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Azione nonviolenta – Aprile 2001

DiFabio

Feb 5, 2001

Azione nonviolenta aprile 2001

– La memoria chiusa in due armadi e la conoscenza addormentata
– Si puo’ perdonare il nazismo?
– Via Resia a Bolzano il campo della memoria
– La Shoah di ieri e di oggi: Da Auschwitz all’Africa
– La marcia zapatista degli indigeni e la nonviolenza attiva in Chiapas
– Trecentomila africani accolgono i trecento di “Anch’io a Bukavu”

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Editoriale

La memoria chiusa in due armadi e la coscienza addormentata

Di Elena Buccoliero

Nel discorso di apertura dell’anno giudiziario 2001 è stato detto che i processi sospesi a carico di criminali nazisti verranno regolarmente espletati. O almeno – aggiungiamo noi – per quanto sarà possibile farlo, a quasi sessant’anni di distanza. Quei processi – quasi 700! – sono stati rinvenuti casualmente nel 1994, durante una ricerca d’archivio presso la Procura Militare di Roma, in due armadi allucchettati e con le ante rivolte verso il muro. Lì erano stipate alcune centinaia di fascicoli “temporaneamente archiviati”.
Cerchiamo di ricostruire il perché di un così lungo ritardo giudiziario, seguendo le orme di uno di essi, il processo a Michael Seifert.
La pratica venne avviata nel 1946 dalla Procura Generale Militare del Regno – Ufficio Procedimenti contro criminali di guerra tedeschi – in ordine al reato di “violenza con omicidio contro privati nemici e prigionieri di guerra”. Come si legge nell’ordine di iscrizione, “nel campo di concentramento di Bolzano, durante il lungo periodo dell’occupazione nazista, trattarono in modo inumano gli italiani (militari, ebrei ed altri civili) sottoponendoli a continue sevizie e bastonature, imprigionamenti lunghi, terribili ed estenuanti. Per questo brutale trattamento, alcuni internati perirono”.
“Mentre i procedimenti penali istruiti a carico di italiani furono definiti con regolari sentenze”, spiega il P.M. Bartolomeo Costantini, “quelli a carico di Seifert e degli altri militari nazisti non vennero trasmessi alla Procura militare competente e procedettero blandamente per un paio di anni, esclusivamente con qualche richiesta di documenti”.
“Il Procuratore Generale Militare della Repubblica, nel 1960, ordinò la provvisoria archiviazione degli atti”, conclude Costantini, “motivando che nonostante il lungo tempo trascorso dal fatto, non si sono avute notizie utili per l’accertamento della responsabilità”.
“L’Archiviazione temporanea è un istituto che nel diritto non esiste”, chiarisce Sandro Canestrini, avvocato di parte civile al processo Seifert per l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e per l’Anpi di Bolzano, oltre che Presidente del Movimento Nonviolento. “Una denuncia o è archiviata una volta per tutte, o dà l’avvio ad un procedimento”.
Canestrini commenta il fatto con parole dure e precise.
“E’ uno scandalo nazionale e internazionale di incredibili proporzioni. I giudici nascosero volutamente quei fascicoli a chiave in un armadio. Si tratta di settecento processi per omicidio volontario, per strage. In pratica, quei magistrati si rifiutarono di celebrare i processi”.
“Era tempo di guerra fredda, il mondo si era diviso in due blocchi”, prosegue Canestrini. “Tutto doveva essere messo a tacere, Italia e Germania ovest facevano parte del blocco occidentale. Si è impedito che l’opinione pubblica fosse informata e fosse fatta piena luce su quei crimini. Siamo stati privati anche delle lacrime per gli eccidi documentati nei fascicoli. E poi, nel 1994, quando il materiale fu ritrovato, il mondo politico ha taciuto di fronte a tutto ciò, non ha promosso alcuna mobilitazione pubblica né riflessioni e ragionamenti”.
Solo nel 1994 questi frammenti di storia sono ritornati alla luce e i dossier distribuiti alle Procure Militari, in base al principio della competenza territoriale. “Di fatto”, si rammarica il P.M. Costantini, “su alcune centinaia di casi arrivati alla Procura di Verona forse solo 5 o 6 saranno perseguibili. Tanti sono morti, tra gli imputati come tra i testimoni, e i reati meno gravi saranno ormai prescritti, cioè non più giudicabili perché troppo tempo è passato”.
Il reato di omicidio, però, non decade, e per Michael Seifert il tribunale ha pronunciato la condanna all’ergastolo. Secondo Canestrini, “un processo come quello di Verona, che ripropone le tematiche dell’antifascismo e dei diritti dell’uomo, è una scossa elettrica che può risvegliare l’opinione pubblica da un sonno della ragione strisciante, da un clima di latente appiattimento delle coscienze”.
Purtroppo però, nei giorni del processo abbiamo assistito al più totale disinteresse di tv e giornali, e dunque dell’opinione pubblica che, all’oscuro di tutto, non ha avuto la possibilità di “risvegliarsi”…
Nonostante tutto questo, c’è chi non si arrende. A Verona, Bartolomeo Costantini è sulle orme di Otto Sein, l’SS ucraina compagno di Seifert. A processo quasi ultimato, in attesa della sentenza, riusciva a sorridere: “I nazisti sono come le ciliegie. Condannato uno, viene voglia di prenderne un altro”.
Si può perdonare il nazismo?

E’ possibile riconciliare vittima e carnefice?

Servizi a cura di Elena Buccoliero

– Voglio concederti che da questo pugno di fango impregnato di lacrime Dio abbia creato un ebreo. Ma non mi vorrai dire che dallo stesso fango ha creato anche il comandante del lager?
– Tu dimentichi Caino.
– E tu dimentichi dove sei. Caino ha ucciso Abele in un momento di collera, ma non l’ha torturato. Caino aveva un rapporto personale con suo fratello: noi siamo dei perfetti estranei per i nostri assassini. (da “Il Girasole”)

Se sia o no possibile perdonare al nazismo, questo interrogativo muove il romanzo-saggio “Il Girasole” di Simon Wiesenthal, edito da Garzanti nel 1970 e dato nuovamente alle stampe nel 2000, a significare tutta l’attualità di questo argomento nonostante (o proprio perché) alcuni decenni siano passati.
Il testo è suddiviso in due sezioni. Nella prima, Wiesenthal racconta un episodio vissuto personalmente quando era detenuto nel lager di Leopoli. Una giovane SS in fin di vita, attanagliata dal rimorso e dal timore della dannazione, lo chiama al suo capezzale per confessare i propri delitti e chiedere perdono.
Il giovane Wiesenthal, dopo aver ascoltato e soccorso il moribondo, esce dalla stanza senza dare risposta.
L’inquietudine che rimane gli impone di parlare con altri. Nell’immediato, i compagni di prigionia e, molti anni più tardi, una selezione di interlocutori “speciali”, diversi per professione, posizione sociale e politica, religione e nazionalità. Tra di essi, rabbini, storici, scrittori, filosofi, sacerdoti, teologi, sopravvissuti, nazisti…
Dalla seconda sezione, che raccoglie le numerose risposte inviate a Simon Wiesenthal, presentiamo alcuni stralci che ricostruiscono posizioni diverse dello stesso dibattito.

Opinioni a favore del perdono

La prima buona ragione per soccorrere il moribondo è l’adesione ad una fede – cristiana, per certi aspetti anche ebraica – che chiede di perdonare chi si pente delle proprie colpe. Molti dei cristiani interpellati da Wiesenthal rispondono in questo modo, magari attribuendosi il beneficio del dubbio, poiché è pressoché impossibile mettersi nei panni di Simon Wiesenthal in modo verosimile e sincero.
Il perdono era dovuto, per la forza del rimorso con cui l’SS chiedeva di essere ascoltato. “Di nessuno sia dimenticata la colpa”, scrive Manès Sperber, assistente di Adler e partecipante alla Resistenza, “ma si perdoni a tutti quelli per cui la colpa è divenuta una fonte inesauribile di tormentoso rimorso”. E conclude: “Contro questo perdono non v’è obiezione, come non v’è obiezione contro la misericordia pacificatrice”.
Ancora, il perdono era dovuto perché nessun uomo può erigersi a giudice di un altro uomo. Scrive il sacerdote francese Michel Riquet, vicepresidente dell’Unione nazionale dei deportati: “Il cristiano che parla in me pensa che non esista un uomo innocente al punto da potersi erigere a giudice inesorabile degli altri”.
Lo scrittore Hans Werner Richter lo affianca riconoscendo alle SS alcune attenuanti: “Per me allora i nazisti erano topi di fogna che si dovevano schiacciare … ma erano anche uomini, disorientati, creduloni fanatici e spesso fuorviati. Erano uomini come lei e come me. Io oggi posso perdonare, ma sempre a fatica, e dopo tanto tempo. Anche noi, caro signor Wiesenthal, non eravamo e non siamo degli dèi”.

L’SS era sinceramente pentita?

Anche chi rifiuta il perdono, o chi sospende il giudizio, adduce molte buone ragioni. Alcune riserve riguardano la sincerità della SS e il senso stesso delle sue parole, ovvero la possibilità o meno di redimere un peccato collettivo nel dialogo a quattr’occhi al capezzale di un uomo in fin di vita.
“(La richiesta della SS morente è) insolente”, scrive Stefano Levi della Torre, pittore e saggista, “perché ancora una volta il nazista si serviva dell’ebreo come di uno strumento: esaminato in profondità, il suo gesto si tinge di egoismo, perché vi si riconosce il tentativo di scaricare su di un altro la propria angoscia”.
Di più: su un “altro” che viene sbrigativamente assunto a simbolo di tutte le vittime. “Pregando un ebreo di assolverlo per ciò che aveva fatto ad altri ebrei, ci lascia nel dubbio se avesse in realtà superato l’opinione nazista di giudicare gli ebrei meno che entità umane intercambiabili piuttosto che esseri umani”, riflette Harold Kushner, rabbino nel Massachussetts.
Secondo lo scrittore Roger Ikor, membro della Lega internazionale contro l’antisemitismo e il razzismo, proprio questo rendeva impossibile perdonare: “La SS rappresentava tutte le SS, tutto il sistema nazista… dal canto suo Wiesenthal (rappresentava) tutta la deportazione. Non poteva perdonare per ciò che egli incarnò e per ciò che incarnava il suo interlocutore”.
Alcuni interpretano il gesto del morente come un tentativo opportunista di “cavarsela” alla svelta. “In punto di morte non si ha nulla da perdere. Allora si può tentare di guadagnare qualcosa… il pentimento è anche un affare”, considera ancora Levi della Torre, e si completa solo se conduce alla riparazione del male commesso: “Se si fosse valso del diritto di un morente a essere ascoltato e avesse chiamato i suoi camerati per denunciare di fronte a essi il proprio e il loro crimine, allora, al contrario, avrebbe cercato di fare della propria crisi privata un atto pubblico di denuncia”.
Difatti, come ci ricorda il sacerdote John Pawlikowski, membro della Commissione dei vescovi cattolici per i rapporti con gli ebrei, reati come quelli del nazismo non possono essere assolti individualmente, richiedono una forma pubblica di perdono, cioè “la riconciliazione… un processo molto più lungo e più complesso, che comporta pentimento, contrizione, accettazione di responsabilità e, infine, riunione”.

A chi spetta perdonare?

Secondo la religione ebraica, il perdono delle colpe spetta alle vittime, e soltanto a loro. Per questo chi si macchia di omicidio non ha speranza in questa vita: se le vittime non ci sono più, nessuno può perdonare. Soltanto Dio, forse, alla fine dei tempi. Queste parole vengono ripetute, nel corso del Girasole, da quasi tutti gli interpellati di religione ebraica, e non soltanto da loro. La questione è talmente seria, che pone un limite persino alla misericordia di Dio.
Paolo De Benedetti, docente di giudaismo presso l’Università di Milano, precisa che “A Kippur (giorno della purificazione nella religione ebraica, n.d.r.) Dio perdona le colpe commesse contro di lui ma non quelle commesse contro il prossimo”. E, citando Enzo Bianchi: “Non si deve porgere la guancia dell’altro”.
Perché il perdono “per conto terzi”, il perdono a buon mercato, “coltiva una sensibilità nei confronti dell’assassino al prezzo dell’insensibilità verso la vittima. (Cynthia Ozick, scrittrice).
Con una conclusione paradossale, presentata da Levi della Torre quando interpreta provocatoriamente chi si assume il diritto di concedere assoluzioni: “Noi abbiamo perdonato i vostri persecutori. Ma non perdoniamo voi perché non perdonate. In conclusione, i nazisti sono perdonati, gli ebrei no”.
Primo Levi, in appendice a Se questo è un uomo, sottomette il perdono al pentimento sincero: “Non ho perdonato nessuno dei colpevoli, né sono disposto ora o in avvenire a perdonare ad alcuno, a meno che non abbia dimostrato (coi fatti: non con le parole, e non troppo tardi) di essere diventato consapevole delle colpe o degli errori del fascismo nostrano e straniero, e deciso a condannarli, a sradicarli dalla sua coscienza e da quella degli altri. … Ma un nemico che si ravvede ha cessato di essere un nemico”.
Perché un’altra paura, è che assolvere significhi cancellare il male.
Ascoltiamo Albert Speer, ministro degli armamenti di Hitler dal 1940 al 1945, condannato a 20’anni nel processo di Norimberga: “Afflitto da indicibili sofferenze, inorridito dai tormenti di milioni di esseri umani, ho confessato la mia parte di responsabilità… Nemmeno dopo vent’anni di reclusione posso perdonarmi… E lei, signor Wiesenthal, dovrebbe perdonare, anche se io non posso perdonare me stesso?”

Perdonare, ricordare, rendere giustizia

“Si deve dimenticare prima di poter perdonare? E’ possibile conservare la memoria dell’oltraggio, e tuttavia perdonare? E a quali condizioni ciò può avvenire?”, si domanda Manes Sperber.
Il primo imperativo, di fronte ad una tragedia di dimensioni così grandi, è non dimenticare.
“Martire, nell’etimo greco, vuol dire testimone. La testimonianza era la prima virtà del cristiano. Quando prevarica sulla testimonianza, il perdono è contiguo al condono e somiglia all’oblio, è l’opposto della testimonianza”, precisa Levi della Torre. “Contrariamente alle apparenze, talvolta chi perdona compie un atto di presunzione e usurpa un diritto non suo, talvolta chi non perdona compie un atto di umiltà”.
Durante il processo ad Eichmann, Roger Ikor ricorda di avere proposto di celebrare un processo per ogni vittima, in tutto sei milioni di processi: “ognuno ha diritto ad un suo processo personale: era un essere umano, quindi è stato individualmente assassinato. Accettare il processo collettivo significa, in un certo senso, fare il gioco dei massacratori, che consisteva nell’annullare gli individui sotto quell’entità astratta che è il numero”.

Dio punisce e perdona

Hans Habe, giornalista viennese, ci svela un aspetto illuminante della concezione ebraica del perdono.
“Perdonare è l’imitazione di Dio. Ma anche la punizione lo è. Dio punisce e perdona: in questa successione. Ma Dio non odia. Questo è il modello: degno di essere seguito e forse irraggiungibile”.
Ci dice Habe: il perdono non esclude affatto che si debba rendere giustizia. Dio è un padre giusto, quindi punisce i suoi figli, ma li ama e per questo li perdona. “Mi sembra indifferente che lei abbia o non abbia perdonato… Ma lei non ha odiato l’assassino morente. E questo è l’inizio. Il perdono senza giustizia è una presuntuosa debolezza. La giustizia senza amore è l’illusione della forza. E noi dobbiamo trovare la via per uscire e non per amore degli assassini, ma di noi stessi. Né l’amore, che si esprime nel perdono, né la giustizia, che esige la punizione, ci aiuteranno da soli a uscire dal labirinto”.
Via Resia a Bolzano Il campo della memoria

Il lager di Bolzano – Polizeiliches-Durchgangslager-Bozen – fu uno dei quattro campi di concentramento esistenti in territorio italiano, oltre a quello di Fossoli nei pressi di Carpi (Modena), Borgo San Dalmazzo in provincia di Cuneo ed alla Risiera di San Sabba di Trieste. Il Lager contava sui lager satellite di Bressanone, Merano, Sarentino, Campo Tures, Certosa di Val Senales, Colle Isarco, Moso in val Passiria e Vipiteno. Entrò in funzione nel luglio 1944, nell’attuale via Resia, sotto il distretto catastale di Gries, quando il campo di Fossoli non fu più ritenuto sicuro. A Bolzano venne trasferito il nucleo di comando di Fossoli, tra cui il tenente Karl Titho e il maresciallo Hans Haage, supportato da alcuni sudtirolesi e da guardie appartenenti ad altre nazionalità.
I prigionieri: Non si è a conoscenza del numero esatto dei prigionieri che vi transitatarono: sappiamo però che furono almeno 11.116, soprattutto prigionieri politici, partigiani, ebrei, zingari e alleati. Tra le donne, molte le militanti antifasciste, le ebree, le zingare, le slave, e le mogli, sorelle e figlie di perseguitati antifascisti. Infine i bambini, provenienti da famiglie ebree, zingare e slave già deportate per motivi razziali.
I trasporti: Tra il luglio ‘44 e il febbraio ‘45, dal lager di Bolzano, nato come campo di transito, partirono numerosi trasporti, soprattutto di ebrei, verso i campi di sterminio di Ravensbrück, Flossenbürg, Dachau, Auschwitz e Mauthausen. Solo 100-150 ebrei rimasero poi nel campo dopo il febbraio ’45, quando non fu più possibile far passare i convogli per la strada del Brennero, perché gli alleati avevano bombardato le linee ferroviarie.
La struttura del campo: Il lager occupava un’area di circa 2 ettari circondata da un muro di cinta sul quale era stato ulteriormente fissato del filo spinato. La struttura comprendeva due grandi capannoni in muratura suddivisi in blocchi separati da tramezze, uno per le donne e gli altri per gli uomini. Di fronte all’ingresso, sul fondo del campo, era posizionata una baracca che costituiva il blocco celle, ovvero la prigione del campo, destinata ai detenuti considerati pericolosi, a chi era sottoposto a punizione o a chi doveva subire un interrogatorio.
Le violenze: Benché le condizioni di vita fossero meno disumane che nei campi di concentramento e di sterminio, le punizioni frequenti, le violenze e le angherie, il cibo scarso, le precarie condizioni igieniche, la costante presenza di parassiti, il lavoro massacrante e le rigidi temperature invernali rendevano dura e penosa l’esistenza quotidiana nel campo. Bastonature crudeli avvenivano nella palazzina del comando ed entro le celle, specialmente per opera di due ucraini, Otto Sein e Mischa Seifert, processato a Verona nel novembre 2000. A tutt’oggi risulta difficile quantificare le vittime del campo: sappiamo che 23 persone vennero uccise il 12 settembre 1944 a colpi di pistola e seppellite in una fossa comune. Gli internati ebrei morti all’interno del campo di Bolzano furono 14, 6 dei quali per le sevizie subite.
Il dissenso: Nel campo esisteva una struttura politica clandestina interna, che riproponeva nella sua fisionomia quella del Comitato di Liberazione Nazionale. Questa aveva il compito di assistere gli internati, procurare loro del vestiario, introdurre cibo nel campo, mantenere i contatti fra le famiglie ed i prigionieri, organizzare evasioni. A quanto pare furono circa un’ottantina le evasioni preparate. Non sempre però le fughe ebbero un esito positivo; gli internati catturati dopo un tentativo d’evasione venivano riportati in campo dove venivano uccisi o subivano una durissima punizione, come monito agli altri prigionieri al fine di inibire altri possibili allontanamenti.
La liberazione: Il campo venne liberato alla fine dell’aprile 1945: a partire dal 29 aprile e fino al 3 maggio gli internati cominciarono ad essere rilasciati, pare a seguito di trattative fra la Croce Rossa Internazionale, esponenti partigiani di Bolzano ed il comando del Lager. Tutti i prigionieri ancora presenti, circa 3.500 persone, ricevettero un certificato firmato dal comandante Titho e vennero condotti fuori dalla città. Gli ebrei furono trasferiti a Merano, assistiti dalla Croce Rossa e poi riportati alle loro case.

Oggi: Del campo di Bolzano-Gries non rimane più traccia, solo il muro di cinta che circonda palazzi di edilizia popolare e una stele in ricordo degli internati.

Testimoni: Don Domenico Girardi
“Quando l’odio si trasforma in pietà”

Don Domenico Girardi ha 89 anni molto ben portati, e se qualcuno gli dà del vecchio, si sente profondamente offeso. Nel lager di Bolzano è stato recluso per un mese appena, nell’aprile 1945.
“Ero parroco in un paesino della Val di Fiemme e davo da mangiare e da bere, assistenza umana insomma, a russi, americani e disertori tedeschi”, racconta don Domenico. “Ero accusato di assistenza a due disertori dal fronte di Cassino che si erano effettivamente fermati da me per un paio di mesi”.
Difatti portava sulla tuta il triangolo rosso, quello dei detenuti pericolosi, insieme al numero.
“Quella era una delle sofferenze maggiori. Era nome, cognome, titolo di studio, posizione sociale. Peggio di un cane. Chi non l’ha provato non conosce questo avvilimento della personalità. Un cane ha un nome: Fido, Bobi, noi non eravamo neanche un cane, soltanto un numero”.
Nonostante il tempo trascorso, l’esperienza del lager è ancora dolorosamente viva nella memoria. Qualche momento prima dell’interrogatorio, don Domenico la ricorda confessando l’odio che ha provato verso i nazisti, nonostante il suo abito talare.
Lo ricorderemo, don Domenico, per la fatica di sintetizzare desiderio di giustizia e sentimento di pietà. “Dopo tutti questi anni” scuote la testa pensando a Mischa, prima di testimoniare, “ormai sarà un vecchio anche lui…”.
“Una volta che mi poteva costar cara sì, perché… Era morto mio papà. Per me papà e mamma erano tutto, come io per loro, anche, ero tutto. Per caso ho saputo che mio papà era morto il 14 aprile. Sono andato dal Lagerfuhrer, ho detto: “Mio padre è morto, fatemi qualsiasi conversione, ma lasciatemi vedere mia mamma. Soldi non ne ho da pagare le guardie, ma a casa ho campi, prati, venderò uno di quelli ma lasciatemi veder mé mama – perché lei non sapeva neanche se ero vivo o morto. Quello lì si alza, mi viene vicino e mi dà un calcio – avevo dietro 14, 15 scalini – e mi piglia di striscio. Sento qualche cosa di umido andar giù, sulla parte deretana, tocco con la mano ed è sangue. Quando sono stato sotto nel piazzale mi sono voltato, non ero più capace di dominare me stesso. “Heute mir, morgen dir”, “Oggi tocca a me, ma domani può toccare a te”. E l’altro prende la rivoltella, crick-crack, e io via per il piazzale come un serpente, a zig-zag. Non ha sparato, però”.
Testimoni di un passato che non si può dimenticare

Michael Seifert, detto Mischa, aguzzino del lager di Bolzano, è stato condannato all’ergastolo. Il processo si è svolto a Verona nel novembre 2000.
Il Seifert di cui parliamo ci guarda da un lucido proiettato sulla parete dell’aula del Tribunale Militare di Verona. Ha vent’anni e la divisa da SS. Il quotidiano di Vancouver – la città canadese dove si è rifugiato nel 1951 e dove vive tutt’ora – lo riprende, insospettabile signore, vestito da pescatore, mentre si occupa del suo hobby preferito. Oggi ha 76 anni. Di più non sappiamo, se non il rifiuto a scegliersi un avvocato difensore, la determinazione a ritardare per quanto possibile l’estradizione, e la donazione alla moglie di ciò che possiede, per scansare rivalse sui beni di famiglia. Dopo la guerra infatti Seifert si è sposato con una ragazza di nome Christine, ha avuto un figlio di nome John che probabilmente avrà cresciuto con tenerezza…

I testimoni arrivano emozionati, cauti. I più giovani hanno superato la settantina, c’è imbarazzo. Si ha l’impressione che l’aula e i tempi del tribunale non siano i migliori perché chi ha subito possa parlare. E poi, per ognuno è una storia diversa. C’è chi ha cercato di dimenticare, chi ha perdonato, chi non si è mai arreso, chi chiede giustizia… I più timidi sembrano chiedere scusa di essere qui, a riportare a galla il passato. La gentile signora altoatesina che nel lager lavava i panni dei morti, ancora si dispiace perché la resa non era quella voluta, “con il sapone che c’era, capirà, tutto quel sangue…”
Nella Lilli Mascagni è tra i testimoni più importanti. E’ deceduta prima dell’udienza, per lei parla il verbale dell’incidente probatorio. “Michael Seifert e Otto Sein erano sempre insieme”, racconta. “Erano prigionieri per avere violentato delle ragazze, e col loro comportamento zelante dovevano dimostrare di essersi redenti”.
Sette e Otto – così li chiamano alcuni prigionieri, perché anche nel lager si è capaci di scherzare… – sono i guardiani delle celle di rigore, dove stanno rinchiusi. La loro cella è in realtà l’unica ad essere aperta. Seifert e Sein hanno in consegna le chiavi di tutte le altre, da cui possono entrare ed uscire quando vogliono, e muoversi nel campo a loro piacimento. Più che una punizione, sembra un trattamento di favore. Le celle in tutto erano cinquanta, piccole da starci in due in piedi, senza materassi né coperte. L’ultima, completamente buia, era il luogo delle torture.
Cosa avveniva esattamente, nessuno l’ha potuto raccontare. Erano delitti perfetti, nessuno doveva assistere. I cadaveri poi venivano occultati dietro un rifugio o trascinati via da quello che un testimone ricorda come “un carro militare con le ruote alte così, tirato da non so che asino rognoso. Portava via qualche cosa di coperto, non ho visto che cos’era ma…”.
Un meccanismo così ben oliato ha necessariamente degli errori, delle sviste, delle inceppature fortuite. Piccole coincidenze hanno permesso che arrivassero fino a noi le testimonianze, quasi certamente parziali, di quello che avveniva. C’era chi aveva spiato in un corridoio… chi era stato chiamato a spostare i cadaveri… a pulire le celle prima della visita della Croce Rossa…
“La notte di Pasqua del ‘45 i due ucraini uccisero a bastonate un ragazzo di 18 anni”, racconta ancora Nella Lilli Mascagni, rinchiusa in una cella attigua a quella “della morte”. “Sentivo le ossa di questo ragazzo che scricchiolavano ad ogni bastonata e lui invocava sua madre urlando. La mia cella era aperta. Mentre i due ucraini infierivano su quel ragazzo, io e gli altri prigionieri urlavamo e dicevamo loro di smetterla, dicevamo ad alta voce <<Basta! Basta!>>, non avevamo più paura di niente e urlavamo loro di smettere di picchiare quel ragazzo. Ad un tratto il ragazzo non urlò più”.
Non si sapeva con quale criterio Mischa e Otto scegliessero le loro vittime. “Era un bambino nella stanza dei giochi”, spiega con orrore la signora Scala. “Entrava nei blocchi, si guardava intorno e sceglieva. Tutti noi eravamo terrorizzati. Ricordo una domenica alla messa, nel silenzio, grida prolungate di dolore che provenivano dalle cellette”.
Oppure lo vedevano, Michael Seifert, uscire dal blocco celle ed entrare in cucina per lavarsi le mani insanguinate.
Non sono mancati i tentativi di fuga, quasi sempre non riusciti.
C’è stato fortunatamente anche qualche lieto fine, come quello che ci hanno raccontato il signore e la signora D’Antoni. Si sono incontrati al lager di Bolzano, dove uomini e donne non potevano parlarsi. Faceva freddo, la fonte era ghiacciata. Gli uomini andavano a lavarsi per primi e spaccavano il ghiaccio anche per le donne. Da Bolzano sono stati trasferiti a Merano, dove gli incontri erano più facili, e si sono innamorati. Sono felici insieme ormai da 52 anni.

I capi di imputazione a carico di Seifert
Il nazista che si divertiva ad uccidere

Michael Seifert è stato processato per “concorso in violenza con omicidio contro privati nemici, aggravata e continuata”. Di seguito, dai verbali del Tribunale, la descrizione dei reati a lui imputati:
1) la sera di un giorno imprecisato del febbraio 1945, nelle celle d’isolamento del lager, in concorso con il Cologna, con il Sein e con un italiano rimasto ignoto, portava un prigioniero non identificato nel gabinetto e lo torturava lungamente anche con il fuoco per indurlo a rivelare notizie, cagionandole la morte che sopravveniva la mattina del giorno successivo;
2) in un giorno imprecisato ma comunque compreso fra l’8 gennaio e al fine di aprile 1945, nelle celle d’isolamento del lager, in concorso con il Sein, uccideva una giovane prigioniera ebrea non identificata infierendo sul suo corpo con colli di bottiglie spezzati;
3) in un giorno imprecisato verso la fine del mese di gennaio 1945, nella cella d’isolamento posta di fronte a quella contraddistinta dal numero 29, su ordine del Cologna e in concorso con il Sein, uccideva una prigioniera di 17 anni, dopo averla torturata per cinque giorni con continue bastonature e versandole addosso secchi d’acqua gelida;
4) in un giorno imprecisato ma comunque compreso fra il 20 gennaio ed il 25 marzo 1945, nelle celle d’isolamento del lager, in concorso con il Sein ed il Cologna, uccideva un prigioniero non identificato che, scoperto a sottrarre generi alimentari e di conforto da un magazzino, era stato ristretto in cella, lasciandolo senza cibo per tre giorni e bastonandolo fino a cagionarne la morte;
5) in un giorno imprecisato ma comunque compreso fra il 20 gennaio ed il 25 marzo 1945, nelle celle d’isolamento del lager, in concorso con il Sein, uccideva un prigioniero ebreo di circa 15 anni rimasto non identificato, lasciandolo morire di fame;
6) fra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 1945, in concorso con il Sein, nelle celle d’isolamento del lager, dapprima usava violenza carnale nei confronti di una giovane donna incinta non meglio identificata, indi le lanciava addosso secchi di acqua gelata per convincerla a rivelare notizie ed infine la uccideva;
7) nella notte fra il 31 marzo (Sabato Santo) e il 1° aprile (Pasqua) 1945, in concorso con il Sein, nelle celle d’isolamento del lager, dopo aver inflitto violente bastonature al giovane prigioniero Bortolo Pezzutti, lo uccideva squarciandogli il ventre con un oggetto tagliente;
8) nel marzo 1945, in concorso con il Sein, Cologna ed altri militari tedeschi, sul piazzale del lager uccideva con pugni e calci un prigioniero che aveva tentato la fuga;
9) fra la fine di marzo e l’inizio di aprile 1945, sul piazzale del lager, in concorso con Sein e Cologna, colpiva con calci due internati non identificati e poi li finiva con colpi di arma da fuoco;
10) fra la fine di marzo e l’inizio di aprile 1945, nelle celle d’isolamento del lager, in concorso con il Sein, uccideva un giovane prigioniero non identificato massacrandolo e poi ne introduceva il cadavere nella cella completamente buia nella quale era ristretta un’internata, la quale decedeva di lì a poco;
11) tra la fine di gennaio ed il mese di febbraio 1945, nelle celle d’isolamento del lager, in concorso con il Sein, torturava lungamente un giovane prigioniero non identificato anche con l’infilargli le dita negli occhi, cagionandone la morte;
12) tra il 1° e il 15 febbraio 1945, nelle celle d’isolamento del lager, in concorso con il Sein, uccideva la prigioniera Leoni Giulia in Voghera, ebrea, e la figlia di costei Voghera Augusta in Menasse, torturandole per circa due ore, versando loro addosso acqua gelida e infine strangolandole;
13) il 1° aprile 1945 (giorno di Pasqua), nelle celle d’isolamento del lager, in concorso con il Sein, uccideva un giovane prigioniero non identificato dopo averlo torturato per circa quattro ore;
14) un giorno imprecisato dei mesi di febbraio o marzo 1945, nei locali dell’infermeria del lager, in concorso con il Sein, picchiava con un manganello un giovane italiano rimasto non identificato fino a fargli perdere coscienza e lo lasciava nell’infermeria dove il giovane decedeva per le ferite riportate;
15) un giorno imprecisato del dicembre 1944, e comunque poco prima del giorno 25, su ordine del responsabile della disciplina maresciallo Hans Haage e agendo in concorso materiale con il Sein, sul piazzale del lager, dopo aver legato alla recinzione un prigioniero che aveva tentato la fuga, alla presenza di tutti gli altri prigionieri fatti appositamente schierare a Titholo di ammonizione, lo colpiva selvaggiamente e lo lasciava legato alla recinzione, cagionandone la morte che sopraggiungeva entro la mattina del giorno successivo.
Josef e Franz, due granelli di sabbia nel motore della macchina di Hitler

Mayr-Nusser

La figura di Josef Mayr-Nusser suscita interrogativi, tanto più se si riesce a vedere le sue vicende come una possibile chiave di lettura del nostro presente, apparentemente lontano dalla guerra, ma così vicino alle intolleranze, ai nazionalismi, alle violenze tramite le quali il più forte mette a tacere il più debole. Si legge di un fiato il libro di Francesco Comina, Non giuro a Hitler, ed. San Paolo, pp.116, £ 18.000
A distanza di 55 anni la storia di “Pepi” Nusser è attuale come non mai. E commuove profondamente. Non optante al tempo della tragica scelta tra Italia fascista e Germania nazista, Josef viene richiamato alle armi ed inquadrato nelle SS. Un atto al di fuori dell’ordinamento internazionale che impedisce ad una potenza occupante di richiamare nelle file del proprio esercito cittadini di altro Stato. Josef Mayr-Nusser, sposato e con un figlio piccolissimo, rifiuta di giurare fedeltà a Hitler. “L’impellenza di tale testimonianza è ormai ineluttabile – scrive alla moglie dal carcere -, due mondi si stanno scontrando”. Incarcerato e destinato al campo di concentramento, il 24 febbraio 1945 Mayr-Nusser viene trovato morto su un carro bestiame fermo alla stazione di Erlangen.
Comina si cala in modo appassionato nei panni dell’obiettore Josef, ne descrive il cammino, la vita esemplare, l’urgenza di essere testimone. Testimone scomodo allora come oggi.
La domanda che l’uomo qualunque si pone di fronte a queste scelte così radicali è questa: è valsa la pena morire per non dire sì a Hiltler? Sono tante le piccole bugie che si dicono nel corso della vita… Sono tanti i piccoli compromessi necessari per tirare avanti, è valsa la pena lasciare una donna vedova ed un figlio orfano? La risposta la dà lo stesso Mayr-Nusser: se mai nessuno dirà il suo no ad un sistema ingiusto, quel sistema continuerà a mietere le sue vittime. Non è questo un atteggiamento profondamente cristiano? Josef ha, in quegli anni confusi, una consapevolezza totale: “Due mondi si stanno scontrando” e dunque “l’impellenza di tale testimonianza è ormai ineluttabile”. Dare testimonianza: è questa la chiave di una scelta tragica, consapevole, incamminata diritta verso il sacrificio della vita. Il libro di Comina impedisce alla storia di “archiviare il caso Mayr-Nusser”. Rende vivo quel personaggio, testimone della fede e del rapporto con il mondo, la politica, il potere.

Jagerstatter

“Franz Jagerstatter un contadino contro Hitler” ( Ed. Berti, Erna Putz ) è il titolo assai significativo della storia di uno dei pochi obiettori di coscienza austriaci contro il nazionalsocialismo: per questo il 9 Marzo 1943 fu decapitato a Berlino nel carcere di Brandeburgo..
Il libro, ora tradotto in Italia grazie alla costanza del Gruppo di Trento “Franz Jagerstatter”, curato da Giampietro Girardi, approfondisce con documenti inediti e originali (lettere di Jagerstatter) una precedente biografia arricchendo il racconto e soprattutto facendo cogliere lo stato d’animo di Jagestatter prima, durante e persino nei pochi attimi prima che precedettero la sua decapitazione a Berlino.
Un contadino di un piccolo paese, St. Radegund a 40 Km da Salisburgo, che la sorte ha voluto far nascere solo a 10 Km da Brunau in Germania, dove nacque Hitler: in pochi chilometri di terra, segnata da un confine tra due nazioni, un uomo giusto e un uomo efferato, crudele.
La lettura del libro di Erna Putz, dove si alternano momenti della biografia di Franz con le numerose lettere ai familiari, alla moglie, al vescovo e ai sacerdoti, è la chiave di lettura di una scelta estrema che per tanti anni o non è stata capita in paese e in Patria o è stata rimossa : solo il coraggio di una presenza altrettanto forte ma discreta della moglie Franziska e delle figlie hanno a poco a poco sbloccato la situazione. Il problema riguardava soprattutto i paesani che erano morti sulla linea russa per compiere il proprio dovere e che anch’essi sono ricordati in quello splendido giardino che è il cimitero di St. Radegund.
Ora il 9 Agosto di ogni anno gente da tutto il mondo arriva a St. Radegund per non dimenticare il sacrificio per la pace di F. Jagerstatter e può anche visitare la sua casa che è rimasta tale e quale come al momento della sua dipartita per il carcere e che oggi rappresenta per singoli e gruppi un momento di meditazione.
Albert Camus così scrive di Franz Jagerstatter : ”è nella cornice di questo piccolo villaggio isolato che un modesto campagnolo è diventato un ribelle. Ma il suo rifiuto non è una rinuncia : egli è anche un uomo che dice SI fin dall’inizio, un uomo che accetta di morire e di mostrare con ciò di sacrificarsi a favore di un bene che ritiene superi il suo personale destino”.

Alberto Trevisan
La Shoah di ieri e di oggi Da Auschwitz all’Africa

Di Sandro Canestrini

Nei giorni scorsi le comunità israelitiche hanno ricordato in tutto il mondo l’anniversario dell’entrata liberatrice delle truppe sovietiche nel campo di concentramento di Auschwitz, così liberando i 50 mila detenuti che erano già scelti per una sicura morte, come tutti gli altri che li avevano preceduti.
Abbiamo partecipato a questo giorno della memoria con affetto e comprensione. Invece la manifestazione è caduta nell’indifferenza dell’opinione pubblica più generale, che già si appresta a votare alle prossime elezioni soltanto per chi promette, come dicevano i latini, panem et circenses, che oggi vuol dire il mangiare, spesso troppo, e i giochi che non sono più del circo ma coinvolgono anche la televisione e simili altri divertimenti.
È stato detto che chi dimentica il passato è destinato a riviverlo e vi sono coloro che sono preoccupati di questa dimenticanza perché da essa possono nascere nuovi tentativi di soluzioni violente dei problemi delle nazioni. In un nobile appello, il Presidente nazionale delle comunità israelitiche ha dichiarato che oggi gli israeliti si battono non solo per ricordare la propria libertà ma anche a favore di tutte le minoranze che sono perseguitate o oppresse. Io ho sentito il dott. Luzzatto, Presidente nazionale di quelle comunità, ricordare in modo particolare coloro che dall’Africa vengono spinti, per ragioni di sopravvivenza, in Europa, dichiarando espressamente tutta la solidarietà anche per questi sventurati confratelli.
Non dobbiamo dimenticare: né Auschwitz, né l’infinito numero di perseguitati politici e religiosi del mondo, a cominciare dalle cosiddette guerre sante e le cosiddette crociate della chiesa, su e su fino a quando è stato scoperto che anche lo stato moscovita, che pure era stato fondato su principi di eguaglianza e di libertà, si era macchiato dell’infamia dei lager.
Al di là delle risultanze temporali della storia, al di là delle sue stesse contraddizioni, bisogna innalzare la bandiera di pace e di fratellanza, unica bandiera che può unire i popoli.
Un intellettuale di Praga, Julius Fucic, salendo nel 1942 il patibolo dei nazisti, aveva gridato, mente la corda gli stringeva già il collo: “Uomini non dimenticate!”.
La marcia zapatista degli indigeni e la nonviolenza attiva in Chiapas

Di Pietro Ameglio *

Lo zapatismo, e la caduta elettorale del partito di governo (PRI) dopo 71 anni, sono le due migliori cose che sono capitate al nostro paese nell’ultimo decennio. Il primo ha fatto affiorare il meglio (solidarietà, forza morale per evitare lo sterminio, capacità organizzativa…), ed il peggio (razzismo, ipocrezia: “di cosa hanno paura, perchè si coprono il volto?”, intolleranza, repressione…) della società messicana. Questo movimento indigeno è stato fin dall’inizio uno specchio per tutti noi, dove non vedendo le loro facce vedevamo le nostre crudamente nude e limitate. Sono anche riusciti ad instaurare a livello nazionale il tema indigeno e delle minoranze; la loro lotta non è solo per gli indigeni del Chiapas, ma per quelli di tutto il paese, che rappresentano circa il 10% della popolazione (12 milioni). Le 56 etnie che abbiamo sono sempre state un’inosservabile sociale e politico nazionale.

Per avvicinarci al tema, la prima condizione, mi sembra, deve essere rompere i pre-giudizi ed il feticismo verso le armi; non solo vedere ma piuttosto riuscire a guardare questo movimento sociale con certa profonditá. Nemmeno nascondere o mistificare niente: si tratta di un popolo in armi, in autodifesa armata di fronte alla sua possibilità di scomparsa1 fisica, sociale e culturale (non è una guerriglia di pochi illuminati), che però realizza l’enorme maggioranza delle sue azioni, sul piano della strategia e la tattica, nel campo della non-violenza attiva: “Vogliamo che ci aiutate a che i nostri fucili siano inutili…Se esiste un’altra strada fatecela vedere” (gennaio, agosto 1994).

Per molti versi la società civile nazionale ed internazionale ha reagito a questa sfida, riportando la guerra un poco di più sul terreno della politica, al meno della tregua. È opportuno chiarire subito: sia lo zapatismo, e molto piú ancora la società civile, sono ancora due progetti fragili in permanente costruzione e formazione, umanizzazione, che dobbiamo aiutare e di cui dobbiamo farci carico affinchè non scompaiano; sono processi di media e lunga durata. A momenti sono più un desiderio che una realtà, a momenti viceversa. Ma è innegabile che si può parlare sempre di più di una cultura zapatista e non di un movimento sociale indigeno geograficamente isolato, come il governo precedente cercava di far credere.

D’altra parte, il governo non ha regalato nè concesso niente all’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), ma la società civile nazionale ed internazionale e l’EZLN hanno saputo costruire situazioni massive di forza e rottura morale non-violenta, davanti alle quali l’esercito, i gruppi paramilitari ed il regime non hanno potuto atturare una repressione per l’alto costo sociale, economico e politico che avrebbero pagato. In questo senso credo che si stiano sviluppando in Messico, e specialmente nel sudest, negli ultimi sette anni, una serie di azioni nonviolente molto originali e creative per la storia di questa cultura, sia dal punto di vista dell’azione che da quello della costruzione sociale. In diverse occasioni in questi anni si é riuscita ad attivare nel piano della lotta nonviolenta, e giá non solo della solidarietá, una parte importante della riserva morale della societá messicana, cosa che non risulta affatto facile e succede raramente nella storia.

Allora, quali sono le armi dello zapatismo? Queste sono soprattutto morali2, espresse molto nei corpi che si rifiutano di cooperare con il sistema o realizzano azioni di interposizione nonviolenta. Non bisogna dimenticare che sono un popolo accerchiato da sette anni con circa 70 mila soldati organizzati in gruppi paramilitari e di civili armati, che li reprimono impunemente e constantemente. Gli zapatisti hanno sviluppato, insieme alla societá civile, una gran serie di azioni molto creative, con umorismo ed originali, che vanno dalle “carovane e accampamenti per la pace” che rompono il cerchio militare e proteggono le comunitá indigene, alla creazione di una propria “forza aerea” fatta con aeroplani di carta che portano delle lettere per i soldati di Amador Hernández.

Una parte centrale della strategia zapatista è stata la costruzione di frontiere, prima fra le quali quella dell’autorispetto, l’assunzione della propia dignità e presa di coscienza come soggetti sociali con identitá indigena. Questo processo, durato almeno una ventina d’anni, viene descritto con le parole degli anziani mayas tzeltali con cui lavoriamo: “prima ci siamo accorti con la Bibbia che Dio non voleva che vivessimo cosí sfruttati come animali; poi, dopo aver provato in tutti i modi ad organizzarci e a protestare per i nostri diritti, ci siamo accorti che non ci restava altra strada che usare altre armi per fermare la morte che ci inseguiva e richiamare l’attenzione pubblica”. Ecco l’origine del “Già Basta” del 1º gennaio 1994. Risulta interessante poter riflettere sulla complessità di questo movimento che unisce una cultura e forme di lotta tratte dal cristianesimo, dalla non-violenza ancestrale dei popoli indigeni e dall’esperienza guerrigliera.

Un’altra frontiera è la politica costituita dal progetto di “autonomia”. Qui ci si confronta a fondo col regime politico ed economico nazionale, perchè si tratta di una radicale campagna di non-cooperazione con nessuna istituzione o forma governamentale, soprattutto nel campo politico, educativo e della salute. Quest’azione di chiara disubbidienza civile ha molti aspetti similari al Programma Costruttivo gandhiano, e da un’altra dimensione alla lotta indigena non centrandola solo in azioni dirette non-violente di “resistenza civile”, come loro le chiamano, ma aggiunge anche l’esistenza di un modello sociale alternativo di autosufficenza, scopo centrale in Gandhi. La morale di questa autonomia è “la disubbidienza a ogni ordine di inumanità” 3.

Finalmente, un’ultima frontiera che mi sembra centrale menzionare, è quella della capacitá di riflessione: gli zapatisti non hanno mai perso il “principio di realtá”, cosí importante per saper lottare. Hanno saputo correggere permanentemente la loro scelta, cominciando dal 12 gennaio 94, dove hanno riconosciuto che la strada non doveva essere piú quella delle armi. Adesso stanno uscendo dalla loro zona di controllo, e viaggeranno per un paio di settimane per la metá del paese cercando di convincere il Parlamento e l’opinione pubblica dell’importanza che ha, affinchè ci sia la pace, approvare legislativamente gli Accordi di San Andrés. È un’iniziativa creativa e molto rischiosa per le loro vite, ma questa è la strada non-violenta che loro hanno scelto per costruire una vera pace per tutti, con giustizia e dignità nel paese; a noi tocca decidere se vogliamo camminare insieme.

* Pietro Ameglio, messicano di origine italo-uruguaiano, maestro di storia contemporanea all’università di Morelos, attivista nonviolento e fondatore del SERPAJ-Morelos, organizzazione che lavora con comunità indigene in Chiapas nell’educazione autonoma e la ricostruzione della loro storia.

23 febbraio 2001
Il Sub Comandante senza armi parla di pace, colore della terra

A cura dell’Operazione Colomba

Tre volontari dell’Operazione Colomba (corpo civile di pace dell’Ass. Comunità Papa Giovanni XXIII), Daniele Aronne, Eva Murtas e Andrea Mauri (obiettore di coscienza in servizio presso la suddetta associazione) sono stati in Messico per comprendere, partecipare ed appoggiare il processo di cambiamento e democratizzazione che “forse” si sta avviando nel suddetto paese.
Per quindici giorni una rappresentanza di 24 comandanti dell’EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale), tra cui l’ormai noto SubComandante Marcos, ha affrontato una lunga marcia attraverso gli stati messicani spiegando in ogni tappa i contenuti della legge sui diritti e sul rispetto della cultura indigena (legge COCOPA) di cui andavano a chiedere al congresso (parlamento) messicano l’approvazione, per ritornare al tavolo delle trattative con il governo (e non per firmare la pace come molti vogliono lasciar intendere…).
E’ stata una marcia partita come zapatista, di un gruppo di comandanti che, sebbene disarmati, militarmente si dirigevano verso la capitale, ma poi trasformatasi in una carovana di massa composta da tutti quelli “del colore della terra”.
Noi per due volte (a Cuernavaca e a Tepotztlan) abbiamo raggiunto la carovana per ascoltare le loro richieste ufficiali al governo (e non quelle confuse e manipolate che si leggono sui giornali locali) e per consegnare ai comandanti zapatisti la richiesta di un incontro diretto con la nostra associazione (ne hanno già ricevute più di 300 da tutto il mondo…).
Abbiamo incontrato alcune associazioni messicane ed internazionali tra le più rappresentative che si occupano della problematica indigena e dei diritti umani (Serpaj, Serapaz, Mision Civil por la Paz, Cipaz, Sicsal, Global Exchange…). Con loro abbiamo anche confrontato il nostro progetto di intervento nonviolento nelle comunità indigene del Chiapas.
Domenica 11 marzo, poi, anche noi siamo stati presenti nella piazza centrale di Città del Messico (il Zocalo), ed eravamo in prima fila nel cordone di sicurezza della società civile. Poi l’arrivo della “comandancia”, il caos e il silenzio in pochi istanti.
Le parole del sub-comandante Marcos sono state dure, ma in esse vi si può leggere anche un nuovo e straordinario messaggio, un tentativo di cambiare modello di lotta, verso un cammino nonviolento: “Siamo ribelli, ribelli continueremo ad essere, pero’ desideriamo esserlo con tutto quello che siamo senza la guerra come casa e cammino, perchè così parla il colore della terra: la lotta ha molte vie e un solo destino.”
Speriamo che finalmente la lotta possa trovare una via diversa da quella delle armi, una via alternativa, una via nonviolenta, per questo speriamo di riuscire ad incontrare la comandancia dell’EZLN , ma purtroppo (a detta anche di molte associazioni locali) nel loro comportamento ci sembra di vedere un esercito che alla società civile chiede solo appoggio ai propri ordini e comandi invece di compromettersi seriamente.
Comunque gli zapatisti per riprendere le trattative di pace richiedono il compimento dei cosiddetti tre segnali:
– il ritiro dell’esercito da sette (delle 259 attuali) postazioni strategiche nella zona di conflitto in Chiapas, ma finora ne sono state tolte solo tre;
– la liberazione di tutti i prigionieri politici zapatisti, ma finora sono stati liberati solo quelli tenuti nelle carceri del Chiapas e per mezzo del nuovo governatore di tale stato e non del presidente federale;
– l’approvazione della legge COCOPA (COmision de COncordia y PAcificacion), scopo della marcia, contenente i punti fondamentali sul rispetto della cultura e dei diritti indigeni: la legge è stata inviata al congresso ma non potrà essere approvata (almeno in tempi rapidi) in quanto contiene dei principi (legati all’autonomia indigena) al momento incostituzionali e il presidente Fox non ha, nelle due camere, un’influenza tale da permettere il cambio della costituzione.
Quello che ci è parso finora certo è la volontà del presidente messicano Vicente Fox di apparire, attraverso una campagna mediatica di notevoli proporzioni, come colui che sta portando avanti il processo di pace, e lo fa attraverso spot pubblicitari e tante parole, ma tutti aspettano il giorno in cui dovrà fare i conti con quello che ha promesso e il poco che ha mantenuto…
Abbiamo anche incontrato don Samuel Ruiz, Vescovo emerito della diocesi di S. Cristobal de Las Casas e una delle personalità che maggiormente hanno segnato la storia indigena messicana degli ultimi quarant’anni. Lui sembra nutrire speranze in un futuro migliore per le popolazioni indigene del Messico e in una possibile soluzione pacifica del conflitto anche se ci dice che il raggiungimento di un accordo di pace non sarà sicuramente una cosa facile, e quello che possiamo sperare è che entrambe le parti facciano il possibile perchè le speranze di pace del Messico e del mondo intero non vengano tradite.

Per contattare via email i volontari a città del Messico:
opcol@hotmail.com
Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, Via Mameli 1, 47900 Rimini
L’autonomia dei popoli indigeni sta nella loro storia e nell’educazione

Di Myriam Fracchia *

Forse ancora non si é capito del tutto che l’autonomia è, per i popoli indigeni zapatisti, una cultura, una maniera di vivere che perseguono da quando hanno preso coscienza che dovevano essere riconosciuti dalla società como esseri umani, cioè politicamente, e non soltanto come cittadini nominali dove in teoria “tutti siamo uguali davanti alla legge”, ma senza il potere reale di esercitare i loro diritti come cittadini. Ciò richiedeva in primo luogo di creare le condizioni di vita necessarie per rendere possibile l’esercizio di questo potere.
La costruzione dell’autonomia nel loro territorio (nonostante i diversi accerchiamenti che hanno subito e che ci sono ancora: il militare, il paramilitare, il sociale, l’economico-produttivo) mantiene questi popoli in costante tensione. La differenza è che ora loro ne raccolgono direttamente i propri frutti. Sono realisti: non sperano che qualcuno faccia le cose per loro, nè il governo nè “la società civile” nazionale ed internazionale. Sanno che, in primo luogo, devono contare solo su se stessi.
La lotta per l’autonomia è una delle forme di resistenza civile di questi popoli zapatisti. Loro hanno iniziato a proclamare i municipi autonomi dal 1994 fino ad oggi, e lo fanno in maniera coerente con loro stessi: non lo fanno per decreto. Dalla forza di questo processo i loro proclami pubblici divengono reali, perciò un qualsiasi decreto governamentale, non potrà mai far indietreggiare questo processo di formazione di una cultura propria, di una normativa collettiva morale propria e nemmemo i loro progressi materiali.

L’educazione

In una fase di questo processo di umanizzazione e di costruzione della autonomia: si è fatta pubblica la notizia che, in maniera pacifica, se ne sono andati via dal Chiapas i maestri del governo federale e statale, e che i popoli zapatisti hanno iniziato il loro proprio processo di educazione autonoma. Per fare ciò, hanno eletto collettivamente una parte della popolazione per assumere il compito educativo, essendo questa una delle forme in cui loro fanno reale e concreto il loro “mandare ubbidendo”.
Questa decisione zapatista viene vissuta positivamente tra molti messicani di tutti i gruppi sociali: siamo di fronte ad un sistema educativo che non funziona, che non ci da una formazione vera e propria, che non ci rispetta, che risponde a interessi vari che non sono i nostri. Ma, a differenza di quello che viviamo e soffriamo nel sistema tradizionale di formazione scolastica, i popoli indigeni zapatisti hanno deciso di fare qualcosa per cambiare questa situazione, in maniera collettiva ed organizzata.
Questi popoli hanno una forza morale scatenante: quello che si fa per se stessi si fa anche per migliaia di persone, e non soltanto per quelli che vivono oggi ma anche per le generazioni future. Nel nuovo sistema educativo non bisogna maltrattare chi non va a scuola, non lo si può umiliare, non è permesso ridicolizzarlo davanti a tutti, non lo si esclude pur di non disturbare agli altri. Lo si include nel gruppo, dal quale riceve sostegno, si lavora insieme a lui, si porta pazienzia, si cerca di capirlo.
In questo proceso di educazione autonoma è centrale per i popoli recuperare il loro processo storico che li ha formati come sono ora: ogni uomo o donna di questi popoli, siano essi bambini, giovani, adulti o anziani, partecipa a questo ampio processo. Cioè in questi popoli non si fa niente che non sia deciso colletivamente prima, in contrasto con il resto del paese dove ancora non esiste la figura del referendum.
Questi popoli hanno scoperto che la conoscenza della loro storia è indissolubile da quella di chi li ha conquistati storicamente, di chi li ha spogliati di se stessi, così come di quelli che hanno lottato perchè questa storia cambiasse. Questi popoli stanno scoprendo chi sono stati nel passato, chi sono oggi, perciò hanno la determinazione morale di lottare per quello che vogliono diventare: cittadini sovrani nella propia nazione, nel rispetto della loro identità..
E’ il pregiudizio che ci fa dire che questi popoli indigeni sono manipolati da alcuni capi esterni, giacchè da soli non saprebbero pensare. Scopriremmo forse che sono questi capi invece quelli che si alimentano della vita di questi popoli e che lì radica il segreto della forza morale della loro parola verso la societá civile e il loro enorme peso morale.
Se conoscessimo questi popoli scopriremmo quanto abbiamo noi da imparare per saper condividere, per sapere lottare, per trasformare, per non lasciarci dominare dal senso d’ impotenza (“ormai, non si può fare più niente”). Se questi popoli indigeni zapatisti avessero pensato e agito come noi, starebbero ora construendo condizioni piú umane di vita per se stessi e per il mondo?

* Messicana di origine paraguaiana, dottoranda in scienze sociali, attivista nonviolenta del SERPAJ-Morelos, organizzazione che lavora con comunità indigene in Chiapas nell’educazione autonoma e la ricostruzione della loro storia.

Trecentomila africani accolgono i 300 di “Anch’io a Bukavu”

24 febbraio – 4 marzo 2001: azione nonviolenta internazionale promossa da Beati costruttori di pace, Operazione Colomba e Chiama l’Africa.
Bukavu è la capitale del Sud – Kivu, una delle regioni del Congo
Trecento operatori di pace hanno incontrato trecentomila persone, per testimoniare l’urgenza della pace per le popolazioni civili coinvolte nella prima guerra continentale africana, che vede protagonisti gli eserciti dei paesi che attorniano il Congo.
Sul ruolo di questi eserciti nella complessa situazione politico – militare del Congo si possono avere diverse opinioni, ma una cosa è certa: nessun esercito crea la pace e le ricchezze minerarie del Congo hanno scatenato lotte di interessi all’intero e all’esterno del Paese.
Non portiamo aiuti ma solo speranza

Dal diario di viaggio di Renato Fiorelli*

C’è un training per i partecipanti all’iniziativa il 27 e 28 gennaio: le autorità di BUKAVU e di GOMA (aeroporto) non hanno ancora dato l’autorizzazione all’arrivo.
Secondo training il 10 e 11 febbraio: c’è una novità, l’iniziativa si sposta a BUTEMBO nel Nord – Kivu: il vescovo mons. SIKULI è a Bologna (sede del training) sabato 10/2 e rassicura, invita ad andare.
Due del gruppo di coordinamento, da un paio di giorni a Butembo, inviano domenica 11 febbraio un messaggio nel quali ci informano che a Bumenbo c’è entusiasmo e molta gente è disponibile a lavorare.

Si parte con un charter la sera di sabato 24 febbraio. Nelle prime ore del mattino si arriva all’aeroporto di ENTEBBE KAMPALA (capitale dell’Uganda); verso le 8 con gli autobus si parte per KASESE, città a 30 km dal confine con il Congo, dove arriviamo nel tardo pomeriggio, cena e pernottamento in un centro della diocesi di KASESE.
Lunedì 26 febbraio al mattino verso la frontiera con il Congo, si attraversa la frontiera a piedi e si sale sui pulmini congolesi. 200 km di strada di terra battuta.
Sosta a mezzogiorno a Boni: siamo attesi, tanta frutta, uova, bevande e canti, tanti canti belli e danzati.
Si fraternizza e alle tre si riparte. Per tutto il tempo della nostra sosta uno striscione con il richiamo alla nonviolenza è tenuto ben alto dai seminaristi di Beni.
Lungo la strada tanti campi militari, qualche pattuglia e un posto di blocco al passaggio di un fiume, tutto filo liscio.
Poco prima del tramonto arriviamo a Butembo, già a 10 km dalla città ci sono gruppetti di gente che ci saluta e man mano i gruppi diventano più grandi; a un chilometro un gruppo di giovani con biciclette e fogli di palma ci precede, la gente aumenta, migliaia e migliaia di persone, poi a piedi tutti assieme per 2 km fino al Convitto che ci ospiterà per 4 giorni, dove arriviamo al buio (in città non c’è la luce elettrica) mescolati in una folla che aumenta sempre più. L’emozione è grande per tutti, festa, danze, musica e cena.
Martedì 27 febbraio inizia il convegno SIPA (Simposio per la Pace in Africa).
I cosiddetti interventi di saluto dei franchi interventi politici: il vescovo di Butembo, l’amministratore di Bukavu, il rappresentante della “società civile” vero e proprio movimento social-politico…… e infine la dichiarazione di apertura dei lavori fatta dal signor Bemba, Presidente di questa parte del Congo e responsabile del FLC – Fronte di Liberazione Congolese, le cui truppe sono in gran parte composte da soldati ugandesi, che rivendica all’interno di un discorso di pace la dignità per i congolesi, un mormorio di dissenso si propaga nell’assemblea composta oltre che dai trecento invitati italiani, spagnoli e da alcuni tedeschi che hanno viaggiato con noi da – stimo – cinquecento partecipanti, delegati congolesi, delegazioni della Tanzania, un rappresentate delle chiese norvegesi e altri.
Il Simposio è fatto molto bene, si capisce che c’è un grosso lavoro di preparazione e viene tutto finalizzato con intelligenza e partecipazione all’obbiettivo della PACE.
In questa giornata c’è anche il messaggio dei May-May (i partigiani che vogliono un Congo unito ed indipendente) e anche un messaggio dei detenuti may-may nel carcere di BENI. Altre relazioni.
Nel primo pomeriggio si concludono i lavori (domani all’inizio della mattina verrà letto, approvato e sottoscritto, i documento finale) e poi via via tutti a vedere la partita di calcio. Migliaia di spettatori, ma la squadra dei giornalisti italiani intasca 8 a 0 dalla selezione di quattro squadre a Butembo.
E’ il mercoledì delle Ceneri: la sera a messa oltre il simbolo delle ceneri, inizio della Quaresima, si respira un senso di speranza.
Giovedì 1 marzo alle 9, inizia la parte finale del Simposio. Ci sono 80 partecipanti da Bukavu, che hanno avuto una parte importante nella preparazione del Convegno e che hanno avuto l’intenzione di trasferirlo a Butembo di fronte agli ostacoli di Bukavu. I rappresentanti delle varie organizzazioni sottoscrivono l’atto finale, poi tutti in un corteo che si ingrossa fino alla spianata vicino alla Cattedrale, dove si trovano decine di migliaia di persone (pochi gli uomini dai 20 ai 40anni perché morti in questa lunga guerra).
All’inizio della Cerimonia arriva il signor Bemba con un po’ di militari di scorta.
Il vescovo di Butembo, mons. Sikuli (una colonna, sempre chiaro, preciso e attento, non una parola o un intervento fuori posto) invita il presidente Bemba a concludere. Bemba, con addosso una delle nostre bandiere arcobaleno della pace, chiede PERDONO alla gente per quello che hanno fatto i suoi soldati e invita i parroci e le comunità a rientrare nei villaggi, applausi, vicino a noi qualcuno incredulo. Poi ad un invito di Sikuli comunica il ritiro immediato da tre città ordinando il loro rientro nella caserma di Beni. L’applauso è corale, convinto e lungo. Il Vescovo parlerà la sera a messa di miracolo: qui si ha la sensazione che siamo serviti a qualcosa (piccoli catalizzatori di un inizio di processo di pace).

Venerdì 2 marzo da Butembo a Kasese (ci siamo riempiti di ananas e maracuja per strada), cena e notte nel centro diocesano; atmosfera distesa con una più lunga discussione serale se chiudere la giornata di discussione a Kampala alla Chiesa dedicata ai martiri dell’Uganda.
Sabato 3 viaggio Kasese – Kampala, viaggio tranquillo, l’Uganda ci pare più bella.
Dopo la messa incontro nel parco che circondava la chiesa con l’ambasciatore italiano a Kampala: scende rapidamente il buio (siamo nell’Equatore).
Ci trasferiamo nell’aereoporto sul cui piazzale illuminato concludiamo l’incontro con l’ambasciatore presentando la “lettera al mondo” che ogni gruppo di affinità aveva elaborato. I gruppi erano in totale 20 e sono stati e sono stati i microcosmi nei quali abbiamo vissuto concretamente questi 7 giorni d’Africa. L’ambasciatore dopo un intervento formale, parla come Gigi Napoletano e da osservatore attento e partecipato dice che quello che abbiamo fatto è buono ed importante per la dimenticata Africa.
La mattina di domenica 4 marzo siamo a Malpensa in Italia.

Domenica 11 marzo ci siamo rivisti a Bologna e una lettera di Padre Giovanni del Congo lasciava intravedere una china diversa dopo il SIPA e la nostra visita testimonianza: non abbiamo portato i classici aiuti, ma solo la forza di una presenza in quella situazione di guerra sospesa.

*del Movimento Nonviolento – Gorizia
Siamo andati per ricordare le nostre responsabilità

Intervista a Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, padre conciliare, già presidente di Pax Christi.

A cura si Sergio Paronetto

Con quale animo avete intrapreso la marcia per la pace in Congo?
La nostra azione è stata simile a quella del ’92 a Sarajevo. Diceva in quel frangente Tonino Bello: siamo venuti a esprimere solidarietà. A dire che vi ricordiamo. Non siete dimenticati da tutti. Da parte nostra, abbiamo aggiunto: veniamo a ricordare le nostre responsabilità di popoli sviluppati perché in gran parte i tormenti dell’Africa derivano dai movimenti di potere presenti nei popoli occidentali . Quando è scoppiata la guerra civile in Ruanda arrivavano sempre armi nuove. Oggi c’è la guerra civile in Congo perché una parte del paese è protetta dal Ruanda che è protetto da una nazione. Un’altra parte è protetta dall’Uganda che è protetta da un’altra nazione. Quell’altra da altre che sono protette da altre ancora. Insomma, abbiamo le nostre responsabilità.

Quale messaggio, quindi, è stato comunicato? Come vi hanno accolto?
Siamo andati a dire che bisogna cercare a pace, non credere alla violenza. Troppo spesso, soprattutto noi popoli sviluppati, ci basiamo sulla violenza, sulla logica del più forte. Non ci dedichiamo fino in fondo alla ricerca di incontri di pace. Abbiamo partecipato al Simposio per la pace. Per i congolesi, è stata una cosa insolita vedere 300 bianchi disarmati venuti. L’hanno visto come un gesto gratuito di pace. E’ giunto anche l’ambasciatore italiano in Uganda a salutarci e a dirci che anche grazie a noi qualcosa si sta muovendo.

Come si è svolto e cosa ha prodotto il Simposio internazionale per la pace in Africa (Sipa)?
Abbiamo parlato per due giorni. Abbiamo anche cantato, pregato, fatto festa. Smettiamo di uccidere –si è detto- Ci sono già due milioni di morti. In una località di 40.000 abitanti, ad esempio, ci sono 60.000 profughi. Richiamiamo l’attenzione di chi può far smettere la guerra. E’ avvenuto un fatto imprevisto. Il capo del Fronte di liberazione del Congo, Pierre Bemba, è venuto il giorno dopo la grande marcia per la pace, finita con una grande preghiera ecumenica. L’avrà fatto per calcolo politico. Ma dopo aver ascoltato le parole di dolore del vescovo di Butembo, ha voluto prendere la parola. Ha chiesto perdono per i soprusi dei militari e ha ordinato il ritiro dei suoi soldati dalle tre località citate. Una cosa sconcertante che in Africa un capo militare chieda perdono. Questo per me è stato il significato più bello di un’azione nonviolenta effettuata in un luogo violento per chiedere che si insista e si faccia il possibile e l’impossibile per cercare la pace.
La politica dei Grandi Laghi

Di Raffaello Zordan*

È giusto richiamare l’attenzione, perlomeno italiana ed europea, sulla scandalosa situazione di guerra e di spregio dei diritti umani in cui versa la Repubblica democratica del Congo (un paese grande 8 volte l’Italia, con 50 milioni di abitanti), come ha fatto l’iniziativa “anch’io a Bukavu”. Ed è giusto, oltre che doveroso, scommettere sulla possibilità di ristabilire una situazione di pace e di civile convivenza, facendo leva sui settori più consapevoli e responsabili della società congolese. Ma è altrettanto doveroso collocare le nostre speranze nel contesto dei Grandi Laghi, delle tensioni che attraversano la regione e degli interessi che vi sono in gioco.
La guerra che si combatte oggi in territorio congolese è il frutto avvelenato di almeno quattro fattori fondamentali.
1)1Le lacerazioni etnico-politiche e il disastro economico provocati dalla trentennale dittatura del maresciallo Mobutu Sese Seko. Un regime cleptocratico, a lungo sostenuto da Belgio e Francia, che ha impedito ogni avvio di transizione democratica e di ricomposizione degli interessi etnici: si pensi a quel dialogo intercongolese tentato all’inizio degli anni ’90 con al Conferenza nazionale sovrana presieduta dal vescovo Laurent Monsengwo
2)1La convenienza di paesi come Uganda, Rwanda, Burundi, Angola di supportare militarmente il movimento ribelle di Laurent-Désiré Kabila (che nell’ottobre 1996, partendo da est, ha conquistato il potere in otto mesi, autoproclamandosi presidente, ed è stato ucciso il 16 gennaio scorso probabilmente da una congiura ordita dai suoi generali), così da liberarsi di Mobutu e con lui delle guerriglie che, muovendo anche dal territorio congolese, mettevano e mettono a repentaglio la stabilità dei regimi dell’ugandese Yoweri Museveni, del rwandese Paul Kagame, del burundese Pierre Buyoya, dell’angolano Eduardo dos Santos.
3)1L’occasione per gli Stati Uniti di farsi largo, in termini politici ed economici, nell’area dei Grandi Laghi. Non a caso, Bill Clinton, nel corso del suo secondo mandato, indicò i Kagame, i Museveni, ma anche i Zenawi (Etiopia) e i Afworki (Eritrea) come i portabandiera di un non meglio identificato “rinascimento africano”.
4)1Le ripercussioni nella zona est dell’Rd Congo, in termini di rifugiati e di destabilizzazione, del genocidio avvenuto in Rwanda nel 1994, con l’uccisione di almeno 500mila persone (di etnia tutsi o hutu moderati).
Questa guerra, con gli schieramenti odierni, è iniziata nell’estate nel 1998. Quando Kabila, insediato a Kinshasa, invita gli eserciti che lo avevano aiutato, in maniera decisiva, a conquistare il potere a lasciare la Rd Congo, tre su quattro gli si rivoltano contro. Così abbiamo da un lato Kabila con a fianco l’Angola, alleato della prima ora, e due nuovi alleati, Zimbawe e Namibia; dall’altro Rwanda, Uganda e Burundi che spalleggiano un imprecisato numero di movimenti guerriglieri congolesi. Una guerra che rivela ogni giorno di più il suo vero volto: la spartizione di un paese ricchissimo di risorse minerarie, energetiche e agricole.
Il dopo Kabila padre – che ha visto l’insediamento, con “procedura monarchica”, del figlio Joseph, un trentenne di incerta formazione politica e militare – non cambia l’incertezza e l’instabilità dello scenario. Un accordo di pace firmato dai belligeranti a Lusaka (Zambia) nel luglio del 1999 è rimasto finora sulla carta: prevede il ritiro degli eserciti stranieri, contestualmente all’avvio di una transizione democratica che consenta un normale esercizio del potere. Transizione che Kabila padre si è ben guardato dall’agevolare e che Kabila figlio non sembra avere l’abilità e la forza di rendere effettiva.
Come si vede, le incrostazioni della storia e le dinamiche sul terreno sono piuttosto intricate. Esistono certamente segmenti della società civile che lavorano per la pace e che vanno incoraggiati. Ma esiste anche una potente deriva che Nigrizia ha chiamato “legittimità combattente”: molti leader africani che si combattono nell’Rd Congo impersonano un potere senza consenso, conquistato con le armi e che si legittima continuando a combattere. È il circolo vizioso dal quale bisogna tentare di uscire.
Dov’erano i giornalisti?

Di Gabriele Colleoni

A Bukavu non c‘erano loro. Loro chi? Ma i media dell’era della globalizzazione che ti porta il mondo in casa, i profeti del «tempo reale» capaci di collocarti nel centro di ogni evento. Quei media pronti negli stessi giorni di intasare di inviati e contro-inviati la cittadina di Sanremo – insieme al tempo e alla sopportazione dei cittadini. No, ma a Bukavu no. Qui, al contrario del festival canoro, è valsa la massima che il silenzio era d’oro. In realtà, quel silenzio (o omertà? visto che il sipario calato sull’Africa di oggi ha un putrido odore di morte), qualcuno ha voluto coraggiosamente romperlo («Famiglia Cristiana» tanto per citare un nome).
Forse attendevano – cinismo del mestiere; nelle redazioni si dice: ma a chi vuoi interessino quei quattro matti (erano comunque 300) con le bandiere arcobaleno – che ci scappasse il morto. Come fu, ricordate, per la Bosnia o il Kosovo. Alla fine il tributo di sangue mise in chiaro che accanto alle varie Ifor, Sfor, Kfor e via marciando, c‘era anche un «esercito» di volontari impegnati in un oscuro, ma concreto lavoro di testimonianza, di solidarietà e di ricostruzione a tutti i livelli.
Fosse stato un esiguo manipolo di parà supertecnologicamente armati, sai che notizia da titolone in prima pagina o di apertura del tg, con tanto di bandierine da collocare sulla mappa degli interventi militar-umanitari così di moda oggi… Magari – a qualcuno sarà scappato pure di dire – quei disarmati pellegrini della pace dovevano mettersi sotto altre bandiere o avere altri sponsor per dare alla loro «diplomazia dal basso» nonviolenta un’enfasi diversa ed aspirare alle luci della ribalta mediatica.
Poco importa se l’«avventura» dei Beati i Costruttori e di Chiama l’Africa in quel «cuore di tenebra» del continente abbandonato alla sua deriva aveva le «stimmate» di evento originale e straordinario. O almeno i crismi di una di quelle «storie» di cui i media dicono di essere affamati.
Né si può imputare all’iniziativa di non aver fatto il possibile per non passare inosservata. L’ufficio pubbliche relazioni ha fatto il suo dovere. Non tanto per ottenere la «legittimazione» (innecessaria ai fini che il gesto si proponeva), quanto per ricordare a un Paese abituato a guardare il proprio ombelico salvo poi sorprendersi di stragi ed esodi biblici, che l’Africa e i drammi (e le speranze) delle sue genti esistono ancora, a prescindere dall’attenzione dei media. E chiedono disperatamente di non essere dimenticati.
Una ragione – questa – sufficiente per non rassegnarsi ostinatamente al cinismo di chi chiede: «Quante divisioni hanno i nonviolenti?», anche se subito dopo è pronto a chiedere farisaicamente: «ma dov’erano i pacifisti?». Erano a Bukavu. E noi giornalisti?

EDUCAZIONE

A cura di Angela Marasso
Adesso basta, ti metto una nota sul registro

Con le nuove norme della riforma scolastica pare che il voto di condotta e di conseguenza le note non esisteranno più (“Donnarumma è stato quattro ore di seguito giù nel cortile”). Con esse sparisce un “genere letterario” del tutto particolare (“La Rocca esce senza permesso”). L’uso assoluto del presente indicativo blocca l’azione in una posa stilizzata, come un fermo immagine (“Petrone va a buttare la carta, finge di inciampare e fa canestro con la pallina”). Ad esse ricorrono gli insegnanti come extrema ratio, quando le vie dei ripetuti richiami verbali si dimostrano inutili (“La classe II A si comporta in modo inqualificabile durante l’ora di Geografia, per cui si richiede la convocazione dei genitori per informarli sul comportamento dei figli. Laudano è escluso perché era in Segreteria a fare le fotocopie”). Però anche il richiamo scritto palesa la propria impotenza, poiché è un rimprovero fine a se stesso, sentenza e sanzione insieme (“Donnarumma lancia un pezzo di gesso a Scafa”). Di fronte ad un comportamento fuori dalle regole e iterato, l’insegnante, disorientato e smarrito, verga sul registro il provvedimento disciplinare, descrivendo con una frase l’atteggiamento stigmatizzato (“Giorgio grida inutilmente in classe. Donnarumma non scrive”). Sono lampi che con poche parole cercano di descrivere un comportamento inammissibile, ma che rivelano anche l’impotenza e quasi la rassegnazione di chi dovrebbe mantenere l’ordine all’interno di una classe scolastica (“Laudano alle 11,30 non è in classe. Entra alle 11,40.”). Si tratta di una “potenza senza atto”, in altre parole “impotenza” (“Donnarumma si allontana senza permesso”).
Enrico De Vivo, professore in una scuola media inferiore di Torre Annunziata ha pubblicato su un supplemento della rivista “PerAria” l’elenco di ventinove note che a fine anno comparivano sul registro di classe (“Scafa Bruno viene a scuola senza penna, abitualmente”). Ne esce un estratto dell’anno scolastico, dove in genere compaiono sempre i soliti nomi, per il motivo che i personaggi più difficili sono anche quelli più osservati e perseguiti (“Donnarumma si rifiuta di prendere il quaderno per lavorare”). Si tratta di osservazioni asciutte e svelte, che assomigliano alle buffe pose fisse di certi quadretti comici ed è curioso che scritture concepite per reprimere facciano alla fine l’effetto esilarante di una gag (“Donnarumma ha tentato di togliere la sedia a Scafa Bruno”). Invece costituiscono le uniche scritture ufficiali prodotte dall’istituzione scolastica in cui è possibile osservare come si muovono i corpi dei ragazzi, altrove chiamati “alunni” o “studenti” (“Improvvisamente Donnarumma e La Rocca si sono presi a botte. Ore 10,10”). I corpi dei ragazzi sono prigionieri nell’aula, insofferenti ai banchi, alle sedie, alle mura, agli obblighi, agli orari (“Donnarumma soffia il naso e poi lancia il fazzoletto”). E’ anche vero che a scuola ci sono pure altri tipi di movimenti più ordinari di alunni più ordinati, che però non si ha l’abitudine di registrare precisamente (“Donnarumma disturba la lezione senza soluzione di continuità”). Per un attento osservatore le note potrebbero permettere di ricostruire processi e sistemi complessi e da esse si potrebbero anche arguire molte interessanti osservazioni (“Montagnani va a richiamare i compagni, ma si intrattiene con loro”). In certe scuole proliferano note veramente illuminanti e adattissime alla comprensione delle cosiddette “realtà a rischio” (“Donnarumma Biagio rompe il cappello di Scafa Bruno. Deve essere accompagnato”). Altro che indagini ministeriali, griglie, psicopatologi e scrittori: basterebbe saper leggere con attenzione certi documenti per capire come va veramente la vista scolastica in alcuni luoghi (“La Rocca e Donnarumma disturbano continuamente Scafa”).
Interessante è l’uso dei cognomi e talvolta del cognome e del nome, a maggior precisione, come in un verbale di polizia (“Scafa Bruno canta in classe e non esegue i compiti assegnati”).
L’insensatezza di questi scritti, rilevata a posteriori, conferma che spesso le parole vanno beatamente al di là delle nostre intenzioni e perfino degli eventi e quindi è meglio non utilizzarle mai troppo seriamente per scopi estranei ad esse, cioè per comandare e imporre (“L’alunno Donnarumma infastidisce e molesta la compagna Salernitano. Si richiedono severi provvedimenti”). Prima o poi, infatti, esse finiscono per ribellarsi a tutte le imposizioni, per servire soltanto a far ridere un po’ chi avrà tempo e voglia di leggerle (“Donnarumma sputa sul cappotto di Scafa Bruno”).
(NdR: Ci piacerebbe poter offrire a Donnarumma il diritto di replica…)

Sergio Albesano

N.B.: Tutte le note riportate sono vere.

CINEMA

A cura di Flavia Rizzi
Le diverse facce della “banalità del male”

CONCORRENZA SLEALE
Regia Ettore Scola
Sceneggiatura Ettore e Silvia Scola, Furio e Giacomo Scarpelli
Origine Italia 2000
Durata 110’

Roma, 1938. Una strada di sanpietrini attraversata dal vecchio tram con i sedili di legno, i palazzi primo Novecento, le insegne dei negozi che si affacciano sulla strada con scritte sobrie ed essenziali, senza inglesismi o acrobazie linguistiche. E’ una strada come tante del quartiere Prati, ed è qui che Ettore Scola ha ambientato il suo ultimo lavoro: Concorrenza sleale.
Sotto l’insegna “Sartoria Melchiorri & Figli dal 1860”, sull’uscio del suo elegante negozio che confeziona solo abiti su misura, il livido Umberto Melchiorri guarda con astio e sospetto in direzione della vicina modesta merceria, di proprietà di Leone Simoni che, con i prezzi scontati dei suoi abiti confezionati e con astute campagne promozionali, riesce a sottrarre clientela al suo vicino. Umberto e Leone hanno figli della stessa età: i due maschietti sono inseparabili compagni di scuola e di giochi, mentre il ragazzo e la ragazza vivono segretamente la loro prima storia d’amore. I cordiali rapporti che intercorrono tra le due famiglie non scalfiscono tuttavia minimamente l’ostilità sempre più accesa tra i due commercianti, che finiscono per venire alle mani, e vengono conseguentemente convocati dal funzionario “fascistissimo” del commissariato rionale.
L’ordinaria guerra di vetrine, saldi e svendite tra Umberto e Leone, conosce a questo punto un’imprevista interferenza, una “slealtà” fino ad allora sconosciuta: vengono promulgate da Mussolini le leggi razziali. Improvvisamente quindi la famiglia Simoni, così simile nella sua composizione, nei suoi sogni e nelle sue aspirazioni, alla famiglia Melchiorri, diventa “diversa” perché ebrea, e lo stillicidio delle vessazioni subite porterà Leone al fallimento, costringendo la famiglia a trasferirsi presso parenti in una casa del ghetto: il resto è storia.
Non posso negare che il film mi ha lasciata molto perplessa. Per alcuni critici esso ha il merito di aver imboccato coraggiosamente la strada del “sottotono assoluto”, senza concedere allo spettatore alcuna consolazione: nella storia infatti Umberto, quando si accorge che il suo “nemico” di sempre sta per essere battuto da qualcosa di molto più grande di entrambi, pur mettendo da parte la rivalità che lo opponeva a Leone, e cercando di creare con lui un rapporto di amicizia, rimane comunque un personaggio mediocre; non sa essere critico circa quello che accade, non sa prenderne coscienza se non quando è troppo tardi, e anche allora non sa agire, e come lui tutti i personaggi della storia.
Maurizio De Bonis giudica invece Concorrenza sleale “una commedia decorosa, ma blanda”, “un lavoro sorprendentemente modesto, in cui il conflitto umano tra il sarto e il merciaio è descritto attraverso scene ripetitive, popolate di personaggi tipici della commedia all’italiana che amplificano gli aspetti comico-grotteschi della situazione. In definitiva non c’è analisi, se non superficiale, con il risultato che il pubblico ride molto, anche quando la storia assume connotazioni assolutamente tragiche”.
Perché allora scriverne una recensione per Azione Nonviolenta? Perché, nonostante i dubbi e le perplessità, la riflessione sul film continuava a suggerire alla mia mente un alquanto improbabile confronto con Uno specialista di Eyal Sivan, giovane regista israeliano dissidente. Si tratta di un film-documentario del 1999 che seleziona e sintetizza due ore di serratissimo dramma giudiziario delle 500 ore filmate di processo ad Eichmann, ex capo del dipartimento IV-B-4 della sicurezza interna del Terzo Reich, che ha avuto luogo nella Casa del Popolo di Gerusalemme nel 1961. Gli sceneggiatori hanno scelto come ferreo punto di vista l’interpretazione che di quel processo diede Hannah Arendt nel suo libro “La banalità del male”, seguendo la traccia preziosa della sua lancinante riflessione etica, che analizza la sconcertante mediocrità del male rappresentata dall’imputato, prezioso e pignolo burocrate della criminale macchina amministrativa nazista, il quale sbandiera la propria obbedienza agli ordini come una difesa, scaricandosi da ogni responsabilità. La sua figura diventa così un’agghiacciante modello di ogni deresponsabilizzazione “burocratica” contemporanea. L’alternativa, suggerisce Sivan, “è una pratica attiva del giudicare, un esercizio che contempli la possibilità della disobbedienza civile, una resistenza deliberata ad ogni conformismo e ad ogni ethos collettivo”.
Forse il confronto tra i due film non era poi così “improbabile”: pur nella evidente diversità dei due lavori si può trovare il comun denominatore della denuncia di un atteggiamento acritico e privo di responsabilità di fronte al “male”: Umberto non può certo essere paragonato ad Eichmann, ma forse si possono vedere in questi due “personaggi” due diverse declinazioni della “banalità del male”.

Cooperativa FuoriSchermo – Cinema & Dintorni

MUSICA

A cura di Paolo Predieri
Il potere terapeutico sulla nostra anima

Intervista a Teresa De Sio, già voce dei Musica Nova, oggi raffinata cantautrice. Il suo nuovo spettacolo si intitola “Da Napoli a Bahia, da Genova a Bastia” ed ha come filo conduttore il mare che lega i paesi ed il viaggio come avventura anche musicale.

Qual è il tuo punto di vista sulla nonviolenza?
Faccio un lavoro e ho scelto una strada, quella della musica, che è parallela al cammino della nonviolenza. La musica, nella maniera in cui l’ho sempre vissuta è un grande deterrente rispetto alla violenza, perché non è soltanto un elemento di sfogo ma anche di contenimento di energie e di spinte che potrebbero andare a finire in cose peggiori e invece vanno a finire nella musica. Ritengo che già scegliere nella propria vita di fare musica, nel nostro piccolo, per noi che lo facciamo, sia già un gesto nonviolento.

Fra le tue composizioni c’è una specie di opera rock sulla guerra, “La vera storia di Lupita Mendera”…
Sì, è nell’album “Sindarella Suite “dell’88, dove canta anche Piero Pelù. La violenza legata alle guerre è l’espressione massima e più condannabile, che trova le sue basi nella violenza culturale, nella imposizione di modelli estetici, etici, economici, produttivi che sfiorano il disumano, che ci mettono in una condizione di competizione in tutti i campi. La competizione ha in sè il germe della violenza. Non a caso purtroppo negli stadi si vive la violenza. E’ molto bello invece il gioco quando esiste per il piacere di giocare, come un viaggio dove ha valore tutto il percorso e non solo la meta d’arrivo.

Nel tuo spettacolo attuale paragoni la musica al viaggiare per mare, un mare che non divide ma lega i paesi. Collegare realtà anche molto diverse e farle dialogare invece che contrapporle è un dato fondamentale della nonviolenza…
Le divisioni, le spaccature, creano non conoscenza, la non conoscenza crea paura e la paura crea violenza. E’ una catena che funziona così. La violenza dei razzisti è sempre basata sulla paura di qualcosa che è sconosciuto, che è stato mostrato come diverso, come realtà separata.
Nella mia musica e in particolare in quella che sto facendo adesso c’è il collegamento col mare, col viaggio per mare, che mi fa immaginare un punto di vista diverso sul mondo. Chi fa musica in maniera scollegata dai grandi movimenti musicali di massa, per i fatti suoi, è come il navigatore solitario che comincia a guardare alle relazioni fra le cose i sentimenti e le persone con un’angolazione diversa, quella della lentezza. Il ritmo naturale delle cose oggi spesso se ne va a quel paese, a favore di ritmi legati all’efficienza e alla produttività. Siamo abituati a consumare tutto in quantità superiori a quelle che ci servono in natura. In mare devi andare all’essenziale, devi scegliere.

La lentezza e la sobrietà fanno parte della proposta nonviolenta e di personaggi che ci sono cari come Gandhi o Langer… Che spazio trovano nelle canzoni ?
Sono temi presenti in tutte le canzoni che faccio attualmente, temi mediterranei ma anche latinoamericani, fanno parte di un mondo poetico che è quello letterario degli scrittori come Marquez, dei grandi poeti come Octavio Paz, dei grandi autori di canzoni come Chico Buarque o Caetano Veloso. Ho tradotto per esempio una canzone di Veloso (“Terra”), scritta quando era incarcerato negli anni sessanta in Brasile, perché il suo pensiero non coincideva con quello del regime. Mentre stava in galera su un giornale ha visto una fotografia della terra, il pianeta nella sua interezza, la bellezza di questa terra che noi, quando siamo in libertà, possiamo calpestare dimenticandoci che va protetta e che in qualche modo dipendiamo da lei.

Qual è il contributo che la musica può dare a una cultura di pace e di nonviolenza?
Il cammino parallelo della musica e della nonviolenza per me è evidente anche in quelle musiche come l’ hip-hop che parlano di violenza o si esprimono attraverso sonorità, ritmiche e contenuti aggressivi. Sono tutti elementi di scarico di violenza ed è violenza soltanto formale, estetica, perché la musica alla fine è forma ed estetica, ed è comunque una forma di difesa e di risposta nei confronti di violenze subite.
Credo moltissimo anche nella musica come terapia psicologica. Ho lavorato su questo argomento, ho fatto un disco, “La notte del Dio che balla”, assieme agli Agricantus e ad altri gruppi di giovani musicisti, con un discorso sul ritmo che riesce a portare in trances. Partendo dalla musica etnica che io conosco, dai fenomeni legati al tarantismo, fino alla trances di tipo metropolitano, quella del ritmo battuto a palla nelle discoteche per ore e ore. Le culture sostitutive ufficiali hanno portato gli psicofarmaci e le terapie psicoanalitiche, la musica ha questo potere terapeutico sulla nostra anima che è un fatto molto bello.

ECONOMIA

A cura di Paolo Macina
Produciamo energia pulita con i pannelli fotovoltaici

Ormai anche i sassi sanno che la popolazione italiana consuma molta più energia di quanta ne produca.
Tanto per fare un esempio il Piemonte, nonostante la favorevole disposizione idrogeologica, ha importato nel 1998 il 45% dell’energia elettrica che ha consumato. Buona parte di questo fabbisogno viene coperta acquistando energia prodotta nelle centrali nucleari francesi, con i nefasti risvolti in materia di smaltimento delle scorie e di sicurezza. Ma anche l’energia prodotta in Italia deriva perlopiù da centrali che contribuiscono alla spropositata produzione di anidride carbonica (l’80% deriva da combustibili fossili, solo il 6% da energie rinnovabili), i cui effetti turbano i sonni di chi ha a cuore le sorti della fascia di ozono.
E’ evidente che il problema delle fonti energetiche, da sempre correlato allo sviluppo del paese, sarà un nodo ancor più cruciale nei prossimi anni. L’ENEL, azienda ormai privatizzata ancorché semi-monopolistica, non ha più come obiettivo la copertura dei bisogni energetici degli italiani ma il profitto per gli azionisti, e quindi se ne infischia di questa situazione: propone al contrario di passare da un contatore a 3 KW ad uno più potente di 4,5 KW, che permetterà ai cittadini di calarsi ancor più nel ruolo di “consumatori”.
Ma da gennaio di quest’anno è possibile far qualcosa di tangibile per invertire questo processo. Ed il primo a percorrere la strada dell’alternativa (ma ormai non fa neanche più notizia) è stato il temerario Beppe Grillo, che aderendo al piano “10.000 tetti fotovoltaici” definitivamente approvato dall’Authority per l’Energia, ha stipulato un contratto di cessione di energia con l’ENEL facendo installare sul tetto della sua villa di Nervi un impianto fotovoltaico della società D.E.A. s.r.l.
Il nostro paladino potrà, come utente domestico, scambiare (non vendere) l’energia prodotta in eccesso con il proprio distributore di elettricità (Enel o municipalizzata). Lo scambio è reso possibile dalla liberalizzazione della produzione di energia elettrica disposta dall’Authority, perché il valore dell’energia autoprodotta è uguale, in tutte le ore e i giorni dell’anno, a quello dell’elettricità distribuita dall’Enel o dalle municipalizzate. Se a fine anno l’utente domestico Grillo avrà avuto una produzione superiore ai propri consumi, otterrà un credito dalla società distributrice (e non denaro contante).
Per la contabilizzazione dell’energia prodotta dall’impianto fotovoltaico fino a 20kw di potenza e scambiata con la rete, bisogna installare un contatore aggiuntivo il cui costo, che comprende anche il servizio di lettura, è stato fissato in 60 mila lire annue. In pratica, la richiesta di connessione all’ufficio locale competente è seguita da un preventivo dell’ENEL relativo ai costi di installazione del secondo contatore, la cui spesa è suddivisa in parti eguali tra l’utente ed il distributore. Dal momento dell’approvazione del preventivo da parte del cliente, l’ENEL ha 15 giorni di tempo per procedere con l’installazione.
Grazie al contributo dell’Ufficio Energia della Regione Liguria (che ha recentemente promosso con successo un programma di incentivazione del solare), dell’Ufficio Marketing ed Esercizio Metropolitano di Genova, del responsabile delle attività commerciali del Gestore e dell’ENEL Distribuzione S.p.A., è stato possibile sbloccare la situazione di incertezza tecnica e normativa che si protraeva ormai da anni.
La connessione in rete dei sistemi solari fotovoltaici, non si può però ritenere definitivamente scontata: alcuni uffici locali ENEL fanno resistenza ad applicare l’appendice al contratto utilizzata nella Regione Liguria e in altre zone d’Italia (in particolare in Trentino Alto Adige, dove si stanno realizzando diversi impianti connessi alla rete). Ma ci si augura che al più presto, grazie al crescente numero di adesioni al programma, questa riluttanza venga superata.
Oltre alla diminuzione dell’impatto ecologico, pensate al risparmio sulle bollette successive, per tutti gli anni a venire; se inoltre aggiungete che il programma “10 mila tetti fotovoltaici” prevede un contributo statale pari al 70 % delle spese di installazione dell’impianto, la convenienza è assicurata.
L’obiettivo del programma è quello di realizzare 50 MW fotovoltaici in 5 anni, con un finanziamento statale complessivo di 500 miliardi. Per conoscere le esatte modalità di partecipazione al “net-metering” (questo è il nome di questa forma di contratto), potete contattare il numero verde che l’ENEA ha attivato per dare informazioni di tipo preliminare al pubblico: 800 466 366, oppure potete consultare i siti:

– www.mybestlife.com/ambiente/Energia/Tetti_solari.htm e
– www.altrenergie.it
Se invece volete informazioni sulla installazione di pannelli fotovoltaici, cliccate su
– www.sistemisolari.it

Fonti: Ilsolea360gradi, Il Sole/24Ore, Repubblica
LIBRI

A cura di Silvia Nejrotti

J.GALTUNG, Pace con mezzi pacifici, Esperia, Milano 2000, pagg. 498, £ 60.000

La Esperia è una casa editrice nata nel 1991 che, tra gli obiettivi della sua attività editoriale, pone l’approfondimento di temi quali i diritti umani, la loro salvaguardia, lo sviluppo di una società multietnica, il ruolo delle Nazioni Unite nel processo di costruzione della pace nel mondo e la sempre più urgente necessità di tutelare l’ambiente sul nostro pianeta per salvaguardare la sopravvivenza del genere umano. E’ in quest’ottica che ha pubblicato la traduzione in italiano del testo Peace by peaceful means scritto da Johan Galtung nel 1996.
L’autore è uno dei fondatori degli studi sulla pace nell’epoca contemporanea. In questo corposo saggio elabora uno studio sistematico per istituire i fondamenti teorici delle ricerche sulla pace, sull’educazione alla pace e sull’azione per la pace. Nell’affrontare il suo lavoro, l’autore considera la pace non solo assenza di violenza diretta, strutturale e culturale, ma anche come un insieme di condizioni che rendono possibile la gestione nonviolenta e creativa dei conflitti. Nella parte finale Galtung passa quindi ad esaminare le azioni possibili, volte a creare la pace, appunto, con mezzi pacifici.
Il libro è molto schematico e ciò permette di destreggiarsi in un ambito estremamente complesso, ma ne è anche un limite, perché rischia di inventare schematizzazioni arbitrarie. Ad esempio, nel descrivere le diverse teorie economiche Galtung ricorre a sei livelli da lui elaborati: le scuole blu, rossa, verde, rosa (blu, rossa e verde), gialla (blu e rossa) ed eclettica (verde, rosa e gialla).
Ulteriore difetto del libro, stampato su carta ecologica, è il suo prezzo, non alla portata di tutti.
Merito del lavoro è invece quello di non accontentarsi di descrivere una determinata situazione, ma il volerne cercare le cause, senza fermarsi alle più apparenti, e infine nel ricercare, per ogni problematica, possibili soluzioni, anche qui partendo dalle più immediate e banali per giungere alle più sottili ed elaborate. Così, ad esempio, quando analizza la violenza di genere, non esaurisce il discorso nell’affermare che almeno il 95% della violenza diretta è commessa dai maschi, ma ne cerca i motivi biologici e culturali, proponendo per entrambi i livelli possibili soluzioni.
Stesso metodo è utilizzato nell’esaminare il rapporto fra forma di governo (democratico o totalitario) e guerra.

Sergio Albesano

AA. VV., Italia Capace Di Futuro, a cura di Gianfranco Bologna, ed. EMI

“Italia Capace di Futuro”, rapporto del WWF sottoscritto da molte organizzazioni di base e campagne come quelle riunite nella Rete di Lilliput, indica strategie per ristrutturare i sistemi produttivi ed i consumi italiani. Pone il 2050 come anno cruciale entro il quale avviare una società sostenibile e indica le strade principali da percorrere per raggiungere tale scopo.
Prima fra tutte, quella che porta ad una riduzione del flusso dei materiali, ovvero della quantità di risorse naturali assorbite, per esempio, per costruire una strada, un frigorifero o un’automobile. Attualmente un italiano medio consuma ogni anno una quantità di natura pari ad un treno lungo 50 metri carico di 40 tonnellate tra alberi, terreno, sabbia, acqua. Questo “convoglio” va ridotto poichè non tiene conto dei limiti biofisici della natura: una drastica riduzione dei prelievi di risorse naturali deve diventare un elemento essenziale della nostra politica verso la sostenibilità e l’ambiente.
Nel Rapporto si chiede dunque al Governo di realizzare un Piano Nazionale di Sostenibilità, che preveda precisi target di riduzione dei consumi e che diventi strumento normativo capace di condizionare tutti i Piani di settore (trasporti, agricoltura, energia, rifiuti, infrastrutture). Si riafferma inoltre la necessità di giungere all’elaborazione di un indice di performance politica dei governi che non sia basato solo sugli indicatori classici come PIL, Tasso di inflazione, Tasso di disoccupazione, ma che comprenda indici quantificabili di tipo ambientale e sociale.

G. Bologna, F. Gesualdi, F. Piazza, A. Saroldi, Invito Alla Sobrietà felice, ed. EMI

In concomitanza con il Rapporto del WWF, esce per la EMI Invito Alla Sobrietà felice..
A partire dall’ormai irrefutabile constatazione che consumiamo troppo e alla leggera, senza pensare alle conseguenze, il libro risuona come un invito alla sobrietà, declinato come sollecitazione estetica oltre che etica: essere sobri è bello e porta al vero benessere.
Per sottolineare questa corrispondenza fra minori consumi e migliore benessere complessivo delle persone si parla allora di “sobrietà felice”, scelta individuale che può farsi orientamento sociale, cioè costume e cultura. Quando si può camminare è meglio che correre, non solo perchè stanca meno, ma perchè permette di vedere ed osservare…

Nicola Rabbi

Lettere
Il pensiero di Buddha Le azioni dei Talebanii

Caro Direttore,
ho visto, sui giornali e alla tv, le immagini dei Talebani che sparano ai Buddha di pietra. Si vede bene, in queste immagini, che i Talebani sono piccolissimi, rispetto a quelle statuone, si affaticano, sudano, si agitano, caricano e ricaricano fucili e cannoni, fanno uno sforzo enorme per venire a capo di qualcosa che a noi appare estremamente ridicolo (fucilare una statua), oltre che offensivo dei (nostri) sentimenti estetici e di tolleranza. Eppure, c’è qualcosa di umano, troppo umano in questa vicenda, e, allo stesso tempo, qualcosa di illuminante. Umani, troppo umani sono i Talebani, tanto simili a tutti gli uomini del mondo che si accaniscono invano contro qualcosa di invincibile e inessenziale (Leopardi diceva che il nulla è “solido”). Mentre illuminante è l’espressione imperturbabile del Buddha, che – come tutti i Buddha – capisce a fondo gli uomini e può solo sorridere del loro affannarsi. Guardate bene la serenità del volto di quella statua, tipica per altro di tante altre simili: il Buddha è colui che ha raggiunto da sé la liberazione dal pietroso vincolo del solido nulla, come potrebbe meravigliarsi dei Talebani che lo “fucilano”? Egli sa altresì che chi si affanna così impegnativamente domanda qualcosa: cerca il senso del proprio essere nel mondo, diremmo noi dalle nostre parti.
Io credo perciò che l’unica cosa che farebbe Buddha sarebbe offrire un suggerimento ai Talebani affinché giungano anch’essi all’illuminazione. Tocca fare uno sforzo in più, ci direbbe il Buddha, meno legato ai propri sentimenti (estetici e di tolleranza), e più aderente alla domanda che viene dai Talebani. A me una piccola idea è venuta. Inviamo ai Talebani una serie di foto di loro stessi che sparano ai Buddha di pietra, foto con inquadrature in cui si veda contemporaneamente la loro piccolezza e la maestosa serietà sorridente di Buddha. Ogni foto potrebbe essere accompagnata dalla seguenti domanda “Vi serve aiuto?”.

Enrico De Vivo – Angri SA
La nonviolenza in Messico e in Congo

Caro Direttore,
Azione Nonviolenta è la mia rivista preferita (certo è che è l’unica che leggo dall’inizio alla fine) e cosi’ ho pensato di comunicarti quali articoli mi piacerebbe leggervi e con quale taglio.
Proprio oggi si è conclusa a Città del Messico la marcia degli Zapatisti. E’ stata una marcia dalle caratteristiche nonviolente. La domanda che mi faccio, e che mi piacerebbe vedere approfondita da Azione nonviolenta con un articolo di qualcuno che ha da sempre seguito la questione degli indios messicani, è la seguente: perchè il subcomandante Marcos, che ha dato prova di non disdegnare la lotta armata, si è deciso per un’azione nonviolenta come la marcia disarmata? Io credo che il comportamento nonviolento degli zapatisti porterà ad un maggior rispetto dei diritti degli indios e che non si sarebbero potuti ottenere gli stessi risultati proseguendo nella lotta armata: forse che Marcos si sia convinto di ciò, poichè ha deciso di intraprendere questa strada?
Anche in Congo la nonviolenza ha ottenuto un risultato strabiliante ed inaspettato: in occasione del Sipa (Simposio internazionale per la Pace in Africa), il comandante Bemba ha chiesto perdono al suo popolo per le atrocità commesse dal suo esercito. Chissà che Azione nonviolenta non possa approfondire criticamente quanto è stato ottenuto con il Sipa (forse il perdono chiesto da Bemba, come il ritiro delle truppe da lui ordinato, è solo una mossa politica? Io credo di no, io credo che costituisca il risultato di una lotta nonviolenta).
Non ultimo, mi piacerebbe vedere pubblicato su Azione nonviolenta un articolo che possa rispondere alle mie seguenti domande: quale è, in modo preciso, il programma del vertice dei G8 che si svolgerà a Genova? Quali sono le obiezioni che muove la rete di Lilliput? E quali sono le sue proposte alternative concrete e realizzabili?

Mauro Marchetti – Saludecio
Due lettere mai arrivate

Caro Direttore,
sono abbonato ad Azione nonviolenta da alcuni decenni. Come era suggerito nel numero di dicembre 2000, avevo inviato alcune lettere e cartoline a quanti in tutto il mondo sono detenuti a motivo del loro impegno pacifista. Mi sono ritornate recentemente due delle lettere che avevo spedito (provengono entrambe dagli Stati Uniti d’America). Sulla busta è scritto “Refused” (Rifiutato). Non comprendo proprio il motivo di questo rifiuto (o di altre ragioni a me sconosciute). Sono rimasto sorpreso e amareggiato, anche per aver impiegato inutilmente tempo e denaro, ed in futuro non sono più propenso ad inviare ancora lettere negli U.S.A.

Attilio Belloni – Pavia

Caro Attilio Belloni,
innanzitutto la ringraziamo per la sua adesione alla campagna di solidarietà con i prigionieri per la pace nel mondo.
Siamo molto spiacenti che le lettere inviate negli Stati Uniti siano state restituite al mittente.
Le possiamo assicurare che gli indirizzi pubblicati su Azione nonviolenta erano esatti.
L’unica cosa che possiamo pensare è che la “censura” degli U.S.A. non gradisce che ci sia solidarietà verso i pacifisti americani detenuti. Evidentemente gli Stati Uniti non sono quel campione di democrazia che ci vogliono far credere.
Non desista, comunque, dal suo impegno, anche se le costa tempo e denaro. Come vede anche un paese potente come quello americano teme la forza delle idee….
Un caro saluto

Mao Valpiana – Direttore

STORIA

A cura di Sergio Albesano
La società, la scienza e i giudizi morali

La storia è una scienza e di conseguenza lo storico è uno scienziato? Nel passato per star dietro alle cosiddette scienze esatte molti cercarono di trovare anche nel campo storico leggi che permettessero di blasonare la storia come vera e propria scienza. Oggi però tutti gli scienziati, matematici o storici che siano, non cercano la formulazione di leggi precise, ma l’enunciazione di ipotesi che aprano la strada ad ulteriori ricerche. Quindi lo storico ha abbandonato la ricerca di leggi fondamentali e si limita a ricostruire i fatti come si sono svolti. La suddivisione della storia in periodi non è un fatto, ma un’ipotesi necessaria, valido nella misura in cui aiuta la ricerca. L’affermazione di Marx che “il mulino a braccia ci dà una società con un signore feudale; il mulino a vapore ci dà una società con un capitalista industriale” non è una legge ma una feconda ipotesi che apre la strada ad ulteriori ricerche. Mentre nell’Ottocento si sperava di arrivare ad una scienza che spiegasse tutto una volta per sempre e ad una storia definitiva, oggi gli scienziati e gli storici passano da un’ipotesi circoscritta ad un’altra, isolando i fatti per mezzo delle interpretazioni e saggiando le interpretazioni per mezzo dei fatti. Non è vero che la storia si occupa esclusivamente dell’individuale e la scienza del generale, perché in realtà anche lo storico si occupa di ciò che ha carattere generale. Egli anzi lavora procedendo proprio per generalizzazioni. Ciò che distingue lo storico dal mero raccoglitore di fatti storici è l’uso di generalizzazioni, così come esso distingue lo scienziato dal collezionista. Per uno storico è impossibile dividere l’individuale dal generale, così come non è possibile separare i fatti dall’interpretazione. Non è vero che dalla storia non si traggono insegnamenti di sorta, poiché è proprio grazie alle generalizzazioni che si applicano le lezioni tratte da un gruppo di eventi ad altri eventi. Non è neppure vero che la storia è incapace di fare previsioni. Infatti lo storico, generalizzando, fornisce all’azione futura indicazioni di carattere generale, anche se non può prevedere eventi particolari, in quanto essi hanno un carattere di assoluta singolarità, in cui entra un elemento casuale. Quindi il metodo dello storico e di uno scienziato, ad esempio di un fisico, non presentano diversità sostanziali. E’ vero invece che la storia è soggettiva, dal momento che l’uomo osserva se stesso, e questo è probabilmente una caratteristica specifica della storia e delle scienze sociali. L’abisso che separa lo storico dal geologo non è più profondo di quello che separa il geologo dal fisico. Ma tutti gli scienziati sono accomunati da un unico scopo, che è quello di cercare spiegazioni, e dal metodo, che è quello di porsi domande e cercare risposte.
Si può essere al tempo stesso credenti e storici seri? Così come si può essere astronomi credendo in un Dio che abbia creato l’universo senza però intervenire per modificare il percorso di un pianeta o per posticipare un’eclisse, così si può essere storici credendo in un Dio che ha impresso un significato al corso complessivo della storia, senza intervenire per fare strage degli amalechiti e imbrogliare il calendario per prolungare le ore di luce a vantaggio di un esercito.
Allo storico non si chiede di esprimere giudizi morali sulla vita privata dei personaggi della storia; ad esempio Enrico VIII può essere stato un cattivo marito e un buon re, ma lo storico si interessa del primo soltanto nella misura in cui ha influito sugli eventi storici. Se Pasteur o Einstein fossero stati mariti infedeli, padri spietati e colleghi privi di scrupoli, la loro importanza storica non ne sarebbe in nessun modo diminuita. Anche in questo caso non è compito dello storico giudicare, anche perché egli opera in un’epoca diversa da quella in cui sono accaduti i fatti e non sarebbe corretto portare di fronte ad un tribunale di vivi coloro che già sono morti.
Una difficoltà più seria sorge a proposito del problema dei giudizi morali sulle azioni pubbliche. Spesso accusare un singolo personaggio serve a fornire alibi ad un’intera società; ad esempio i tedeschi vedono con favore le accuse alla malvagità individuale di Hitler, in quanto egli funge da capro espiatorio delle colpe collettive. Lo storico non emette sentenze nei confronti del singolo personaggio, ma non può mantenere un atteggiamento indifferente di fronte ai drammi del passato; così egli non giudicherà il singolo proprietario di schiavi, ma ciò non gli impedirà di condannare una società fondata sulla schiavitù. I fatti storici presuppongono un’interpretazione e l’interpretazione implica sempre un giudizio di valore. E’ impossibile erigere un criterio astratto e metastorico in base al quale sia possibile giudicare le azioni storiche. Alcuni concetti, come libertà e giustizia, sono universali, ma il loro contenuto è mutato nel corso della storia e il problema pratico della loro applicazione può esser compreso unicamente in termini storici.

Di Fabio