• 23 Dicembre 2024 18:40

Azione nonviolenta – Aprile 1999

DiFabio

Feb 6, 1999

Azione nonviolenta aprile 1999

– La guerra e’ il piu’ grande crimine contro l’umanità, di Mao Valpiana
– Obiezione di coscienza: cosa succede in Europa, di Silvia Nejrotti
– Nell’europa centrale e nell’est

Movimento Nonviolento
“Marcia della nonviolenza” da Perugia ad Assisi, di Pietro Pinna

Campagna OSM
Quale continuità, se si cambia tutto? di Alfredo Mori

Campi estivi
Dieci anni di campi estivi, lavoro e festa, di Beppe Marasso

L’arte di scrivere
Virgilio, poeta della pace, di Claudio Cardelli

Ozio… in corso
Scappare da un mondo sbagliato: l’importanza della fuga. di Cristoph Baker

Obiezione
Esercito professionale? Una questione di costi! Facciamo i conti

Praticare l’ingerenza pacifista

La nuova visita di leva

Recensioni

Ci hanno scritto

DOPO LE BOMBE DELLA NATO SULLA SERBIA E IL KOSOVO
La guerra è il più grande crimine contro l’umanità…

…Sono parole pronunciate da Einstein, Russel, Gandhi e costituiscono il principio ispiratore della War Resisters International -l’internazionale dei resistenti alla guerra, attiva dal 1921- di cui il Movimento Nonviolento, fondato da Aldo Capitini, è la sezione italiana.

Oggi l’Europa conosce una nuova guerra, condotta dalla Nato, che coinvolge i popoli serbo e kosovaro. Non c’è nessun motivo al mondo che possa giustificare bombardamenti aerei su città e paesi: nemmeno la presunta difesa di minoranze etniche albanesi inermi che subiscono stragi e massacri ad opera delle truppe serbe. Infatti quei bombardamenti aggiungono strage a strage, orrore a orrore, massacri a massacri, distruzioni a distruzioni. Trasformano i “difensori” in “aggressori” e mettono sullo stesso piano i crimini di Milosevic, il terrorismo dell’UCK e gli attacchi della Nato.

La sacrosanta difesa dei diritti umani dei popoli oppressi (del Kosovo, ma anche del Kurdistan, del Tibet, del Chiapas, dell’Amazzonia, dell’Algeria, dell’Eritrea, del Ruanda, di Timor Est, dello Sri Lanka, e tanti altri ancora) si deve perseguire con interventi dell’Onu e di forze di polizia internazionale che agiscano con un mandato autorevole e strumenti, anche militari, adeguati agli obiettivi da raggiungere: interposizione, aiuti umanitari, embargo selettivo, peace keeping,

Le forze, le tecnologie, i finanziamenti necessari per attuare distruttive azioni militari come quella in atto in Serbia, sarebbero più che sufficienti per predisporre efficaci interventi di pacificazione miranti a tutelare gli oppressi e rendere inoffensivi gli oppressori.

La verità è che la potenza bellica della Nato non intende lasciare la scena alla diplomazia dell’Onu, e vuole scatenare una guerra per mantenere e rendere “indispensabile” l’azione dei militari, i quali, come sempre, dichiarano di “fare la guerra” per “difendere la pace”. La storia ci ha insegnato che le guerre chiamano violenza e rafforzano il potere dei dittatori che a parole si dice di voler eliminare (Saddam è ancora saldamente al suo posto, così come Gheddafi, a fare da contraltare a Clinton e Elstin).

Alle soglie del 2000 sarebbe ora di espellere la logica della guerra dalla storia, e affidare la convivenza tra i popoli alla cultura della pace.

Vogliamo iniziare il nuovo secolo con un bella guerra nel cuore d’Europa?

Non sono bastati i milioni di morti del primo e del secondo conflitto mondiale?

Ci vorrà anche la terza guerra mondiale prima di decidersi ad abolire gli eserciti?

Sono domande sulle quali riflettere mentre in tivù assistiamo alla pioggia di fuoco sugli uomini, le donne e i bambini della Jugoslavia.

Movimento Nonviolento

Il futuro del Kosovo

I bombardamenti Nato contro il presidente jugoslavo Slobodan Milosevic porteranno inevitabilmente alla spartizione del Kosovo.

Secondo il professor Tihonir Loza, studioso consultato regolarmente dall’Istituto di Affari Internazionali di Chatham House, a Londra “la regione verrà senz’altro divisa. Milosevic sarà felice di accontentarsi del 15 o 20 per cento del territorio. Non è un uomo stupido. Ha sempre saputo di non poter mirare al Kosovo nella sua interezza. Neanche lui può pensare che si tratti di un satellite serbo. Il presidente è destinato ad uscire vincitore dal conflitto: otterrà un grande successo politico nazionale”.

Loza ha specificato la zona alla quale Milosevic mira: si tratta dell’angolo nord occidentale della regione, divisibile dal resto con una linea retta dalla città di Podujevo a quella di Pec. “È un’area fondamentale per tre ragioni: in primo luogo comprende due miniere di carbone il cui valore economico è scarso ma che da sempre, nella tradizione locale, sono considerate la fonte di ogni ricchezza. La zona include inoltre due monasteri, nella zona di Pec, che sono sempre stati centrali alla religione serba”.

“La terza ragione – ha aggiunto Loza – è che un pezzo di Kosovo è meglio di niente. Con i negoziati di Rambouillet, che Milosevic ha ovviamente respinto, avrebbe perso tutta la regione”.

“Per controllare il Kosovo intero – ha precisato Jonathan Eyal, direttore dei corsi al Royal United Services Institute – la Nato avrebbe bisogno di un esercito di più di 100.000 unità: una soluzione che per ragioni politiche è assolutamente fuori discussione. L’obiettivo della forze occidentali è di bombardare Milosevic e ridurre le sue capacità belliche: un obiettivo che solo in parte verrà raggiunto in quanto l’offensiva dei serbi è articolata attorno a pistole e mitragliatrici. Tutte armi che non potranno essere distrutte dagli attacchi aerei”.

“Con ogni probabilità – ha concluso Eyal – si tornerà al tavolo dei negoziati, dove a Milosevic sarà consegnata una parte del Kosovo, mentre quella restante diventerà indipendente. L’autonomia è un concetto poco adatto alla zona dei Balcani. L’occidente sarà stato così doppiamente sconfitto”.

Domande sulla guerra, per pensare ed agire

L’attacco Nato alla Serbia difenderà le vite e i diritti dei kossovari?

L’annosa oppressione serba “giustificherà” ancora una volta la stolta fede nella guerra?

Viene colpito Milosevic o la popolazione serba?

E chi punirà i mercanti di armi, nemici di tutti, prostituiti alla morte?

L’anarchia settaria degli stati per quanto tempo ancora inpedirà l’instaurarsi di una legge effettiva di tutta l’umanità?

Fino a quando i diritti violenti degli stati prevarranno sui diritti miti e universali delle persone?

C’è anche un’Europa dei diritti dietro l’Europa delle banche?

Perché i politici non hanno capito e solidarizzato coi kossovari quando attuavano una esemplare decennale resistenza nonviolenta?

Perché i kossovari hanno ceduto all’arcaica idea di uno stato sovrano e armato, invece di insistere sulla convivenza rispettosa e pacifica di due popoli sulla stessa terra?

Perchè la diplomazia è ancora più incapace dei popoli di pensare in questi termini di convivenza, anziché di infinita spartizione etnica territoriale?

Perché troppo poche parole sagge e autorevoli ricordano che nessuno, in nessuna regione del mondo, può considerare il territorio più sacro delle persone, di qualunque appartenenza etnica e culturale?

Perché la politica che presume di fare la storia arriva sempre tardi a capirla?

Perchè non vediamo tutti che uccidere e distruggere non può mai, mai, mai essere azione umanitaria, ma è sempre ripetizione e conferma di disumanità?

Enrico Peyretti

DOPO L’ABOLIZIONE DELLA LEVA
Obiezione di coscienza: cosa succede in Europa?

di Silvia Nejrotti

Si è svolto dal 21 al 28 febbraio a Strasburgo, presso il Centro per la Gioventù del Consiglio d’Europa, il seminario internazionale organizzato ogni anno dall’EBCO (European Bureau for Conscientious Objection) sul tema dell’obiezione di coscienza al servizio militare.

L’EBCO, a cui aderiscono numerose organizzazioni nazionali ed internazionali (fra cui il Movimento Nonviolento NdR), è membro del Forum per la Gioventù dell’Unione Europea e possiede statuto consultivo presso il Consiglio d’Europa. Nato nel 1979 con l’obiettivo di coordinare e supportare i movimenti e le organizzazioni impegnati a promuovere, nei paesi europei, il riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare e l’adempimento del servizio civile alternativo, l’EBCO ha proseguito ininterrottamente la sua attività in questi anni, fino a conferire oggi particolare attenzione all’Europa centrale e all’Europa dell’Est.

Il titolo dell’incontro di quest’anno, “Obiezione di coscienza, educazione alla pace, prevenzione del conflitto”, riflette l’ambiziosa finalità del seminario: a partire dal contesto nazionale delle organizzazioni partecipanti (provenienti da ventiquattro paesi: dall’Armenia alla Germania, dai Paesi Bassi alla Lettonia, dalla Moldavia alla Slovenia…), ci si è proposti di tracciare, nell’ambito di una settimana di workshops, discussioni e confronto, linee di connessione tra queste tre aree tematiche, al fine di individuare future direzioni di lavoro, intra-nazionali o inter-nazionali. Più specificamente, tre gli obiettivi del seminario: primo, mettere a fuoco il rapporto tra obiezione di coscienza ed educazione alla pace nei diversi contesti nazionali europei; secondo, ridefinire il ruolo dei movimenti per la pace e degli obiettori di coscienza, quali soggetti promotori di educazione alla pace, laddove l’obbligo del servizio militare è abolito e si va verso la costituzione di un esercito professionale; sviluppare, infine, una rete europea di organizzazioni, operanti a livello di base per una cultura e un’azione di pace.

Alla luce di un bilancio immediato, va detto che, complice l’ampiezza dei temi e l’eterogeneità – culturale e operativa – delle organizzazioni partecipanti, non si è proceduto oltre il livello informativo (pur irrinunciabile) sulla situazione europea. E’ stato arduo approdare ad un momento di elaborazione, in cui aprire spazi per ridescrivere e ridiscutere il significato dell’obiezione e il ruolo degli obiettori nell’educazione alla pace, allorquando venga meno l’obbligo al servizio militare. Non del tutto estraneo a questa empasse è stato l’oblio in cui, ad eccezione delle occasioni di resoconto delle esperienze, sono caduti i temi della prevenzione del conflitto, della difesa della patria e della sicurezza, nodi imprescindibili per rideclinare un servizio civile più consapevole della propria valenza politica e un’obiezione che trovi una sua ragion d’essere più ampia – nell’opposizione alla logica militare in quanto antidemocratica e alla in-cultura della violenza in quanto disumanizzante – indipendentemente dalla presenza o dall’assenza dell’obbligo di leva. L’intenzione di costituire un foglio di news informatiche tra le organizzazioni presenti (si è in attesa dell’approvazione formale del Comitato Direttivo dell’Ebco per avviarlo) può configurarsi dunque come passo successivo al seminario per stabilire una interazione nel tempo, a partire dalla quale discutere e delineare aspetti problematici e concreti sentieri di lavoro. L’assenza di momenti di riflessione teorica, a parte la relazione tenuta da Nanni Salio, non ha favorito il procedimento, alla luce di uno scenario storico-politico ampio, dall’acquisizione dei dati all’immaginazione di linee programmatiche. A partire dalla fine della guerra fredda, l’Europa dell’ovest sta convergendo verso la costituzione di un apparato militare professionale, iper-organizzato e chiuso all’interno delle proprie logiche. Prescindendo dalla sua desiderabilità, urge individuare metodologie e strategie per aprire canali democratici di dialogo, partecipazione, controllo. In gioco, in questa fase storica, non è infatti il futuro dell’obiezione, del servizio civile e dell’educazione alla pace in quanto tali, ma, attraverso essi, l’espulsione della società civile dalle logiche decisionali in materia di difesa, sicurezza, politica estera e la conseguente usurpazione di un aspetto della sovranità popolare, fondamento di ogni ordinamento democratico. Tradurre i vincoli in opportunità, in tema di difesa e sicurezza, è un compito a cui i movimenti pacifisti e nonviolenti non possono sottrarsi. A questo scopo intensificare le connessioni, organizzare laboratori, avviare progetti comuni, tra i paesi membri dell’UE, può essere una strada fertile.

L’effettivo spazio di informazione, incontro e confronto, istituito dall’EBCO mediante questo seminario internazionale, rappresenta un contributo importante, nell’edificazione di un’identità europea. Un’identità europea che rifiuti di risolversi nell’univocità della logica economicista e si costituisca, all’interno di un contesto istituzionale, anche come luogo di costruzione della pace da parte della società civile transnazionale, capace di reinventare e aggiornare, alla luce del mutato contesto storico, il patrimonio dei movimenti che nei decenni precedenti hanno operato in questa direzione. E’ giunto forse il tempo in cui cominciare ad organizzare e a sperimentare, oltreché ad auspicare, momenti in cui l’Europa non sia solo l’insieme delle banche e delle istituzioni finanziarie ma, ad esempio, anche l’insieme delle organizzazioni, dei gruppi e dei movimenti che nel loro piccolo delineano, lavorando giorno dopo giorno, orizzonti di pace.

In questo quadro, significativi nel seminario sono stati gli spazi dedicati alla presentazione delle esperienze nei vari paesi. Il rappresentante del “Moviment per la Pau” spagnolo, ha illustrato come passi imprescindibili per procedere sulla via di una società demilitarizzata, da un lato, la riforma, nell’aprile 1998, della legge sull’obiezione di coscienza del 1984, e, dall’altro, l’abolizione, nel maggio 1998, del servizio militare obbligatorio, unito all’approvazione di un nuovo modello di difesa. Muovendo da questa premessa, ha poi sottolineato il contributo del Movimento per la Pace spagnolo all’elaborazione dei testi di legge e ha richiamato la responsabilità della costellazione dei soggetti pacifisti nel partecipare, soprattutto nella fase di transizione verso la piena instaurazione dell’esercito professionale, alla definizione del significato e degli assetti di difesa e sicurezza.

Qualche novità, ma insufficiente, riguardo alla Grecia: nonostante le moderate aperture del Parlamento greco, il quale dopo lunghi anni ha finalmente approvato una legge nel 1997, attiva dal 1998, che permette agli obiettori di svolgere il servizio civile alternativo (per anni la Grecia è stato l’unico paese dell’Unione Europea a non riconoscere il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare), tale opzione viene nei fatti tuttora resa poco praticabile e burocraticamente ostacolata. Continua, invece, l’intransigente e repressivo atteggiamento del governo turco, preoccupato di assicurarsi forza militare da impiegare nella gestione della questione curda, nei confronti degli obiettori di coscienza. Si è discusso, inoltre, della costituente esperienza italiana dei Caschi Bianchi, volta a creare un contingente civile per missioni all’estero, composto sia da obiettori sia da volontari e impegnato in attività di peacebuilding e della situazione rumena, dove dal 1996 esiste la possibilità di dichiararsi obiettori e di svolgere il servizio civile in alternativa a quello militare, ma solo per ragioni religiose e grazie ad una legge il cui testo accentua fortemente la dimensione dell’utilità sociale, relegando nell’ombra il significato politico. Utile a procurare una cornice concettuale unitaria e un vocabolario comune per dibattere i vari temi è stata la relazione sull’educazione alla pace, tenuta da Nanni Salio.

In generale, la situazione europea emergente dai paesi membri dell’Unione configura, riguardo all’obiezione di coscienza e al servizio civile, realtà particolari e diverse, ma linee di tendenza comuni secondo le aree geografiche. Da un lato, nei paesi dell’Europa occidentale, il diritto all’obiezione di coscienza è riconosciuto e si va, o si è già andati, verso l’abolizione dell’obbligo militare e la costituzione di un esercito professionista, con conseguente riduzione della portata del servizio civile, non più alternativo, e svuotamento della valenza antagonista dell’obiezione. Dall’altro, nei paesi dell’Europa centrale ed orientale, vige per lo più la coscrizione obbligatoria, accanto alla possibilità di obiettare per ragioni di coscienza al servizio militare e di optare per il servizio civile alternativo. Tale possibilità risulta però ammessa dal contesto legislativo in modo limitante, ammessa formalmente ma difficilmente praticabile, quando non boicottata o repressa. A prevalere in futuro pare essere una soluzione unica: in seguito all’inaugurazione dei ‘nuovi’ modelli di difesa proposti dagli stati e al progressivo ingresso nella Nato da parte dei paesi dell’Europa dell’est, la professionalizzazione dell’esercito – con la relativa erosione, da parte dell’organizzazione militare, del diritto e del potere di difesa nei confronti della cittadinanza, l’aumento della spesa militare, nonché l’indiretto sostegno alla diseguaglianza sociale – pare essere una strada inevitabile. Questo il quadro da cui partire per indicare alternative, per ripensare e riorganizzare ‘civilmente’ difesa e sicurezza, con un respiro che, secondo i segni dei tempi, sappia guardare oltre i confini nazionali.

NEL SETTEMBRE DELL’ANNO 2000
Una “Marcia della Nonviolenza ”da Perugia ad Assisi

Una proposta, assunta dal Comitato di Coordinamento del Movimento Nonviolento, che sarà oggetto di approfondimento e dibattito al prossimo Congresso nazionale del M.N. del 30, 31 ottobre e 1 novembre 1999.

di Pietro Pinna

Scopo della Marcia è di dare evidenza pubblica a quell’area nonviolenta del nostro paese tuttora ignorata (ma senz’altro diffusa) che ritengo desiderosa di porre in luce dinanzi all’opinione generale la propria posizione di pacifismo assoluto, a confronto dei vari pacifismi relativi ad ogni ora disputanti ed eternamente confliggenti a suon di bombe, tutti peraltro concordi circa la bontà della preparazione bellica.

La nostra Marcia pertanto –a differenza della precedenti Marce della Pace Perugia–Assisi aperte a tutti– dovrà essere contrassegnata dalla chiara e rigorosa caratterizzazione del pacifismo nonviolento, comportante il rifiuto assoluto di qualsiasi guerra fatta da chiunque per qualsiasi ragione, e quindi la conseguente abolizione integrale e immediata del suo strumento essenziale, ossia l’esercito.

Marcia intesa pertanto quale iniziativa aperta a tutti i nonviolenti, singoli o associati, della più diversa estrazione o appartenenza, impegnati in distinte iniziative culturali assistenziali ambientali e altro, che si ritrovano accomunati nella posizione del pacifismo assoluto.

Pur la semplice realizzazione della Marcia può risultare significativa in sé, e farcene sentire soddisfatti.

Ma la sua validità può andare ben dilà da essa. Oltre che fornirci l’occasione per un contatto, una maggiore conoscenza e quindi l’avvio di una collaborazione con singoli gruppi, la Marcia può essere stimolo all’intesa per la costituzione di un collegamento alquanto organico (Consulta Italiana per la Nonviolenza – C.I.N.) tra l’insieme od un arco esteso dei numerosi gruppi ispirantisi alla nonviolenza – intesa che potrebbe già maturare sulla base di una qualche comune iniziativa già individuata nella fase preparatoria della Marcia e presentata quindi già, nel testo di convocazione della Marcia, come ulteriore impegno collettivo dopo la sua effettuazione.

Potrei aggiungere che l’idea della convocazione della Marcia e l’impegno alla sua preparazione può costituire motivo di animazione al prossimo congresso del Movimento Nonviolento nella prospettiva di un solido obiettivo di lavoro.

Non occorre dire che, una volta adottata l’idea della Marcia, essa andrà annunciata e sviluppata all’istante, prendendo anche diretto contatto con tutti i gruppi, associazioni e movimenti ritenuti sensibili ed aperti a prendervi parte.

FATTI E VALUTAZIONI DOPO L’ASSEMBLEA OSM DI CATTOLICA
Quale continuità, se si cambia tutto?

In merito alle vicende della Campagna OSM (vedi Azione nonviolenta  gennaio-febbraio ‘99 pag. 16 e 17), molti lettori ci hanno telefonato chiedendoci chiarimenti rispetto ad un esito tanto inatteso e poco comprensibile. Sembra che la molla, per il killeraggio del documento unitario proposta dai movimenti promotori, sia stata la richiesta da parte del Coordinamento bresciano osm di procedere, insieme alla conclusione della Campagna, alla liquidazione dei fondi residui (oltre 200 milioni) dando mandato ad un gruppo di liquidatori scelti dall’assemblea tra persone che molto hanno dato alla Campagna stessa (si erano fatti i nomi di Lorenzo Scaramellini, Don Giorgio Pratesi, Francuccio Gesualdi, Giorgio Carpi, Pietro Pinna, Luciano Benini, Paolo Predieri, Beppe Marasso, Santina Scarpignato). Si sarebbe così aperto un breve periodo per la presentazione di progetti, tra i quali avrebbe avuto diritto di cittadinanza anche quello proposto dai movimenti promotori nel loro documento di Bologna per concludere una prima fase di Campagna, lasciando ad ognuno la libertà di proporre nuove iniziative e nuovi obiettivi.

Giustificandosi con la necessità di non disperdere un lungo lavoro unitario, invece di puntare a mantenere l’unità politica dei movimenti si è voluto tenere unito il malloppo, votando contro il documento di mediazione anche da parte di chi lo aveva sottoscritto qualche settimana prima.

I rappresentanti del MIR e del Movimento Nonviolento presenti a Cattolica, hanno ribadito, in più interventi, il loro disinteresse ad utilizzare anche solo parte di quei fondi per proprie iniziative; tant’è che oggi i fondi sono in mano al tesoriere Roberto Minervino della Loc di Milano. Dopo l’esito dell’assemblea dobbiamo affermare che in questa fase a nessuno è consentito di spendere questi soldi, versati negli anni passati da tanti obiettori che sostenevano un esito politico ormai raggiunto e legalmente riconosciuto (ovvero la rottura del monopolio militare sulla difesa, come sancito dalla Legge 230/98), almeno fino a che non si vedrà un rinnovato consenso da parte di un numero qualificato di obiettori alle spese militari.

di Alfredo Mori*

L’Assemblea di Cattolica del gennaio scorso ha voluto far suicidare un patto e ha così concluso un percorso di lavoro unitario di tutta un’area che aveva saputo coinvolgere, attorno alla Campagna di Obiezione alle Spese Militari, praticamente tutte le realtà associative ispirate ai valori della pace e della nonviolenza.

Nessuna dramma, per carità: qualcuno ha creduto di poter diventare in questo modo il legittimo erede di una iniziativa politica che aveva avuto momenti esaltanti, votando contro un documento preventivamente condiviso e sottoscritto con gli altri movimenti promotori, forse per ritagliarsi un proprio spazio vitale, che sembra però paragonabile al metroquadro occupato da quei cagnolini che, avendo perso la tramontana, si consolano “credendo di fare un azione politica amministrando saggiamente i movimenti del proprio codino” (perifrasi che sostituisce il testo originale “menandosi il codino”, una dizione non proprio da galateo).

Ma è bene ricordare per sommi capi le vicende della campagna, del perché e nata e del come si è sviluppata.

Nell’Aprile e del Maggio del 1981, quando il MIR e Movimento Nonviolento decisero di verificare la fattibilità di una campagna di obiezione fiscale alle spese militari, non si parlava ancora di Euromissili, che vennero annunciati da Reagan solo in Agosto.

Il movente per tale iniziativa era semplice: la constatazione che nel servizio civile era rimasta una infima minoranza di obiettori a rivendicare posizioni antimilitariste e nonviolente; perciò era maturata la necessità che tali posizioni venissero finalmente esplicitate e assunte da uomini e donne di ogni età, professione, condizione sociale, di ogni idea politica e di ogni fede religiosa, contro la corsa agli armamenti e l’equilibrio del terrore, che andavano apertamente contrastati.

La LDU presieduta da Carlo Cassola aderì all’iniziativa, la LOC la bocciò e solo dopo il secondo anno di Campagna, quando gli aderenti erano quadruplicati, si associò ai promotori.

Pax Christi e Caritas Italiana sostenevano dall’esterno la Campagna; gli altri promotori attuali sono nati molto dopo. Per qualche anno anche il Movimento Cristiano per la Pace si unì ai promotori, ma poi si ritirò per non perdere i finanziamenti governativi ai suoi campi di lavoro.

Già nel 1983 si ebbe il primo processo per “istigazione a disobbedire alle leggi di ordine pubblico” a carico dei promotori della Campagna. Fu l’inizio di una lunga presenza nelle aule giudiziarie (22 processi in primo, secondo e terzo grado) che, solo grazie alla professionalità, passione e generosità di un agguerrito collegio di difesa, ci fece uscire con piene assoluzioni e ci consentì di mantenere la proposta dell’obiezione “fiscale” alle spese militari negli anni successivi.

Nell’85 Padre Zanotelli, Don Giulio Battistella e altri cattolici del Triveneto, compreso il Vescovo di Trieste Mons. Bellomi, dichiararono la loro disponibilità a considerare “l’obiezione fiscale”, scatenando un putiferio di polemiche col risultato di far decollare la Campagna che registrò fino a quasi cinquemila aderenti.

Nell’86 anche Pax Christi si aggiunse agli altri nella promozione della Campagna.

Nel 1989 inizia in Germania, con la caduta del muro di Berlino, lo sfaldamento del blocco militare dell’Est e la fine della guerra fredda.

Nel 1990 l’Associazione per la Pace, nata da poco, decise di sfruttare l’idea per una Campagna parallela, che doveva essere di massa ma che risultò un vero flop politico: meno del 20% degli aderenti rispetto alla Campagna OSM.

L’anno successivo Assopace e Servizio Civili Internazionale si unirono ai promotori della Campagna in piena guerra del Golfo, che provocò il massimo storico di adesioni.

Con le guerre nella ex Yugoslavia, molti pacifisti “colpevolizzati dalla presenza di conflitti sull’uscio di casa” e terrorizzati dall’impotenza di non sapere fermare i conflitti in atto, si impegnarono attivamente nella catena di solidarietà con le vittime della guerra.

Le azioni nonviolente furono poche, difficili, simboliche, alcune con risvolti drammatici, ma tutto sommato abbastanza marginali.

Ai mezzi morali dell’ONU, sostenuti dai caschi blu, purtroppo poco minacciosi, si preferì far chiudere la parte guerreggiata del conflitto in Bosnia dall’intervento della NATO che, nell’assumere il controllo della situazione, ha fatto ritrovare il consenso della pubblica opinione sulla necessità di disporre di mezzi militari potenti e decisi per fermare soprusi e carneficine che rischiavano di andare avanti all’infinito con uno stillicidio devastante.

A questo punto i moventi originari della campagna OSM. erano stati superati da una nuova realtà, a suo tempo imprevista ed imprevedibile.

Invece di fermarsi a fare una valutazione politica dei fatti nuovi, confermati da defezioni rispetto alla Campagna sempre più numerose, si è preferito “consolarsi” buttandosi sugli obiettivi terminali “ideologici” della Campagna, perché è molto bello quando le cose vanno male, rifugiarsi nel proprio particulare.

Nello stesso tempo si sono però dimenticate – sarebbe meglio dire rimosse – le esperienze tutte teoriche (disastrose) che ci siamo lasciati alle spalle attraverso i vari macroprogetti DPN, con i vari responsabili dei vari settori ormai scomparsi dalla scena senza infamia e senza vergogna e con qualcun altro che ha mantenuto i contatti con la greppia dalla Campagna riciclando la propria inutile buona volontà cambiando semplicemente sigle invece che ambizioni (della serie “volontari di pace”, poi “scudi umani” e la recente operazione “Campagna osm-dpn – Berretti Bianchi”).

Lo strascinamento della Campagna di questi ultimi tre anni è stato deleterio per molti aspetti, soprattutto per una “strana” incapacità di muoversi negli ambiti istituzionali, malgrado diverse favorevoli occasioni e punti di appoggio molto disponibili (siamo riusciti a scoraggiare perfino una Titti Valpiana) col risultato di spostare ogni residua attenzione della Campagna nell’approvazione della riforma dell’obiezione di coscienza.

Dopo l’approvazione della legge 230/98, essendosi la Campagna ridotta ai numeri di un circolo bocciofilo di paese, c’erano tutte le ragioni per dichiararla conclusa e semmai ripensarla, alla luce della nuova situazione, con considerazioni più aggiornate e con modalità e obiettivi da perseguire sempre più politici e sempre meno ideologici, proprio perché già da più parti c’è chi ne invoca la realizzazione: penso a temi come l’ingerenza umanitaria, la protezione civile, la polizia internazionale, la necessità di un dirottamento di spese pubbliche dalle armi alle necessità sociali.

Perciò in tempi di transizione come il nostro è venuta l’ora di lanciare slogan paradossali del tipo “saper cavare il sangue da una rapa”, ovvero promuovere un’azione politica storica che, dopo avere liquidato il servizio militare obbligatorio, nei prossimi dieci anni sia in grado di liquidare anche gli eserciti nazionali.

Ripeto, nessun dramma se qualcuno ha voluto imitare quei soldati Giapponesi nelle isole del Pacifico attrezzati per continuare una guerra ormai finita da tempo; diciamo che, con quel che gli è rimasto, qualche tentativo di riprendere i contatti con i loro vecchi commilitoni potranno provare a farlo, oppure finiranno per gestire una Repubblica delle Banane di cui non si sentiva la mancanza, riaprendo i conflitti tra di loro per restare allenati ad affrontare i nemici.

* del Centro per la Nonviolenza di Brescia

28 Febbraio: le prime decisioni del C.P.

Per dare una dimostrazione di continuità, ecco le prime decisioni di un Coordinamento Politico un po’ confuso, per una Campagna che bisognava continuare “per non disperdere il lavoro comune degli anni passati”:

Nessuna conferma scritta da parte dei movimenti promotori, anche di quelli assenti a Cattolica.

Abolizione del CCN di Brescia.

Abolizione dei coordinatori locali.

Istituzione di due CCN, uno a Roma e uno a Milano, con costo mensile pari a £ 500.000 cadauno.

Apertura a Genova di un nuovo numero di CCP.

Conferma di membri decaduti di nomina assembleare, non rieletti dall’Assemblea di Cattolica.

Assunzione in proprio di compiti attribuiti dal regolamento della Campagna all’Assemblea e negati all’Assemblea di Cattolica, per esempio il decidere a quali progetti dare i soldi.

1989 – 1999 Dieci anni di campi estivi

di Beppe Marasso

Nell’estate che si avvicina, se Dio vuole, svolgeremo dodici campi estivi MIR – Movimento Nonviolento. Questi 12 appuntamenti avranno luogo in Piemonte, Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Umbria, Abruzzo e Sicilia. Dieci anni; Dodici Campi; Sei regioni, numeri tondi, numeri belli e chissà probabilmente in futuro ancora in crescita. Tra questi numeri, come parte di uno slalom al contrario, la memoria prova a risalire alla ricerca di luoghi , sensazioni, volti…

Il profilo che nella mia mente occupa il primo posto è Lanza del Vasto. Le parole di Shantidas si sono scolpite nel mio cuore con forza tale che a più di un quarto di secolo posso ripetere interi pezzi dei suoi discorsi senza variare un accento. E’ con lui che a Specchia di Mare (S.Vito dei Normanni) o ad Ontignano da Giannozzo Pucci, mi si è disvelato il valore della spiritualità, della manualità, della festa. Lanza del Vasto ha poi onorato la casa in cui vivevo con famiglia ed amici (via Venaria 85/8 Torino) di una sua visita.

L’ammirazione, l’amicizia, il dialogo con lui è poi continuato fino alla sua morte (Epifania 1981) e oltre. Oltre, attraverso la lettura di “Principi e precetti per il ritorno all’evidenza”, “L’Arca aveva una vigna per vela”, “Il pellegrinaggio alle sorgenti”, “Vinoba o il nuovo pellegrinaggio”…

In particolare quest’ultimo mi aveva fatto riflettere perché avevo tentato un felice esperimento di lettura incrociata con un altro libro su Vinoba. Quello di Shriman Narayan pubblicata dalla Cittadella e intitolata semplicemente “Vinoba”.

Tanto l’autore europeo lanciava luce sulle linee strategiche, sulle sintesi poetiche sulla profondità spirituali e culturali vinobiane tanto l’autore indiano si soffermava con precisione ragionieristica su date, dettagli organizzativi, minute collocazioni geografiche.

La sintesi che personalmente ne feci fu che lo Shramdhan (dono del lavoro) era possibile anche in Europa attraverso qualcosa che “traducesse” in italiano il “Gram-Seva Mandal”. Mandal, cioè organismo a servizio (SEVA) dei villaggi. Nell’estate ’88, senza dire nulla a nessuno feci il mio dono del lavoro nella cascina Vasco di Berzano S.Pietro ospite di Elena e Luca Battista.

In quei tre giorni rinnovammo la copertura di una tettoia dove Luca ricoverava gli attrezzi agricoli. Certamente, riflettevo tra me e me, migliaia di altre persone, sarebbe liete di offrire il loro lavoro in una azienda agricola. Non ho dubbi che sono milioni coloro che hanno a cuore la purezza delle acque, la preservazione del paesaggio rurale tradizionale, la solidarietà con gli impoveriti del mondo, le energie rinnovabili.

Tra questi alcuni hanno lanciato il loro cuore al di là di tutti gli ostacoli, le pastoie, le inerzie…e si sono fatti contadini, falegnami, pastori, muratori per ridare vita a cascine abbandonate e villaggi deserti.

Non sono sognatori nostalgici dello “arcaico passato” sono cercatori di verità, di giustizia, costruttori del futuro, cercatori di Dio. Che la loro imprese, le loro fatiche non siano solitarie, siano sollevate dal nostro Shramdhan e se non siano capaci di lavoro portiamo almeno dall’attenzione, un sorriso, una presenza che dica: grazie!

All’inizio del ’89, a margine di un attivo regionale MIR-MN svolto nei locali adiacenti la parrocchia del Lingotto constatammo che erano venuti a convergere tutte le cose necessarie. Le idee e le esperienze di Vinoba e Lanza del Vasto; un villaggio, Salerin di Demonte, che Germana e Lele Viola stavano ricostruendo; il gruppo Scout di Casale Monferrato che desiderava fare una settimana di lavoro. Lì lanciammo il 1° campo estivo che puntualmente svolgemmo quella stessa estate.

Salerin di Demonte fu per tutti i campisti, per quelli più giovani e per quelli più maturi, l’inzio di scoperte entusiasmanti.

Scoprimmo e scopriamo tuttora, che i nostri ospiti sono più straordinari di quanto potessimo pensare.

Certo puoi immaginare che chi ricostruisce muri a secco a Marseillex di Verrey, chi edifica la nuova Emmous di Penseglio, chi fa i tetti a lose alla cascina Scherpo, chi riporta amore ? e giochi di bimbi nei cascinali della Badia di Dulzago, chi vive chi trae formaggio dalle balze megalitiche di Lopiano di Bosia, chi rifà la strada del Maso di Unterplanof, chi ama la cascina Risolin-a (cascina con i ricciolini) chi ospita amici sconosciuti a Stroppo, chi “restaura” bellezze umane uscite dal buio della droga come si fa in Val Berrina… E’ una persona, una famiglia, una comunità di cuore generoso, di mani infaticabili di intelligenza aperta.

Certo questo lo potevamo immaginare, ma non potevamo immaginare che, per tornare a Salerin, Lele fosse in più in grande musicista e Germana una danzatrice perfetta e trascinante sulle note del marito.

Scopriamo che il lavoro manuale, vera eresia, guanto di sfida che lanciamo alla ortodossia produttivista-consumista, può essere esperienza liberata. Pelare patate, intonacare un muro, pulire un pavimento, piantare pali per un recinto, diserbare un orto, mietere del grano non sono lavori che richiedo più fatica che quella necessaria a scrivere, contabilizzare, comunicare, progettare e….

Anzi possono essere più lievi e liete se liberiamo la manualità dalla connotazione servile che ha sempre avuto.

Da sempre Signore è colui che per mantenersi non ha bisogno di farsi venire i calli alle mani. Piò fare di tutto, può fare il Politico, il Magistrato, il Professore, il Poeta, il Generale.. .ma non sudare di fatica.

Da sempre Servo è colui che suda come Muratore, Falegname, Fabbro e soprattutto come Contadino. Ancora fino a pochi anni fa, in alcuni ambienti ancora oggi, “contadino” veniva usato come insulto.

La rivoluzione nonviolenta non ha bisogno di armi. Ha bisogno di spezzare il rapporto servo-padrone per consegnare l’uno e l’altro a più alta umanità. Ha bisogno di POETI, SARTI, CONTADINI, SCRITTORI, FALEGNAMI, MAGISTRATI, OPERAI, FILOSOFI ecc.

La valenza politica del lavoro manuale volontariamente assunto è solo una parte della scoperta. Più grande, addirittura immensa è quella antropologica che per noi, pezzetto di umanità di radice ebraico-ellenistico-cristiana può significare sovvertimento dello aereo spiritualismo greco per ritrovare dimora nella solida spiritualità corporale ebraica .

Maria, all’Angelo che le annuncia il compiersi in lei della Incarnazione risponde: ”come può avvenire poiché non conosco uomo?”.

La giovane ragazza ebrea intende per conoscenza dell’uomo quella di esperire fisicamente, carnalmente la presenza maschile. Il giovane studente greco coetaneo intende sostanzialmente per conoscenza il pensiero filosofico, la sistematicità tassonomica.

Per secoli è prevalso il modo di intendere del giovane greco. Sociologicamente se ne fatta interprete la borghesia. La sua egemonia sui ceti operai e contadini si è compiuta quando questi hanno scomposto le grandi cucine in salotto e cucinino. Il salotto per la funzione alta dell’accoglienza e della rappresentanza, il cucinino per quella bassa del mangiare quotidiana.

Ricomporre accoglienza e alimentazione, pensiero e lavoro manuale, spiritualità e corporeità, intendere il corpo come tempio è processo di liberazione.

Scopriamo torrenti e montagne, pascoli e boschi, i “ciciu del Villar” e i dipinti del castello di Manta con gli effetti birichini della fontana della giovinezza. Sì perché durante la settimana di campo un giorno è dedicato alla gita per visitare l’ambiente esterno. La casa contadina è ciò che continua ad intrigarmi di più.

Lineare e austera come è qui nella bassa Langa, leggera e lignea come è in alta Valsesia sempre realizza un rapporto simbiotico con il territorio che la esprime e di cui è espressione.

Tutte sono state costruite in condizione di forte limite. Non avendo a disposizione le tecnologie e l’energia che muovono aerei e tir i costruttori contadini non hanno potuto che avvalersi di quella terra, di quel legno, di quelle pietre che trovavano nelle immediate vicinanze.

In passato lo sfondamento del limite era riservato solo ai principi e ai cardinali. Non nego uno sguardo ammirato, ancora per stare nel mio bel Piemonte, a Palazzo Madama o alla facciata davvero splendida del Duomo di Torino, ma la mia solidarietà va tutta ai contadini-muratori alla loro operosità ingegnosità capace di dare con poco , risposta umana al bisogno umano. Questa arte del limite che compone statica ed estetica mi si rivela solo nel silenzio. A volte a costo di passare per orso, lascio la compagnia dei fratelli e sorelle e mi inoltro da solo ad assaporare viottoli, scorci, schegge di vita presente o passata. Bastano pochi sassi collocati esattamente a superare un dislivello, il manto erboso che cede al terreno battuto, una “sursera” o un trave, perché mi giunga nel silenzio il linguaggio umano che parla con lingue dialettali.

La pregnanza della materia è tale che questa eloquenza mi è giunta al cuore anche a Burgusio, dove si parla tedesco, lingua che non conosco. Era l’estate del ‘98, ho lasciato gli altri amici dal campo Unterplanof, per scoprire vacche negli scantinati, (!!!) architettura urbanistica eccellenti, cimitero che un vero Campo Santo e guarda guarda una tecnologia agricola (trebbiatura, ventilazione, selezione) non motorizzata nettamente superiore alla coeva tecnologia delle mie parti.

Non a caso, ho pensato, E. F. Schumacher era di cultura tedesca.

IL radioso pensiero che illumina tutto il lavoro del grande economista nonviolento è: “L’uomo è piccolo, perciò il piccolo è bello. Procedere verso il gigantismo significa procedere verso l’autodistruzione.”

Attualmente le case sono costruite senza “limite”. Il materiale con cui sono edificate può arrivare da altri luoghi, addirittura da altri contineti. Il contenuto energetico di detto materiale può essere elevatissimo, ma questo flusso non percepito dalla coscienza come cosa straordinaria ma anzi assunto come ovvio produce un costruito banale, standardizzato, senza qualità. Qui attorno la Valle del Tanaro, la Valtinella ecc sono occupate da un recente e quasi continuo e informe blob di villette, capannoni, condomini Uno spettacolo che ti ferisce! Allora chiudo gli occhi e entro con la mia mente (e se posso anche con il corpo) nelle case dove facciamo i Campi. Anche quando sono grandi come il Castello di Albiano, la Comunità di Mambre, la cascina Penseglio non hanno perso la misura. A Penseglio la stalla era così grande e così bella così ricca di colonne, capitelli, volte che gli animali sono stati sloggiati e sistemati in una costruzione fatta alla veloce. E la stalla è diventata una splendida sala da pranzo.

Quando sono piccole sono normalmente dei gioielli. Vai ad esempio da Giovannino Perucchione e ti pare di entrare nel mondo degli elfi e delle fate. Entri tra quelle case in gran parte vuote come entri in una chiesa. Le pietre ti parlano della fatica, dell’ingegno, dei dolori e delle gioie di quelle persone lontane soffiate via come le foglie dell’albero della vita.

I nostri Campi puntano a luoghi di vita presente ma vogliono essere anche momenti di riconoscenza per quelle passate e allestimenti di spazi gioiosi per vite future.

In mezzo al rotolare sul pianeta di tutto e di tutti a sempre maggiore velocità faremo un atto di saggezza se ci fermeremo un minuto a considerare il concetto di limite.

Il limite delle case, di Cornaley dove vive Giovannino è certamente dato dalla coercitiva durissima forza della povertà antica (su cui sarà necessario fare opportune indagini) ma limite ha solo questo senso?

Quale forma sarebbe possibile senza limite? Se la forma è definita dal limite, e forma vuol dire bellezza, allora limite vuole anche dire bellezza. Oggi siamo nel tempo che a noi privilegiati dà la possibilità di superare il limite inteso come coercizione. La giustizia, la pace, la nonviolenza ci propongono di riassumere il limite come consapevolezza e responsabilità.

Scopriamo un modo più semplice e saporito di alimentarci. Dove c’è la possibilità si mangia a tavola, ma sovente abbiamo assunto i pasti seduti su panche, gradini, pietre tenendoci la ciotola appoggiata sulle ginocchia. Questa ultima è la forma che preferisco perché da un lato ci avvicina, almeno nella disposizione fisica ai poveri di interi continenti e dall’altro non esclude nessuno, non esclude cioè che si faccia un Campo MIR-MN anche in un posto che non ha una grande stanza per il pasto.

Più interessante che la modalità è però il contenuto. Penso che un pezzo della storia in crescita di questi dieci anni, sia dovuto alla nostra cucina, sia dovuta al fatto che si mangia bene. Il cibo è tanto più sano e gustoso tanto più breve è il tragitto che percorre per giungere sul nostro piatto. Il cibo che giunge dall’orto di casa è certamente il migliore. Perfettamente fresco, profumato, ricco di sapori. E’ l’occasione, per chi abita in città di fare autentica cultura. Di distinguere ortaggio da ortaggio, momenti di maturità, utilizzazione differenziate della stessa verdura. Evidentemente l’orto è solo una parte dell’approvvigionamento, per fortuna ci sono le aziende vicine con cui si hanno rapporti a volte più organici come è per la cascina G di Ottiglio, a volte più sporadici sempre occasione di socialità e cultura. Se poi neanche i vicini hanno ciò che ci serve si ricorre al mercato. Paride Allegri di Vezzano sul Crostolo quando i campi i frutteti, l’orto di Cà Morosini non bastano non scende al mercato. Prende la direzione opposta e guida amici e amiche tra prati e boschi a conoscere e raccogliere erbe deliziose.

Paride è oggi quasi ottuagenario. Da sempre ha guardato ai fiori, agli alberi, agli animali, al cielo, sorridendo. Quel sorriso è rimasto sul suo volto, che l’abbronzatura rende solare, anche tra le linee delle rughe che sono amabili come il profilo delle colline tra cui vive.

C’è l’AVI (Associazione Vegetariana Italiana fondata da Aldo Capitini) c’è la LAV (Lega AntiVivisezione) e varie altri associazioni che diffondono l’alimentazione vegetariana.

Attraverso i Campi ci sentiamo lietamente partecipi di questo lavoro. Penso che i dieci anni siano passati da noi più di mille persone. In mille hanno fatto un’esperienza concreta di una intera settimana senza bistecche. Eppure “la” carne è il piatto forte che ci fa mammà, cantava Paolo Predieri mettendo sul piano dell’ironia e della musica questa altra liberazione.

Abbiamo scelto il vegetarianesimo per ragioni di compassione di giustizia e di igiene. Ci troviamo in sovrappiù appagamento del palato e salute. Il cibo che viene da vicino, il cibo vegetariano sono due ragioni del successo della nostra cucina. Ce n’è una terza ed è il modo vario con cui viene cucinato.

Quando è fisso il gruppo di cucina è fatto almeno da tre persone. Sovente varia sicché nell’arco della settimana possono essere da dieci a quindici le persone che hanno messo mano alle pentole.

Ognuna si è prodotta nel piatto che le riesce meglio. Per forza che il vitto risulta vario e squisito.

C’è chi al lavoro delle pentole ci prende gusto e non lascia spazio ad altri che vogliono subentrare, sicché a volte ho dovuto mettere su la stella da sceriffo, pardon da coordinatore del Campo per fare ordine.

Chi non sono mai riuscito a schiodare dai fornelli è Guido di Cantarana. Ma in questo caso c’è un carisma tale che a tavola c’è silenzio appena interrotto da mugolii gaudiosi. Di fronte al carisma anche io taccio…e gusto.

Scopriamo specialmente la festa. Ho vissuto e vivo i Campi soprattutto come esercizio spirituali un po’ speciali, diciamo esercizi spirituali intercofessionali. Ad esempio Christina Wili ci ha guidati nei cinque esercizi tibetani, Cinzia Vaisitti negli esercizi di respiro cinese, Giampiero Zendali, Ida di Bari, Achille Croce nello Yoga e cosi tanti altri di cui ora non ricordo i nomi. A tutte queste guide sono grato.

Quando non abbiamo chi guida mi pare bello affidarci al silenzio che è la pratica quacchera, al nobile silenzio dice la tradizione buddista, e alle preghiera di Lanza del Vasto che sono una eredità preziosa e profetica.

Il gioiello di Shantidas, insieme preghiera e acutissimo testo esegetico, è la “Preghiera cristiana per Gandhi” . Spero che questi testi siano sempre più conosciuti e usati.

Il silenzio, l’esercizio, la preghiera sono lo spazio interiore della festa. Sono l’affermazione forte e corale che la nostra vita ha senso e questo senso verticale fonda la fraternità che poi ha espressione esteriore nella musica, nel canto e soprattutto nella danza.

Non posso concepire un Campo MIR-MN senza musica e danza. Non sempre si ha la grazia inebriante e avvolgente della musica dal vivo come quella suonata da Silvio Peron e Lele Viola. Se non l’abbiamo dal vivo sia almeno registrata e non manchi mai chi sa guidare la danza. Manchi il pane piuttosto della danza.

Constato con gioia che il canto, la musica e la danza hanno avuto in questi 10 anni un ruolo crescente già a partire dai responsabili del gruppo di coordinatori. Dopo di me questo servizio è stato assunto da Grazia e Pier Enzo Bianco di Pertusio più di me attenti e capaci. Poi è subentrato Paolo Macina di Torino che è membro di un gruppo di danza popolare. A sua volta Paolo, dopo avere determinato una significativa crescita dell’attività, ha passato questo incarico a Laura Gentili Greco e Claudio Greco che sono i fondatori del gruppo di danza popolare di Rivalta. Dunque andiamo sul sicuro, anche nel 2000 e oltre sapremo far festa.

Viva i Campi, università estiva e festosa della nonviolenza.

LA NONVIOLENZA NELLA LETTERATURA / 3
Virgilio, poeta della pace

Chi ha studiato la letteratura latina ricorda nitidamente l’immagine di Virgilio (70-19 a.C.), poeta mite e pio, il cui canto rasserena l’animo dei lettori.

Come, quando sui campi arsi la pia

Luna imminente il gelo estivo infonde,

mormora al bianco lume il rio tra via

riscintillando tra le brevi sponde;

e il secreto usignolo entro le fronde

empie il vasto seren di melodia,

ascolta il viatore ed a le bionde

chiome che amò ripensa, e il tempo oblia;

…………..

tale il tuo verso a me, divin poeta.

(G. Carducci)

Virgilio visse tra l’età di Cesare, travagliata dalle guerre civili, e quelle di Augusto, unico padrone dell’Impero dopo aver sconfitto il rivale Antonio ad Azio (31 a.C.). l’imperatore garantì a Roma un lungo periodo di pace interna e di rigoglioso sviluppo economico e culturale: la pace di Augusto fu salutata con universale soddisfazione dai maggiori letterati del tempo (Virgilio, Orazio e Tibullo). Era pace interna all’impero romano; viceversa, continuarono le campagne militari contro le tribù germaniche e in Oriente per il consolidamento e l’ampliamento dei confini.

Bucoliche e Georgiche

Quando ancora infuriavano le guerre civili, Virgilio dopo la battaglia di Filippi (42 a.C.) fu privato del podere paterno, confiscato dai Triumviri per farne dono ai loro veterani. Questo evento segnò profondamente l’animo sensibile del poeta, che manifestò il proprio dolore nelle Bucoliche, dieci canti ispirati alla vita pacifica dei pastori, spesso sconvolta dalla guerra.

Ma quando, dopo si lungo tempo, potrò rivedere i luoghi della mia patria? Quando il tetto erboso erboso della mia povera casa?

Quando potrò ammirare le spighe dei miei campi? Un empio soldato avrà questa terra così coltivata; un barbaro queste messi. Ecco dove ci ha spinto, miseri noi, la discordia: per loro abbiam seminato!

(I, 67-72 da voci e azioni di nonviolenza nell’antichità classica, a cura di R. Campanella, LEF, 1996)

Composte tra il 42 e il 39 a.C. le Bucoliche apparvero come la rivelazione di un nuovo poeta ed attrassero su Virgilio l’amicizia e l’ammirazione di Mecenate e dello stesso imperatore. Il poeta, su suggerimento di Mecenate, si dedicò tra il 37 e il 30 alla composizione delle Georgiche, un poema didascalico in cui si descrive e si esalta ogni aspetto dell’agricoltura e dell’allevamento del bestiame.

Come nelle Bucoliche, l’idea dominante è ancora quella della pace e del lavoro nella campagna, non perché questa sia sede di una vita idillica, ma perché sia coltivata con tenace fatica. Dal poema di oltre duemila esametri in quattro libri, presentiamo la miniatura del “vecchio di Còrico” (IV libro).

Rammento che presso le torri Ebalie di Taranto, dove il Galeso, acqua cupa, irrora i biondi coltivi, vidi un vecchio coricio, che pochi iugeri aveva di terra abbandonata, e questa non buona al lavoro dei bovi né a pastura di greggi né adatta alla vite. Eppure egli piantando gli ortaggi tra i rovi, e intorno bianchi gigli e verbene e papaveri, in cuore si sentiva come un sovrano, e a notte tornando a casa copriva la mensa di cibi non compri.

A primavera coglieva per primo le rose, e ad autunno la frutta e, mentre ancora il triste inverno spaccava le pietre e col ghiaccio tratteneva le acque correnti, egli già tagliava la tenera chioma al giacinto, ridendo che gli Zèfiri e il buon tempo tardassero a venire.

(trad. Giulio Caprin)

L’Eneide

Il poema epico in dodici libri, al quale Virgilio lavorò con ardore per una decina d’anni dal 29 fin quasi al momento della morte, si propone di celebrare le mitiche origini della civiltà romana, collegata all’arrivo nel Lazio di Enea, profugo di Troia.

Il poeta rintraccia un disegno provvidenziale che ha guidato Enea durante la navigazione verso l’Italia e nella guerra contro Turno, re dei Rutuli, per la conquista del Lazio.

Lo scopo per cui, nella notte dei secoli, Enea e i suoi andarono peregrinando e combattendo, è la grandezza di Roma, è l’impero, la pace imposta alle genti da Augusto: “Tu, romano, ricordati di governare i popoli con ferme leggi (queste saranno le tue arti), imporre il rispetto della pace, perdonare coloro che si assoggettano e debellare i superbi” (Eneide, IV, 851-853).

Questa “missione imperiale” di Roma è stata sfruttata dal Fascismo ed ha per noi un suono sinistro. Tuttavia è innegabile la presenza del poeta latino di una sincera aspirazione alla pace: davanti alle imprese di guerra e di conquista, egli non si esalta, ma si commuove per le tante morti precoci che la guerra comporta (basti ricordare quelle di Lauso, Pallante, Eurialo e Niso).

Il poema è pieno di compianto per le rovine che la violenza semina fra gli uomini. Anche Didone, la regine di Cartagine che accoglie Enea e se ne innamora, è vittima della violenza. Abbandonata da Enea, che per volere di un Destino superiore non può trattenersi a Cartagine, si dà volontariamente la morte (libro IV). Enea, sceso agli inferi, la incontra, la incontra e le chiede perdono; ma la donna non guarda, non risponde, pare una rupe (VI, 456-476).

DECALOGO MEDITERRANEO / 3
Scappare da un mondo sbagliato: l’importanza della fuga

di Christoph Baker

“I’ve been sentenced to twenty years of boredom

for trying to change the system from within”

– Leonard Cohen

Mi ricordo da bambino, ero un solitario. E a scuola anche un po’ secchione. Allora ogni tanto i compagni ce l’avevano con me. Mi cercavano. Avrebbero voluto che rispondessi ai loro calci e pugni. Ma già in quei tempi odiavo il concetto di forza fisica ed ero comunque troppo fifone, allora mi mettevo a correre. Scappavo via. Correvo e correvo. In mezzo alla foresta e giù per i campi, poi lunga la strada sterrata che riportava a casa. E i giorni in cui avevo paura che mi aspettassero proprio davanti casa, correvo oltre. Oltre la ferrovia, di nascosto attraverso una fattoria, fino al lago, fino alla spiaggia di ghiaia. Lontano da tutti, senza fiato, ma salvo. Quante volte così ho contemplato lo specchio d’acqua che è quel lago, i piccoli gabbiani che svolazzavano nel cielo, le montagne innevate come sfondo a questo quadro di bellezza mozzafiato. Quando pensavo che era passato un tempo ragionevolmente lungo, mi rimettevo in cammino verso casa, dove mia madre mi aspettava, lo sguardo severo per il ritardo…

Oggi, passati i quaranta, so solo che non ho mai menato le mani con nessuno. E ho dei bei ricordi di quando, adolescente, questo mio sapere scappare via mi aveva portato ad essere un discreto corridore di mezzofondo, in giro per gli stadi della Svizzera. Ovviamente, all’epoca degli 800 e dei 1500 metri, non sognavo minimamente che un giorno avrei dedicato le mie misere energie mentali a “teorizzare” la lentezza e l’ozio!!! Tuttavia, una lezione è rimasta dentro di me: molte volte, la fuga è un modo molto concreto di risolvere una situazione.

Però, quant’è lontana questa idea dai canoni che ci inculcano in tanti anni di istruzione. Infatti, siamo spinti lungo il nostro “percorso formativo” ad affrontare ogni interrogativo con l’esigenza di risolverlo, di vincerlo, con quella mattanza che sono le spiegazioni. Per anni ed anni, seduti sui banchi di scuola, abbiamo sentito maestre e maestri ricordarci quanto è importante costruire dentro di noi un sistema di certezze, di definizioni, che avrebbero la capacità di risolvere le nostre più buie crisi esistenziali. Anche se all’età in cui comincia questa offensiva di riduzionismo, siamo ben poco interessati a chiudere le porte e le finestre della vita. Anzi, probabilmente se facessero un sondaggio, si vedrebbe che la maggioranza dei ragazzi non sente il bisogno di capire sempre tutto.

Ma ricordate la vostra infanzia e adolescenza? C’era la necessità di accumulare tutte quelle nozioni, tutte quelle informazioni, per vivere i nostri passaggi epocali? La prima volta che scopriamo una strada più in là del quartiere, più avanti dell’ultimo fienile? Il primo bacio impacciato dietro i muri della scuola o nell’oscurità di una festa a casa di amici? O la prima ferita nel cuore perché papà e mamma non sono più infallibili? All’improvviso, il mondo spalanca le sue porte sulla complessità, il mistero, l’incomprensibile, e a scuola ci dicono che è giunto il momento di imparare regole grammatiche, leggi fisiche, equazioni matematiche, teorie scientifiche, dogmi intellettuali. (Mi ricordo, una sera, la voragine nell’anima che mi aveva procurato il concerto di violoncello in la minore di Schumann, e dovevo ancora fare i miei compiti di trigonometria…).

Chissà perché l’uomo ha sempre cercato di allontanare i propri dubbi? Perché dai primi sguardi interrogativi, le nostre madri sentono l’obbligo di confortarci con delle stupidaggini? Un meccanismo atavico si mette in moto ogni volta che sorge un quesito inquietante, e la pressione sociale ci spinge ad accettare spiegazioni di una inadeguatezza ovvia. E’ duro ribellarsi a questo sentimento diffuso di conformismo. Chi te lo fa fare a grattare sotto la parvenza di verità che è appena calata sulle tue perplessità, visto che nessun altro lo fa?

Eppure, a volte un sentimento di inquietudine si fa strada nell’intimo, sorge il dubbio che qualcuno ci stia rubando pezzi di vita. Che dietro a tanta sicurezza, tante certezze, tanta precisione, ci sia in fondo una grande paura di vivere la vita. Paura di andare incontro all’incognito con gli occhi aperti, di aprire le braccia all’indomabile, di essere sconvolti. E ci ritroviamo un po’ feriti, un po’ sbandati, a volte un po’ arrabbiati di fronte allo sforzo permanente e anonimo di riportarci dentro alla “normalità”. In fondo, la casa del positivismo è piena di conformisti che odiano qualsiasi segno di “disordine”.

Oggi, l’occidente si regge su una serie di colonne portanti che si rifanno tutte alla dialettica razionalista. Ogni pensiero deve essere catturato, ingabbiato, incanalato in un sistema di definizioni e di spiegazioni che possa arginare il proprio potenziale di sovversione. Dalla più tenera età, noi “poveri cristiani” siamo sottoposti ad un lavaggio del cervello, in nome della comprensione della vita, che è intento a seppellire ogni idea fuorviante, ogni intuizione sconvolgente, qualsiasi piccolo momento di sorpresa che non rientri nel quadro soporifero dei paradigmi e delle teorie. Secoli di cosiddetta ricerca filosofica non hanno portato a confortare gli uomini sul proprio destino terrestre. Al contrario, hanno creato un sistema di catene mentali che obbliga ciascuno a “capire/spiegare” gli eventi della propria vita, oppure di scartarli per mancanza di convenzioni…

Si crea così una dicotomia fra il vissuto e il comunicabile. Tutti noi abbiamo avuto l’esperienza drammatica di non trovare le parole per dire agli altri le emozioni profonde, i sentimenti dirompenti. Quante volte ci è cascato il mondo, per una inadeguatezza fra il sentire e il dire. Eppure, si va avanti insistendo su un unico modo di pensare. Si inculca dalla più tenera età che la mente deve dominare il resto, e che per dominarlo ha bisogno di una serie di regole ferree che devono portare alla vittoria della ragione. “Avere ragione” è il grande progetto della civiltà occidentale. Bisogna vincere anche sul campo della filosofia. Non basta avere già vinto sul piano della brutalità, dell’arroganza, della sopraffazione. L’obiettivo finale del razionalismo è di fare tabula rasa di qualsiasi cosa che sfugga alla certezza mentale.

Ma gli uomini che hanno dedicato tutto il tempo della propria vita a fissare regole del pensiero, a definire, etichettare, programmare e controllare, ma questi uomini e donne hanno mai amato qualcuno? Hanno mai provato nel fondo delle loro trippe il richiamo ancestrale della passione? Sono mai stati commossi da una inutile battaglia di sopravvivenza? E sanno che esiste roba dell’altro mondo?

Poi, bisogna fare i conti con l’inerzia. Quella sottile violenza che ci colpisce ogni giorno, che ci dice che anche il più grande schifo, la rivolta più santa, il vomito ancestrale di fronte all’ingiustizia permanente della condizione umana, tutto questo alla fine si digerisce come i fagioli, come la pubblicità in televisione. Questa violenza che ci ribadisce che la routine è sempre stata l’unica certezza della filosofia. Basta chiedere conferma alla politica, alla chiesa, alla mafia, al condominio… E aldilà della vigliaccheria di dire sempre che è colpa “degli altri”, avere l’onestà di riconoscere che nell’intimo profondo, non facciamo altro che ripetere l’andazzo dominante. Perché lo sappiamo, è difficilissimo immaginare di divorziare dal modo di vivere dei prossimi vicini, dai luoghi comuni, dallo status quo ovattato della nostra quiete quotidiana.

Solo che questa resa di fronte al pensiero unico permette a nuove forme di arroganza di prendere il sopravvento. La spinta razionale oggi presenta il suo vero volto nella manipolazione della vita. Gli apprendisti stregoni sono diventati adulti: hanno adesso anche il potere dalla parte loro, si sentono molto più invulnerabile che per il passato. I loro laboratori, dove si lavora in segreto da decenni, sono i nuovi tempi del dominio. Dalle loro provette vengono fuori cibi artificiali, freddi concepimenti di essere umani in tubi di vetro, manipolazione di molecole e geni. Uomini in tute bianche – il bianco dà quel tocco di santità in più – giocano ad essere dio e parlano del giorno in cui cloneranno il primo uomo. Se non l’hanno già fatto.

Allora, bisogna ammettere che siamo entrati in pieno in una nuova era, dove i guasti già causati dai modelli di dominio politico (la colonizzazione), economico (il capitalismo e la distruzione dell’ambiente), culturale (il consumismo) e filosofici (il razionalismo), verranno ridimensionati da quelli causati dalla manipolazione genetica. E’ troppo facile giocare sulle corde dell’ansia, della fobia e dei sentimenti, e sbandierare l’ipotetica soluzione tecno-medica ai nostri mali più devastanti come giustificazione a tanta bella ricerca. Non è convincente: sarebbe come se l’uomo tutto di un tratto avesse perduto i suoi istinti di dominio e di controllo degli altri, fosse diventato all’improvviso lodevolmente altruista e samaritano. Non ci sono segnali in questo senso. Sorge piuttosto l’impressione che di fronte ad un conformismo generalizzato e sonnifero, una indifferenza e apatia apparenti, si stia approfittando per spingere l’acceleratore in una unica direzione, e confrontare l’umanità un bel giorno con il fait accompli. La scienza e la tecnologia saranno diventati (lo sono già quasi oggi) fede e legge. Si attende solo il momento in cui si spegnerà l’ultimo grido di protesta, il momento dell’adesione totale e unanime, e il GRANDE PROGETTO della razionalizzazione di tutto sarà il futuro dell’umanità intera… Senza più misteri, senza più segreti, senza più sorprese.

Insomma, ci troviamo al giorno di oggi di fronte ad una svolta epocale. O si continua a fare finta di niente, oppure ci guardiamo negli occhi e finché siamo in tempo, scappiamo!

So di appellarmi ad un pensiero “debole” quando invoco la fuga come metodo filosofico. So bene che l’invito al passo laterale o all’indietreggiare cozza con i nostri riferimenti tradizionali di linearità e di progresso storico. Lo stesso concetto di fuga è stato colonizzato, reso negativo e peggiorativo, fatto equivalere all’abbandono e alla resa. Il fuggiasco diventa un vigliacco, un niente di buono, una persona su cui non si può contare. Ciò nonostante, vorrei almeno che ognuno di noi avesse il diritto di tentare la fuga, di volgere lo sguardo da un’altra parte, di scoprire cosa c’è laddove ci dicono da secoli che non bisogna andare. L’importanza della fuga potrebbe essere proprio in questa proposta di sovversione mentale. Chissà che non scopriamo con essa un modo di spogliarci di troppe pesanti verità, di troppe schiaccianti regole? La fuga come pulizia interna, come ritorno alla serenità.

Badate che la fuga è una cosa nobile. A questo proposito, vorrei chiamare in causa la storia e un mio omonimo (anche se francese), le Capitaine Boulanger, che nel periodo del Directoire, nel momento cruciale di una rivolta popolare, mentre la folla lo aspettava in piazza per partire all’attacco dei potenti, si diede alla fuga con l’amante, consapevole che tutto il sangue che si sarebbe sparso quel giorno per quella causa non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di una sola notte con quella donna! Uomo perdente, dissero all’epoca. Ma tanto di cappello.

E qui vorrei fare un piccolo invito ai lettori: non sarebbe giunto il momento di ascoltare Bach, Purcell o Boccherini? Forse una Toccata e Fuga in Re Minore…

E quante altre storie sconosciute di uomini e donne che nel buio del combattimento hanno deciso che era meglio lasciare perdere piuttosto che partecipare volontariamente al massacro continuo che sono le guerre? E che dire di quelli che hanno aiutato uomini in fuga? La storia minore è piena di eroi della sconfitta, di gente che non ce la faceva più a stare dalla parte dei potenti, di chi trionfava, magari con le trombe sparate a mille. A volte anche rigirarsi nel letto il giorno della parata militare e tapparsi le orecchie, a volte anche questo è un modo di fuggire.

Ma l’importanza della fuga sta anche nel suo potere liberatorio, nel suo invito a guardare ad un orizzonte nuovo. Nella sua essenza, la fuga è speranza. Speranza di un mondo diverso, speranza di un incontro inaspettato, di uno sconvolgimento di abitudini. Nella mente del fuggiasco, c’è sempre una frontiera da oltrepassare, e quindi un viaggio.

La fuga è spesso il migliore modo di risolvere una situazione passeggera di attrito, di rancore, di incomprensione. La fuga implica il coraggio della diserzione, del distacco, di salire sul primo treno che lascia la stazione per andare lontano. Il sentimento liberatorio della fuga si sente allora profondamente quando dal finestrino del treno o dell’autobus, ci si accorge che il mondo è sempre lì, che ti aspetta, che va tutto bene, ma che per la prima volta hai veramente aperto gli occhi, hai veramente visto tutta questa ricchezza. Come avresti mai fatto a vederla se fossi rimasto nella tua certezza routiniera, nel tuo train-train quotidiano? La fuga ci costringe ad abbandonare l’abbrutimento della vita domestica, e ad imparare a stare sul chi vive.

Ovviamente, l’invito non è quello di sfuggire alle proprie responsabilità, non è un affidavit per qualunquismo o menefreghismo. Al contrario, è piuttosto la realtà dominante ad essere qualunque e indifferente nei confronti della vita. Il progetto di razionalizzazione ha portato l’uomo moderno ad infilarsi sempre più nel vicolo cieco del conformismo e dell’abitudine. Lungi dall’arricchirci, il processo mentale perverso del positivismo e del riduzionismo altro non ha fatto che negare le nostre intuizioni, le nostre emozioni, i nostri gridi dell’anima, e trasformare la nostra vita in una sequenza di programmi organizzati, controllati e scontati. Nel nome della certezza, tutto viene appiattito, omologato, prevedibile e previsto.

E’ di fronte a questa angoscia esistenziale -l’angoscia di sentire che non vi è più spontaneità ne creatività nella propria vita- che il richiamo della fuga si presenta come una àncora di salvezza, come una luce in fondo al tunnel. Avere capito che lo scenario che ci viene proposto per la nostra vita somiglia molto ad un carcere virtuale, dove vengono ingabbiati i nostri impulsi primordiali, ci pone davanti ad una scelta: insistere ad inseguire i dogma e le teorie cosiddette vincenti della modernità, o cominciare a limare le sbarre e a scavare le gallerie che ci permettano di evadere, di tornare finalmente liberi.

Perché là fuori, c’è un firmamento che nessuno ci aveva mai raccontato. Ci sono venti arrabbiati che ti fanno volare verso l’abisso, mari in tempesta che ti riempiono i polmoni di acqua e di sale, castelli appesi al cielo come vascelli fantasma. Ci sono anche distese di prati colmi di fiori, lagune addormentate con i fenicotteri rosa, foreste rinfrescanti piene di sapori antichi. E sempre il richiamo del largo, l’invito perenne ad inoltrarsi più in là. Il viaggiatore che ha provato la fuga conosce l’invito al non ritorno…

Detto questo, va ricordato che la fuga ha delle conseguenze serie sulla propria vita. Non è un esercizio intellettuale che quando finisce, tutto torna a posto. Avere imparato a fuggire cambia profondamente il proprio modo di rapportarsi alla vita. La fuga costringe all’apprendistato della solitudine. Il mondo intorno a sé perde i suoi connotati rassicuranti, si dissolvono le convenzioni, si disintegrano le teorie, crollano i modelli. La fuga spazza via le gabbie comode della mente, distrugge i facili luoghi comuni, pianta in seno al pensiero il seme del dubbio. Dopo la fuga, niente è più come prima. E ci vuole forza e perseveranza per andare incontro a queste conseguenze.

Insomma, l’invito alla fuga va collocato nell’armadio degli strumenti vitali, che quando serve si tirano fuori per affrontare situazioni che le nostre certezze non sono capaci di risolvere. La fuga non è un modo di vivere, ma di tornare a vivere. Quando il peso di tante sconfitte spezzano le ali alle nostre più intime speranze, quando la legge della normalità schiaccia le piccole voglie di divagare, quando il grigiore dello status quo allontana l’intuizione di una vita più piena, la fuga è un modo tranquillo – solitario certo, ma nonviolento – di spezzare le catene, e una volta spezzate, di riscoprire quanto sono piene le nostre mani, i nostri occhi, il nostro cuore, di cose straordinarie…

E ripartire da lì.

DIBATTITO APERTO: GLI OBIETTORI E LA LEVA
Esercito professionale? Una questione di costi!

Nel corso di questo ultimo decennio abbiamo visto alternarsi Governi pentapartiti, tecnici, di centrodestra e di centrosinistra ma, i Ministri della Difesa, non hanno mai cambiato la politica voluta dai militari, sposando in modo acritico i progetti di professionalizzazione delle FFAA e, in sostanza, l’idea di Nuovo Modello di Difesa.

Il Ministro Scognamiglio, non è da meno, dimostrando, con una serie di dichiarazioni, di essere in linea con i militari.

Il Ministro ha reso pubblico il “suo” pensiero ribadendo, come i suoi predecessori, l’importanza di proseguire e accelerare l’opera di professionalizzazione delle FFAA; unica difficoltà, alla sua realizzazione, la mancanza di fondi: i volontari (sarebbe meglio dire mercenari; noi, del volontariato, abbiamo un’altra idea) costano di più dei soldati di leva, sia per lo stipendio, sia per l’addestramento e l’armamento sofisticato che richiedono.

Secondo Scognamiglio, l’Italia stanzia troppo poco per la difesa; meno dell’1% del PIL (20.000 miliardi), a cui, però, vanno aggiunti altri 10.000 miliardi che entrano nel bilancio Difesa per la funzione “Sicurezza” (Ustica, Cermis, Casalecchio di Reno, Gladio etc.).

Poco, secondo il Ministro, se confrontato con il 2% del PIL speso da un paese “pacifico” come la Danimarca.

Per Scognamiglio è necessario rivedere la quota di PIL destinata alla difesa poiché l’Italia ha bisogno di FFAA snelle, addestrate e di rapida mobilitazione, per interventi come quelli in Bosnia, Albania (Somalia, aggiungiamo noi, il Ministro se ne è stranamente scordato).

D’accordo con Scognamiglio anche il Senatore Vincenza Manca, Forza Italia e l’Onorevole Piero Ruzzante, D.S. il quale dichiara: “La professionalizzazione delle forze armate è un orizzonte con il quale l’Italia deve iniziare a misurarsi con il resto dell’Europa. Abbiamo presentato una proposta di legge che, oltre ai militari volontari, prevede anche l’istituzione di un servizio civile volontario per non disperdere uno straordinario patrimonio per gli enti locali e l’associazionismo”.

I militari battono cassa ed il Ministro della Difesa di turno li sostiene proponendo, in modo propagandistico, di abolire una tassa in natura, la leva, per sostituirla con tasse vere e proprie.

A fronte di queste dichiarazioni non possiamo far altro che ribadire ciò che da tempo andiamo dicendo:

la popolazione italiana è già gravata fortemente da tasse e imposte e, nel caso vi fossero entrate disponibili, queste non dovrebbero certo essere dedicate a nuovi armamenti, bensì a pensioni, sanità, lavoro, istruzione, difesa ambientale, protezione civile;

il problema non è di schierarsi pro o contro la leva, bensì dire con chiarezza quale deve essere il ruolo delle FFAA: se i militari devono difendere il territorio nazionale o gli interessi di qualche potentato economico.

Noi non siamo e non vogliamo apparire i difensori anacronistici di un sistema di reclutamento obsoleto ed antilibertario ma, al contempo, non possiamo permettere che, con la scusa di liberare i giovani e le loro famiglie dal peso della naja, si avalli una ristrutturazione dell’apparato militare italiano dai chiari connotati guerrafondai e che, inoltre, graverebbe ulteriormente sulle spalle dei contribuenti italiani.

Il Nuovo Modello di Difesa, voluto dalla NATO e supinamente accettato dai governi italiani degli anni 90, non è l’unica alternativa alla leva; chiediamo con forza che il Parlamento inizi un dibattito pubblico sul sistema difensivo da adottare, cosa che, finora, non è ancora stata fatta, sebbene la struttura della nostre FFAA sia stata già modificata profondamente.
Cosa cambia con la nuova visita di leva

Presso la caserma Martini di Verona è stato inaugurato un programma sperimentale per la visita di leva dei due giorni, durante i quali al giovane, obbligato al pernottamento in caserma, viene offerta la possibilità di provare i mezzi corazzati, le armi in dotazione, esercitarsi al simulatore.

Una nuova tappa, subdola perché obbligatoria, verso la propaganda dell’esercito professionale.

Il nuovo metodo, introdotto utilizzando i consigli d’incaricati della società Idea Plus, si aspetta che sia ritenuto valido anche a livello centrale ed attuato in tutta Italia.

Oltre a ciò, la visita di leva è stata profondamente modificata con l’entrata in vigore del Decreto 504: il rinvio deve essere effettuato prima dell’arruolamento e la visita verrà effettuata al termine del periodo di rinvio.

Ne consegue che la visita si effettuerà ad una età più avanzata e matura, aumentando così la probabilità che il giovane, avendo sviluppato nel frattempo le proprie opinioni antimilitariste, si rifiuti di sottoporsi anche alla visita, oltre che al servizio di leva.

In caso di rifiuto della visita di leva, l’obiettore può essere prelevato dai carabinieri e condotto in caserma ma, non potendo essere forzato alla visita, viene arruolato d’ufficio e denunciato per renitenza alla leva. Per questo reato, di competenza del tribunale militare, sono previste pene che variano dal minimo di un anno, ad un massimo di due anni di carcere; con le attenuanti del caso, la condanna viene ridotta ed è possibile ottenere la condizionale.

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In un articolo di Bojan Aleksov emergono alcune riflessioni sulla guerra nella ex Jugoslavia: in quei paesi, tradizionalmente guerrieri e militaristi, dove l’obiezione di coscienza contro la coscrizione è sconosciuta e la diserzione è la più grave delle colpe, hanno iniziato ad emergere i contorni di un’altra umanità e coscienza; alcuni individui hanno rifiutato di imbracciare le armi e di andare a combattere, seguendo il messaggio di Anatole France “è giusto disobbedire ad ordini criminali”.

Altri li hanno sostenuti, rischiando le stesse accuse e condanne; in alcune zone, intere popolazioni – Tresnjevac per esempio – sono insorte a difesa dei renitenti alla leva.

La resistenza e la mobilitazione contro la guerra, basata su proteste quotidiane, dimostrazioni e petizioni, ha favorito la nascita dei primi gruppi pacifisti in Serbia, prime fra tutti le “Donne in nero” che, dapprima spontaneamente, poi in maniera più articolata, hanno iniziato ad aiutare i disertori ed a promuovere l’obiezione di coscienza al servizio militare.

La comunità internazionale, i mass-media e i governi, invece, sono rimasti insensibili ai problemi di disertori, obiettori e pacifisti, facendo passare sotto silenzio molte azioni di solidarietà ed aiutando, così, chi preferisce dimenticare queste esperienze.

Partendo da queste considerazioni, ritengo sia opportuno avviare una riflessione sulle risposte al conflitto, elaborate e realizzate dai gruppi pacifisti, italiani ed europei, centrate sostanzialmente in due ambiti: l’aiuto umanitario e l’interposizione nonviolenta.

L’aiuto umanitario ha il pregio di ridurre le sofferenze dei civili colpiti dal conflitto ma, proprio perché lenisce in modo acritico le conseguenze della guerra, rischia di diventare funzionale alla prosecuzione della guerra stessa.

L’interposizione nonviolenta, allo stato attuale delle cose, ha sicuramente significati politici:

testimoniare una dissociazione dalla guerra;

indicare un modo alternativo per risolvere i conflitti e, quindi, pretendere una riforma del modello difensivo e delle modalità di ingerenza umanitaria e di pace.

Potremmo quasi dire che l’interposizione nonviolenta (fino a quando sarà possibile realizzarla con le modalità, durata e dimensioni attuali) abbia più uno scopo interno ai paesi che la promuovono che non una ricaduta effettiva sul conflitto a cui ci si vorrebbe opporre.

L’opposizione alla guerra, nelle zone di conflitto, non può crescere solo grazie ad interventi esterni, quando le popolazioni coinvolte non hanno referenti locali capaci di sviluppare una mobilitazione sul territorio; le iniziative di interposizione rischiano di non essere capite o di non avere il necessario supporto dalle popolazioni se, tra esse, non si sviluppa un adeguato movimento locale di opposizione alla guerra.

La proposta, pertanto, è quella di affiancare, a questi due tipi di intervento, progetti miranti a:

promuovere la nascita di movimenti di obiettori – disertori – oppositori alla guerra, nei paesi in conflitto;

creare una rete internazionale di sostegno a disertori e obiettori;

sostenere i gruppi antimilitaristi e nonviolenti locali.
recensioni

“Profondo Nord – Paolo Bergamaschi & i suoi suonatori”, testi e musiche di Paolo Bergamaschi, CD Audio, PB99, L. 25.000.

Il pezzo che più mi ha dato emozioni è Il viaggiatore leggero, ispirato ad Alex Langer, di cui Bergamaschi è stato amico e stretto collaboratore al Parlamento Europeo. Una strofa della canzone, in particolare, riemerge da quella parte della mente e dell’animo dove restano impresse le melodie.

“C’è un posto per te conosciuto e reale/ dove vivere è meno pesante e c’è ancora il tempo di amare/ con il flusso della vita che scorre/ più lento, più profondo e più dolce/ che mi chiedo ancora il perché”.

Tutti i 10 brani del CD parlano in realtà di un viaggio. Ce lo conferma lo stesso autore: “C’è chi per descrivere la vita ricorre alla metafora del viaggio. C’è chi invece, come me, ha fatto del suo viaggiare, nel bene e nel male, un modo di vivere. I brani raccolti in questo disco equivalgono a cartoline illustrate inviate dagli angoli più disparati che abitualmente frequento, sono come appunti di un viaggio interminabile che non trova ancora sosta”.

Le canzoni che ci vengono proposte sono belle davvero, nella musica e nei testi. Mi spiace solo che Paolo sia un amico, perchè potrebbero sembrare dei complimenti fatti per “solidarietà di gruppo” (il Bergamaschi è una vecchia conoscenza del Movimento Nonviolento, il famoso “pistillo” di Viadana); il suo talento di cantautore è invece reale, ed ho apprezzato molto anche la sua tenacia nel realizzare in proprio il CD: incisione, produzione, distribuzione.

Solitamente le canzoni politiche o militanti sono un po’ noiose: puntano tutto sul testo necessariamente poco poetico e considerano la musica un accessorio secondario da sottofondo. Al contrario, brani come “Superfenix”, “Appuntamento con il futuro”, e lo stesso “Profondo Nord” che dà il titolo all’opera, sono delle godibilissime ballate che si lasciano subito canticchiare e, se uno ha voglia, fanno anche pensare. “Questo disco è la prova che è possibile affrontare temi sociali, ruvidi e spigolosi per natura, calandoli in un contesto musicale che ne facilita, valorizza ed esalta la comprensione e l’analisi propositiva” è il commento di Daniel Cohn-Benedit che ha voluto firmare la presentazione del cd. “Chi volesse interrompere per qualche minuto il ritmo annoiato della giornata non ha che da accendere il proprio lettore CD. Troverà buona musica da ascoltare con canzoni da leggere…”.

Il risultato complessivo è ottimo e il merito è anche dei bravissimi suonatori di pianoforte, fisarmonica, chitarre, violini, mandolini e percussioni. Un buon prodotto, che non sfonderà solo perchè out rispetto ai tradizionali canali del mercato discografico. Così il buon Paolo, senza sponsor che contano -se non i suoi ideali, continuerà a fare il mestiere di veterinario e il collaboratore al gruppo verde del PE. E continuerà a viaggiare, come quel suo amico “dall’incedere leggero”, raccogliendo idee ed emozioni per altre cartoline/canzoni.

M.V.

Il CD “Profondo Nord” può essere richiesto, in contrassegno, alla Redazione di Azione Nonviolenta.

Inventare futuri di pace, Elise Boulding, Edizioni Gruppo Abele, Collana “Alternative”, Torino 1999, pag. 112, L. 14.000

Si può modificare il presente, risolvere le situazioni conflittuali, imparando semplicemente ad immaginare un futuro positivo e pacifico?Nel 1953 Fred Polak aveva già teorizzato che la capacità umana di creare immagini mentali di un totalmente altro è la dinamica chiave della storia. Era il primo pensatore a richiamare l’attenzione sulle potenzialità nascoste e soprattutto non sfruttate della nostra immaginazione per riuscire ad immaginare un futuro completamente diverso.Oggi, un filo sottile lega la riflessione di Polak agli studi della Boulding.Una tesi forte fa infatti da linea guida ai due saggi presentati nel volume: l’immaginazione umana può essere pensata come l’abilità di risolvere i problemi; la gente deve essere incoraggiata a immaginare, bisogna insegnarle a esercitare una capacità che non è solita utilizzare in modo disciplinato; gli ostacoli stanno in parte nelle nostre istituzioni sociali, comprese le scuole.In questa direzione, è possibile lavorare alla costruzione di un mondo senza armi soltanto se si parte dalla costituzione di una solida cultura della pace, che già esiste, ma che spesso non trova gli spazi giusti per potersi affermare nel tessuto sociale.Ma attenzione: non si deve cadere nell’errore di considerare cultura della pace la semplice assenza di guerre. Occorre invece attivarsi per promuovere un processo continuato di soluzione nonviolenta dei problemi, così come la creazione di istituzioni che incontrino le necessità di tutti i membri della società civile.Le tesi della Bouilding rappresentano una novità nel panorama di studi nell’ambito della cultura della pace, una sfida appassionante per tutti coloro che si occupano di comunicazione, educazione e tematiche sociali in genere.Elise Boulding è un professoressa emerita di Sociologia al Darthmouth College di Hanover (Stati Uniti). Attiva nella comunità di ricerca della pace fin dagli anni Cinquanta, ha scritto molto sulla funzione delle donne e nell’ambito degli studi sul futuro. Tra gli altri ricordiamo The Underside of History: a View of Women through Time (1992).
ci hanno scritto
Caccia alle streghe: asportazione di utero e ovaie.

La scuola di specializzazione, il Master Europeo e il Centro di Formazione in Diritti Umani dell’Università di Padova hanno organizzato recentemente un dibattito pubblico, con larghissima partecipazione soprattutto di donne, per denunciare la reiterata violazione al mantenimento della propria integrità psicofisica che si attua in Italia e soprattutto nel Veneto con l’abuso degli interventi chirurgici di asportazione dell’utero (isterectomie) e dell’apparato ovarico.I dati di base di questa denuncia sono sconvolgenti e sono il frutto di una lunga ricerca di Mariarosa Dalla Costa, docente di Sociologia all’Università di Padova, pubblicata col titolo “Isterectomia” da Franco Angeli a fine 1998 con la collaborazione, tra le altre, della professoressa Daria Minucci ginecologa e docente all’Università di Padova.Da questa ricerca risulta che in Italia dal 1994 al 1997 le isterectomie sono passate da 38.000 a 68.000 l’anno (cioè quasi raddoppiate) toccando quasi una donna su 5 entro i 64 anni; nel Veneto dal 1993 al 1996 le asportazioni chirurgiche dell’utero sono passate da 5.909 (poco meno di un sesto del totale in Italia) a 6.685, tanto che una donna su quattro nella nostra regione corre il rischio di subire tale operazione: il doppio della già alta media nazionale. Per fare un paragone, in Francia siamo a un caso ogni 25 donne.Questo enorme e crescente ricorso all’isterectomia non si spiega con il diffondersi improvviso di patologie particolarmente invalidanti, bensì con un approccio ginecologico di tipo meccanicistico, praticato da medici (in larga maggioranza maschi) che, ritenendo superflui utero e ovaie con l’avvicinarsi della menopausa, propongono l’intervento più in base all’età che al tipo di disturbo, con un’ottica di tipo “aziendale” (si fa prima a togliere che a curare, cioè costa meno al sistema sanitario).Le metroraggie disfunzionali (emorragie extra-mestruali) e i fibromi rappresentano rispettivamente il 35% e il 30% delle cause di isterectomia, ma in realtà solo in pochi e ben determinati casi dovrebbero esserlo: di regola infatti sono risolvibili con terapie e interventi non chirurgici. I piccoli fibromi, poi, se non provocano dolori, non necessitano di alcun trattamento.Penso sia tempo di rendere pubblici i rischi e i danni di tali interventi demolitori del corpo femminile, in modo che li si accetti solo nei pochi casi in cui non vi siano valide alternative terapeutiche.
Michele Boato (Venezia)
Non c’è bisogno di Berretti Bianchi

Ai promotori dell’Associazione dei “Berretti Bianchi”

Cari amici,

ho saputo di una nuova associazione denominata “Berretti Bianchi”, che vorrebbe dare un particolare colore alla buona volontà di alcuni di voi che, nel passato, hanno tentato di farsi riconoscere, con scarso successo, come “Volontari di pace”, in Medio Oriente, in Bosnia, in Africa, in Kossovo o a Timor Est, non importa dove.

Arrivo subito al dunque.

Di questa nuova associazione non ne vedo assolutamente la necessità.

La proposta la trovo carente in particolare su due punti:

la proposta di adesione volontaria esclusivamente su basi ideologiche (cioè già schierati a priori, tipo con la nonviolenza di Rugova), senza altri filtri ben più importanti, per esempio un curriculum vitae rispettabile e uno stato sociale riconosciuto (cioè una larga base di conoscenti che possano stimolare l’interesse dei mass-media);

il porsi a livello paritario (quasi antagonistico) con le istituzioni esistenti, e pertanto prevedendo un’azione vostra propria, senza mandati né mandanti.

Proprio la carenza delle istituzioni che vorreste riformate, tipo l’O.N.U., fanno prevedere azioni defatiganti e potenzialmente inconcludenti, dovendosi arrampicare sui vetri di ciò che non esiste ancora, così come è il perdersi in un deserto abbagliante e pieno di miraggi, con il carico di gelati da portare agli assetati che si liquefa cammin facendo, con il rischio di esiti anche controproducenti.

Tipica l’azione del 1990-1991 a Baghdad, nata per andare a prendere il posto degli ostaggi occidentali in mano ai “buoni” che si stavano difendendo dal pericolo dei “cattivi” e si è trasformata nella richiesta di rimpatrio di tutti gli occidentali, così si è creato il campo libero per consentire ai “cattivi” di bombardare le città irakene.

Non parliamo poi delle spedizioni a Baghdad lo scorso anno dei cosiddetti “scudi umani”, trasformatesi in un semplice album di foto ricordo, col viaggio, vitto e alloggio rimborsato dai soliti OSM.

Se abbiamo potuto vedere nel panorama delle presenze non ufficiali dentro alcuni conflitti, tipo le azioni della “Operazione Colomba” dell’Associazione Papa Giovanni XXIII o certi interventi interessanti della Comunità di S. Egidio, è perché dietro queste realtà c’è un lavoro sociale credibile e riconosciuto, oltre al fatto di essere realtà riconosciute ufficialmente dalla Chiesa e dal Vaticano.

Alfredo Mori (Brescia)

Di Fabio