• 24 Novembre 2024 2:16

Azione nonviolenta – Aprile 2000

DiFabio

Feb 6, 2000

Azione nonviolenta aprile 2000

– In Kossovo un anno dopo, Mao Valpiana
– Abolire la guerra, abolire gli eserciti, abolire i cappellani militari, di Angelo Cavagna
– Quanto costa un litro di benzina? Una guerra in Cecenia, di Achille Lodovisi
– I corpi civili di pace sono una possibile risposta alla guerra, di Ken Butigan
– Ho visto la terra promessa la terra del mio sogno, di Sergio Albesano
– A Peschiera si chiude! Il carcere militare non c’è più, di Mao Valpiana
– Islam. La storia di Rabia, santa musulmana, a cura di Claudio Cardelli

Rubriche

– Musica Musica Maestro: la Banda Roncati, a cura di Paolo Predieri
– Cinema, a cura di Flavia Rizzi
– Nestlè
– Libri
– Esteri
– Lettere

Editoriale
In Kossovo un anno dopo

Un anno fa c’era la guerra in Serbia e nel Kossovo. Ora la pace non c’è ancora, ma qualche timido segnale comincia a vedersi. Fa ben sperare la dichiarazione congiunta dei tre capi delle comunità religiose kossovare. Sappiamo però che per evitare la guerra, purtroppo non bastano le buone intenzioni. Bisogna innanzitutto abolire le cause e gli strumenti che permettono lo scoppio dei conflitti armati: a cominciare dagli eserciti e dall’industria bellica. A questo tema dedichiamo gran parte del numero di Azione nonviolenta.

Un comune impegno morale
delle comunità religiose kossovare

Noi, leaders religiosi delle comunità religiose tradizionali del Kossovo, la Comunità Islamica, la Chiesa Serba Ortodossa e la Chiesa Cattolica Romana, preoccupati per la lentezza e l’inefficace compimento del piano di pace in Kosovo, in occasione della nostra visita di lavoro con il Consiglio Interreligioso della Bosnia Erzegovina, abbiamo deciso di emettere la seguente comune dichiarazione:

1. Tutte le popolazioni in Kosovo sono state sottoposte ad enormi sofferenze. Siano rese grazie a Dio che la guerra è finita, ma sfortunatamente continua ad esserci insicurezza e violenza. Nostro dovere ora è stabilire una pace durevole basata sulla verità, la giustizia e la vita comune.

2. Noi riconosciamo ed accettiamo che le nostre comunità religiose differiscono le une dalle altre, e che ciascuna di esse si sente chiamata a vivere fedele al proprio credo. Allo stesso tempo riconosciamo che le nostre tradizioni spirituali e religiose possiedono molti valori in comune e che questi valori condivisi possono servire come autentica base per una mutua stima, cooperazione e libera vita in comune sull’intero territorio del Kosovo.

3. Ciascuna delle nostre tradizionali chiese e comunità religiose riconosce e proclama che la dignità dell’uomo e il valore umano è un dono di Dio. Le nostre fedi, ciascuna nel suo proprio modo, ci chiamano al rispetto dei fondamentali diritti umani di ogni persona. La violenza contro le persone o la violazione dei loro diritti fondamentali per noi non solo sono contrarie alle leggi fatte dagli uomini, ma anche infrangono la legge di Dio.

4. Noi inoltre, nel mutuo riconoscimento delle nostre differenze religiose, condanniamo ogni violenza contro persone innocenti ed ogni forma di abuso o violazione dei fondamentali diritti umani, e specificamente noi condanniamo: -gli atti di odio basati sull’etnicità o le differenze religiose; -la profanazione di edifici religiosi e la distruzione di cimiteri; -l’espulsione della gente dalle proprie case; -l’impedimento del libero diritto di ritorno alle proprie case; -gli atti di vendetta; -l’abuso dei mezzi di comunicazione allo scopo di diffondere odio.

5. Infine, noi richiamiamo tutte le persone di buona volontà ad assumere la responsabilità delle loro proprie azioni. Trattiamo gli altri come vorremmo che essi trattassero noi.

6. Con questa dichiarazione noi facciamo appello a tutti i nostri fedeli in Kosovo, alle autorità locali e ai rappresentanti della comunità internazionale in Kosovo.

Dr Rexhep Boja
Mufti e Presidente della Comunità Islamica del Kosovo

H.E. Dr Artemije Radosavljevic
Vescovo di Raska e Prizren, Chiesa Ortodossa Serba

H.E. Marko Sopi
Vescovo di Prizren, Chiesa Cattolica Romana

Finchè c’è guerra…
c’è speranza (per i mercanti d’armi)

La BBC ha dichiarato che la guerra del Kosovo è costata in totale 50 miliardi di Euro (centomila miliardi di lire).
The Guardian ha scritto che la ricostruzione costerebbe più di 31 miliardi di Euro (62.000 miliardi di lire).
I costi dei bombardamenti hanno superato i 160 miliardi FB (8000 miliardi di lire).
In totale, durante la guerra nel Kosovo, sono stati utilizzati circa 23.000 fra missili e bombe.

 

Abolire la guerra, abolire gli eserciti
abolire i cappellani militari

A cura di padre Angelo Cavagna

Quasi tutti sono contro le guerre, ma quasi tutti pure sono a favore degli eserciti, cioè al «sistema di guerra». I cappellani militari, di per sè, svolgono un’azione pastorale buona. Purtroppo fungono insieme da copertura alle missioni militari, anche a quelle palesemente ingiuste. E’ in atto nella Chiesa Cattolica una svolta teologica e magisteriale dal bellico alla nonviolenza. Occorre consolidarla.
Mi piace iniziare segnalando un fatto positivo: i rappresentanti delle tre comunità religiose kossovare, la Comunità Islamica, la Chiesa Ortodossa e la Chiesa Cattolica Romana, incontratisi a Sarajevo l’8 febbraio 2000, hanno emesso una Dichiarazione di Comune Impegno Morale contro la guerra (vedi a pag. 3).
ABOLIRE LA GUERRA – ABOLIRE GLI ESERCITI
Il problema è radicale. Contro la guerra, per lo più, lo sono anche i generali. Quello che sembra sfuggire è il nesso tra esercito e «sistema militare» o «sistema di guerra», per cui si cade, anche senza volerlo, in contraddizioni palesi e forti.
Quando si denuncia il controsenso e lo sperpero di soldi della ricerca bellica nella quale lavorano circa la metà degli scienziati esistenti al mondo, quando si fanno campagne contro il debito estero dei paesi poveri, quando si criminalizzano la fabbricazione di armi e il commercio bellico, quando si fa la campagna contro le mine antiuomo e cose simili, quando si denunciano i governi per le spese folli da loro destinate alle Forze Armate mentre lasciano morire di fame 40.000 bambini al giorno, poi, però, si dice anche che l’esercito è indispensabile e che le esigenze della difesa militare sono prioritarie rispetto ad ogni altra, e si fanno discorsi religiosi o etici sul fondamento morale della professione militare, si cade in una contraddizione insanabile e non si cambia la storia di una virgola.
Esempio eclatante: si celebrerà a Roma il giubileo dei soldati, mentre gli obiettori di coscienza al servizio militare, anche quelli della Caritas, non sono mai stati ricevuti ufficialmente in Vaticano nemmeno una volta.
Ora è evidente che, nonostante le denunce circa i vari anelli del»sistema militare» (ricerca, industria, commercio, spese…), se poi si dice che l’esercito è indispensabile, non è difficile comprendere che l’esercito, a sua volta, vuole armi sempre più efficienti (= terribili), che quindi vanno studiate scientificamente e poi costruite, commerciate, pagate e… usate (= guerre). Gli eserciti non esistono senza gli altri anelli, inscindibilmente agganciati l’uno all’altro, così da formare un tutt’uno; e cioè: il «sistema militare» o «sistema di guerra».
Occorre avere l’umile presunzione di pensare e di affermare che è finito il tempo degli eserciti, nel senso che deve finire se si vuole che la vita umana sulla terra abbia futuro.
Il papa Giovanni Paolo II, con le ripetute condanne della guerra, di ogni guerra, come “inutile, dannosa, illegale, foriera di nuove guerre”, ha posto tutte le premesse anche per l’eliminazione degli eserciti. La loro sparizione è del resto logica conseguenza dell’altrettanto insistita esigenza, oggi che i problemi sono mondiali, di istituzioni sovranazionali a garanzia della giustizia e della pace per tutti i popoli, ossia di un nuova ONU democratizzata e rafforzata. Al formarsi degli stati, sparirono gli eserciti delle precedenti comunità intermedie, che si dotarono semplicemente, per l’interno, di un corpo di polizia nazionale. Oggi, supposta un’adeguata riforma dell’ONU, basta un corpo di polizia internazionale (caschi blu) e un corpo di polizia disarmata (caschi bianchi).
Si assiste tuttavia oggi a una mistificazione terribile, per cui le azioni militari si rivestono di locuzioni pacifiste e non si chiamano più «guerre», ma: azioni di polizia internazionale, missioni di pace, ingerenza umanitaria e simili, quando si sa benissimo che gli eserciti si muovono per precisi interessi nazionali. Tutti i testi scritti fondamentali del cosiddetto “Nuovo modello di difesa” non lasciano dubbi in tal senso. Si veda il fondo di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera del 13.9.’99 in prima pagina: “Bisogna intervenire ovunque per la pace? GLI INTERESSI E LE IPOCRISIE”. Si veda soprattutto il documento ufficiale del nostro Ministero della Difesa “Linee di sviluppo delle Forze Armate negli anni ‘90” presentato in Parlamento nell’ottobre 1991, che parla esplicitamente di “difesa degli interessi vitali” della patria, che a loro volta sono da intendere per “le materie prime presenti nel terzo mondo, necessarie alle economie dei paesi industrializzati” (v. Settimana n. 21/’92 p. 10).
Del resto sono gli stessi esperti dell’arte militare, come il gen. Bruno Loi, che scrivono e confermano che “non si possono mandare gli eserciti a fare azioni di polizia internazionale”, o come il gen. Giancarlo Naldi dell’Aeronautica e presidente dell’Apostolat Militaire International, che in un discorso fra esperti militari ha bollato l’»esercito puramente professionale», che ogni governo e gran parte dei politici vorrebbero avallare, come esercito separato dalla società, con pochi soldati motivati e tendenzialmente esaltati, e con molti poveri in cerca di stipendio inviati a fare le guerre dei ricchi.
Un vero corpo di polizia internazionale dovrebbe limitarsi a un uso «non omicida» della forza anche armata; la polizia infatti non ha lo scopo di uccidere; anzi, essa “dovrebbe dotarsi di armi intrinsecamente non letali, mentre il soldato dev’essere addestrato a uccidere e ad uccidere bene” (gen. Bruno Loi).
Ma la vera alternativa al sistema di guerra è la Difesa Popolare Nonviolenta (DPN), che non è utopia ma ha già scritto pagine storiche magnifiche, come ha splendidamente affermato papa Giovanni Paolo II nel messaggio di pace del 10 gennaio 2000 “Pace in terra agli uomini che Dio ama”: “Di fronte allo scenario di guerra del secolo XX, l’onore dell’umanità è stato salvato da coloro che hanno parlato e lavorato in nome della pace.
E’ doveroso ricordare quanti, innumerevoli, hanno contribuito all’affermazione dei diritti umani e alla loro solenne proclamazione, alla sconfitta dei totalitarismi, alla fine del colonialismo, allo sviluppo della democrazia, alla creazione di grandi organismi internazionali. Esempi luminosi e profetici ci hanno offerto coloro che hanno improntato le loro scelte di vita al valore della nonviolenza. La loro testimonianza di coerenza e fedeltà, giunta spesso fino al martirio, ha scritto pagine splendide e ricche di insegnamenti” (n. 4).

Che dire dei cappellani militari ?

Già nel 1985, in un libro “Per una prassi di pace” (EDB), ora esaurito, ho trattato della “Pastorale dei militari”. Scrivevo: “Quanto alla pastorale spicciola, ma non banale, ossia la vicinanza alle persone, in prevalenza giovani, interessate alla vita militare per accompagnarle rispettosamente, ma amorevolmente, nella loro responsabile e libera ricerca spirituale, l’attuale ordinario militare, il vescovo Gaetano Bonicelli, sta svolgendo un’opera di sensibilizzazione di tutta la comunità cattolica italiana, delle diocesi e delle parrocchie, specialmente quelle più vicine alle caserme” (p. 57).
Finchè la chiesa insegna che un buon cristiano può essere un buon soldato, sarebbe irresponsabile abbandonare tante persone nelle caserme privandoli dell’assistenza religiosa; e riconosco anche che, essendo la caserma un ambiente totalizzante, sarebbe difficile garantire un servizio pastorale adeguato solo dall’esterno. L’esperienza dice che vi sono cappellani zelanti e che la loro immagine tra i giovani in divisa è in genere buona.
Ciò che fa problema è l’identificazione del cappellano con la struttura militare, con le stellette fino al punto di assumere come normali delle espressioni quali “chiesa militare”, come ho sentito con le mie orecchie dall’inizio alla fine della «Messa dei militari» al Congresso Eucaristico Nazionale di Bologna, o “via militare alla santità”, come si esprime il documento sinodale dell’Ordinariato Militare in Il Regno-Documenti n. 3/2000, p. 103, nn. 36-40. Non parliamo di cappellani che celebrano l’Eucaristia dall’alto di un carro armato. El Pais, giornale spagnolo, del 22.2.2000, a p. 12, pubblica una foto che mostra un plotone di soldati russi, a 30 km da Grozny, mentre un monumentale pope ortodosso li benedice.
Quante volte l’Eucaristia, sacramento dell’amore per eccellenza, è stata celebrata d’ambo i lati del fronte fra soldati cristiani in procinto di buttarsi all’assalto fratricida!
Sono d’accordo che il rapporto fede e vita militare è problema di tutta la chiesa; ma i cappellani militari dovrebbero essere tra i primi a farsene carico con scrupolo per denunciare almeno le aberrazioni dal punto di vista della tradizionale dottrina della guerra giusta. Invece, si sono fatte guerre coloniali, prima guerra mondiale (“Il Trentino poteva essere italiano senza colpo ferire”, parola dell’on. Flaminio Piccoli da segretario nazionale della Democrazia Cristiana), la seconda guerra mondiale iniziata addirittura a fianco di Hitler, si fanno guerre dove si uccidono molti più civili che militari, si fanno guerre più per il petrolio che per i motivi politico-etnico-religiosi addotti (v. articolo di F. Scaglione su Avvenire del 2.3.2000 pp. 1 e 2), si rinnovano gli arsenali Nato di armi atomiche (altro che disarmo!), anche l’Italia ha votato per mantenere nella Nato la “dottrina del primo colpo nucleare” ossia dell’uso delle armi atomiche nonostante la condanna esplicita da parte del concilio Vaticano II (GS n. 80), con le guerre del Golfo, dell’Iraq e del Kossovo siamo già entrati nell’era dell’uso di materiale radioattivo (i missili a testata di uranio impoverito) con conseguenze terribili fino alla morte per gli stessi soldati americani e pare, ultimamente, anche italiani (v. L’Unione Sarda 22.1.2000; Panorama 27.1.2000 pp. 32-35; la Padania 19.3.2000; Il Giorno 20.3.2000; La Nuova Sardegna 14.9.’99, 10.10.’99 e 22.1.2000; Liberazione 17.12.’99 e 21.3.2000 p. 16).
Tutto ciò senza che i cappellani militari abbiano alzato una voce significativa di protesta morale, anzi mettendo tutto sotto l’etichetta di missioni di pace o sventolando i fiori all’occhiello dei soccorsi alla protezione civile in occasione di emergenze, continuando a benedire e difendere la sacralità del sistema militare.
E’ per tutto questo complesso di contraddizioni che si può capire la reazione di un giovane prete, che così scrive: “Ero da poco ordinato sacerdote e mi chiesero di dire Messa una domenica alla scuola allievi ufficiali carabinieri per la celebrazione di un matrimonio. Quando alla consacrazione udii il suono della trombra e il presentatarm provai un turbamento profondo e duraturo… Tornato in sacrestia… trovai una scusa per non andare al ricevimento e scappai in lacrime” (p. Pio Parisi gesuita, per tanti anni assistente spirituale delle Acli nazionali).
Mi sembra onesto anche manifestare la mia perplessità (spero non solo mia!) circa la solidità del fondamento biblico proposto in tutti i modi a conferma della compatibilità tra vocazione cristiana e “vocazione militare”: “Il Sinodo ha individuato l’origine della nostra Chiesa nei tre centurioni biblici: di Cafarnao, di Gerusalemme, di Cesarea e li ha riconosciuti come i propri padri nella fede. Il terzo fra essi, Cornelio, accolse con tutta la famiglia l’apostolo Pietro ricevendo dalle sue mani il battesimo e aprendo, in tal modo, la strada all’annuncio della salvezza anche ai pagani; egli apparteneva alla coorte italica; pertanto si è pensato di dichiararlo patrono di tutto l’Esercito italiano” (lettera di presentazione del vescovo Giuseppe Mani ordinario militare per l’Italia, In Regno-Documenti n. 3/2000 p. 99). Il testo biblico esalta la loro fede attuale e non il loro stato di militari e di pagani da cui provenivano.
Segnali nuovi

Al contrario, è da segnalare una svolta teologica e magisteriale, che sempre più orienta al superamento della “dottrina della guerra giusta” e ad una interpretazione biblica radicalmente nonviolenta.
In questa direzione, dal punto di vista teologico, mi limito a richiamare il corposo Dizionario di Teologia della Pace (EDB 1997) e il ricco quanto piccolo libro di G. Mattai “La Pace Oggi – Domande gravi, risposte stimolanti” (Edizioni Ennepilibri, Imperia 1999).
Anche in campo magisteriale, è dato cogliere pronunciamenti di vescovi, oltre quelli oramai classici del papa Giovanni Paolo II, sempre più chiari e radicali: “Nell’anno giubilare deve assumere ancora più forza l’impegno per la pace: condanna del commercio delle armi… e assunzione di responsabilità per arrivare a proscrivere la guerra… La professione militare diventi tutela della pace attraverso vere forze di polizia internazionale…
Proponiamo a tutti i giovani… cammini di servizio, solidarietà e giustizia. Un paese capace di futuro è quello capace di proposte profetiche, praticabili. L’obiezione di coscienza e il servizio civile lo sono: oggi come ieri, anzi di più” (card. Piovanelli di Firenze, Settimana n. 8/2000 p. 1).
Il vescovo R. Corti di Novara, in una lettera alla diocesi, punta su una politica estera di giustizia e di pace scrivendo: “E’ stata fatta emergere l’urgenza che in Europa la Chiesa sia attenta alle scelte di politica estera dei vari Paesi. Spesso il capitolo della politica estera è piuttosto sfuggente nelle campagne elettorali… Poichè la storia, anche recente, dimostra che si possono fare delle scelte molto discutibili, se non inaccettabili (come per esempio a proposito della vendita delle armi o dell’appoggio offerto a determinate fazioni o nazioni per interessi prevalentemente economici), si chiede che i cristiani in Europa siano una voce significativa a nome di chi, come tanti popoli africani, non ha voce”.
La svolta più organica e decisa si ha nel nuovo Catechismo degli Adulti della CEI “La verità vi farà liberi”, dove è scritto: “Oggi l’accresciuta consapevolezza riguardo alla dignità di ogni uomo, ancorchè criminale, induce ad abolire la pena di morte” (p. 491); “Abolire la guerra… (Essa h) il mezzo più barbaro e più inefficace per risolvere i conflitti… Si dovrebbe togliere agli stati il diritto di farsi giustizia da soli con la forza, come già è stato tolto ai privati cittadini e alle comunità intermedie… Appare urgente promuovere nell’opinione pubblica il ricorso a forme di difesa nonviolenta. Ugualmente meritano sostegno le proposte tendenti a cambiare struttura e formazione dell’esercito per assimilarlo a un corpo di polizia internazionale” (pp. 493-494); “Oggi i confini degli stati sono attraversati da un flusso continuo di uomini, informazioni, capitali, merci, armi… La pretesa dei singoli stati sovrani di porsi come vertice della società organizzata sta diventando anacronistica… Si auspicano forme di governo sopranazionale con larga autonomia delle entità nazionali” (pp. 528-529).
A suggello di questa svolta necessaria dalla dottrina della guerra giusta all’abolizione di ogni guerra e quindi degli eserciti, valga questo passaggio del diario personale di s. Giovanni Calabria neo-canonizzato: “9.6.1918 – Dio mio, la guerra continua. Io non ho mai capito come un cristiano possa arrivare a patrocinare la guerra… Il cristiano deve sempre pregare perchè regni la pace, perchè gli uomini, nelle divergenze, ragionino col lume della ragione, illuminati ancor più dalla fede, e decidano e compongano quello che è meglio per un popolo cristiano e civile. Ma la guerra no, no. no!.. I fratelli che uccidono i fratelli! Chi lo può pensare e approvare, senza rinunciare ad essere seguace di Gesù Cristo?”.

Quanto costa un litro di benzina?
Una guerra in Cecenia!

A cura di Achille Lodovisi

Finalmente ci si sta accorgendo di ciò che sta accadendo, ormai dal 1992, nella regione del Caucaso, senza per altro prestare la dovuta attenzione a quanto succede nelle repubbliche dell’Asia ex sovietica.
Proviamo quindi a riflettere sulla cronologia degli eventi.
L’8 luglio 1999, con le ceneri delle macerie ‘umanitarie’ in Iugoslavia ancora calde, l’Associated Press da Mosca annunciava che la Russia si stava preparando a lanciare un’offensiva contro le basi dei guerriglieri che stavano operando una serie di attacchi lungo la frontiera tra Cecenia e Dagestan.
La stessa fonte sottolineava come gli attacchi condotti contro i villaggi del Dagestan erano opera di ‘warlords’ ceceni che non riconoscevano l’autorità del governo di Grozny.
Nel frattempo le autorità militari di Mosca stavano costruendo una sorta di ‘cordone sanitario’, della lunghezza di 69 miglia, attorno alla frontiera cecena.
Il presidente ceceno Aslan Maskhadov, favorevole ad un negoziato e ad un miglioramento delle relazioni con Mosca, in quei giorni veniva sottoposto a forti pressioni da parte dei ‘warlords’ che, ammantandosi di una fede coranica tutta da verificare e forti degli armamenti acquistati dalle stesse truppe russe o ad esse sottratti, scambiati con partite di droga in Azerbaigian e Georgia, provvidamente offerti dalla Turchia, premevano per la ‘guerra santa’.
In realtà queste bande armate – i cui meccanismi d’azione ed ideologici ricordano da vicino la storia dell’UCK – avevano ed hanno tutto da guadagnare dal perdurare di una situazione di conflitto per gestire con maggior facilità i traffici di armi, stupefacenti e uomini dai quali ricavano profitti notevoli ed un potere vessatorio che esercitano sulle popolazioni inermi.
L’indomito spirito indipendentista della gente cecena ha ben poco a che spartire con la filosofia dei ‘warlords’.
Pochi giorni prima erano ripresi gli scontri tra truppe azere ed armene in Nagorno Karabak ed il ministro della difesa azero Safar Abiyev, nel corso di un colloquio con l’ambasciatore italiano, chiedeva l’intervento delle truppe della NATO nella regione contesa (France Presse 17 giugno 1999 da Baku).Non va dimenticato che nei primi mesi del 1999, prima che iniziassero i bombardamenti NATO sulla Iugoslavia, il sistema basato sull’adesione delle repubbliche ex sovietiche ad un trattato per la sicurezza collettiva con la Federazione Russa era collassato in seguito alla decisione della Georgia e dell’Azerbaigian di non rinnovare la loro partecipazione.
Ovviamente questo sistema di sicurezza altro non era e non è che un espediente russo per tentare di mantenere l’egemonia nel Caucaso e nella regione del Caspio, la prima strategica per il passaggio delle infrastrutture energetiche (oleodotti e gasdotti) e della droga, la seconda molto ricca di petrolio, gas e minerali in gran parte non ancora sfruttati oltre che produttrice di oppio ed altri stupefacenti.
Come si vede gli interessi in gioco in Cecenia vanno ben oltre il mantenimento della ‘sovranità nazionale’ della Russia, espressione che suona in realtà ridicola in quanto ampie regioni del paese sono di fatto controllate da mafie locali o da ‘signorotti’, ex papaveri del PCUS convertiti all’ultranazionalismo, che stanno approfittando di questo processo di disgregazione e feudalizzazione dell’ex impero – ben voluto dall’Occidente e dagli Usa – per accumulare fortune gigantesche attraverso i traffici illeciti e la privatizzazione dell’industria e dei settori economici di stato.
Da questa realtà bisogna partire per giungere ad identificare il vasto novero di responsabili di questo ennesimo disastro umanitario ed ambientale.
Il ‘Global Intelligence Update’ della Stratfor (studi strategici NATO, n.d.r.) in data 15 giugno 1999 sottolineava come dopo l’intervento NATO nei Balcani la ‘competition’ tra la Russia e la NATO per il controllo della periferia dell’ex impero sovietico si sarebbe fatta più serrata nel Caucaso e, a far da sfondo alle cannonate, fosse rimasta la questione dei percorsi e della operatività degli oleodotti e dei gasdotti che trasportano petrolio e gas dal Caspio al Mar Nero, da dove raggiungono via mare l’Europa.
Uno dei più importanti oleodotti attraversa il Caucaso transitando per la Cecenia, per poi raggiungere a nord il terminale di Novorossiysk posto in territorio russo.
Grozny è sede di una importante raffineria – bombardata in questi giorni con effetti sull’ambiente tipo Pancevo – ed è posta su di un importante snodo tra la pipeline che proviene da Baku e quella che si dirige verso i giacimenti del Caspio settentrionale e della Siberia centrale.
La pipeline Baku-Novorossiysk è stata realizzata con 10 miliardi di dollari di investimenti sborsati da un consorzio che vede tra i maggiori azionisti British Petroleum, Amoco, Exxon, la compagnia mista saudita e statunitense Unocal e la maggiore compagnia petrolifera russa Lukoil.
In passato i guerriglieri ceceni avevano sabotato in più occasioni l’oleodotto e il 14 giugno 1999 si era verificata una grande esplosione dovuta forse al tentativo di asportare petrolio dal condotto.
Nei mesi passati inoltre il flusso del greggio era stato interrotto più volte dal governo ceceno inseguito al rifiuto di fatto dei russi di pagare i diritti di passaggio per il tratto posato in Cecenia.
Nessuno deve dimenticare il tenore della dichiarazione del Dipartimento di Stato Usa nel momento dell’avvio dell’offensiva russa: gli Usa non intervenivano in quanto non erano direttamente minacciati interessi nazionali; infatti a difendere gli interessi di Amoco, Exxon, Unocal, ecc., ci stavano pensando le truppe di Mosca.
Pochi mesi prima è stata inaugurata una seconda importante pipeline che collega Baku con Supsa, terminale petrolifero sul Mar Nero posto nel territorio della Georgia.
Questa nuova infrastruttura, appoggiata politicamente dall’Azerbaigian, dalla Georgia, dalla Turchia – che preme per la realizzazione della variante verso il terminale turco di Ceyhan sul Mediterraneo via Kurdistan – e dagli Usa, non attraversa il territorio russo e viene vista da Mosca come un tentativo di sottrarre alle grandi compagnie petrolifere russe il controllo sul transito del petrolio e del gas del Caspio verso l’Europa.
E’ opportuno ricordare che il settore energetico (produzione di gas e petrolio)rappresenta, dopo la deindustrializzazione dell’economia e le riforme eltsiniane, il 23% delle esportazioni ed il 12% del prodotto interno lordo della Russia (Gian Paolo Caselli e Giulia Bruni, “Il settore petrolifero russo, il petrolio del Mar Caspio e gli interessi geopolitici nell’area”, Working Paper n.278, luglio 1999).
Lungo il tracciato dell’oleodotto Baku-Supsa si trovano il Nagorno-Karabak e la regione secessionista dell’Abkazia.
I vertici politici e militari russi hanno nuovamente appoggiato, in concomitanza con la messa in opera della pipeline, le guerriglie indipendentiste in tali regioni anch’esse legate al narcotraffico, fornendo armi all’Armenia ed incoraggiando le forze secessioniste dell’Abkazia che hanno dichiarato l’indipendenza della regione dalla Georgia.
Quest’ultima assieme all’Ucraina, alla Moldavia ed all’Azerbaigian ha costituito una alleanza militare regionale, richiedendo una stretta cooperazione con la NATO, che ha tra i suoi obbiettivi la difesa dell’oleodotto.
I consorzi per la realizzazione della ‘via turca’ tra i pozzi petroliferi ed i giacimenti di gas del Caspio ed il Mediterraneo prevedono investimenti complessivi per 7 miliardi di dollari.
Tra gli azionisti di spicco figurano la Unocal, la Chevron, la Shell, l’Eni ed i governi della Turchia e dell’Azerbaigian.
A conclusione di questa breve e sommaria analisi balza agli occhi una terribile realtà: lo scontro globale per il controllo delle risorse scarica i suoi effetti devastanti solo ed unicamente sugli inermi, senza che nessuno degli strenui difensori mediatici dei diritti umani abbia il modesto coraggio di sussurrare…
I care.
Quello che sta accadendo in Cecenia, in Nagorno Karabak, in Abkazia, in Tagikistan fa parte di un copione che recita la ‘degna’ replica di quanto è avvenuto nei Balcani.
Quanto sangue costa un litro di carburante?

Achille Lodovisi per Peacelink

I Corpi civili di pace sono una possibile risposta alla guerra

di Ken Butigan

Mentre sono qui, farò il mio lavoro.
E qual è il lavoro? Alleviare il male di vivere.
Tutto il resto: la pantomima di un ubriaco
Allen Ginsberg

Mentre ci avventuriamo nel nuovo millennio, ci troviamo a un importante bivio.
Il prossimo secolo porterà un incessante flusso di devastanti conflitti armati, come gli orrori cui abbiamo assistito in Iraq, nel Kosovo,a Timor Est, in Cecenia?
David Hartsough e Mel Duncan, da lungo tempo difensori di pace e nonviolenza, si stanno appellando per un’alternativa al ripetersi senza fine di queste catastrofi.
Sempre più gli interventi militari hanno portato a enormi perdite civili e hanno soffiato sul fuoco delle continue ingiustizie e della guerra. Hartsough e Duncan invece stanno proponendo la creazione, il finanziamento e lo spiegamento di una Forza di Pace costituita da centinaia di professionisti nonviolenti come risposta ai futuri conflitti.
Modellata sulla nozione gandhiana di “brigate della pace” e incoraggiata da venti anni di esperimenti in “intervento nonviolento come terza parte” da parte di alcuni gruppi come le Peace Brigades International e i Witness for Peace, la Forza di Pace può offrire un’alternativa vitale all’inferno della lotta armata.
La Forza di Pace è un modo di intendere la nonviolenza attiva audace e innovativo, ma anche determinato e pratico. Con Martin Luther King Jr. si basa sull’idea che l’umanità ha due alternative rigorose – nonviolenza o nonesistenza – e cerca un modo di modellare concretamente gli strumenti che ci portino a fare la scelta giusta.
La visione di Hartsough e Duncan di nonviolenza pratica è radicata sia nei fatti che nella fede.

Fatti e fede

Nonostante l’attuale epidemia di violenza negli Stati Uniti e nel mondo, è un fatto che l’umanità ha messo in pratica i principi e le dinamiche della nonviolenza fin dai suoi inizi; il genere umano non sarebbe altrimenti sopravvissuto. Il perdurare della famiglia umana si è affidato non alle minacce di vendetta ma ai meccanismi di cooperazione e costruzione della pace.
In ogni epoca le comunità umane si sono confrontate con il dilemma della scarsità e dell’insicurezza. In generale, quando la violenza è stata lo strumento principale per risolvere questi dilemmi, la scarsità e l’insicurezza sono cresciute, a loro volta portando a ulteriore instabilità e a nuovi rischi. Se le politiche di violenza hanno talvolta prodotto vantaggi a breve termine per alcune fazioni, in ultima analisi esse hanno minacciato il benessere degli individui e delle società alle quali appartenevano, e indebolito le speranze di sopravvivenza.
Dall’altro lato, le strategie di cooperazione hanno rafforzato queste speranze tenendo implicitamente in considerazione i bisogni e le inclinazioni di tutte le fazioni, rivolgendosi alle radici della scarsità e dell’insicurezza. Come ha affermato Kenneth Boulding, il compianto teorico della pace, ci sono tre tipi di potere: il potere della minaccia, dello scambio e il potere integrativo. L’umanità è sopravvissuta ed è anche prosperata sviluppando la capacità di andare al di là dell’intimidazione per creare meccanismi di scambio economico e, ancora più importante, di afferrare e attualizzare la possibilità di creare l’unità salvaguardando la differenza. Nonostante le evidenze contrarie, questa capacità persiste, come è mostrato da un altro insieme di fatti: il crescente utilizzo ed efficacia della nonviolenza attiva. Come affermano Mel Duncan e David Hartsough, “Questo secolo ha assistito ad un’impressionante crescita nell’utilizzo di strategie nonviolente. Gli indiani hanno raggiunto l’indipendenza attraverso un’attiva e prolungata lotta nonviolenta. Le importanti conquiste nel campo dei diritti civili negli Stati Uniti furono raggiunte attraverso una serie di tattiche nonviolente comprendenti il boicottaggio, i sit-in, le cavalcate per la libertà, le marce e le dimostrazioni di massa. I Sudafricani si sono liberati dell’apartheid attraverso metodi largamente nonviolenti, e un successivo processo di verità e riconciliazione ha evitato una guerra civile. I Filippini hanno rovesciato il brutale regime di Marcos con mezzi nonviolenti. I popoli della maggior parte delle nazioni dell’ex blocco sovietico hanno rovesciato le dittature comuniste attraverso metodi nonviolenti. Nel 1991 migliaia di russi disarmati hanno circondato la Casa Bianca a Mosca per impedire un colpo di stato militare. I miglioramenti ottenuti dai lavoratori, i diritti delle donne e dei disabili e la nascita dei movimenti ambientalisti si sono raggiunti principalmente attraverso l’organizzazione nonviolenta”.
Duncan e Hartsough offrono un insieme di prove che gli approcci nonviolenti ai conflitti sociali non sono solo eticamente migliori, ma sono anche più efficaci. Ma la loro visione dell’efficacia della nonviolenza si fonda anche su una fede che ne è alla base: la fede nella capacità dell’essere umano di cambiare, la fiducia che l’umanità possa trovare il proprio senso nell’inclusività piuttosto che nell’esclusione e la fede ultima nella convinzione che le vie dell’amore sono più forti di quelle della morte. In altri termini, la violenza e il male non hanno l’ultima parola. Raccontando in dettaglio questi esempi pratici di nonviolenza, Duncan e Hartsough affermano implicitamente una fondamentale fede nella creatività umana in risposta a sfide apparentemente insolubili. In breve, ci spingono a vedere che le condizioni e le politiche violente non sono inevitabili. Sono piuttosto costruzioni umane che possono essere reindirizzate con ingegnosità, perseveranza e convinzione.

Creare la Forza di Pace

Le affermazioni di Duncan e Hartsough, e la fede sulla quale sono costruite, non sono un esercizio accademico. Piuttosto vogliono essere le basi di una “forza nonviolenta” capace di aiutare in modo significativo il processo di arresto e risoluzione delle dispute armate. Come scrivono, “Per costruire l’importante gruppo di lavoro per la pace in tutto il mondo dobbiamo innalzare la nostra attività di costruttori di pace a un nuovo livello. Dobbiamo sviluppare una risposta strategica, efficiente e efficace alla brutalità, alla violenza e al genocidio quando gli interventi focalizzati sulle cause di base sono falliti o si sono mostrate inefficaci nell’arrestare il massacro in corso.
Il mondo ha bisogno di istituzioni e attività collettive che incoraggino un gran numero di persone a impegnarsi in azioni pacifiche che diano speranza e li richiamino a più alti valori. Abbiamo bisogno di sviluppare una forza internazionale di pace, multietnica e permanente, che sia addestrata in strategie e tattiche nonviolente e che si spieghi nelle aree di conflitto o nelle aree a potenziale di violenza. La forza di pace dovrebbe includere un numero significativo di volontari addestrati impegnati ad agire strategicamente per prevenire la violenza e creare lo spazio per una risoluzione pacifica del conflitto”.
Il loro obiettivo è “La creazione di una forza di pace ben addestrata, permanente, multiculturale, nonviolenta da dispiegare nelle aree di conflitto. La Forza di Pace dovrebbe essere attrezzata per realizzare strategie e tattiche in cooperazione con i gruppi locali impegnati in una trasformazione pacifica. Tali strategie sarebbero disegnate per diminuire la violenza e il suo potenziale e creare lo spazio per una risoluzione giusta e pacifica”. Per dare vita al programma c’è bisogno di una serie di anticipati, che comprendono:
1.Almeno 200 persone che vogliono impegnarsi a partecipare all’addestramento e spiegamento e all’attività sul campo per almeno due anni
2.Almeno 400 persone con esperienza e specifiche competenze come operatori di pace che sarebbero disponibili come riserve per almeno un mese all’anno su un periodo di due o tre anni.
3.Almeno 500 sostenitori
4.Cinque milioni di dollari per le operazioni iniziali
5.Attenzione da parte dei media e significative relazioni con loro
6.Un gruppo direttivo ben definito, internazionale, efficiente, responsabile

Secondo la proposta di Hartsough e Duncan, la Forza di Pace, “a cominciare con 200 membri attivi, 400 riserve e 500 sostenitori, sarebbe portata a un livello di 2000 attivi, 4000 riserve e 5000 sostenitori in un periodo di sei anni. I membri saranno multietnici, internazionali, di diverse generazioni, e dovranno avere diversi orientamenti di fede e diverse pratiche spirituali. Dovrebbero dimostrare una grande capacità di lavorare in gruppo, di ascolto, comunicazione, e interazione con culture diverse, sopportazione di pericoli e frustrazioni. Tutti i membri che partecipano a questo progetto saranno votati alla nonviolenza e all’impegno pratico. Tutti i membri attivi e le riserve attive lavoreranno come volontari, e gli saranno forniti vitto, alloggio, addestramento e trasporto. Sarà anche istituito un sistema di borse di studi e contributi per i fondi pensionistici”.

Il Futuro

La visione di Hartsough e Duncan per la nascita di una forza di pace è in armonia con la ricerca mondiale per un’alternativa, nelle crisi internazionali e intra-nazionali, al tradizionale intervento militare da una parte, e all’inerte passività del dolersi dall’altra. Sono i primi ad ammettere che una tale proposta pone numerosi interrogativi, tra cui quelli che riguardano la sensibilità al contesto culturale locale e i rischi fisici e psicologici inerenti a un tale programma, insieme a enormi sfide logistiche nella raccolta di fondi, nel reclutamento, nell’addestramento. Nonostante ciò, essi vedono con chiarezza che ciò che è necessario nel mondo di oggi è un cambio di paradigma che ci liberi dalla dipendenza dalle armi letali, che lasciano sulla loro scia orrore e guerre future.
La Forza di Pace, se perseguita con diligenza, cura, sensibilità e desiderio di rischiare per la terra e i suoi abitanti, può giocare un ruolo di vitale importanza nell’ “alleviare il male di vivere” nel nuovo millennio.

Ho visto la Terra Promessa
la terra del mio sogno…

a cura di Sergio Albesano

Il 4 aprile del 1968 Martin Luther King morì assassinato. Vogliamo ricordare la figura del leader del movimento per i diritti civili dei neri, e premio Nobel per la Pace, attraverso due momenti della sua vita.

A Montgomery, l’inizio.

Il 1° dicembre 1955 a Montgomery, in Alabama, Rosa Parks, una signora nera di mezza età, salì su un autobus di linea, seguì l’indicazione “Gente di colore” e prese posto nella quinta fila a sinistra, dietro ai posti riservati ai passeggeri bianchi. L’autobus ben presto si riempì. Il conducente invitò allora a far posto ai “signori bianchi” e tre neri si alzarono. Rosa era stanca e decise di rimanere seduta. Il conducente la invitò esplicitamente ad alzarsi, ma la donna rifiutò, senza alzare la voce, perché sapeva che altrimenti avrebbe offerto un pretesto per farla scendere. L’autista si allontanò e ritornò dopo poco accompagnato da due poliziotti, i quali afferrarono la donna e la trascinarono via. L’autobus ripartì e la donna venne condotta al posto di polizia.
Rosa telefonò a E. D. Nixon, presidente dell’N.A.A.C.P., il quale la raggiunse al commissariato, pagò la cauzione e la riportò a casa. Quindi avvisò dell’accaduto Jo Ann Robinson, presidentessa del Consiglio politico delle donne di Montgomery, la quale propose a Nixon di lanciare un appello alla popolazione di colore per boicottare i mezzi pubblici in segno di protesta. Alle cinque del mattino Nixon telefonò ai due pastori della città per chiedere il loro appoggio. Uno dei due era Martin Luther King, il quale esitò e chiese di poter riflettere, ma quaranta minuti dopo, dietro le insistenze di Nixon, accettò di mettere a disposizione la sua chiesa come luogo di incontro della comunità nera per poter discutere la questione.
Nelle prime ore del pomeriggio erano già stati distribuiti quarantamila volantini in cui si invitava a non utilizzare l’autobus lunedì 5 dicembre. L’appello al boicottaggio era già stato lanciato prima che avesse inizio la riunione, durante la quale King si tenne in disparte, suscitando il lamento di Robinson. Solo le chiese disponevano dell’organizzazione necessaria per mobilitare un alto numero di neri e alla fine i pastori promisero di dare risalto al boicottaggio nei sermoni della domenica e di ristampare all’interno delle singole comunità ecclesiastiche il volantino.
Alla domenica nelle chiese affluì una massa di gente e i pastori raccolsero applausi scroscianti. Nel pomeriggio King lesse un articolo sul “Montgomery adviser”, in cui si bollava il minacciato boicottaggio come un’azione di razzismo nero e ciò sollevò i suoi dubbi. Alla fine decise che il boicottaggio era un tentativo di spiegare ai bianchi che non era possibile collaborare oltre con un sistema malvagio.
In genere in una giornata lavorativa utilizzavano i mezzi pubblici ventimila neri. Quel lunedì furono contati solo dodici viaggiatori neri.
Intanto fu processata Rosa Parks, che fu riconosciuta colpevole e le venne inflitta una multa di dieci dollari. Il suo avvocato presentò ricorso. Qualche ora più tardi alcune persone si incontrarono nella chiesa di King ed egli, colto di sorpresa, fu eletto presidente della Montgomery Improvement Association. “Tutta la faccenda mi si presentò così inaspettatamente, che non ebbi tempo di rifletterci sopra”, affermò King. “Io non avevo né iniziato né proposto quella protesta. Reagii semplicemente al richiamo del popolo che chiedeva un portavoce.”
L’assemblea preparò il testo delle richieste da proporre all’azienda dei trasporti, tra le quali si chiedeva “che i viaggiatori possano prendere posto secondo l’ordine di salita, i neri a cominciare dalle ultime file”. Si trattava di richieste indubbiamente moderate, che non mettevano in discussione il principio della separazione razziale.
Quella sera il neo presidente tenne un discorso appassionato di fronte ad una folle enorme. Ricordò molti casi di ingiustizie subite da neri sui mezzi pubblici. Poi disse: “Siamo qui per dire a coloro che ci hanno maltrattato per tanto tempo che noi siamo stanchi. Siamo stanchi di essere segregati e umiliati. Siamo stanchi di essere presi a calci in maniera brutale, di essere oppressi. Non abbiamo altra alternativa che la protesta. Per molti anni abbiamo mostrato una pazienza sorprendente. A volte abbiamo dato ai nostri fratelli bianchi l’impressione che il modo in cui venivamo trattati ci piacesse. Ma questa sera siamo venuti qui per dire che la nostra pazienza è finita, che saremo pazienti solo quando avremo libertà e giustizia.”
L’assemblea approvò all’unanimità la proposta di continuare il boicottaggio ad oltranza, fino a quando fossero state rispettate le richieste della popolazione nera, la quale continuò l’azione di protesta per trecentottantasei giorni, organizzando un sistema di trasporti alternativo. In questi mesi King acquistò una statura di rilievo pubblico. Quotidiani di tutto il mondo inviarono giornalisti nella città sul fiume Alabama e arrivarono le televisioni a riprenderlo. Contemporaneamente King e la sua famiglia furono bombardati da minacce di morte e ricevettero un’infinità di telefonate piene di insulti e di volgarità. La sua casa subì un attentato dinamitardo in cui moglie e figlio si salvarono per miracolo. King ebbe dubbi, provò paura, ma trovò nella sua fede religiosa la forza di continuare. Intanto venne accusato di frode fiscale; quindi arrestato per eccesso di velocità. Era la prima di una lunga serie di detenzioni. Una folla adirata si adunò davanti alla prigione chiedendo la scarcerazione del pastore e la polizia, dietro pagamento della cauzione, lo rilasciò.
King volò da una parte all’altra degli Stati Uniti per mobilitare l’opinione pubblica e per raccogliere fondi per la causa. Intanto le autorità municipali intentarono un processo per “trasporto di viaggiatori non autorizzato” contro il Movimento per i diritti civili, chiedendo al tribunale un provvedimento ingiuntivo temporaneo contro il sistema di automobili private che offrivano passaggi gratuiti ai neri. King cercò di trattare con l’azienda, che però si dimostrò irremovibile. Il momento era delicato, perché se la Corte locale avesse dato ragione alle autorità municipali, il boicottaggio sarebbe giunto alla fine, in quanto non si poteva chiedere alla popolazione nera di andare e tornare tutti i giorni dal lavoro a piedi. Proprio in quel momento però la Corte Suprema, alla quale avevano fatto ricorso gli avvocati della N.A.A.C.P., dichiarò incostituzionale la separazione razziale sui mezzi pubblici di trasporto di Montgomery e le norme locali di segregazione delle Stato dell’Alabama.
La popolarità di King era alle stelle e all’inizio del 1957 la sua fotografia campeggiò sulla copertina di “Time”. Il boicottaggio ebbe termine il 21 dicembre 1956 e nel giro di una settimana il trasporto integrato divenne una pratica comune a Montgomery.

A Memphis, la fine

Nel febbraio 1968 a Memphis le forze di polizia caricavano con sostanze chimiche e manganelli i netturbini neri in sciopero, che chiedevano il riconoscimento del loro sindacato, nuovi contratti di lavoro e l’istituzione di un ufficio per le conciliazioni. Il sindaco rifiutò le loro richieste. I netturbini allora entrarono in sciopero, ma le autorità comunali dichiararono illegale tale sciopero e fecero intervenire la polizia. Come reazione furono boicottati i negozi dei bianchi, fu organizzato un sit-in davanti al municipio e le chiese promossero assemblee di protesta. Dopo quattro settimane l’amministrazione cittadina ancora non dava segni di cedimento e allora venne chiamato in aiuto Martin Luther King, la cui presenza doveva essere una motivazione in più per i netturbini in sciopero. Inoltre avrebbe dato rilievo pubblico alla loro lotta. Egli parlò davanti a quindicimila persone, spronando i netturbini a continuare la loro lotta e invitando tutti i neri di Memphis a organizzare uno sciopero generale.
Il 4 aprile King si stava preparando in albergo prima di recarsi ad un comizio indetto per quella sera. Dopo essersi annodato la cravatta uscì sul balcone e scambiò alcune parole con un amico che stava lì sotto. La pallottola di grosso calibro lo fece schiantare di colpo. Colpì King sotto il labbro, gli spappolò il mento, rimase conficcata nelle vertebre cervicali e gli trapassò il midollo spinale. E’ probabile che King sia morto all’istante. I ghetti esplosero. Furono arrestate ventisettemila persone, tremilacinquecento rimasero ferite, quarantatré uccise e i danni complessivi ammontarono a cinquantotto milioni di dollari.
King aveva sempre saputo che quella sarebbe stata la sua fine. Nel discorso che aveva tenuto la sera prima, aveva detto: “Non so che cosa succederà adesso. Ma non è questo che mi interessa. Sono salito in cima alla montagna. Non sono preoccupato. Come tutti, anch’io desidero vivere a lungo. Ma tutto questo ora non mi preoccupa. Desidero soltanto compiere la volontà di Dio. Egli mi ha concesso di salire in cima alla montagna. Io ho guardato oltre e ho visto la Terra Promessa. Forse io non arriverò fino là con voi. Ma voglio che voi sappiate, questa notte, che noi insieme, come popolo, giungeremo alla Terra Promessa. Per questo oggi sono felice. No, non mi preoccupa più niente. Non temo nessun uomo. I miei occhi hanno visto l’arrivo del Signore, il suo splendore.”

A Peschiera si chiude!
Il carcere militare non c’è più

L’annuncio ufficiale è venuto dal Ministero della Difesa: il 30 giugno il carcere militare di Peschiera del Garda sarà definitivamente “dismesso”. Quella prigione, l’ex Caserma XXX Maggio, è stata un simbolo dell’ingiustizia militare. Nelle sue celle fredde e umide, tanti obiettori sono stati incarcerati per lunghi mesi; il movimento, fuori dalle mura, manifestava “per gli obiettori, li-ber-tà” “Gaeta e Peschiera, codice in camicia nera”. Ci fu un momento in cui ai nonviolenti venne persino impedito di manifestare davanti al carcere: solo con la disobbedienza civile si riconquistò il “diritto” di stare in quella piazza, fra il casermone e la chiesa. Le prime Marce antimilitariste, da Milano a Vicenza, sostavano davanti al carcere per solidarizzare con i compagni rinchiusi; poi, quando la Marcia camminava da Trieste ad Aviano, si concludeva ugualmente sulle sponde del Lago di Garda, a Peschiera. Ci fu anche una Marcia dell’ultimo dell’anno a Peschiera. Poi, nel dicembre del 1972, arrivò la Legge 772 che rimise in libertà gli obiettori, ma il movimento continuò a manifestare e solidarizzare, con gli obiettori totali, con i proletari in divisa, con i testimoni di Geova, per chiudere il Carcere di Peschiera. Ci son voluti 30 anni, ma ce l’abbiamo fatta!
Pubblichiamo le testimonianze di quattro protagonisti della storia dell’obiezione di coscienza: un’intervista a Matteo Soccio e le lettere di Alberto Trevisan ed Enzo Melegari, obiettori di coscienza rinchiusi a Peschiera all’inizio degli anni ’70, e un intervento dell’avvocato Sandro Canestrini, storico difensore degli obiettori.

Qual è la tua prima reazione alla notizia che il carcere militare di Peschiera verrà chiuso?

La mia prima reazione è di «serena indifferenza». Forse per una naturale rimozione. Sono passati 30 anni da quando, per la mia obiezione di coscienza, fui incarcerato a Peschiera insieme ad altri giovani. Erano tempi «eroici», carichi di ideali e di utopie. Oggi sono tempi diversi anche per l’obiezione di coscienza, che sarebbe meglio chiamare più realisticamente «servizio civile». Ma sono tempi «diversi» per tante altre cose. E’ il tempo del disincanto e anche delle «dismissioni», come questa.
Piano piano la memoria di eventi personali significativi comincia ad emergere dall’oblio. A pensarci, mi colpisce la grande forza interiore, la serenità, la persuasione, la capacità di sacrificio che aveva quel giovane di poco più di ventanni. Mai più posseduta. Ma non c’è posto qui per raccontare «le mie prigioni» alla maniera di Silvio Pellico. Per quanto ingiusta, quella carcerazione è stata accettata come una scelta conseguente, un prezzo da pagare per affermare valori più alti di quello dell’obbedienza e del rispetto della legge. Non c’è mai stato astio, risentimento, voglia di «vederlo distrutto quel carcere». Con questo non voglio dire che, sul piano personale, non ci sia stata sofferenza, che non ci siano state violenze e persecuzioni morali e materiali. Tutto perdonato e archiviato nella memoria.

Ricordi qualche episodio particolare dell’esperienza del carcere?

Ricordo l’arrivo a Peschiera, proveniente da una caserma di Alessandria. I carabinieri, che mi conducevano, mi avevano risparmiato i ceppi lungo la strada ma, ultimo arrivato, fui sistemato con la mia brandina in una camerata affollatissima (20/30 detenuti) vicino alle sbarre d’uscita, accanto ad un enorme mucchio d’immondizia, di fronte al «cesso».
Devo ricordare, dopo qualche giorno, la visita non prevista di mia madre, donna del popolo, che non aveva mai viaggiato, costretta ad un lungo viaggio dal Sud per cercare suo figlio (cosa le avevano detto?), ad affrontarlo con durezza, senza intimità, alla presenza di estranei agenti di sorveglianza. Un momento difficile, superato con forza di carattere e poi con un successivo lungo pianto liberatorio una volta ritornato in camerata.
Nei primi tempi scoprii anche la pratica del «nonnismo», ancora più stupido e feroce in questo carcere-caserma. C’era in questa camerata un bellicoso legionario, rinchiuso per renitenza alla leva in Italia (lui che aveva fatto la guerra in Africa). Una notte mi mise il coltello alla gola chiedendomi se avevo soldi. Gli dissi di no. “Bene – rispose – perché se non me li avessi dati, ti avrei tagliato la gola”. Fui spesso spostato, «per motivi di sicurezza», da una camerata all’altra e conobbi anche quella dei «Testimoni di Geova», una specie di istituto biblico o casa estiva, con salami e prosciutti appesi al soffitto e la dispensa sempre piena. Per l’autorità del carcere erano innocui ed obbedienti: da qui qualche privilegio.

E il personale di custodia come si comportava con gli obiettori?

Non posso non ricordare qualche altro personaggio che vive nella mia memoria indelebilmente associato a quel luogo carcere-caserma. Il Capitano Nestorini, direttore o meglio comandante, persona civilissima ma pur sempre un militare nel suo comportamento. Era per antonomasia il nostro carceriere: il suo nome veniva scandito con forza durante le manifestazioni che allora si svolgevano davanti al carcere, in solidarietà con gli obiettori di coscienza ivi rinchiusi. Ricordo il maresciallo Amendola, buono e ingenuo. Una volta raggiunse il gruppo di obiettori che aveva trovato il modo di incontrarsi nella «biblioteca» del carcere, per darci il suo consiglio: “Ragazzi, qui non dovete parlare tra voi, anzi non dovete ‘pensare’”. Per evitare questi incontri, dopo un po’, l’autorità del carcere abolì la biblioteca. Ricordo anche il Cappellano militare in forza a quella caserma. Arrivava in cortile con una spider rossa. Una volta, per evitare la Censura, gli affidai una lettera privata da imbucare all’esterno. Non fu mai recapitata. Il buon padre la consegnò al suo superiore ed io fui richiamato dal Capitano e punito in base al regolamento.
Ricordo il tronfio e ridicolo maresciallo Costa (proprio simile, con il suo pancione, a quello della serie televisiva di Zorro), il quale si vantava con gli altri militari di avermi sbattuto in cella (di punizione!) di peso, senza farmi toccare i piedi per terra. Era quello che durante le perquisizioni delle camerate mi aveva sequestrato, tra l’altro, una penna stilografica perché non dovevo scrivere; dei libri considerati sovversivi perché avevano la copertina rossa; e uno in particolare di psicologia intitolato Tecniche di liberazione (sic!) perché pensava si trattasse di un manuale di tecnica dell’evasione.

E degli altri obiettori, ricordi qualcuno?

Non posso dimenticare i miei «compagni» obiettori, con cui per lunghi mesi ci facemmo forza, solidarizzando ed aiutandoci a sopportare la condizione del carcere che la gente libera chiama, con esattezza semantica «penitenziario». Qualche nome di questi vecchi amici: Trevisan, Truddaiu, Rizzi, Pizzola, Lerino, Minnella. Alcuni mai più ritrovati dal tempo del carcere.
Ma perché parlare solo male del carcere? Dovrei anch’io, come fece Ernesto Rossi, fare l’«elogio della galera». Bisognerebbe tener conto anche dei vantaggi e consigliarlo ai giovani d’oggi come esperienza salutare. “Bisogna stare in galera per non prendersi un malanno”, diceva, con il suo forte senso dello humour, Ernesto. Diciamolo: bisogna stare in galera per riprendere gli studi, stare in compagnia, discutere di ogni cosa come i filosofi peripatetici. Insomma: è stata anche una scuola. Non sono più riuscito a leggere tanto attentamente e tanti libri, e a capire tante cose come allora. Ne ho nostalgia. Come siamo tutti impegnati a correre in giro, oggi!

Cosa suggeriresti per la «riconversione» del carcere di Peschiera?

Riconvertire questa struttura? E perché non lasciare che le ortiche e gli arbusti spontanei se ne impadroniscano e su di esso cada l’oblio? Potete farne un museo della guerra, della «giustizia militare» e dell’obiezione di coscienza, per portarci le scolaresche, o la sede di un archivio di stato.
Oppure, dopo aver tolto il recinto, il filo spinato e trasformato le finestre a bocca di lupo in luminose finestre a vetri (ma non sarebbe più la «Caserma XXX Maggio»!) potreste farne la sede di una scuola, una casa di accoglienza, un ospedale….
Basta un po’ di fantasia!

Matteo Soccio
Vicenza

Il carcere militare di Peschiera del Garda è stato chiuso. In quel carcere, come obiettore di coscienza, ho passato vari mesi. Ora non sognerò più la lunga serie di cancelli, il suono dei controlli notturni con i colpi dati alle sbarre, non sognerò più il cielo a spicchi dalle finestre a bocca di lupo, non sognerò più quella fortezza così fredda che ci impregnava di umidità nelle brande delle nostre celle, non sognerò più il tintinnio delle manette per gli amici che entravano : insomma, oggi è una grande giornata. Anche Gaeta, la paura di tutti i militari di leva, è chiusa da anni e forse diventerà sede dell’Università di Cassino : sarò il primo a visitare questo splendido castello non più segnato dal dolore ma dalla gioia dei giovani universitari e dalla forza della cultura. Una vera e propria riconversione da usi militari a usi civili !
E di Peschiera che cosa faranno, che cosa possiamo proporre ? Prima di tutto non dimenticare il luogo di sofferenza e spesso ingiusta repressione, simbolo di tutto il movimento dell’obiezione di coscienza. Intanto abbiamo riempito un altro granaio e svuotato un arsenale !

Alberto Trevisan
Padova

ISLAM
A cura di Claudio Cardelli
Storia di Rabia, santa musulmana

Rabia di Bassora nell’Iraq, morta nell’801 all’età di oltre ottant’anni, fu una delle grandi ispiratrici, vera “madre”, del Sufismo. Nata in una povera famiglia irachena, è la quarta figlia dei suoi genitori, dal che deriva il suo nome (rabi’a = quarta). Rimasta orfana, fu venduta come schiava a un padrone molto duro che, convertito dalla sua santità, la rese libera. Si ritirò in seguito in una capanna di giunchi, dove trascorse la sua vita nella povertà e nella preghiera, in compagnia della sua ancella Abda.
Tutta presa dall’amore verso Dio, non volle mai prendere marito:
Il matrimonio è necessario per chi ha scelta. Quanto a me, non ho scelta; sono del mio Signore e vivo all’ombra dei suoi comandi. La mia persona non ha alcun valore (XVI, 17).
Non gli ho reso culto né per timore del suo fuoco, né per amore del suo paradiso.
Sarei stata allora come il cattivo salariato, che lavora quando è pagato. Gli ho reso culto, invece, per amore e desiderio di Lui (XI,2).
La via mistica di Rabia è molto semplice e molto impegnativa: nella sua lunga vita, ha cercato di concentrarsi nell’amore verso Dio, ha desiderato con tutte le forze rendere Dio presente alla propria anima. Nel celebre “poema dei due amori”, che tanti musulmani conoscono a memoria, ha dato espressione al proprio sentimento:
Ti amo di due amori: un amore di desiderio e un amore perché Tu sei degno di essere amato.
L’amore di desiderio è che nel ricordo di Te io mi distolga da chi è altro da Te.
L’amore di cui Tu sei degno è che Tu tolga i veli perché io Ti veda./Non lode a me né in questo né in quello ma lode a Te in questo e in quello.(V,1).
Testimonianze sulla santità di Rabia
Molti sufi e altri personaggi visitarono la casa di Rabia e ci hanno lasciato preziose testimonianze: leggiamone qualcuna.
Entrai in casa di Rabia, quando era già una vecchia di ottant’anni, ed era come un piccolo otre consunto che sta per afflosciarsi. Vidi, in casa sua, una specie di stuoia di giunchi e un treppiede di canne persiane, alto due bracci. La casa era ricoperta di sterco secco di mucca o forse di una stuoia di giunchi. Nella casa c’era una brocca, un otre e del feltro che era, a un tempo, il suo giaciglio e il suo tappeto per la preghiera. Aveva anche un treppiede di canne a cui era appeso il suo drappo mortuario. Quando ricordava la morte era presa da un fremito e si turbava.
Quando passava fra la gente, si riconosceva in lei la serva di Dio. Un uomo le disse:”Prega per me”. Ella si appoggiò al muro e disse:”Chi sono io? Dio abbia misericordia di te! Ubbidisci al tuo Signore e pregalo: Egli esaudisce il povero”(XIII,3).
Si racconta ancora che degli uomini pii andarono a far visita a Rabia. Poiché videro che indossava degli abiti stracciati, dissero:”Molta gente ti aiuterebbe, se chiedessi loro aiuto”. Ma ella rispose:”Mi vergogno di chiedere qualcosa dei beni di questo mondo, perché le cose del mondo non appartengono a nessuno. Chi le ha in mano, le ha soltanto in prestito”. Dissero allora: “Questa donna ha sentimenti sublimi”(XVI,33).
Il racconto di Abda
Era la fedele ancella e compagna di Rabia e ci ha lasciato un ritratto suggestivo della santa, cui segue il racconto, spoglio e lineare, della sua morte. Rabia non temeva la morte; al contrario nutriva la speranza di incontrare finalmente il volto di Dio:”Le notti e i giorni sono lunghi per la brama dell’incontro con Dio”(V,2).
Rabia pregava tutta la notte, e quando cominciava ad albeggiare faceva un breve sonno sul suo tappeto per la preghiera, fino al sorgere dell’aurora. La udivo dire, allora, alzandosi con un balzo dal giaciglio, tutta agitata:”O anima, quanto dormi! E quanto poco vegli! Non tarderai ad addormentarti di un sonno da cui non ti risveglierai che al grido del giorno della risurrezione!”.
E fu questa un’abitudine che ebbe fino alla morte. Al momento della morte mi chiamò e mi disse:”Abda, non informare nessuno della mia morte. Avvolgimi in questa mia veste”(una veste di pelo nella quale vegliava in preghiera durante la notte).
La avvolgemmo in quella veste e in un velo di lana che era solita portare. Circa un anno dopo la sua morte, la vidi in sogno (XIII,8).
Un aneddoto, noto anche in Occidente, ci narra che Rabia fu veduta correre per la strada, portando una torcia accesa in mano e nell’altra un secchio d’acqua. Interrogata dove stesse andando, rispose:”Sto andando in cielo, per gettare il fuoco nel paradiso e versare l’acqua nell’inferno: non resterà così né l’uno né l’altro, e apparirà Colui che si cerca”(X).
Concludiamo col suo testamento spirituale:
Strappai dal mio cuore ogni attaccamento alle cose del mondo, e distolsi il mio sguardo da ogni realtà mondana. E ora sono trascorsi trent’anni durante i quali non ho mai pregato senza dire questa preghiera, che può essere l’ultima delle mie preghiere, e non mi sono mai stancata di dire ripetutamente:”Mio Dio, fammi sprofondare nel tuo amore, cosicché nulla mi distolga da te!” (XVI,30).
Tutte le citazioni del presente articolo sono tratte da I detti di Rabi’a, a cura di Caterina Valdrè, Adelphi Ed., Milano, 1992.

MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Musica Maestro: la banda Roncati

Bologna, marzo 1992…un gruppo di studenti per lo più iscritti al D.A.M.S., conosciutisi durante le occupazioni del ’90 della “pantera”, costantemente occupato a confrontarsi su progetti, iniziative politiche, discussioni sul ruolo della musica e confronto su realtà difficili, maturò l’idea di intervenire nei luoghi di emarginazione sociale di Bologna.
Come primo obiettivo, i nostri, individuarono l’ospedale psichiatrico Roncati.
Per alcune settimane i musicisti organizzarono questo intervento, arrangiando dei pezzi e contattando amici e conoscenti.
Il 29 marzo, domenica mattina, centocinquanta persone e alcune radio si ritrovarono davanti al manicomio e dopo un breve percorso a corteo fecero irruzione nei padiglioni dell’ospedale suonando e coinvolgendo i degenti nella festa.
L’azione riuscì benissimo e senza alcun problema di sorta e grazie all’adesione e all’entusiasmo creato in quell’occasione gli organizzatori idearono una banda che animasse con un nuovo modo di fare politica le manifestazioni pubbliche: la banda Roncati.
Già dal suo inizio alcune regole non scritte furono subito chiare:
doveva essere una banda senza divisa;
senza metodi musicali prestabiliti ma con la voglia di sperimentare e di autoapprendimento dei vari componenti;
non doveva esserci alcun direttore, ma una autoresponsabilizzazione dei vari musicisti e una organizzazione orizzontale che coinvolgesse il maggior numero di persone nella gestione interna. Ogni decisione andava quindi presa collettivamente (anche se questo comportava e comporta tuttora interminabili discussioni);
spirito sinistroide lontano dai partiti. Pronti però ad aderire a singole proposte e idee di associazioni e gruppi che cerchino di mobilitare l’opinione pubblica.

La banda Roncati è un gruppo di ragazze e ragazzi eterogeneo per età, conoscenze musicali e connotazioni culturali e politiche che agisce e si mobilita per tutte le realtà conflittuali sui temi di giustizia, guerra e sfruttamento. La banda ha scelto la musica per comunicare con la gente.
Penso che uno degli elementi più interessanti di questo gruppo sia l’aver capito che la musica è un ottimo aggregante, essa, soprattutto se suonata per le strade e tra la gente, unisce più di come interminabili comizi potrebbero mai fare. La musica è festa e la festa è un ottimo modo per trasformare un conflitto. In molte manifestazioni dove c’era un forte nervosismo e una forte contrapposizione (ad esempio con la celere)la presenza della banda è servita a tramutare la tensione e l’odio in danze; la protesta continuava, ma diversamente, quasi in maniera gioiosa.
Ricordo con piacere nel novembre del ’96 una manifestazione a sostegno di “Piazza Grande”, un’associazione bolognese di senza fissa dimora; il comune aveva emanato una sorta di diktat per impedire di sostare in Piazza Verdi (zona universitaria), soprattutto sotto i portici del teatro comunale dove spesso dimoravano dei senza fissa dimora. I celerini presidiavano i portici e la tensione era molto alta perché dall’altra parte c’era chi voleva ripigliarsi la piazza e i portici. Di colpo, senza nessun preavviso tra i fischi e le grida di ingiuria contro la celere, la banda, suonando, si incamminò lentamente e arrivata di fronte ai celerini continuò ad avanzare sotto il porticato e…i celerini indietreggiarono lasciando ai musici lo spazio conteso, nuovamente libero e di tutti dove chiaramente partì la festa danzante. Credo che se non ci fosse stata la banda una simile azione sarebbe costata molti ematomi e denuncie, ma si sa che la musica ha un potere tutto suo. La potenza della banda sta nella capacità di sfruttare la specificità aggregante della musica e nel saper creare un buon feeling con la gente.
Non so se Galtung nei suoi grafici e nelle sue classificazioni metterebbe l’agire della banda Roncati nella “trascendenza”. Penso che pochi in banda sappiano chi è Galtung o si interessino di nonviolenza o di trasformazioni dei conflitti. La banda Roncati non è un’associazione di nonviolenti, è un gruppo eterogeneo di persone con opinioni e pensieri molto diversi tra di loro. Sono però accomunati da una cosa: che siano a una manifestazione contro la guerra, in un carcere minorile, in un reparto psichiatrico o a una festa popolare si esprimono suonando.

Massimiliano Pilati

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi

GLI ULTIMI GIORNI, di James Moll

Soggetto e sceneggiatura James Moll
Fotografia Harris Done
Musica Hans Zimmer
Nathan Wang
Montaggio James Moll
David Holden
Produttore June Beallor e Ken Lipper, per Steven Spielberg/Survivors of the Shoah Visual History Foundation pres.
Durata 86’
Origine USA, 1999

Festival di Berlino 1999 – Selezione Ufficiale – Evento Speciale
Vincitore del Premio Oscar 1999 come Miglior Documentario

Gli ultimi giorni: ovvero il racconto della “passione” di cinque ebrei deportati nei campi di concentramento tedeschi, nella fase finale (tra il 1944 e il 1945) della più sistematica campagna di sterminio perpetrata da un esercito armato ai danni di una popolazione civile disarmata; cinque ebrei di nazionalità ungherese, il che non è secondario ai fini di una corretta interpretazione della vicenda filmica: gli ebrei ungheresi infatti risultavano essere gli unici (poiché ultimi ad essere deportati in ordine di tempo), ad avere piena consapevolezza dell’assurda equazione deportazione=morte.
Scorrono davanti ai nostri sguardi i volti dei cinque sopravvissuti alla Shoah, inquadrati con insistenza, in primissimo piano, dalla macchina da presa, con la capacità di penetrazione, la carica emozionale e la forza d’urto che solo il primo piano sa dare, in un tentativo di riavvicinamento e di abbraccio fraterno e solidale con lo spettatore. Sgomentano i racconti delle atrocità subite e vissute sulla propria pelle, le immagini documentarie che fanno da intercalare alla narrazione orale, e i drammatici interrogativi ancora senza risposta: “…perché – si domanda all’inizio del film Bill Basch, uno dei sopravvissuti – perché i tedeschi, nell’ultima fase del conflitto, quando il crollo del Terzo Reich era ormai inevitabile, anziché concentrare le proprie risorse belliche, economiche e fisiche in un estremo sforzo difensivo o nel tentativo di contenere le perdite, hanno continuato a dedicare tutte le loro energie alll’opera di annientamento degli ebrei?…”
Il lavoro diretto da James Moll, premiato con l’Oscar come Miglior Documentario nel 1999, e supportato dal contributo prezioso di Steven Spielberg, tenta di dare delle risposte a questa come ad altre numerose questioni aperte dalla Shoah; lo fa con pudore ed intelligenza, servendosi della voce e degli “sguardi” di coloro che sono sopravvissuti all’inferno, e salvando sulla pellicola il loro anelito di pace e il desiderio catartico di riconciliazione.
La storia siamo noi…, recita Francesco De Gregori in una famosa canzone: ovvero la storia, intesa con al S maiuscola in un’ottica collettiva e globalizzante, si ricostituisce e si sostanzia nelle vicende particolari dei singoli individui, in questo caso nelle voci e nella memoria di questi cinque sopravvissuti: anche per la Storia della II Guerra Mondiale -capitolo Shoah- risulta decisivo il contributo fornito dai singoli testimoni, attraverso l’elemento della narrazione orale.
Il dispositivo filmico è supportato da una sceneggiatura solida e precisa, che gli conferisce ritmo e ulteriore potenzialità di coinvolgimento emotivo. Coinvolgimento che mira ad incidere nella memoria collettiva un passato da non ripetersi mai più, ma che sa aprirsi anche a momenti significativi di dialogo, di conoscenza, e a tentativi di riconciliazione nel presente, come nella scena dell’incontro tra Renèe Firestone (una delle sopravvissute) e Hans Münch, capo dell’Istituto di Igiene SS di Auschwitz, assolto a Norimberga per aver salvato la vita ad alcune donne ebree sottoponendole ad esperimenti medici innocui; nella breve sequenza è condensato tutto l’immane e doloroso sforzo di aprire una via per il dialogo e la comprensione reciproca, nell’ottica di una possibile risoluzione dei conflitti.
Nel complesso quindi, l’operazione compiuta da Moll è degna di tutta la nostra attenzione; ma chi si fosse fatto sfuggire questo film al Cinema non disperi: è appena stata pubblicata la versione Home Video, disponibile in edicola e corredata da un’utile guida alla visione.
Gianluca Casadei
Flavia Rizzi
Cooperativa FuoriSchermo–Cinema & Dintorni

Per chi naviga:
www.istruzione.it/spielberg.htm
www.primissima.it/scuola

NESTLE’
A cura di Adriano Cattaneo

AL COMITATO CENTRALE PER IL
GRANDE GIUBILEO DEL 2000
00120 CITTA’ DEL VATICANO

Roma, 7 marzo 2000

Nei mesi scorsi, abbiamo indirizzato alla Sua cortese attenzione una lettera, nella quale esprimevamo profondo rincrescimento per la scelta d codesto Comitato di inserire l’impresa elvetica Nestlé tra le sette aziende fornitrici del Giubileo del 2000.
Avevamo sottolineato con forza che questa azienda, da anni, vìola coscientemente il Codice Internazionale di condotta Oms/Unicef, sulla commercializzazione e vendita dei sostituti del latte materno. Con conseguenze disastrose nei paesi dell’emisfero Sud del pianeta dove, informa Unicef, ogni anno un milione e mezzo di neonati muoiono per cause derivanti dall’allattamento artificiale.
Ed anche durante quest’anno giubilare, Nestlé, come altre imprese dello stesso settore produttivo, continua impunemente a violare questo Codice, a dispetto della normativa internazionale e di quella dei singoli paesi. L’ultima testimonianza è data da una denuncia di un ex-impiegato pachistano della multinazionale svizzera, il quale ha pubblicato un documento che illustra numerose violazioni.
Avevamo altresì ricordato che lo stesso Santo Padre, in un discorso del 1994, aveva preso le difese dell’allattamento al seno ed accennato all’influenza delle multinazionali del latte in polvere sul suo progressivo abbandono. E che già nel 1998, in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù, la Ribn aveva protestato con mons. Liberio Andreatta, all’epoca direttore dell’Opera Romana Pellegrinaggi, per un contratto di ristorazione stipulato con la Nestlé – nella sua risposta, mons. Andreatta aveva riconosciuto le nostre ragioni ed assicurato una maggior attenzione in futuro alle implicazioni etiche dei contratti.
A codesto Comitato Centrale, chiedevamo una maggiore attenzione nell’effettuare operazioni commerciali e finanziarie, che non possono essere mai neutre, perché la produzione di beni e servizi ed il commercio nazionale ed internazionale hanno conseguenze importanti sulla vita e sulla salute di intere popolazioni. Scegliere un’impresa piuttosto che un’altra, una banca piuttosto che un’altra, vuol dire anche diventare, in positivo o in negativo, corresponsabili di ciò che quell’impresa e quella banca fanno con il nostro denaro.
Il Suo silenzio, Eminenza, non solo ci stupisce, ma è per noi molto difficile da comprendere. Mentre si sta realizzando il Giubileo e si parla di perdono e riconciliazione, di rimettere i debiti, di condividere e fare solidarietà, di rivolgere l’attenzione verso gli ultimi, proprio ora viene rifiutato un minimo di attenzione ad una questione così importante e delicata: un milione e mezzo di neonati, sacrificati ogni anno sull’altare del profitto di poche imprese, meriterebbero quanto meno una risposta.
Desideriamo perciò sottoporre nuovamente alla Sua attenzione e sensibilità questo appello. E preannunciamo fin d’ora che saremo comunque disposti a sollevare il problema, se necessario, con azioni che richiamino l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica, nell’osservanza dei canoni della nonviolenza e della correttezza.
Confidiamo in un Suo autorevole interessamento e, nel ringraziare, Le inviamo i nostri più distinti saluti.

RIBN-RETE ITALIANA BOICOTTAGGIO NESTLE’
Segreteria Nazionale c/o Casale del Podere Rosa
Via Diego Fabbri ang. Via A. De Stefani – 00137 Roma
Fax 0039-6-8270876 (att. Ribn) – e-mail: ribn@yahoo.com

Un ex-impiegato della filiale Nestlé del Pakistan, il signor Syed Aamar Raza, ha recentemente reso pubblici dei documenti interni e riservati della Compagnia che a suo parere mostrano come la stessa abbia ripetutamente violato il Codice Internazionale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: prove di regali fatti ai medici perché prescrivano i prodotti Nestlé, di incentivi pagati agli impiegati perché raggiungano targets prefissati di vendita, di contatti diretti tra i promotori dei prodotti Nestlé ed il pubblico (madri con bambini in età di allattamento), di forniture di campioni di sostituti del latte materno alle strutture sanitarie. Tutte queste pratiche sono vietate dal Codice Internazionale. All’epoca dei fatti (fino alla fine del 1997) il Pakistan non aveva una legge nazionale equivalente al Codice Internazionale; le denuncie del signor Raza hanno contribuito ad accelerare l’approvazione di una legge in questo senso.
La Nestlé nega le accuse e minaccia una denuncia contro l’ex- impiegato, ma non l’ha ancora depositata in nessun tribunale. Sarebbe utile che la Nestlé, oltre a negare e minacciare, iniziasse un procedimento di audit esterno, affidato a consulenti indipendenti ed i cui risultati siano alla fine resi pubblici. Un simile procedimento permetterebbe di evitare le annose discussioni tra la Nestlé e chi da anni l’accusa di violare il Codice Internazionale.

LIBRI

A cura di Silvia Nejrotti

Philip Alston, Diritti umani e globalizzazione. Il ruolo dell’Europa, Torino 1999, Edizioni Gruppo Abele, pp. 170, £ 16.000

“Non ci sono automatismi nelle faccende umane; il movimento verso un mondo più umano non avviene inesorabilmente. (…) Un’efficace difesa dei diritti umani richiede una comprensione delle dinamiche che hanno fatto della Dichiarazione universale un faro di luce in una notte di disumanità” (p.18). Ed interamente teso ad interpretare tali dinamiche, alla luce dei fenomeni fondamentali che attraversano l’attuale tempo storico, vale a dire globalizzazione e costituzione dell’Unione Europea, è questo testo di Philip Alston. Da qui il filo conduttore che intesse il libro: nei confronti della Dichiarazione del 1948, “la sfida (…) è di riconciliare le esigenze di continuità e cambiamento in modo da conservare l’aquis in termini di dignità umana, e nello stesso tempo assicurare la capacità di rispondere a nuove sfide, alle circostanze mutevoli e al progresso nel rispetto dei valori condivisi” (p. 18-19). Per dare corpo a tale sfida occorre dimostrare – ed è obiettivo esplicitamente dichiarato del testo (cfr. p. 10) – che l’approccio tradizionale alla globalizzazione e all’integrazione europea, di tipo economicistico ed escludente ogni considerazione relativa ai diritti umani, “è alla fine controproducente e può anche rivelarsi autolesionistico” (p. 10).
Il volume si articola in due ampi capitoli: nel primo l’autore dà luogo ad una disamina del processo di globalizzazione al fine di valutarne il grado di compatibilità con la Dichiarazione universale dei diritti umani, nel secondo è tematizzato invece il rapporto tra Unione Europea e diritti umani. Il tutto è proposto in “una prospettiva rivolta all’azione: a completamento delle analisi sono infatti avanzate concrete raccomandazioni per il futuro” (p. 7).
Mi soffermo in breve sulla seconda parte, dove viene svolta un’accurata analisi volta ad evidenziare come l’Unione Europea, nonostante ammetta l’esigenza di “una politica sui diritti umani coerente, equilibrata, solida e professionale” (p. 56), oltreché innovativa e all’altezza dei tempi (cfr. l’“Agenda 2000 per i diritti umani dell’Unione Europea”, 1998), non abbia ancora adottato adeguate misure per tradurre in realtà questa ed analoghe enunciazioni di principio. Muovendo da questa constatazione, l’autore intende avanzare “un pacchetto di riforme equilibrato e completo, estremamente attento a rispettare i limiti di quanto è giuridicamente e politicamente realizzabile” (p. 57), orientato all’idea che “le strutture e le istituzioni competenti devono essere più trasparenti e aperte alle domande della società civile e delle varie sentinelle per la tutela di diritti umani” (p.59). Assunto fondamentale per dare l’avvio al passaggio dal livello dei principi a quello delle politiche concrete, in tema di diritti umani, è il riconoscimento, da un lato, che la politica interna ed esterna all’Unione non può essere diversa né divisa e, dall’altro, che nuove ed efficienti strutture politiche e burocratiche sono necessarie per realizzare gli impegni assunti e dichiarati dall’UE. In costante equilibrio dialettico tra tensione ideale e senso della realtà sta l’analisi di Alston, conscia che, fino a quando l’UE e gli Stati membri non promuoveranno concrete misure per raggiungere questi obiettivi, “darsi a immaginare grandiosi progetti per il gusto di farlo non ha molto senso” (p. 166).
Il testo di Philip Alston è pubblicato dalle Edizioni Gruppo Abele nell’ambito della collana Alternative, diretta da Giuliano Pontara e promossa dall’International University of Peoples’Institution for Peace (IUPIP). Nella medesima collana, inaugurata qualche anno fa da La personalità nonviolenta dello stesso Pontara, altri testi di rilevante interesse: da La logica della pace di Simona Sharoni alla riflessione di Michel Chossudovski su La crisi albanese; da Inventare futuri di pace di Elise Boulding all’indagine su Islam e nonviolenza ad opera di Chaiwat Satha-Anand.
Qualche parola, infine, sull’autore: Philip Alston insegna diritto internazionale all’Istituto Universitario Europeo di Firenze e, dopo essere stato presidente del Comitato delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali dal 1991 al 1998, collabora oggi con numerose organizzazioni internazionali.

ESTERI
A cura di Sergio Albesano
Il Parlamento internazionale degli scrittori

Le città dell’asilo politico: una rete contro l’intolleranza, per la protezione degli scrittori minacciati e perseguitati.
L’International Parliament of Writers (I.P.W.) è stato creato dopo un appello lanciato nel luglio 1993 da trecento autori di tutto il mondo, come reazione all’incremento degli assassini di scrittori in Algeria. I firmatari dell’appello affermavano la necessità di una struttura internazionale capace di organizzare una solidarietà concreta con gli scrittori perseguitati, nella forma di una rete di città dell’asilo politico. Essi decisero anche di difendere la libertà di creazione ovunque essa fosse minacciata e di intraprendere indagini e ricerche sulle nuove forme di censura. Il 24 giugno 1994 l’I.P.W. fu costituita e venne eletto Salman Rushdie suo primo presidente. L’attuale presidente è Wole Soyinka, mentre tra i presidenti onorari figura Vaclav Havel. Hanno aderito, tra gli altri, Saul Bellow (U.S.A.), John Michael Coetzee (Sud Africa), Vincenzo Consolo, Giovanni Giudici, Claudio Magris, Antonio Tabucchi (Italia), Jacques Derrida (Francia), Slavenka Drakulic (Austria), Carlos Fuentes (Messico), Günter Grass (Germania), Naguib Mahfouz (Egitto), Josè Saramago (Portogallo).
Attualmente la Rete è composta da venticinque città, tra cui Berna e Losanna (Svizzera), Francoforte (Germania), Gijon (Spagna), Göteborg (Svezia), Oporto (Portogallo), Salisburgo (Austria), e si sta diffondendo in America Latina e in Africa. La Rete finora è stata in grado di offrire circa quaranta residenze ad autori provenienti da Afghanistan, Albania, Algeria, Bangladesh, Cuba, Iraq, Iran, Kosovo, Nigeria, Uzbekistan, Serbia, Sierra Leone, Vietnam, Yemen. In Italia hanno aderito la città di Venezia e la regione Toscana con i Comuni di Certaldo, Grosseto e Pontedera. Nel marzo 1998 l’I.P.W. ha aperto una Casa dell’asilo politico a Città del Messico, che ha accolto diversi autori perseguitati, è diventata il centro del coordinamento della Rete in America Latina e inoltre è stata utilizzata anche come centro per incontri, scambi, mostre e conferenze.
L’I.P.W. si sta dotando di un sito in Internet e di una rivista, intitolata “Autodafe”, pubblicata simultaneamente in sei lingue, che offrirà testimonianze, indagini e analisi sugli spazi della cultura e sugli effetti della censura.
Gli scrittori protetti dalla Rete sono scelti dall’I.P.W., grazie all’attività di un Osservatorio della libertà di creazione costituito a Barcellona, che si avvale a sua volta di molti contatti internazionali. L’iniziativa, proteggendo gli autori perseguitati, ha la finalità sia di garantire la libertà di espressione, sia di diffondere il diritto di asilo politico, per “riconquistare nuovi territori liberi dove l’atto di creatività sia non solo tollerato ma incoraggiato e dove gli scrittori possano continuare a scrivere anziché ad essere uccisi; insomma un vero e proprio arcipelago dell’immaginazione”.
Essere una città della Rete significa mettere a disposizione degli artisti e degli scrittori in pericolo luoghi di residenza, finanziare l’I.P.W., facilitare con le autorità locali le procedure per far ottenere i visti e i permessi di soggiorno e finanziare i viaggi degli scrittori verso le città ospiti, assicurare agli scrittori residenti le coperture assicurative sociali e incoraggiare la loro integrazione garantendo l’accesso ai servizi pubblici municipali e difendendo il loro lavoro attraverso letture, traduzioni e pubblicazioni.
Al fine di sviluppare una vero polo di solidarietà, una Regione può entrare nella Rete raggruppando alcuni Comuni. In questo modo i costi dei soggiorni sono divisi fra più Comuni e istituzioni regionali.
Per diventare una Città o una Regione della Rete è necessario aderire ai principi della Carta della Rete, sottoscriverne le condizioni ed essere accreditati presso l’I.P.W.
L’I.P.W. è un’associazione senza scopo di lucro ed è finanziata dalla sottoscrizione dei suoi membri e delle città che ne fanno parte, oltre che di alcune istituzioni europee.
INFO: 120 rue Hotel del Monnaies, B-1060 Brussels, tel. 32 2 539 10 47, fax 32 2 534 45 59, e-mail: ipwpie@compuserve.com
Sergio Albesano
LETTERE

Telefonini invadenti anche nei treni

Caro direttore,
è purtroppo sempre più frequente per chi viaggia in treno la sventura di dover subire le conversazioni al telefonino di qualche vicino.
Qualcuno educatamente si alza e risponde sottovoce allontanandosi in corridoio o nelle piattaforme dei vagoni, ma la maggior parte fa finta di essere a casa propria, e ti stordisce con interminabili conversazioni, a volte banali (“sono a Padova, qui c’è nebbia”), d’affari (“passami l’ufficio contratti, ho detto duecento, non trecento pezzi da 40!”), litigate furibonde o dichiarazioni d’amore in serie, prima alla moglie e poi magari ad un’altra…
Per chi, come me, sceglie di viaggiare in treno anche per poter utilizzare il tempo di viaggio per leggere e scrivere, viene da diventar pazzi.
In Inghilterra ho visto che ci sono scompartimenti di treno “vietati ai telefoni cellulari”, in Italia no.
Qualche volta ho tentato direttamente, con molta cortesia, o indirettamente, con ironia ad alta voce, di far cessare l’intrusione, ma con scarsi risultati o prendendomi delle risposte sgarbate.
Ho chiesto allora aiuto ad un ufficio delle Ferrovie e, con difficoltà, abbiamo scoperto che il viaggiatore non cellulare-dipendente ha il diritto di impedire il disturbo.
Infatti l’Orario Ufficiale delle FS, inverno 1999-2000 (la Bibbia per chi viaggia in treno), al capitolo “prescrizioni di carattere generale per i viaggi in ferrovia” riporta al punto 11 bis, che precede il 12 sul “divieto di fumare”, e che dice testualmente: “Uso dei telefoni cellulari in treno. L’uso dei telefoni cellulari a bordo dei treni è consentito nei corridoi o sulle piattaforme delle vetture; l’uso nei compartimenti e nelle vetture salone è consentito a condizione che non arrechi disturbo agli altri viaggiatori.”
E’ chiaro quindi che se un viaggiatore dichiara di essere disturbato, l’uso dei cellulari non è più consentito.
Mi sembra opportuno ed urgente che questo articolo del regolamento sia fatto conoscere alla pari del “divieto di fumare”, stampandolo in evidenza con adesivi in ogni vagone.
Questo, tra l’altro, eviterebbe di subire l’inquinamento elettromagnetico che, come il “fumo passivo”, colpisce anche chi decide di non usare cellulari, soprattutto al chiuso dove sono ancora più dannosi.

Michele Boato
Mestre VE

Quando la leggerezza diventa una sfida politica

Cos’è la leggerezza ?
La leggerezza è il progetto umano che dei progetti mantiene solo uno schizzo del disegno principale : l’uomo.
La leggerezza è l’incommensurabile, irrinunciabile libertà dell’uomo. Poiché ogni uomo è libero. Libero comunque. Libero di avere dentro di sé il dono sacro di ogni essere umano : il dono del rispetto e dell’amore per l’altro.
La leggerezza è l’insieme delle indistruttibili fondamenta dei nostri princìpi.
La leggerezza è il superamento leggero della dicotomia sconfitta – vittoria. Per la leggerezza non esiste sconfitta che non sia vittoria. Non esiste rispetto umano che sia meno forte di qualsiasi presunta sconfitta. Non esiste ricchezza maggiore del senso di appartenenza ad una civiltà.
Leggerezza come sorriso.
E’ con questa leggerezza che ho sognato che il mondo potesse essere cambiato. E’ con questa leggerezza che si può abitare l’abisso tra un “qui e ora2 e una futura e piena realizzazione dell’uomo. Un qui e ora che, agli occhi leggeri dell’uomo che crede nell’uomo (e quindi a Dio, a Buddha,…), appare stupendo, incredibile, incorrotto eppure abitato da una disumana violenza umana. E un futuro dell’uomo che non reclama la razionalità del tempo poiché come destino dell’uomo si è già formato nelle radici e nel sangue che uniti ci appartengono come l’aria appartiene ai polmoni. Un destino che attende di essere chiamato subito.
La leggerezza non abita solo nella storia o solo nel futuro. Se abitasse solo nella storia sarebbe come se avesse un solo occhio, il quale non sa percepire la profondità dell’essere, ma sa solamente giudicare l’uomo tramite la sua evoluzione. Se abitasse solo nel futuro perderebbe tutta la sua forza attuale e le sue potenzialità, qualora delegasse al tempo il compito di guarire le nostre ferite.
La leggerezza abita dove il rapporto IO – TU svuota e sovrasta il tempo. Dove si vive il comune regalo della vita : nella sofferenza e nell’amore per l’altro.
La leggerezza è laddove ognuno sa di poter valere e rappresentare tutto.
La leggerezza è allora anche il coraggio di farsi idea e sfida politica. Sfida di persone libere, quindi, in cui poche parole “leggere” vogliono dare il senso comune del nostro dovere reciproco.
Leggero può essere un nuovo soggetto politico, un nuovo simbolo politico, un nuovo modo di fare politica. Indispensabile però è che al centro ci sia l’uomo. Non l’uomo religioso o l’uomo ateo, non l’uomo lontano o l’uomo vicino. L’uomo.
Abbiamo un po’ paura della leggerezza ?
Vogliamo dare voce a questa leggerezza ?
Vogliamo lanciare una sfida silenziosa a quanti parlano di confini, di razze diverse, di denaro, di ricchezza, di sfruttamento, di caste, di diversità, di globalizzazione, di ricatto, di ideologie e religioni incomunicabili, di fame necessaria, di paura ?
Vogliamo lanciare la sfida dell’uomo PER l’uomo ?
Se di questa sfida cogliamo la portata, la necessità e la libertà che ci offre per non sentirci mai degli sconfitti, abbiamo già vinto.
Pensiamoci.

Joseph Caiola
Cavriana (MN)

A carnevale non tutti gli scherzi valgono…

A Storo, in provincia di Trento, in occasione del carnevale è sfilato all’ammirazione dell’opinione pubblica un carro addobbato come l’interno del campo di concentramento di Auschwitz. Soldati nazisti in divisa, deportati con le casacche, forno crematorio, scelta dei deportati per il forno, esame della dentatura di ciascuno per poter usufruire dei denti d’oro, ecc. ecc…. L’Associazione degli internati militari in Germania (IMI) e l’Associazione Partigiani di Trento (ANPI) non hanno inteso sopportare questa ingiuria nei confronti dei loro caduti ed io ho fatto un’istanza alla Procura della Repubblica, per loro incarico, onde far sequestrare il carro dello scandalo e, se possibile, punire i suoi ideatori.
L’ho fatto come antifascista e ricordando che nel piazzale della stazione ferroviaria di Rovereto si erge un monumento a ricordo di ben 130 roveretani uccisi nei campi di concentramento tedeschi dal ’43 al ’45.
La mia iniziativa ha avuto un largo seguito, è intervenuta la Procura della Repubblica che ha indiziato coloro che avevano avuto la tragica fantasia di mettere alla burletta, all’ammirazione e all’entusiasmo della vita pubblica le persone destinate ad essere gassate, con perfetta imitazione dei tempi, dei luoghi e dei costumi di quell’epoca.
La cosa drammatica è che da quanto si legge sui giornali gli organizzatori si sono “scandalizzati” dicendo che “di carnevale ogni scherzo vale” e quindi anche far vedere gli ebrei che si incamminano verso la gassazione.
La magistratura ha tenuto duro, ha sequestrato il carro e sta facendo opportune indagini.
Il rabbino capo dott. Richetti ha preso da Milano una posizione durissima, il prof. Tullio Caliari – presidente IMI – ha pubblicato delle righe che dovrebbero far pensare e il vescovo di Trento ha chiarito le ragioni per cui non si può e non si deve “scherzare” su queste cose.
Ma i democratici non dimenticano: l’iniziativa del carro risale a coloro che qualche anno fa avevano munito una società sportiva di Storo dell’emblema delle “SS” scritte in caratteri runici.
Abbiamo notato con tristezza che, anzi, queste stesse persone dichiarano di avere un giorno visitato il campo di concentramento di Dachau.
E con questo ?
E’ possibile che cultura e tradizione che stanno alla base della democrazia del nostro Paese siano in questo modo gettate nella polvere, affidate al sorriso di gente che non sa nulla, che vuole solo divertirsi, che gioca al lotto e passa le serate guardando le ballerine della televisione ?
Noi che abbiamo denunciato lo scandalo di Storo diciamo che, nonostante tutto, gli ideali devono essere tenuti in piedi, perché, persi quelli, nell’ombra si profilano altri Dachau, magari benedetti da Haider.

Sandro Canestrini
Rovereto TN

La piovra neoliberista colpisce ancora

Nel governo D’Alema (filoamericano) la parola d’ordine sembra essere “Privatizzare”, cioè vendere le maggiori aziende statali come Telecom, Enel, Autostrade, ecc. per darle in mano ai privati, cioè ai colossi finanziari nazionali e multinazionali. Stiamo passando da un’economia mista, metà pubblica e metà privata ad un’economia prevalentemente privata dove nei prossimi anni saremo in balìa delle multinazionali. Tutto questo ci sembra strano perché al governo ci sono politici che fino a pochi anni fa erano agguerriti contestatori del capitalismo. La caduta del muro di Berlino ha fatto cadere tanti altri muri.
Le vivaci proteste ambientaliste e sindacali al meeting di Seattle (U.S.A.) dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) hanno riportato l’attenzione sui pericoli del libero mercato (detto globalizzazione del mercato) in mano alle multinazionali.
Dicono che l’economia è un affare privato mentre i costi ambientali, sociali sono pubblici. Questo modello economico, definito neoliberista, praticamente trascura le regole ambientali, la salvaguardia dei diritti dei lavoratori (in alcuni stati sfruttando anche i bambini) e della salute pubblica in modo da fornire lavoro e materie prime a basso costo alle multinazionali. Per quanto riguarda i problemi della salute pubblica in nome della superproduzione, tanti prodotti alimentari stanno subendo delle manipolazioni genetiche (vengono definiti prodotti transgenici) mentre tanti altri sono super imbottiti di additivi e conservanti chimici, di pesticidi, per ritrovarci poi latte e polli alla diossina, mucche “pazze” e sostanze tossiche che si accumulano nel nostro organismo.
Hedel Camara diceva.” Il grande scandalo del secolo è un piccolo gruppo di nazioni sempre più ricche, mentre la maggior parte dell’umanità è sempre più povera. Non c’è superproduzione. C’è sottoconsumo da parte di milioni di poveri a causa del nostro superegoismo.”
Il WWF sta raccogliendo firme per chiedere ai governi dei paesi industrializzati, di cancellare tutti i debiti dei paesi in via di sviluppo ed in gravi situazioni sociali economiche.
Il 2000 deve diventare un anno simbolico per un nuovo inizio di relazioni tra paesi ricchi e paesi poveri del mondo, tra il potere economico e la salute ambientale della Terra.

Michele Ferrante
Tortoreto (TE)

Di Fabio