione sul monumento è slittata di quattro giorni: “per ora lasciatelo lì” dice l’assessore allontanandosi.

Alle 18,30 di martedì, senza alcun preavviso, i carabinieri “sequestrano” il monumento, ritenuto corpo del reato di “vilipendio delle Forze Armate”.

Si corre a parlare con il comandante della locale caserma; ha anche sporto denuncia per l’autore e per gli organizzatori Pinna e Valpiana. Il capitano spiega di aver agito in seguito alle lamentele di alcuni cittadini ed in base ad una vecchia legge del Codice Rocco.
Comincia un’articolata campagna di opinione: raccolta firme di solidarietà, affissione di manifesti, azione con striscioni e cartelli ripetuta per una settimana davanti alla caserma dei carabinieri.
Il monumento sequestrato fa notizia e la sua immagine viene diffusa da giornali e telegiornali locali e nazionali che passa anche al TG 1 e arriva alla Camera dei Deputati con un’interrogazione parlamentare. Le maggiori forze politiche della sinistra e del centro presentano interpellanze e ordini del giorno nelle sedi istituzionali, rinunciando comunque a nette prese di posizione.

Finalmente una comunicazione del Comune arriva al Movimento; non è però l’attesa autorizzazione, ma una multa per occupazione di suolo pubblico!

Sabato 3 novembre la campagna culmina in un nuovo corteo. Alla testa c’è ancora la sagoma del monumento, riprodotto da alcuni manifestanti in forma di scultura vivente. Al termine del corteo ogni personaggio dell’opera pronuncia un discorso e tutti i manifestanti si raccolgono a gruppi di tre in riproduzioni viventi del monumento: l’intera Piazza Brà di Verona vie riempita di tanti piccoli monumenti antimilitaristi. “Se il monumento è reato, allora sequestrate anche tutti noi” viene ripetuto al megafono. Vigili, carabinieri e poliziotti guardano imbarazzati e preferiscono non intervenire Viene anche raccolta una sessantina di firme di auto-denuncia, a ribadire che il monumento è stato collocato da un intero corteo e non dai soli tre denunciati.
L’iniziativa viene

Dopo qualche settimana il monumento viene “liberato” e dopo alcuni mesi la pratica verrà archiviata.

L’itinerario del monumento attraverso l’Italia riprende, prima a Mantova e Brescia e poi, di tappa in tappa, giù fino alla Calabria e alla Sicilia. Il Monumento viene esposto anche a Comiso ed infine donato al Comune di Vittoria, come ringraziamento per le sue tante iniziative contro l’arrivo dei missili nucleari nell’isola.

LILLIPUT
A cura di Massimiliano Pilati
La nuova legge sulle armi… e ora??

In Italia negli anni ’90 la legge 185/90 ha introdotto per la prima volta un elemento di forte regolamentazione del commercio delle armi. In effetti nei primi anni del decennio le esportazioni italiane erano fortemente diminuite rispetto ai 3.000/4.000 miliardi di lire del decennio ’80 ed erano concentrate per lo più nei paesi occidentali. Nella seconda metà degli anni ’90 tuttavia la pressione delle lobby militari-industriali ha portato a interpretazioni della legge che minimizzavano i vincoli in essa contenuti: la coerenza con la Costituzione e la politica estera, la promozione della pace e della sicurezza internazionale, la protezione dei diritti umani. L’export italiano risale e si attesta intorno a 1 miliardo di euro l’anno, ma soprattutto torna a dirigersi nel Sud del mondo e nelle aree calde.
Il disegno di legge di modifica della 185, ora approvato come legge 148/2003, viene incontro proprio alle richieste di minori vincoli avanzate dall’industria militare italiana. L’Italia doveva ratificare l’accordo quadro per la ristrutturazione dell’industria bellica – Accordo di Farnborough – firmato da Francia, Germania, Italia, Spagna, Svezia e Regno Unito, che coprono il 90% dell’export europeo di armi. In realtà, però, il disegno di legge presentato dal governo si spingeva ben oltre.
La cosiddetta “licenza globale di progetto”, una delle innovazioni più importanti del trattato, veniva estesa a tutti i paesi della Nato e dell’Unione Europea. Venivano eliminati i controlli sull’uso finale, sulle transazioni bancarie, sui certificati di arrivo a destinazione. Una parte notevole delle responsabilità di competenza dello Stato italiano venivano delegate ai paesi partner nella produzione delle armi, alcuni dei quali – soprattutto i nuovi entrati dell’Europa centro-orientale – hanno sulla materia un sistema regolativo a dir poco superficiale.
Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Bulgaria potrebbero essere solo tappe intermedie per le armi italiane. Destinazione finale: le aree di guerra soprattutto in Africa. Tra i casi più clamorosi, ricordati in un recente rapporto dell’organizzazione statunitense Human Rights Watch, le armi dalla Polonia alla Somalia a metà degli anni ’90, le armi leggere dalla Slovacchia in Liberia, via Uganda, nel 2000, il materiale esportato da Repubblica Ceca, Romania, Bulgaria in Angola e dalla Bulgaria in Ciad e Sudan.
L’azione di contrasto alle intenzioni del governo italiano, che ha visto impegnate molte istituzioni locali, associazioni e organizzazioni non governative, ha consentito in questi mesi in Parlamento il raggiungimento di alcuni parziali risultati. È stata ripristinata la corresponsabilità dello Stato italiano nella scelta dei destinatari finali della coproduzione, anche quando ad esportare sia uno stato non firmatario dell’accordo quadro. È stata reintrodotta una forma di trasparenza, sia pure ex post, consentendo al Parlamento di conoscere la destinazione finale del materiale coprodotto. È stato ripristinato l’obbligo delle autorizzazioni alle transazioni bancarie anche per le operazioni che ricadono sotto la licenza globale di progetto.
Sarebbe sbagliato sottovalutare il valore di queste modifiche. Molti problemi restano però aperti ad iniziare dal fatto che, mentre la definizione da parte dell’Unione Europea di una politica estera, di sicurezza e di difesa comune procede assai lentamente, il processo di concentrazione e integrazione dell’industria militare ha ben altra velocità, e la separazione fra il momento politico e quello produttivo-finanziario in un campo come questo è molto pericolosa.
Occorre ora, oltre che continuare a monitorare l’export italiano di armi (come fa da anni Os.C.Ar. l’Osservatorio dell’Ires Toscana), accrescere l’attenzione sul livello europeo, dove sarà definita la normativa sul commercio degli armamenti a partire dal timido Codice di condotta sulle esportazioni di armi. La mobilitazione in Italia per difendere la legge 185, ma anche l’azione dei cittadini come consumatori e risparmiatori nei confronti di imprese e banche – la campagna “banche armate” ad esempio – sono segnali che la sensibilità è cresciuta e che sulle decisioni di Bruxelles e di Strasburgo l’opinione pubblica si farà sentire.

Chiara Bonaiuti e Francesco Terreri
Os.C.Ar. Osservatorio sul commercio delle armi dell’Ires Toscana

STORIA
A cura di Sergio Albesano
Claudio Miccoli, l’eccezione nonviolenta

Sospendiamo per questo numero la pubblicazione del saggio sulla storia dell’obiezione di coscienza al servizio militare in Italia dal 1992 al 1998 per ricordare la morte di un giovane ecopacifista, avvenuta venticinque anni fa.

Claudio, mite creatura amante della natura e del prossimo, morì a Napoli andando incontro, solo e disarmato, a una squadra di neofascisti armati di bastoni e di coltelli, che avevano aggredito un giovane pochi minuti prima. Egli cercava il dialogo: un semplice gesto di pace che, unito alla colpa di portare barba e capelli lunghi, bastò a scatenare la furia dei suoi assassini, che gli sfondarono il cranio a bastonate, lasciandolo in una pozza di sangue. Morì dopo sei giorni di agonia, il 6 ottobre del 1978, non senza aver prima espresso il desiderio di donare ad altri i suoi organi (oggi due persone vedono grazie a lui). Aveva vent’anni. Seguì il processo agli assassini, nei suoi vari gradi. Si dichiararono fascisti e arrivavano in aula scandendo slogan e scattando nel saluto romano.Pochi di loro si pentirono. Dissero persino di essere stati assaliti da Claudio: una tesi assurda, subito smentita dai testimoni. “Si stava tornando a casa, quando vedemmo quel gruppo di quattro
persone: uno brandiva un coltello, un altro impugnava un bastone. Miccoli ci disse di scappare. Successivamente, però, si fermò”, raccontò ai giudici un giovane, appena quindicenne, che si trovava casualmente in compagnia di Claudio al momento dell’aggressione.

Perché ricordare oggi Claudio Miccoli? Perché ricordando lui ricordiamo la sensibilità di un giovane che scriveva poesie, lavorava a svariati progetti per la difesa della natura per ”realizzare unità con ciò che ci è intorno” e si impegnava per costruire un mondo più pulito e più giusto. Creatura pacifica, contraria a ogni violenza, amava dialogare con gli altri, comunicare con la “cara gente”: “A che cosa vale l’esser soli al mondo? Che cosa vuol dire che non ci capiamo?”, leggiamo in una poesia, tratta dal suo diario, dal titolo, emblematico: “Non scacciatemi!”. E’ la natura ad insegnargli “la purezza, e la gioia di donare” come quando (è solo un piccolo gesto ma estremamente significativo) al ritorno da un viaggio nel Parco Nazionale d’Abruzzo donò le sue scarpe a un immigrato, conosciuto in quel momento alla stazione ferroviaria di Napoli, a cui le
avevano rubate. E poi quel desiderio espresso al padre in più di un’occasione, così inusuale in un giovane nel pieno delle forze: ”Quando sarò morto, voglio che i miei organi siano donati ad altri”.

In quello splendido dramma didattico di Brecht che è “L’eccezione e la regola”, il mercante è assolto per legittima difesa: lui, che aveva ucciso il martoriato portatore dei (suoi) bagagli nella faticosa traversata del deserto. Assolto perché mai avrebbe potuto pensare che quell’oggetto tra le mani dello sfruttato non era un’arma, ma una borraccia d’acqua in procinto di essere condivisa con lo sfruttatore cui stava per essere porta. Assolto per legittima difesa! Quello schiavo era invece portatore di una nuova visione del mondo: a chi opprime opponeva la nonviolenza di chi è cosciente di avere dalla sua parte non la forza, ma la ragione. Quel portatore è l’eccezione e così quelli come lui.Anche Claudio, versione anni ‘70 del proletario brechtiano, fa eccezione: agli squadristi che con catene, coltelli e bastoni lo incrociarono sul loro cammino parve strano, incomprensibile e perciò impossibile che Claudio fosse armato solo d’un filo di voce (“Volevo parlare, volevo spiegare, non mi hanno dato il tempo…”, sussurrò prima di entrare in un lungo coma) e della rivoluzionaria volontà di capire, ascoltare e neutralizzare con la nonviolenza la cieca e ottusa sopraffazione.
Claudio l’eccezione, dunque, alla regola della vendetta, della guerra, della difesa armata e violenta, dell’aggressione come risposta preventiva a una paventata offesa. Occorre dunque ricordarlo, ricordare il suo straordinario esempio e i versi, per certi aspetti agghiaccianti, di una sua poesia, scritta quattro mesi prima di essere ucciso: “Io che non volevo colpire, sono stato
colpito! (…) Non ho vinto perché volevo vincere, ma perché mi avete sconfitto: perché la più bella vittoria, per chi non vuole combattere, è non lottare proprio”.L’eccezione della nonviolenza, della solidarietà, della tolleranza, deve, anche con l’aiuto di Miccoli, diventare regola e realtà.

Francesco Ruotolo

LIBRI
A cura di Sergio Albesano

Enrico EULI, Marco FORLANI (a cura di), Guida all’azione diretta nonviolenta, Consorzio Altra Economia edizioni/ Editrice Berti, Milano/Piacenza 2002.

Concepito come un manuale pratico per far conoscere le principali azioni nonviolente svoltesi in Italia e all’estero e fornire alcune istruzioni sul metodo e le tecniche sperimentate, questo libro, che ha come sottotitolo “Da Comiso a Genova e oltre: come ci si prepara alla protesta”, è frutto di un lavoro corale al quale hanno contribuito una ventina di attivisti che hanno partecipato soprattutto alle manifestazioni delle giornate di Genova contro il G8 nel luglio 2001. Molti di loro, tuttavia, iniziarono la loro protesta almeno quindici-venti anni prima a Comiso, nel campo internazionale che inaugurò i presidi contro l’installazione dei missili Cruise e che rappresentò, tra il 1982 e il 1983, l’onda pacifista italiana, mentre era in corso un’imponente protesta in tutta Europa; altri si attivarono in occasione della mostra navale bellica tenutasi a Genova nel 1986. Le proteste contro questi due eventi, protrattesi nel tempo ed entrambe significative per la sperimentazione di nuove modalità d’azione e la forza manifestata, aprono la prima parte del piccolo volume dedicata alle esperienze italiane di lotta nonviolenta dagli anni ‘80, che prosegue concentrandosi sulla preparazione dei gruppi, sulla formazione teorica e pratica condotta dalle componenti nonviolente della Rete contro il G8 e sulle iniziative concretamente svolte. In maniera agile sono presentati i vari gruppi di affinità, gli appelli, la socializzazione dei partecipanti e le modalità utilizzate per l’addestramento. Concludono la sezione i capitoli sulle azioni promosse contro la fiera delle armi leggere EXA a Brescia nel 2002 e sulle missioni di pace all’estero svoltesi negli anni ’90 (in Iraq, a Sarajevo, in Kosovo) e nei primi anni del nuovo secolo (nelle regioni dei Grandi Laghi e in Palestina) e infine alla presentazione della rete
dei Gruppi di Azione Nonviolenta. Se la lettura scorre veloce e ai singoli avvenimenti sono riservate poche pagine, o addirittura poche righe, complessivamente è possibile farsi un’idea del significato politico e sociale delle azioni illustrate.
La seconda parte presenta un insieme di voci, organizzate in tre categorie (teorie e pratiche, tecniche, organizzazione e metodologia organizzativa) e poi spiegate in ordine alfabetico in un glossario utile per la consultazione di termini e sigle, una succinta (e troppo scarna) bibliografia, informazioni su Internet, indirizzi e contatti utili e, infine, un elenco di riviste dell’arcipelago nonviolento ed ecologista.
Il libro è uscito come supplemento del numero del novembre 2002 della rivista “Altreconomia”.
Giorgio Grimaldi

Miriam Schirò, Un lottatore senz’armi: mio padre Lucio Schirò D’Agati, Zephyro Edizioni.

“Un contadino istriano, richiamato e mandato in Galizia, scrive alla moglie che piuttosto che rimanere ucciso e non rivedere mai più i suoi figlioli, preferirebbe essere preso prigioniero dai russi. La lettera è intercettata dalla commissione di censura e comunicata al Comando; il povero contadino è condannato a morte ‘per avere espresso sentimenti contrari alla disciplina militare’. La disgraziata vedova viene anche privata del sussidio.” E’ questo l’incipit di un articolo intitolato “Disonoriamo la guerra”, pubblicato da Lucio Schirò nel numero del 18 marzo 1915 della rivista “Semplicista” da lui stesso fondata.
Schirò fu pastore metodista a Scicli, in Sicilia, e visse dal 1877 al 1961, dedicando la sua vita alla riforma religiosa del protestantesimo italiano e al riscatto sociale e politico della popolazione siciliana vessata da governo centrale e signorotti locali. Il suo impegno fu inviso ai fascisti, che lo perseguitarono arrivando persino a promettere un premio a chi lo avesse ucciso. Esemplare in tale frangente fu il comportamento evangelico di Schirò, che in più occasioni non solo rifiutò di ripagare i suoi persecutori con la loro stessa moneta, ma li ospitò in casa sua permettendo loro di salvarsi dalla folla inferocita che li avrebbe linciati.
Il libro è scritto dalla figlia Miriam, la quale giustamente premette che non si tratta di una ricerca storica (un rapporto di parentela e di affetto così stretto è un limite nel proporre un lavoro scientifico). Si tratta di una testimonianza, non solo bella ma anche utile per non dimenticare l’esempio di una persona che ha speso la sua esistenza nella lotta contro la violenza e contro la guerra e il cui ricordo altrimenti rischia, come quello di molti altri, di essere confinato nelle periferie della memoria.
Il testo è scritto con un linguaggio arcaico, che talvolta rende difficile la lettura, ma che al tempo stesso gli conferisce un’aura di signorilità.
Un bel documento per invogliare giovani studiosi (anche attraverso tesi di laurea) ad approfondire la figura di un personaggio poco conosciuto, analizzando nel contempo un esempio di giornalismo siciliano e la realtà passata del protestantesimo italiano.
Per richieste: zephyro@iol.it

Sergio Albesano

LETTERE

Ballare la ginestra,
con i colori di Riace

Riace è famoso per il ritrovamento dei bronzi, che ora stanno nel museo di Reggio Calabria e che nessun giovamento economico hanno portato al paese ove sono stati rinvenuti. Ma in questa antica località calabra, il cui nome deriva dal greco (Ryakyon = ruscello), c’è qualcosa di meno noto che invece merita di essere conosciuto.
Tutto iniziò nel 1998, quando su queste coste sbarcarono alcuni profughi. Tre o quattro ragazzi chiesero al Comune di avere in gestione le case del borgo che erano state abbandonate. Il Comune contattò i proprietari e le abitazioni furono affidate a questi giovani, alcune in comodato, altre in affitto. I ragazzi le sistemarono e quindi vi alloggiarono i profughi. Gli immigrati non avevano però soltanto bisogno di un tetto, ma anche di un lavoro. Allora gli stessi giovani impiantarono, sostenendosi con il loro lavoro volontario, senza contributi di sorta e con un prestito di Banca Etica (della quale abbiamo parlato nel numero XX del 2003), alcuni laboratori per la filatura, per la spremitura delle olive, per la preparazione delle marmellate e diedero un lavoro ai profughi. Fu così che questi immigrati riuscirono qui a trovare una casa e un’attività lavorativa e che a Riace mai si è avuto alcun episodio di intolleranza razzista. Ora vivono in questo paese una comunità eritrea e una afghana.
Le attività che sono state impiantate nei diversi laboratori cercano di riprendere tradizioni che altrimenti scomparirebbero nella nostra epoca moderna.
Viene prodotta la marmellata di mandarino. L’etichetta riporta gli ingredienti: mandarini, zucchero. Nient’altro: ne additivi, né conservanti. Che scrive l’ha assaggiata e assicura che il suo gusto è ottimo.
E’ prodotto anche l’olio extra vergine di olive, spremendo a freddo le olive. Inoltre è stato aperto da poco un punto ristoro, ove i turisti possono fermarsi e assaggiare le specialità locali. Ma l’attività più interessante è quella della filatura della ginestra. Forse neppure ci si immagina che la ginestra, questa pianta dai fiori gialli, può essere utilizzata per produrre borse, tappeti e, un tempo, anche camicie e lenzuola. Nel passato il telaio faceva parte degli strumenti di una casa, proprio come le pentole. Queste servivano per preparare il cibo, mentre il telaio era utilizzato per preparare gli abiti che indossava la famiglia. Ma il procedimento per ottenere il filato dalla ginestra è particolarmente lungo ed elaborato. Anzitutto, dopo averla raccolta, bisogna raggrupparla in fasci che si fanno macerare in acqua. Quando, dopo una decina di giorni, sono pronti, li si mette per terra, li si impasta con la sabbia e quindi, a piedi nudi, si balla su di essi la tarantella, staccandone la parte legnosa. “Ballare la ginestra” è proprio l’espressione che qui viene usata. Quindi il tutto è lavato e pulito dalla sabbia. A questo punto il prodotto è posato su un tronco di legno e battuto con un attrezzo di legno piatto. Questo passaggio serve per far uscire l’acqua e per sfibrare ulteriormente il vegetale. Infine il tutto è pronto per essere filato. A Riace producono così borse e tappeti, ma mischiano i fili di ginestra con fili di lana, perché altrimenti, con il lavoro che necessita, un prodotto di pura ginestra avrebbe un prezzo proibitivo.
C’è davvero una bella realtà in questo paesino della Locride. Ciò che non guasta è anche il mare stupendo che si trova a sei chilometri di distanza. Per finanziarsi la comunità mette a disposizione alcune case per i turisti e quindi perché non trascorrere una settimana in questo paradiso? Ma, se decidete di andare, non siate soltanto turisti di passaggio, ignari di ciò che avviene; guardatevi intorno e cercate di scoprire questa realtà di grande interesse.
L’emblema del grado di ospitalità dell’associazione sta sul cartello esposto davanti all’Ufficio di accoglienza, ove sono indicati gli orari di ricevimento. Vi è scritto: “Gli ospiti si ricevono: sempre”!
Per contatti: tel. 0964 77 8008, citta.futura@tiscali.it

Sergio Albesano
Torino

Obietto alla RAI
Non pago il canone

Oggi faccio l’Obiezione di Coscienza perché la RAI “oscura” la Pace e ci “acceca” con la guerra.
Obietterò come segno, una cifra (riferimento 5,5 %) che corrisponde alle percentuale prevista per le spese militari nel bilancio dello stato, quindi 5,30 euro.
Questi soldi che avrei dovuto pagare per il canone TV saranno versati al “Movimento Nonviolento” per metterli in mano al Presidente della Repubblica di “tutti” gli italiani e non al Presidente del Consiglio che ha dimostrato di rappresentare solo i propri interessi e in modi diversi ed efficaci controlla tutta l’informazione nazionale.
Ho aspettato oggi prima di prendere questa decisione, perché ho cercato la “riprova” nel nuovo Consiglio di Amministrazioni della RAI che si è comportato, per la manifestazione di sabato 12 aprile, allo stesso modo del vecchio, negando, come per il 15 febbraio ed il 15 marzo, la diretta TV e facendo “buio” sulle azione di pace, di solidarietà e intervento umanitario delle ONG, delle Associazioni e dei Movimenti Pacifisti.
Perché devo pagare una televisione di “Stato” che annebbia le più grandi manifestazioni mondiali, in giorni globali, per la pace?! Se a questo si assomma la “faziosità” della “cronaca” nei servizi e nelle varie trasmissioni “in guerra” non mi posso che indignare!
Perchè dovrei pagare un canone per palinsesti e contenuti che non condivido?!
Allora obietto come una scelta pacifista e nonviolenta di “disobbedienza”!
Ai pacifisti è stato detto di: “essere di parte”…anche con le bandiere arcobaleno della pace…
E’ vero…sono di parte! Dalla parte della Pace, dei diritti, della giustizia, della libertà di tutti e tutte.

Eraldo Ridi
Piombino (LI)

Le galline, le uova…
e la nonviolenza nella scuola

Mi rifaccio alla lettera di Vincenzo Zamboni, pubblicata nel numero di maggio, che partendo da un problemino di galline e uova trae delle conclusioni, che condivido, sull’arroganza e l’ignoranza degli occidentali nell’affrontare problemi complessi provocando ulteriori tragedie nel mondo più povero.
Osservo che il problemino sarà rimasto di traverso a molti perché posto così non è risolubile nella maniera indicata, perché c’è un refuso nella traccia che porterebbe a una soluzione diversa. Nella seconda riga, infatti, bisogna leggere ”una gallina E MEZZA fa un uovo e mezzo in un giorno e mezzo”. Solo così si capisce la semplice soluzione proposta dall’autore.
Ma volevo qui trarre un altro spunto dal problemino: il mondo occidentale e il suo modo di essere, oltre ai disastri sopra citati, sta portando a un progressivo imbarbarimento culturale e ad un’ignoranza(scolastica)sempre più diffusa e profonda partire dal suo centro(gli USA).Si stanno perdendo irreversibilmente le nozioni culturali più elementari e fondamentali: fare un discorso che stia in piedi, far di conto, usare le unità di misura più comuni, sapere i fatti della storia a grandi linee almeno del proprio paese, sapere dove si trova uno stato dove magari si va a fare la guerra, ecc. ecc. Questo male si trascina fino agli ordini più alti della scuola come l’università dove questo analfabetismo di base si sta estendendo sempre più. Da una parte vediamo programmi di studio sempre più elefantiaci,fantascientifici,futuribili,multimediali,ecc.,dall’altra tocchiamo sempre più con mano la mancanza totale delle basi. Si ha così, particolarmente in Italia, un protrarsi degli studi abnormemente lungo, che porta a frustrazione e a una cultura molto superficiale paragonabile, se va bene, a un colosso dai piedi di argilla.
Questo rappresenta un altro aspetto della violenza del sistema soprattutto sui giovani. Se c’è qualcuno che, nonostante tutto, si ostina a voler capire a fondo le cose, viene visto con sospetto e scoraggiato in tutte le maniere. Infatti, le persone che contano nelle istituzioni volte alla riproduzione e alla conservazione della struttura e della piramide sociale(chiesa, scuola, comunità scientifica) non hanno bisogno di teste pensanti e ragionanti ma di “buoni sudditi” che facciano tanto e tanto lavoro secondo binari prestabiliti, da buoni esecutori senza grilli per la testa. Per questo, nei concorsi di vario tipo viene preferito (e prestabilito come vincitore, individuandolo col sistema delle raccomandazioni)chi si inquadra meglio nella struttura rispetto a chi possiede meglio la materia. Per questo ,anche, i libri sono oscuri e non aiutano chi voglia capire veramente.
Da tutto questo consegue che una azione possibile di nonviolenza attiva nelle scuole di ogni tipo è sicuramente quella di tagliare molto i programmi (senza farlo vedere troppo: siate candidi come colombe, ma astuti come serpenti) e, andando in profondità, far riappropriare i giovani ancora sensibili degli strumenti fondamentali dei saperi di base de del ragionamento, affrancandosi dall’ipnosi del mostro audiovisivo(male usato)e rimettendosi a leggere(molto), scrivere e ragionare.

Carlo Bauer
Pisa

Via Santa Croce, numero sei

Torino, via Santa Croce sei. Andate a vedere. C’è una lapide, ancora ben leggibile, dei mitraglieri d’Italia, i quali «sempre pronti a intonare / il più alto canto / delle loro armi e delle loro anime / convennero / nella ricorrenza della battaglia del Piave / il 15 giugno 1930». Sopra, un motto latino: «Celerrimo ictu, impavida fide». Impossibile tradurlo senza cadere nell’apologia dell’assassinio: «Fanatici senza paura, vi colpiamo velocissimamente». Non basta invocare la difesa del Piave, per assolvere quella guerra, criminale come tutte le guerre. Rileggo: «il più alto canto / delle loro armi e delle loro anime». Solo un pazzo pericoloso, o uno scemo, può aver concepito queste parole, e altri pazzi e scemi averle approvate e ammirate. Nessuna retorica di circostanza può scusarle. Io sanamente e felicemente odio ogni arma e volentieri vilipendo tutto ciò che con essa ha a che fare, eccetto le miserabili vittime che la impugnano. Venite ancora una volta, mitraglieri, per un’ultima raffica sulla lapide oscena.

Enrico Peyretti
Torino

Di Fabio