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Azione nonviolenta – Aprile 2004

DiFabio

Feb 3, 2004

Azione nonviolenta aprile 2004

– Guerra e terrorismo, Siamo tutti complici, di Mao Valpiana
– Una politica di prevenzione e di trasformazione nonviolenta dei conflitti: il lungo cammino dei Corpi Civili, di Giulia Allegrini
– Militari americani obiettano, soldati italiani disobbediscono. Gli eserciti che combattono in Iraq cominciano ad avere dubbi…, di Giovanni Mandorino
– Vegetarianesimo ovvero la nonviolenza nel piatto. La scelta del cibo riguarda il nostro rapporto con la natura, di Marco Baleani
– Nella globalizzazione selvaggia vince la legge del più forte. La via istituzionale alla pace per costruire un governo mondiale, di Padre Angelo Cavagna

Rubriche

– Economia
– L’azione
– Lilliput
– Cinema
– Musica
– Storia
– Movimento

Guerra e terrorismo, Siamo tutti complici

Di Mao Valpiana

Lo scenario è sempre più cupo. In un mese è successo di tutto: il tragico attentato con 200 morti sui treni di Madrid, rivendicato da al-Qaida che minaccia un’offensiva generale contro l’America e i suoi alleati; l’aumento del terrorismo in Iraq e poi l’uccisione da parte dell’esercito di Israele dello sceicco Yassin, leader di Hamas, organizzazione mandante dei kamikaze, che rischia di innescare una progressione di violenza e vendetta senza via d’uscita. Da una parte e dall’altra prevalgono le fazioni più dure, più fondamentaliste, più violente. I segnali di pacificazione, di comprensione, di dialogo, sono sempre più deboli.
Guerra e terrorismo si avvinghiano in una spirale unica. Come spezzarla?
A volte, per cercare risposte a domande che inquietano, vado a sfogliare le vecchie annate della nostra rivista, perché so che è sempre una miniera di idee ed ispirazioni, e che i fatti che ci interrogano oggi, sono gli stessi che ieri hanno interrogato i nostri predecessori. Così sono andato a rileggere l’editoriale del numero di novembre-dicembre 1969, a firma Pietro Pinna, dal titolo significativo “Siamo tutti complici”. Si riferiva alla guerra del Vietnam, alle stragi di civili, alla guerriglia. Basterebbe sostituire Iraq a Vietnam e potrebbe essere stato scritto oggi. Non c’è nulla da aggiungere. Per questo ne riproduco dei brani, così com’è.
“La discriminante da porre, la denuncia da elevare, il crimine da esecrare è pertanto la guerra in sé, l’idea dello spargimento di sangue, l’accettazione della violenza ‘a fin di bene’. Perché in questa accettazione sta il principio di tutto: ‘il resto è commento’ (un pietoso interminabile commento: gli aerei sulle Torri Gemelle, gli attentati a Casablanca, gli uomini bomba che esplodono in Israele, l’abbattimento delle case palestinesi, le violenze in Pakistan, in Afganistan, in Iraq, gli attentati di Madrid -NdR). Il tutto viene da questo inizio, la breccia nell’argine: poi l’acqua una volta straripata copre indifferentemente ‘il sasso e il volto del bambino’, e non le si può far carico della sua troppa irruenza gelida e limacciosa. Tal mostro è la guerra che, una volta evocato, è impossibile imprigionarlo. (….) La coerenza, la lucidità vorrebbero dunque che lo ‘sgomento e repulsione’ delle crudeltà particolari della guerra e delle azioni violente in genere, dei ‘barbari assassinî’ che ne possono sortire, venissero indirizzati in blocco alla guerra e alla violenza per sé prese, mai da usarsi per nessuna ragione. (…) Siamo seriamente contro la violenza ‘da qualunque parte provenga’, e siamo contro ogni forma di essa? Diamo mano allora sul serio ad eliminare tutto l’enorme capitale di violenza ‘ammantata di legalità’, di chi sfrutta ed opprime impunemente sotto l’egida del diritto, fino alla violenza di chi usando del pressoché assoluto monopolio degli organi di comunicazione di massa, manipolando notizie e giudizi fa opera di corruzione, eccita all’odio e alle soluzioni di forza (…) Troppo bene sappiamo che non sarà per amore di coerenza e di ragioni razionali che l’uomo correggerà la sua tradizionale mentalità e atteggiamento nei riguardi della violenza, anche se oggi essi ci stanno portando all’orlo della follia suicida. Ammessa e concessa la violenza ‘a fin di bene’, essa sarà sempre ‘barbara’ se usata dagli altri, lecita e nobile per noi. Non ci si accusi per questo di mancare di sufficiente discernimento storico a distinguere violenza da violenza, quella dei fascisti e dei partigiani, degli americani e dei terroristi (NdR), degli oppressori e degli oppressi. Ma oggi s’impone un atto di scelta –che è quindi un fatto morale, che va oltre mere ragioni di logica e di utilità-: il ripudio alfine in assoluto della violenza e della guerra. Questa è la vera scelta democratica e civile in un mondo ormai unito qual è il nostro (…) E’ all’idea generale della violenza a fin di bene che dobbiamo alfine applicare il giudizio di ‘barbara’, altrimenti mai usciremo neppure dal particolare ‘barbaro assassinio’. Ciò riguarda quindi non solo chi della violenza buona o cattiva si fa diretto esecutore, ma tutti noi che, conservandone l’idea, ne conserviamo la radice, in noi e negli altri. Tolta questa mentalità, apertici al vero concetto della nonviolenza (che è attivo interesse per tutti) ci saremo negati alla più macroscopica barbara oppressione che col ricorso alle armi viene fatta alla famiglia umana senza discriminazione alcuna. (…) Negatici alla guerra e capita la vera nonviolenza, avremo anche trovato il modo di dare un effettivo contributo alla vera liberazione dalle altre forme di oppressione, illibertà e ingiustizia (…).
Dunque, per combattere la ‘barbara violenza’ del terrorismo fondamentalista di oggi, ci opponiamo alla ‘barbara violenza’ della guerra. Questo è il senso profondo del nostro ‘no’ alla presenza di truppe italiane in Iraq. Guerra e terrorismo hanno la stessa radice. Dobbiamo estirparla. Con la nonviolenza.

Una politica di prevenzione e di trasformazione nonviolenta dei conflitti:
il lungo cammino dei Corpi Civili di Pace Europei

di Giulia Allegrini*

Era il maggio del 1995 quando il Parlamento Europeo adottava un emendamento di Alexander Langer sulla creazione di un Corpo Civile di Pace Europeo, affermando che “un primo passo per contribuire alla prevenzione dei conflitti potrebbe consistere nella creazione di un Corpo Civile Europeo di Pace (che comprenda gli obiettori di coscienza) assicurando la formazione di controllori, mediatori, specialisti in materia di soluzione dei conflitti”.
Nel Giugno 2004 si terranno le elezioni i per il Parlamento Europeo, organo che ha finora contribuito a sostenere e promuovere i Corpi civili di Pace come progetto politico all’interno dell’Unione Europea.
Nel corso di questi nove anni il mondo intero ha dovuto assistere alla guerra in Afghanistan, a quella in Irak, a Timor Est, al continuo delle violenze in Cecenia, in Liberia, ai massacri e rioccupazioni di città Palestinesi come Jenin e Ramallah, solo per citare alcuni della lunga lista di drammatici eventi che hanno segnato questi anni.
Le azioni di Peackeeping dell’Onu e la stessa Unione Europea, hanno mostrato la loro debolezza, nel definirsi come soggetti in grado di agire prima dello scoppio della violenza, durante e dopo nell’impedire nuovi cicli di violenza, accanto ad un’incapacità di adattarsi e fare fronte a nuove tipologie dei conflitti, definibili come “asimmetrici”, per lo più intra-statali, dando così lo spazio per un’affermazione della pura forza militare.
Sempre più urgente diviene quindi un ripensamento delle politiche di intervento rispetto ai conflitti, soprattutto in linea con un approccio di prevenzione e di trasformazione nonviolenta dei conflitti. Un approccio di questo tipo si basa sull’idea che si debba arrivare sia ad un mutamento della relazione distruttiva tra le parti in conflitto ad una basata sul mutuo beneficio e cooperazione, sia ad una cambiamento della struttura e del sistema in cui tale relazione si inserisce, dove il coinvolgimento delle parti nella ricerca delle soluzioni possibili e la capacità di azione a più livelli di diversi attori, di base, intermedi e alto livello, secondo il principio della Multytrack Diplomacy, (Diplomazia Multilivello) sono essenziali. Tutto ciò va contro e rifiuta un approccio legato a meccanismi reattivi ed offensivi e finalizzati alla creazione di un vincitore ed un perdente. Un passo decisivo in tale direzione è la creazione dei Corpi Civili di Pace Europei.
Quando Langer pensava ai Corpi Civili di Pace pensava proprio alla possibilità di dotare di uno strumento nonviolento e civile la appena nata “Politica Estera e di Sicurezza Comune”, in seguito integrata con la Politica Comune di Sicurezza e di Difesa”, divisa in tre componenti: gestione militare delle crisi, gestione civile, conosciuti come “Compiti di Petesberg”, formulati dal Consiglio Ministeriale dell’Unione dell’Europa Occidentale(UEO) nel Giugno 1992 a Petesberg, e prevenzione dei conflitti. L’idea di Langer, fortemente alimentata dalla guerra in Bosnia, poggiava sulla constatazione che l’esclusivo approccio militare non è in grado di risolvere le crisi e soprattutto non fornisce i mezzi per l’avvio di un vero processo di pace e che dall’altra parte molte ONG erano presenti con azioni sul campo in situazioni di conflitto dove la comunità internazionale era invece assente. Secondo Langer i Corpi Civili di Pace dovrebbero essere un corpo costituito dall’UE, sotto gli auspici delle Nazioni Unite, che sottostà o si riferisce all’OSCE, composto inizialmente da 300/400 professionisti e 600/700 volontari esperti. I suoi compiti dovrebbero essere primariamente di prevenzione di conflitti e dello scoppio di ulteriori violenze attraverso strumenti di monitoraggio, di dialogo, costruzione della fiducia, di negoziazione con le autorità locali, di supporto della società civile soprattutto di coloro che non sono implicati nel conflitto, ma eventualmente anche di interposizione. Centrale è il momento dell’addestramento per un adeguato funzionamento.
Il gruppo Verde al PE, raccogliendo e riprendendo le indicazioni di Langer, convocò poi il 6 Novembre 1995 a Bruxelles una Tavola Rotonda cui erano invitati un centinaio di rappresentanti dei movimenti per la pace e ONG dei vari paesi europei per discutere insieme del progetto sul ECPC. Da questo incontro nacque una “task force” più piccola che successivamente si è incontrata all’Austrian Study Center for Peace and Conflict resolution in Stadtschlaining e a Bruxelles il 27 Giugno del 1996. Il PE promosse poi, nell’Aprile 1997, la Conferenza sulla “Politica Estera Civile e Corpi Civili di Pace Europei come parte della Politica Estera e di Sicurezza Comune”
Importante e più deciso passo fatto dal PE a sostegno dei Corpi Civili si ha con l’adozione, nel 1999, di una risoluzione in cui raccomanda al Consiglio “di produrre uno studio di fattibilità sulla possibilità di stabilire un Corpo Civile di Pace Europeo all’interno del quadro di una più forte ed effettiva Politica Estera e di Sicurezza Comune”.
Il Consiglio Europeo di Feira del Giugno 2000 pose l’accento sulla gestione civile delle crisi internazionali definendo in quest’area quattro aree prioritarie: polizia, rafforzamento dello stato di diritto, rafforzamento dell’amministrazione civile e protezione civile, senza però menzionare la possibilità di formazione e utilizzo dei Corpi Civili di pace Europei e ponendo l’accento più sugli aiuti umanitari invece che sulla prevenzione, gestione e trasformazione dei conflitti.
Nell’Aprile 2001 la Commissione fornì una “Comunicazione sulla Prevenzione dei Conflitti” definendo in quest’ambito la sua strategia. La prevenzione dei conflitti veniva così collocata all’interno sia di un approccio integrato che porti a confluire politiche di sviluppo, cooperazione, accordi economici, il controllo delle armi, il sostegno alla società civile e ai mezzi di informazione indipendenti, che di una capacità di rispondere rapidamente accanto poi alla cooperazione internazionale con partner chiave nella prevenzione dei conflitti. La Commissione sottolineava nel documento l’importanza, in tale strategia, delle ONG, soprattutto in una prospettiva di lungo termine, ma non faceva però anch’essa, in sintonia con il Consiglio, alcun riferimento ai Corpi Civili di Pace come mezzo di prevenzione dei conflitti.
Nel Dicembre 2001 il PE rispose con una risoluzione sulla comunicazione della Commissione sottolineando il suo risentimento rispetto alla mancato riferimento ai CCP da parte della Commissione e ponendo l’attenzione su tre temi essenziali: la necessità di formulare un “conflict prevention assessment”, l’istituzione dei Corpi Civili di Pace Europei, intesi come civili formati e dispiegati a livello europeo specializzati nel portare avanti misure pratiche di peace-making come l’arbitraggio, la mediazione, la distribuzione in informazioni non partisan , la de-traumatizzazione, il confidence-building tra le parti in conflitto, l’aiuto umanitario, la reintegrazione, riabilitazione, ricostruzione, l’educazione, il monitoraggio dei diritti umani, facendo pieno uso delle risorse della società civile”; il rafforzamento delle relazioni con le Nazioni Unite e l’OSCE. Secondo il PE i Corpi Civili di Pace dovrebbero poi essere formati da un nucleo costituito da personale qualificato a tempo pieno con compiti di gestione, amministrazione e preparazione ed uno di personale specializzato da destinare alle missioni, assunto a tempo parziale chiamato a compiere azioni specifiche.
Il quadro attuale di meccanismi di intervento definito dalla Commissione e dal Consiglio, accanto a quello dell’OSCE, dotata di un organismo, il Rapid Expert Assistance and Co-Operation Teams (REACT), creatosi nel 1999 nel corso del Summit di Instabul, che chiede agli stati partecipanti di fornire un gruppo di esperti disponibili ad un rapido dispiegamento per le missioni civili, apre sicuramente lo spiraglio per la creazione di metodi civili di intervento nei conflitti con un approccio multidimensionale alla sicurezza.
Tuttavia, si è ancora di certo lontani da un riconoscimento istituzionale di un vero e proprio corpo di professionisti ed esperti volontari, quale Langer auspicava, quale il PE ha più volto sostenuto e al quale numerose associazioni ed ONG in Italia e all’estero da anni cercano di dare forma e che presuppone un radicale cambiamento degli approcci alla sicurezza e alla difesa.
Da quel Maggio del ‘95 gli sforzi maggiori tesi alla creazione di questo Corpo sono arrivati della società civile, sforzi che però non trovano una significativa e chiara risposta a livello istituzionale.
Molte sono le associazioni, come Langer constatava, che hanno accumulato una preziosa e ricca esperienza sul campo in termini di interposizione nonviolenta e di diplomazia popolare. Sono gruppi che operano in modo volontario con un’azione al livello grass root. Da lungo tempo le PBI operano in situazione di crisi e di violenza accompagnando persone minacciate di morte portando avanti azioni di monitoraggio e documentazione delle violazioni dei diritti umani, in Germania si è costituito il Forum Nazionale per i Servizi Civili di Pace, formato da ONG e riconosciuto dallo stato, finalizzato alla formazione di professionisti nella gestione nonviolenta dei conflitti.
Numerose sono le campagne internazionali cui anche associazioni italiane hanno preso parte portando avanti azioni di interposizione diretta nonviolenta e di mediazione, come quella dei “Volontari di pace in Medioriente nel 1990 e ‘91, o più specificatamente in forma di marce per la pace, come quella di Sarajevo nel 1992, a Mir Sada nel ‘93, a Pristina nel ‘98, dove fu poi aperta un’Ambasciata di Pace, in Congo nel 2000, per non dimenticare le azioni fatte in Palestina con Time for Peace prima e Action for Peace poi e le azioni di diplomazia parallela portate avanti dalla Comunità di S.Egidio. E’ questo un bagaglio di competenze e conoscenze che va riconosciuto e valorizzato e da cui i Corpi Civili di Pace dovrebbero partire, in quanto permettono proprio di garantire quella sostenibilità, in termini di appartenenza locale e di durata di lungo termine dei processi di costruzione della pace, che è origine e punto di arrivo di un approccio di prevenzione e trasformazione nonviolenta dei conflitti.
Langer stesso aveva sottolineato che alle ONG doveva essere inizialmente affidato il reclutamento di personale da inserire nei Corpi Civili di Pace, il PE nella raccomandazione al Consiglio sostiene l’importanza di potere valutare il ruolo che le ONG hanno svolto nella soluzione pacifica dei conflitti, di censire e mobilitare le risorse delle ONG.
In Italia, dove il discorso sui Corpi Civili di pace è legato alla lotta per l’obiezione di coscienza, per l’obiezione alle spese militari e per la difesa popolare nonviolenta, la creazione di CCP ha come punti di riferimento importanti la sentenza della Corte Costituzionale italiana, che dichiara che “il sacro dovere della difesa della patria è realizzabile non solo attraverso il servizio militare , ma anche con un servizio civile di impegno sociale non armato”, la legge del 1998 di riforma sull’obiezione di coscienza in cui vengono previste forme di ricerca e di sperimentazione di difesa civile nonarmata e nonviolenta e che gli obiettori di coscienza possano prestare loro servizio in missioni di tipo umanitario all’estero.
Momento importante in Italia di sostegno da parte delle associazioni ed ONG dei Corpi Civili di Pace si ha poi con la creazione della Rete Verso i Corpi Civili di pace. Lanciata nel corso dell’incontro tenutosi a Firenze nel Gennaio 2002, ed in seguito riunitasi a Bologna nel Giugno del 2003 in cui definì una propria visione sui Corpi Civili di Pace in termini di tipologia di intervento, struttura e rapporti con le Istituzioni., si prefigura come una rete di associazioni ed Ong che si occupano del tema dell’intervento dei Corpi Civili di Pace in zone di crisi a livello di ricerca, formazione ed intervento. La rete vede i Corpi Civili di Pace come un’articolazione della Società Civile, costituiti da persone qualificate, adeguatamente preparate ad intervenire, con gli strumenti della difesa popolare nonviolenta e della gestione costruttiva dei conflitti, in situazioni di crisi esercitando funzioni di prevenzione, attraverso in particolare il monitoraggio in “zone calde”, di interposizione, di diplomazia popolare, che favorisca l’elaborazione di soluzioni al conflitto da parte delle società civili coinvolte.
Fine della rete è di contribuire alla costruzione di una futura politica estera non armata che costruisca sicurezza e pace, per cui un riconoscimento istituzionale dei Corpi Civili di Pace diviene indispensabile. La rete fa riferimento e si coordina con l’European Network for Civil Peace Services, insieme di organizzazioni che operano nella ricerca di soluzioni nonviolenta ai conflitti. A sua volta l’EN.CPS fa parte, è sostenuta e coordinata dall’European Peacebuilding Liason Office (EPLO), network di 17 organizzazioni che promuovono scambi di informazioni sulla prevenzione dei conflitti anche con istituzioni europee. L’EPLO sta attualmente operando per la creazione di un’Agenzia per il peacebuilding all’interno dell’UE.
La sfida che i CCP gettano all’Unione Europea è quindi quella di dare voce e visibilità alle azioni che la società civile internazionale conduce e deve potere continuare a condurre, inserendole in un sistema europeo di politiche comuni di sicurezza e di difesa. La professionalità che a livello istituzionale viene richiesta non deve escludere al contrario deve sostenere le competenze di personale proveniente dalle associazioni di volontariato, le quali però devono a tal fine puntare maggiormente sul momento formativo e di preparazione agli interventi in situazioni di conflitto. Il processo di costruzione dei Corpi di Civili di Pace passa quindi attraverso una sinergia tra attori, risorse e conoscenze. Senza parlare in modo polarizzante di processo dall’alto o dal basso si può invece parlare di complementarietà e di scambio. I CCP non possono essere un prodotto lontano e slegato dalla società civile così come non possono operare senza un riconoscimento ed un sostegno istituzionale, in termini di supporto finanziario e politico.
Sostenere la creazione di Corpi Civili di pace Europei, significa non solo adottare una prospettiva di prevenzione e trasformazione dei conflitti, ma anche affermare una difesa civile ed una visione di sicurezza non più statocentrica e militare, ma centrata sulla persona, olistica e multidimensionale ed una definizione della pace in termini positivi e sostenibili. A tutto questo l’Europa potrebbe dare spazio e vita con il riconoscimento de Corpi Civili di Pace. Questo di certo significa anche compiere un passo fermo e deciso di distacco e rifiuto delle politiche di guerra preventiva della potenza statunitense. Sarà in grado e soprattutto ci sarà la volontà di compiere un tale passo? Le elezioni europee e quelle italiane giocheranno forse un importante ruolo nel determinare o no una riposta positiva, anche se la capacità della società civile nel mobilitarsi, coordinarsi a sostegno dei CCP, senza trascurare una chiara definizione degli obiettivi e strategie di azione, rimane anch’esso elemento indispensabile.

* Laureata in Scienze Politiche
Volontaria in servizio civile al Movimento Nonviolento

Progetti in corso

Pilot Project Sri Lanka. Promosso ed organizzato da Nonviolente Peaceforce. Ha l’obiettivo, attraverso la presenza sul campo, in 16 diverse zone del paese, di una squadra internazionale di cinquanta persone formate con metodi di intervento nonviolento, di proteggere e supportare i soggetti che livello locale cercano di promuovere e costruire la pace. La squadra svolge quindi azioni di protezione di villaggi, persone a rischio, monitoraggio di violazioni di diritti umani, promuove incontri con leader religiosi, rappresentati governativi, e gruppi locali che si azionano per la pace.

Cyprus Project. Promosso dall’EN.CPS, sulla base di uno studio di fattibilità condotto dal forum tedesco per i servizi civili di pace, prevede l’invio di una squadra multinazionale di mediatori di pace a supporto delle NGOs locali e a sostegno della ricostruzione della strutture della società civile locale, promuovendo dialogo e cooperazione.

Feseability study for DG research of European Parliament. Condotto dal Berghof Research Center for Constructive Conflict Management di Berlino e dall’International Security Information Service di Brussels.
Lo studio analizza come la proposta dei Corpi Civili di pace Europei può contribuire alle capacità di civili dell’Unione Europea per la prevenzione dei conflitti, la gestione delle crisi, ed il peacebuilding post conflitto.

Interventi civili nonviolente in Palestina ed Israele. Sono numerose le associazioni e i progetti da queste sostenute in Palestina ed Israele. Si possono ricordare le Donne in Nero che fin dalla Prima Intifada sono presenti sul campo, l’International Solidarity Movement e la War Resister’s Internationale che coordina azioni che abbiano l’obiettivo di creare un’area di mediazione tra le due comunità attraverso il dispiegamento di una forza di intervento civile europea, costituita di volontari disarmati.

Ambasciata di pace a Bagdad. Progetto promosso dall’Associazione Berretti Bianchi, con il fine di preparare la possibilità di un successivo intervento in loco di Corpi Civili di Pace (volontari della società civile adeguatamente preparati). Si prevede la presenza di un minimo di cinque persone e un massimo di sette per un periodo di 6/10 mesi. L’Ambasciata di pace si propone come strumento di supporto logistico e organizzativo per tutte le OING che intendano contribuire alla pace e alla ricostruzione di un tessuto civile, in grado aiutare un’informazione corretta sulle condizioni di vita delle popolazioni, sull’eventuale non rispetto dei diritti umani, di preparare le condizioni per la mediazione di eventuali conflitti tra opposte fazioni. L’ambasciata di pace, oltre che disporre, di almeno un parziale riconoscimento da parte di istituzioni per l’opera di pace che svolgerà, prenderà contatti con eventuali organismi dell’ONU presenti sul territorio e soprattutto con associazioni, gruppi, partiti politici e autorità civili e religiose.
La Rete “Verso I Corpi Civili di Pace”

Nasce durante l’incontro tenutosi a Firenze nel Gennaio 2002. Ha poi promosso il forum di Bologna nel Giugno 2003, in cui ha meglio definito obiettivi ed azioni per la creazione dei Corpi Civili di Pace. Ne fanno parte: Associazione per la Pace, Berretti Bianchi, Casa Pace Milano, Centro Studi Difesa Civile, G.A.V.C.I., MIR, Movimento Nonviolento, Obiettori Forlivesi, Operazione Colomba, Pax Christi, PBI, Rete Lilliput Bologna, SISP e Servizio Civile Internazionale.
La rete si propone di fungere da coordinamento di tutte le realtà che in Italia operano a sostegno del riconoscimento dei CCP, vuole creare una sinergia tra le organizzazioni che: faciliti il lavoro delle organizzazioni aderenti, sostenga i volontari nel lavoro sul campo, reperisca i fondi per sostenere la ricerca, la formazione e l’azione, acquisisca i report dei monitoraggi dei volontari sul campo e ne dia diffusione presso la società civile, i media, le istituzioni italiane ed internazionali, metta in comune le conoscenze teoriche e pratiche sul tema, operi per promuovere i contatti con i coordinamenti già esistenti sia a livello europeo che internazionali come l’ EN.CPS e Nonviolent Peace Force (NVPF).
Porta avanti azioni di ricerca, di supporto alla visibilità del tema dei Corpi civili di pace, attraverso la partecipazione come soggetto specifico, a manifestazioni ed incontri correlati all’area dell’intervento civile nelle situazioni di conflitto in Italia e all’estero e all’interno dello stesso Parlamento Europeo.
In particolare attualmente:
Preme per l’approvazione di una bozza di legge da parte del Parlamento sull’aspettativa dal lavoro che consenta a chi vuole di rendersi disponibile per l’invio in zone di conflitto.
Lavora alla creazione di un opuscolo su storia, attività e prospettive dei ccp.
Sta realizzando un sito internet sui Corpi Civili di Pace (attualmente all’interno del sito www.berrettibianchi.org)
Sostiene la sinergia organizzativa, di formazione ed operativa con il gruppo volontari per la Palestina che ha lanciato una “Campagna per la presenza in Palestina”.
Lavora al fine di promuovere l’impiego di volontari in Servizio Civile.
Ha aderito e partecipato alla Conferenza di Dublino del 31 Marzo- 2 Aprile 2004 sul “Ruolo della Società Civile e delle ONG nella Prevenzione dei Conflitti Armati”.

Militari americani che obiettano, soldati italiani che disobbediscono.
Gli eserciti mandati a combattere in Iraq cominciano ad avere dubbi…

Soldato “latinos” non vuole tornare in Iraq
Diserta, e si dichiara obiettore alla guerra

Lo chiamano lo spagnolo, perché quella di Cervantes è la sua lingua madre, ma oggi, dopo l’annuncio fatto dal neo-premier designato Josè Luis Rodriguez Zapatero, del possibile prossimo ritiro dall’Iraq dei militari spagnoli, l’epiteto prende un significato particolare. Si chiama Camilo Mejia, ha 28 anni, vive a Miami e fa parte della Guardia Nazionale della Florida, il cui contingente è stato inviato in Iraq. Contrariamente a sua madre, Camilo non possiede la nazionalità statunitense: è uno dei tanti “latinos” provenienti dal Nicaragua che si sono arruolati per ottenere la nazionalità Usa ed avere la possibilità di studiare all’università senza pagare rette da capogiro. Contrario alla guerra, dopo averla conosciuta, non è tornato in Iraq dopo una licenza trascorsa in famiglia. Ora punta ad ottenere lo status di obiettore di coscienza e per questo si è consegnato alle autorità militari. Mejia è uno dei circa 600 soldati americani inviati in Iraq e mai arrivati, i cosiddetti Awol (Absent WithOut Leave), cioè assenti senza giustificazione. Camilo Mejia ha rilasciato una lunga intervista al principale quotidiano dell’Illinois, il Chicago Tribune, dove ha spiegato i motivi della sua scelta, poi si è consegnato alle autorità militari in una base dei pressi di Boston, proprio il giorno del primo anniversario dell’inizio della guerra in Iraq.
Il legale di Camilo, Louis Font, intende giocare una doppia carta, sostenendo che Mejia non è un disertore ma è un obiettore di coscienza: lo dimostra non solo il suo rifiuto di combattere una guerra che non condivide ma anche il fatto che si è consegnato alle autorità. Inoltre, Camilo non è un disertore in tempi di guerra, perché non c’è mai stata dichiarazione ufficiale di guerra, ma solo il via libera all’uso della forza da parte del Congresso. L’obiettivo di Font è di ottenere per Mejia, da un tribunale regolare, il riconoscimento dello status di obiettore di coscienza (nel 2002 le Forze armate Usa lo hanno riconosciuto a 17 militari su un totale di 23 richieste), e che il soldato venga congedato con onore, contrariamente a quello che pensano le autorità militari che auspicherebbero ad un congedo con disonore, oltre a una condanna esemplare dinnanzi alla Corte Marziale.
I familiari dei militari contrari alle operazioni in Iraq hanno manifestato il 20 marzo a Washington. L’appuntamento era davanti all’ospedale dell’esercito, il Walter Reed, dove vengono ricoverati i feriti dell’Iraq e dell’Afghanistan, organizzato da un gruppo chiamato Military Families Speak Out, che rappresenta circa un migliaio di famiglie di militari che vogliono che gli Stati Uniti ritirino le truppe dall’Iraq. La loro protesta ha accompagnato la marcia dei pacifisti che, da Dover, nel Delaware, dove c’è l’obitorio che riceve le salme dei caduti e le prepara per le esequie, è arrivata a Washington, davanti alla Casa Bianca.
Quattro militari italiani disobbediscono e rifiutano di guidare elicotteri-carretta

Il Corriere della sera, il Manifesto e Liberazione ci hanno messo al corrente di un fatto interessante: il rifiuto di alcuni piloti di elicottero dell’esercito italiano di condurre i loro elicotteri nei cieli iracheni.
L’episodio è avvenuto il 2 dicembre 2003 ma è venuto alla nostra conoscenza solo il 5 marzo 2004 con oltre 3 mesi di ritardo, e anche su questo ci sarebbe molto da dire. Ma veniamo al merito.
Con la loro decisione i piloti evidenziano, quanto meno, due cose:
1) l’Iraq è zona di guerra e le forze armate italiane ci vivono in un clima di pericolosa e attuale ostilità, essendo considerate bersagli al pari dei contingenti inglese e statunitense;
2) l’obbedienza agli ordini (anche nell’istituzione militare) può trovare un limite nell’etica della responsabilità individuale che (seppure, in questo caso, non e‘ arrivata a discutere la legittimità e la sostenibilità dell’uso del nostro esercito nell’occupazione delle terre di altri popoli) porta a contestare quegli ordini in nome della tutela della vita propria e delle persone messe sotto la propria responsabilità (come sarebbero stati i militari trasportati negli elicotteri in questione o quelli che sul loro appoggio avessero fatto affidamento).
Insomma, la colpa di questi piloti, quella per cui potrebbero essere processati (e rischiare il carcere) per ammutinamento, quella per cui sono accusati di vigliaccheria dai cuordileone seduti dietro le proprie comode scrivanie a Roma, sembra essere quella di aver cercato di sottrarre altre bare alle celebrazioni ufficiali che sarebbero (inevitabilmente) seguite se i loro mezzi fossero stati attaccati.
Per questi motivi, la sorte di questi uomini e degli altri quindici che, indossando la divisa dei Carabinieri, si sono rifiutati di partire per l’Iraq, ci deve stare particolarmente a cuore e deve essere al centro della nostra attenzione e delle nostre prossime mobilitazioni.

Giovanni Mandorino

Il diritto alla vita è reato!

Quattro piloti di elicotteri mandati a fare la guerra in Iraq sono stati denunciati per ammutinamento: si sono rifiutati di fare una missione con i Ch47 dell’esercito, che, secondo una relazione di collaudo erano pronti a volare, ma erano sprovvisti di protezione contro i razzi della guerriglia. La legge militare dice che se si è in più di tre a disobbedire a un ordine è ammutinamento. Quei quattro ragazzi, che il loro comandante Luigi Chiavarelli ha definito sommariamente «ottimi piloti ma pessimi militari», non avevano intenzione di morire presto e male. E per questo sono stati denunciati alla procura della Repubblica militare per un reato che il codice militare di pace considera grave – fino a tre anni di galera- e che la legge militare di guerra applicata ai nostri soldati in Iraq punisce con più asprezza elevando la pena a quattro anni e mezzo. Il procuratore generale militare Scandurra lo ha definito un «reato eccezionale».
I fatti risalgono a due mesi fa. Sono stati tenuti sotto silenzio mentre si svolgeva l’inchiesta interna, ma ai Cobar la notizia era arrivata e si aspettavano con preoccupazione le decisioni del comando di Viterbo dai quali i quattro dipendono. C’era allarme perchè la minaccia di misure punitive pendeva anche su quindici carabinieri del reggimento Gorizia che hanno rifiutato di partire per l’Iraq. Ma fino a questo momento il comando generale dei carabinieri ha frenato i provvedimenti disciplinari. C è anche per «li alti rami» dell’Arma chi comincia a considerare oltre che pericolosa anche inutile la presenza dei militari italiani in Iraq, costretti ad asserragliarsi nei loro fortini per non esporsi agli agguati della guerriglia. La favola che gli italiani hanno fraternizzato con la popolazione irachena non regge più. Anche a Nasseriya c’è un clima cupo verso i nostri militari che come tutte le truppe di occupazione fanno metà servizio distribuendo acque minerali e panini e l’altra metà dando la caccia ai «terroristi». «Italiani andatevene» è il perentorio invito delle moschee, come riferiscono tutti i reportage.
Soldati allo sbaraglio
Il rifiuto dei nostri piloti di andare in missione con quegli elicotteri ha fondate ragioni perchè i velivoli non erano provvisti di apparecchiature automatiche in grado di difenderli da missili. Si chiamano ingannatori elettronici perchè intercettano il segnale dei missili a guida radar lanciati contro gli aerei e li «ingannano» con echi di disturbo. L’unica possibilità di evitare il missile è affidata a questi strumenti di cui dispone tutta l’aviazione militare moderna. I nostri comandi hanno memoria corta. Il 3 settembre del 1992 un nostro aereo militare in missione sulla Bosnia fu abbattuto da un missile lanciato dai croati bosniaci. Morirono il pilota e i quattro uomini di equipaggio. Il missile forse non sarebbe andato a segno se quell’aereo avesse avuto la protezione elettronica. A 12 anni di distanza il nostro esercito va in guerra con elicotteri che hanno più o meno le stesse dotazioni di quelli usati dagli Usa nella guerra in Corea. Il motivo – dicono i generali – è che non abbiamo soldi: per fornire un elicottero della strumentazione elettronica anti-missile ci vogliono da centomila euro in su. Più che logico. Una ragione in più per il governo e per i comandi supremi per non mandare i nostri soldati in Iraq a fare la guerra con quegli aggeggi. Anzi per ritirarli subito, il prima possibile.
In questo scenario il nostro piccolo e poco attrezzato esercito è poco più di un’isoletta sperduta. Dice Falco Accame, presidente di un’associazione di assistenza ai militari italiani: «Andavano messi sotto inchiesta non quei quattro piloti, ma chi ha mandato i soldati in Iraq con insufficienti mezzi di difesa».

Annibale Paloscia
(tratto da Liberazione 06/03/2004)

Vegetarianesimo, ovvero la nonviolenza nel piatto
La scelta del cibo riguarda il nostro rapporto con la natura

Di Marco Baleani

Il vegetarianesimo viene considerato a volte un atteggiamento originale, snob o anticonformista. Non è così e rinunciare a nutrirsi della carne di altri esseri viventi ha radici profonde nella religione e in una visione del mondo diversa da quella materialistica, edonistica e indifferente che domina la nostra società dello spreco e della violenza, rapace nei confronti di altri esseri viventi e dell’ambiente. Il vegetarianesimo è un aspetto della nonviolenza che viene spesso trascurato, o che è comunque ritenuto marginale. Dal mio punto di vista invece, parlare del vegetarianesimo ci porta dritti dritti al cuore del problema di cosa significhi essere amici della nonviolenza, di come si rapporta con il mondo chi s’impegna ad essere amico della nonviolenza. Se è vero, come diceva Mohandas Gandhi, che essere amici della nonviolenza significa lavorare per diminuire (si badi bene: non eliminare, che è cosa impossibile da farsi) per quanto è possibile la violenza nel mondo, è altrettanto vero che ciò non può essere limitato ai rapporti intraspecifici, interni alla nostra specie umana (visione antropocentrica, chiusa), ma tale lavoro va necessariamente esteso anche ai rapporti esistenti tra noi e gli altri esseri viventi, nonché all’ambiente in cui viviamo (visione non antropocentrica, liberata, aperta). Non è possibile infatti non rendersi conto o ignorare il legame che unisce l’uomo agli altri esseri viventi e al suo ambiente.
Procedendo a ritroso nel tempo, già a poco più di tre milioni di anni fa (cioè tremila milleni di anni fa) troviamo i nostri antenati comuni con le scimmie, mentre ad un centinaio di milioni di anni fa troviamo i mammiferi che dividevano il mondo con i grandi rettili. Ma se andiamo oltre, ad un tempo abissalmente lontano da noi, a circa due miliardi di anni fa (cioè due milioni di millenni di anni fa), la terra o meglio i mari di allora erano popolati da microscopici animali unicellulari che tali sono rimasti per milioni di anni, prima di evolversi nelle forme di vita più complesse come quelle che conosciamo. I miliardi di cellule che compongono il nostro corpo, ma anche quello degli altri esseri viventi, discendono da quelle primordiali forme di vita. Come non provare stupore e non sentire questi legami! Se c’è una differenza tra l’essere umano e gli altri esseri viventi, è tutta in quel “pezzo di carne speciale” contenuto nella scatola cranica, cioè nel cervello di cui siamo dotati e che è il modello attualmente più evoluto e sofisticato presente in natura. Il nostro cervello, l’interfaccia tra corpo e mente, capace di trasformare questi segni scritti in concetti, utilizzando algoritmi complicatissimi. Le differenze però si fermano qui. Mi chiedo se questo sia un motivo sufficiente per sentirsi signori e padroni del mondo e di tutto ciò che ci vive. E’ un motivo sufficiente per uccidere esseri viventi e devastare l’ambiente? O se al contrario non possa essere la molla che porta a scegliere uno stile di vita diverso, improntato alla semplicità volontaria, alla nonviolenza ed infine al vegetarianesimo? La scelta della semplicità volontaria è un atto di auto-arricchimento, di condivisione, di conservazione della biosfera e di tutte le sue creature ed è, infine, un approccio “compassionevole” alla vita (Nanni Salio – La scelta della semplicità volontaria per uno stile di vita nonviolento e sostenibile – Centro Studi Sereno Regis). Perché non estendere il comandamento divino “non uccidere” a tutti gli esseri viventi, compresi quelli non umani che vengono macellati per il piacere del palato o che vengono ammazzati per sport dai cacciatori? Invece siamo diventati così insensibili da non riuscire a vedere il rapporto che c’è tra il consumo di carne e la morte per fame di milioni di persone che non fanno parte della società del benessere. Siamo così insensibili da guardare con indifferenza la sofferenza e l’uccisione di tanti esseri viventi non umani. Siamo diventati così insensibili da non vedere alcun rapporto tra l’alimentazione carnea e l’inquinamento di acqua , aria e terreno.
Il consumo di carne fa parte delle nostre abitudini acquisite con la crescita del benessere economico e non è più, come in passato, un bene di lusso alla portata di pochi. Non è un caso che i ricchi paesi occidentali soffrano di malattie legate all’eccessiva quantità di proteine animali che vengono consumate. Infatti carnivori si diventa per un’aberrazione culturale che fa ritenere la carne un alimento importante per una buona alimentazione, in quanto si crede che possa fornire proteine altrimenti introvabili. Si tratta, al contrario, di un prodotto di seconda qualità, sia perché costituita da cellelule già utilizzate dal corpo di un animale e spesso cariche di rifiuti organici, sia per i processi di crescita forzata a cui sono sottoposti attualmente gli animali da macello. Nei grandi allevamenti, infatti, gli animali destinati al macello sono tenuti immobili in piccoli box (perché meno si muovono e più ingrassano) e nutriti con farine di pesce, farine di penne di pollo idrolizzate e cotte, farine provenienti da sottoprodotti della macellazione, deiezioni animali, estrogeni, antibiotici e altri farmaci. Ma la violenza non si ferma qui, c’è anche la loro uccisione, una morte sempre prematura e traumatica di esseri viventi senzienti che sanno perfettamente la sorte che li attende. E che siano esseri senzienti e provvisti di consapevolezza è confermato dal fatto che prima di essere uccisi, devono venire storditi per mezzo di uno shok traumatico. Tutto questo per l’ingordigia di pochi privilegiati e la fame di molti!
La scelta vegetariana invece, oltre a porre fine a tanta disumana violenza, rende disponibili grandi quantità di risorse alimentari sufficienti a nutrire l’intera popolazione mondiale. Quantità sempre maggiori di terreni agricoli, che potrebbero fornire cibo direttamente all’uomo sono invece destinate a produrre foraggio per gli animali da macello. Infatti la resa produttiva della carne è molto bassa (occorrono 16 Kg di cereali e soia per produrre 1 Kg di carne!) ed è necessario disboscare aree sempre più vaste di foreste per trasformarle in terreni agricoli o in pascoli. E’ ciò che avviene per esempio in Amazzonia, dove l’88% delle aree disboscate è adibito a pascolo. Altra conseguenza dell’allevamento di bestiame è l’inquinamento del suolo e delle falde idriche, sia a causa dei fertilizzanti necessari per la coltivazione intensiva dei foraggi e sia a causa delle grandi quantità di deiezioni animali prodotte. Per restare in Italia, annualmente finiscono nel Po la bellezza di circa 190.000 tonnellate di deiezioni, prodotte da 4 milioni di bovini e da 7 milioni di suini, che sono tra le cause dell’eutrofizzazione dell’Adriatico. Ma i danni ambientali non si fermano qui. Tra gli altri, c’è anche la grande quantità di acqua che è necessario per produrre carne. Oltre all’acqua utilizzata per la pulizia delle stalle, è stato stimato che per produrre 5 kg di carne bovina, serve un quantitavo d’acqua pari a circa il consumo domestico annuale di una famiglia media.
Come si vede, quindi, la scelta vegetariana è un atto che va nella direzione della diminuzione della violenza nel mondo, dell’apertura nei confronti di tutti gli esseri viventi che non sono più intesi come cose da utilizzare a nostro piacere, e del rispetto dell’ambiente che non è più inteso come materia da sfruttare e rapinare per nostro interesse. Concludo citando un passo di Aldo Capitini (non a caso fondatore nel 1952 della Società Vegetariana) tratto da “Vita Religiosa” un libro del 1942: “Non mangio carne, cerco di risparmiare il più possibile l’uccisione degli animali, e anche (si tratta però di vite più limitate) di stroncare il meno possibile piante e fiori. Far molto non è già qualche cosa? Farne un problema, uno scrupolo non è già arricchire la presenza religiosa a quegli esseri? Non è un’offerta pura, una libera aggiunta che, come tutte le pure offerte che non chiedono nulla, accresce la gioia nella vita? C’è da dire anche che questo atto si riflette sull’atto che rispetta, a maggior ragione e con assoluta superiorità d’importanza, l’esistenza umana. Amo gli animali, ma confesso che mi decisi ad abbandonare il carnivorismo quando pensai che uccidendo meno animali, diminuendo la faciloneria a riguardo di essi, si sarebbe acquistata una convinzione più profonda dell’importanza dell’esistenza degli esseri umani”.

Verrà il giorno in cui gli uomini giudicheranno l’uccisione di un animale come essi giudicano oggi quella di un uomo
Leonardo Da Vinci

Bisogna correggere la falsa credenza che la dieta vegetale ci renda deboli, passivi e abulici. Io davvero non credo che la carne sia assolutamente indispensabile, per nessun motivo.
M. K. Gandhi

Mangiare carne è semplicemente immorale, perché comporta un’azione, quella di uccidere, che è contraria al sentimento morale.
Lev Tolstoj

L’Associazione Vegetariana Italiana

Fin dall’inizio del secolo scorso, il vegetarismo era praticato in Italia da molte persone per ragioni etiche e dietetiche, senza alcuna organizzazione o gruppo coordinato che ne divulgasse le tematiche. Si calcola che i vegetariani oggi in Italia siano circa due milioni e mezzo. L’A.V.I. -Associazione Vegetariana Italiana- si occupa di difenderne i diritti, tenerli informati e di diffondere l’etica e i principi fondamentali del vegetarismo.
Aldo Capitini, partendo dalla convinzione che il sostentamento umano non può basarsi sulla morte di altri esseri viventi, cominciò a riflettere sul vegetarismo come scelta consequenziale al suo impegno nonviolento. Nel 1952 con il professor Marcucci, la dottoressa Thomas, l’ingegner Freddi, il professor Capo, il dottor Ciaburri e il professor Hermann, Aldo Capitini diede vita alla Società Vegetariana in Italia. Insieme, sorretti unicamente dalla forza dell’ideale vegetariano, pacifico e pacificatore, hanno deciso di dedicarsi alla diffusione di questo ideale, consapevoli che l’uomo può salvarsi dall’autodistruzione solo riportando la sua alimentazione al rispetto delle leggi naturali, cioè all’esclusione del cibo carneo, che comporta l’uccisione di animali pacifici e innocenti.
Da un articolo del 1963 di Aldo Capitini […]”Persone isolate e gruppi vi sono tuttavia, per zoofilia o per ideologia (gandhiana e nonviolenta, teosofica, pitagorica, naturistica, ecc.). Non siamo ancora in grado di farne un quadro esatto. Per arrivare a questo, per divulgare l’ideale e la buona pratica del vegetarianesimo, per rafforzare i rapporti tra i vegetariani e praticanti, nel 1952 […] abbiamo messo in moto, anche per impulso di Emma Thomas […] la Società vegetariana italiana, costituita nel settembre a Perugia, al termine di un congresso dedicato, dal Centro per la nonviolenza, allo studio e alla pratica della nonviolenza verso il mondo animale e vegetale. Era presente il segretario della International Vegetarian Union che ha la centrale a Londra, e che ha colto il gruppo italiano nella grande famiglia internazionale.”
Dopo la morte di Capitini, nel 1968, la Società Vegetariana Italiana cambiò la sua sede da Perugia a Milano e nel 1970 il Dottor Ferdinando Delor cambiò il nome in Associazione Vegetariana Italiana, proseguendo sulla linea ideale tracciata da Capitini. Con alcuni collaboratori costituì un’organizzazione più capillare e iniziò la pubblicazione del trimestrale L’Idea Vegetariana, partecipò assiduamente a convegni e incontri a livello internazionale divulgando articoli e volumi sul vegetarismo come scelta etica, sulle proprietà degli alimenti e sulle considerazioni scientifiche.
Da allora l’Associazione Vegetariana Italiana ha avuto una continua evoluzione, inserendosi a tutti gli effetti nel movimento vegetariano europeo e mondiale.
L’A.V.I., continuando oggi con la medesima filosofia dei suoi fondatori, ha tra gli scopi principali quello di incrementare il numero degli iscritti, affinché il vegetarismo acquisti una forza decisionale anche nell’attuale società italiana, con enorme vantaggio per tutta la popolazione.AVI, Segreteria nazionale
Viale Brianza, 20
20127 Milano
Tel. 02 26113546
info@vegetariani.it
www.vegetariani.it

Le cifre della carne

1 ettaro di terreno destinato ad allevamento produce in un anno 66 Kg di proteine, mentre se fosse dedicato alla coltivazione di soia produrrebbe 1848 kg, cioè 28 volte di più.

Quanto costa un hamburger? Per produrne una è necessario grano sufficiente per un chilo di pane, acqua sufficiente per 17 docce, carburante sufficiente per fare 40 km con un’utilitaria, produce lo stesso inquinamento prodotto da un’utilitaria in 20 km, 23 kg e 16 l di escrementi bovini e infine 3,4 kg di erosione del suolo.

Se tutti mangiassero carne quanto gli occidentali (circa 100 kg all’anno pro capite) ci sarebbe cibo sulla Terra per sfamare 2,75 miliardi di persone. Se tutti fossimo vegetariani si potrebbero sfamare fino a 12 miliardi di persone.

Nel 20° secolo l’uomo ha abbattuto il 50% delle foreste del pianeta, l’88% delle quali per far posto ai pascoli.

La deforestazione comporta, oltre alla desertificazione di circa 600.000 ettari di superficie all’anno, la perdita di “biodiversità” poiché nelle foreste tropicali vivono il 50% delle specie della Terra.

Un allevamento medio produce 200 tonnellate di sterco al giorno (pari a circa quello prodotto da un insediamento umano di 110.000 abitanti) causando l’inquinamento di falde acquifere, fiumi e torrenti.

Jeremy Rifkin “Ecocidio” – Arnoldo Mondadori Editore
Alessandro Arrigoni “I diritti degli animali” – Ediz. Cosmopolis

Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei!

di Marco Lorenzi

Vegetariani, vegani, crudisti, fruttariani o macrobiotici: che differenza c’è?
Spesso il termine “vegetariano” viene usato, anche impropriamente, per indicare tipi di alimentazione molto diversi tra loro.
A variare possono essere infatti sia i cibi mangiati o esclusi dalla propria dieta, ma anche le motivazioni alla base di queste scelte alimentari.

Piccolo dizionario

Vegano (o vegetaliano): elimina dalla propria dieta ogni prodotto di origine animale. Oltre a evitare la carne il vegano non consuma latte, formaggi o latticini, uova, miele, ecc…
Le ragioni di questa scelta sono anche in questo caso, in primis, di ordine etico. Il vegano è infatti consapevole che la produzione di latte e uova, è causa di enormi sofferenze e della morte di molti non umani. Infatti anche gli allevamenti intensivi non finalizzati alla produzione di carne, privano gli animali della possibilità di soddisfare i più elementari bisogni etologici e presto o tardi, quando non saranno più produttivi, verranno destinati al macello.
Alcuni vegani scelgono invece questa alimentazione essenzialmente per la propria salute, convinti che una dieta, anche se vegetariana, ma ricca di prodotti animali (formaggi e uova) non sia molto più salubre di una dieta onnivora.
Valgono infine le stesse ragioni ecologiche e sociali ricordate per il vegetarismo.
(Il termine vegano deriva dall’inglese “vegan”, contrazione del termine “vegetarian”. In Italia è anche usata la parola vegetaliano per indicare chi si astiene da ogni alimento animale)
Crudisti: si alimentano esclusivamente di vegetali e frutta, rigorosamente consumati crudi, escludendo qualsiasi tipo di alimento (come ad esempio i cereali) che per essere consumato deve essere cotto. Le ragioni di questo scelta alimentare sono esclusivamente salutistiche e si basano sull’osservazione che la cottura è un procedimento introdotto dall’uomo da relativamente poco tempo rispetto alla sua storia evolutiva, e per di più per rendere più morbide le carni. Pertanto, osservano i crudisti, questo procedimento è innaturale e potenzialmente dannoso. Secondo alcuni sarebbe crudista anche chi mangia carni crude. Questa opinone non ci pare condivisibile dato che chi si ciba solo di cibi crudi lo fa per assumere tutta l’energia vitale del cibo e la carne, cotta o cruda che sia, è un alimento morto e privo di ogni energia vitale per definizione.
Fruttariani: si cibano solo di frutta talvolta includendo semi (noci, pistacchi, mandorle, …) e alcuni ortaggi. Chi propone questa alimentazione è convinto sia la più adatta alla fisiologia dell’uomo che è rimasto essenzialmente un primate frugivoro come i suoi antenati. Questo tipo di alimentazione è quindi sostenuta sulla base di argomenti essenzialmente salutistici. Va tuttavia rilevato che non ci sono studi scientifici che confermino i vantaggi di diete così restrittive.
Macrobiotici: non eliminano necessariamente dalla propria dieta il pesce e quindi non sono automaticamente vegetariani, sebbene escludano sempre latticini e uova. I macrobiotici che non mangiano pesce seguono un dieta essenzialmente vegana con tuttavia una serie di regole in più per quanto attiene alla combinazione degli alimenti e all’esclusione di alcuni cibi vegetali.
Pescetariani: non sono vegetariani. Si tratta di onnivori che per varie ragioni (in genere salutistiche) eliminano solo la carne dalla propria dieta, pur consumando abitualmente pesce. Essi non cono considerabili vegetariani neppure in senso lato.

Nella globalizzazione selvaggia vince la legge del più forte.
La via istituzionale alla pace, per costruire un governo mondiale

Di Padre Angelo Cavagna *

Il mondo oggi è davvero diventato un ‘villaggio planetario’; ma questo villaggio è tuttora senza ‘sindaco’ e senza ‘consiglio comunale’; in pratica è un ‘paese di matti’. Vi regna l’anarchia pressochè totale e i problemi si risolvono a botte, ossia a base di scontri armati, con la legge del più forte, anzichè con la forza della legge e del diritto.
E’ almeno da un secolo che si è percepita l’esigenza di ‘istituzioni sovranazionali’, a garanzia del bene comune di tutti i popoli del mondo. Dopo la prima guerra mondiale (1914-18) sorse un coro di voci a reclamare ciò. E i vincitori istituirono la “Società delle Nazioni”. Ma, si sa, i ‘signori della guerra’ non sanno fare la pace; e la “Società delle Nazioni” fallì. Dopo la seconda guerra mondiale (1939-45) si levò un urlo immenso a reclamare la “Nazioni Unite” a garanzia di giustizia e pace per tutti. Anche stavolta, però, furono istituite dai ‘signori della guerra’ a proprio uso e consumo; e non funzionano. La prova? Il segretario dell’ONU, Kofi Annan, in un fondo su l’Unità di tempo fa, ha scritto chiaro e tondo: “Le istituzioni internazionali, che dovrebbero garantire giustizia e pace per tutti i popoli, sono allo stato poco più che embrionale”. In altre parole: non sono ancora nate.
Allora: cosa aspettiamo? La terza guerra mondiale, magari atomica? I benpensanti dicono: solo un pazzo potrebbe dichiararla. Ma non è difficile capire che di pazzi, a questo mondo, non c’è mai stata carestia; oggi meno che mai!

Occidente incivile
L’Occidente (Italia, Europa, America del Nord) si è fregiato spesso della prerogativa di culla o area della civiltà (cultura classica, cristiana, democratica, scientifico-tecnica…). Con il passare dei secoli si sta connotando, al contrario, per il primato della inciviltà. Ha ragione il prof. Andreoli che, al convegno internazionale di Rimini, organizzato dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, sul tema “Servire la pace e difendere i diritti umani” (16-18 dicembre 2003), ha affermato e ribadito con forza: “L’Occidente non è il ‘mondo civile’, bensì ‘incivile’.
E’ questa l’idea che oramai ci stiamo acquistando nel mondo. In Uganda, dove eravamo in viaggio su pulmini e pulmann di fortuna in 200 italiani verso Butembo nell’Est-Congo/Kinshasa, con “Beati i Costruttori di Pace”, durante una sosta, mentre la gente ci guardava con curiosità perplessa, un ragazzo sui 12 anni si avvicinò e chiese: “Siete dell’ONU?.. Siete della NATO?”. Alla nostra risposta negativa, spiegando che eravamo gente comune interessata a favorire la pace in Africa, in particolare nel Congo, ebbe un moto di gioioso sollievo, spiegando: “Noi sappiamo che quando arrivano i bianchi, per noi di solito son guai!”. Questa è la nomea che ci stiamo facendo nel mondo.
In Africa, anche i bambini delle scuole primarie sanno cos’è stata la “Conferenza di Berlino” del 1884-85: i governanti delle nazioni industrializzate si riunirono nella capitale della Germania; posero sul tavolo la cartina geografica dell’Africa dicendo “Non facciamo la guerra fra noi; dividiamoci l’Africa di buon accordo”. Poi inviarono gli eserciti coloniali a “portar la civiltà!”. E l’Africa fu divisa secondo i rispettivi interessi per le materie prime, senza riguardo per le aree politiche, culturali, religiose; il che è tuttora fonte di infinite sofferenze e lotte.
Più vicino a noi, dopo il crollo del ‘muro di Berlino’ (1989) e lo scioglimento del ‘Patto di Varsavia’ (1990), era logico si sciogliesse anche la NATO. Invece i rispettivi paesi componenti (occidentali) confermarono l’alleanza, iniziando a parlare di “Nuovo modello di difesa”. Nell’ottobre del 1991, il nostro ministro della Difesa, quindi il Governo, presentò in Parlamento un documento intitolato “Linee di sviluppo delle Forze Armate negli anni ‘90”. In esso, tra l’altro, si diceva: “Il nuovo Modello di Difesa non è più tanto la difesa dei confini, bensì degli ‘interessi vitali della Nazione’ in qualsiasi parte del mondo… Per interessi vitali sono da intendere ‘le materie prime presenti nel terzo mondo, necessarie alle economie dei paesi industrializzati’… In questo quadro l’Europa, in particolare l’Italia, avrebbe il ruolo di ‘ponte politico ed economico fra i paesi industrializzati e il terzo mondo’”.
Viva la sincerità! Ma non potei trattenermi dal pubblicare su Settimana del Centro Dehoniano di Bologna un articolo intitolato: “PATTO SCELLERATO?”. In fine di articolo, il punto interrogativo si cambiò in esclamativo!
Il PATTO SCELLERATO, come detto sopra, è di tutti i paesi NATO. Il Parlamento francese, ad esempio, varò una legge sulla ripresa degli esperimenti nucleari, autorizzando il Governo all’uso della bomba atomica per la difesa degli “interessi vitali della Nazione” in qualsiasi parte del mondo.

Falsità – arroganza – cinismo violento
E’ impressionante la serie di fatti in linea con il PATTO SCELLERATO sopra accennato! A cominciare dalla guerra in Kossovo. Molti sembrano ancora candidamente convinti che si sia trattato di una ‘guerra umanitaria’ (supposto che possa esistere!). L’Italia faceva affari, mentre la si preparava, vendendo armi a Milosevic. Fu negato qualsiasi aiuto, né diplomatico né economico, a Ibrahim Rugova che stava attuando all’interno una delle lotte nonviolente più intelligenti e massicce. In ogni caso, lapidaria e inequivocabile fu la dichiarazione della Segretaria di Stato di Clinton, sig.ra Albright, all’inizio dell’amministrazione Bush: “Noi, in Kossovo, abbiamo difeso gli interessi americani!”.
Ugualmente solo gli interessi sono alla radice della ‘guerra preventiva’ di USA e Inghilterra, con il codazzo di fiancheggiatori, fra cui l’Italia, contro l’Afghanistan, l’Iraq e forse altri paesi in seguito. “L’ONU è stata volutamente scavalcata – scrive il vescovo-teologo Francesco Lambiasi sul n. 1 di Settimana 2004 p. 1 -. Il motivo vero, denunciato anche da La Civiltà Cattolica, quaderno 3662, è quello di ‘‘avere accesso alle immense riserve di petrolio iracheno’’”. E aggiunge: “Questo non significa essere antiamericani, perchè queste cose le hanno ricordate anche gli episcopati degli USA e dell’Inghiletrra”.
Clamorose sono state le bugie sui depositi di tali ‘armi di distruzione di massa’ per giustificare l’attacco all’Iraq. Al riguardo, i primi responsabili sono proprio i cosiddetti paesi nucleari, USA in testa, che tali armi hanno inventato, costruito, diffuso, usato, ammodernato, Italia compresa che usava già le armi chimiche nel 1936 nella guerra d’Africa.
Questi paesi cosiddetti civili, che all’ONU si affannano per far firmare a tutto il resto del mondo il ‘Patto di Non Proliferazione’ delle armi chimiche – batteriologiche – nucleari, non hanno mai voluto indicare una data precisa di inizio di disarmo reale di tali armi, come sancito dall’ONU e come vivamente ed unanimemente richiesto dagli altri paesi. Anzi, Bush ha più volte affermato che il suo Governo, se tiene tali armi, è segno che intende usarle.
Michel Chossudovsky, docente di economia all’Università di Ottawa, in un libro “Guerra e globalizzazione – La verità dietro l’11 settembre”, edito dall’EGA, scrive: “L’iniziativa di difesa strategica (Star Wars) include..: ‘scudo stellare’.., armi ‘laser offensive’.., strumenti per la guerra meteorologica e climatica… Agli inizi del 2002 un rapporto segreto del Pentagono confermò l’intento dell’amministrazione Bush di usare armi nucleari contro Cina, Russia, Iraq, Corea del Nord, Iran, Libia e Siria… Il rapporto dice che il Pentagono dovrebbe essere preparato a usare armamenti nucleari…” (pp. 104-5).

Per una globalizzazione civile
Oramai tutti sanno che in questa globalizzazione selvaggia chi comanda non è il potere politico, bensì quello economico-finanziario. Sono le 7 ‘sorelle del petrolio’, le 5 ‘sorelle del grano’ (multinazionali che controllano gran parte dei viveri del mondo) ecc. Sono esse che dettano legge ai politici e si servono dello strumento militare per controllare le risorse o materie prime del mondo, difendendo a denti stretti il liberissimo mercato internazionale: il vero superstato globale e dittatoriale che scardina dal di dentro il sistema democratico.
Ne sono un segno le spese militari, quasi sempre in crescita, anche nei paesi poveri, mentre i tagli infieriscono sulle spese sociali. Ne sono un simbolo inequivocabile gli ‘aggiustamenti strutturali’, ossia le condizioni che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) pone ai prestiti che fa ai governi, specie dei paesi poveri: tagli alla sanità, alla scuola, alle pensioni ecc. e praticamente mai alle spese militari.
Queste non sono critiche di moralisti sentimentali, ma valutazioni scientifiche anche dei massimi esponenti della finanza. “Basta con le spese militari: tolgono risorse allo sviluppo”: a dirlo è stato il presidente della Banca Mondiale, James Wolfensohn, in una recente intervista a La Repubblica. Ed ha aggiunto: “La stessa ripresa americana è fragile”.
Tommaso Padoa Schioppa, da parte sua, esperto di economia e vicepresidente della Banca Centrale Europea, è da un po’ di tempo che va ribadendo: “Anche l’economia ha bisogno di regole”. La libera concorrenza si risolve spesso in una competitività spietata, a volte sleale e a base di corruzione, che sfocia quasi inesorabilmente in una società e anche in una economia malata.
Un altro esperto, che lavorò per trent’anni nella Comunità Economica Europea, usava la seguente immagine: “Occorre un ‘semaforo’, ossia un minimo di regole, anche per l’economia. Il semaforo non toglie la libertà: la regola in modo intelligente e umano, per il bene di tutti”.
Ma chi può mettere il semaforo ad una economia-finanza mondiale nel villaggio planetario? Evidentemente il ‘sindaco’, con il supporto di un ‘consiglio comunale’. Ma questo è ciò che manca e non si vuole. E’ il problema dell’Europa, che tutti a parole vogliono più unita e forte, salvaguardando però la sovranità assoluta dei singoli stati.
E’ il punto su cui è fallito il progetto di costituzione europea. Non si vuole una vera autorità sovranazionale, né a livello europeo, né a livello mondiale. All’ONU, l’assemblea dei rappresentanti dei governi del mondo non può fare la minima legge. L’unico organo che decide qualcosa è il Consiglio di Sicurezza, dove siedono permanentemente i cinque vincitori della seconda guerra mondiale, con il diritto di veto singolo: questa è l’ONU costruita dai ‘signore della guerra’ a proprio uso e consumo.
Più o meno lo stesso è per l’Europa. Il fallimento dell’ultimo vertice di Bruxelles del semestre italiano è ben riassunto dalla seguente descrizione di Andrea Bonanni su La Repubblica del 30.1.03: “Sono anni che in Parlamento europeo Fausto Bertinotti attacca Prodi e le istituzioni europee con argomentazioni diverse ma non meno dure di quelle usate dai deputati leghisti o dall’estrema destra di Le Pen. Ed è il senso di un assedio politico che si chiude attorno alla costruzione europea quello che Silvio Berlusconi ha riassunto magistralmente in un gesto quando, all’ultima seduta del Parlamento di Strasburgo, si è alzato dal suo posto mentre parlava Francesco Rutelli per andare a stringere la mano a Fausto Bertinotti. Se l’Europa oggi ha tanti nemici – continua l’articolista -, siano essi avversari politici o antagonisti criminali, non è perchè abbia fallito i suoi obiettivi, come vorrebbero far credere i populisti di destra e di sinistra, ma perchè li ha centrati. Perchè è diventata, come spiegano Prodi e Monti, l’unico esempio funzionante sulla faccia del pianeta di ‘governance’ della globalizzazione… E’ una scommessa difficile – conclude l’articolo – e tutt’altro che vinta, come dimostrano il fallimento del vertice di Bruxelles e le vanterie di Berlusconi di aver ‘‘fermato il superstato europeo’’”.
Riguardo a Prodi, egli ha espresso la propria opinione nell’intervista rilasciata a Giancarla Codrignani e pubblicata su Mosaico di Gennaio ‘04, dove dice tra l’altro: “Occorrono in primo luogo regole funzionali, ben diverso sarà il percorso se prevarrà il voto a maggioranza o resterà necessaria l’umanità. In quest’ultimo caso sarà molto più difficile per l’Europa far sentire la propria voce”. Precisa però: l’Unione Europea (UE)non sarà mai un ‘superstato’, perché a differenza dagli USA, i singoli paesi conservano la loro identità e le loro autonomie”. Ciò sembrerebbe una contraddizione. Nel caso prevalesse il voto a maggioranza, la sovranità dei singoli stati componenti l’UE non sarebbe più assoluta, perché dovrebbero sottostare alle leggi comuni così stabilite, anche non gradite. L’UE dovrebbe avere anche il modo di farle rispettare da tutti, in quanto istituzione sovranazionale. Allora il rifiuto del ‘super-stato’ equivarrebbe al rifiuto del centralismo esorbitante, tanto a livello europeo come a livello mondiale, che sarebbe contrario al principio di sussidiarietà, che ho sentito con piacere richiamare al congresso nazionale dei giovani di “Rifondazione Comunista” presso il tempio Malatestiano di Rimini alcuni anni fa.
In tal caso potremmo essere d’accordo tutti con la sintesi, che ritengo splendida, proposta dal Catechismo CEI “La verità vi farà liberi”, che dice: “Oggi…la pretesa dei singoli stati sovrani di porsi come vertice della società organizzata sta diventando anacronistica. Si va verso forme di collaborazione sistematica, si moltiplicano le istituzione internazionali, si auspicano forme di governo sopranazionale con larga autonomia delle entità nazionali (pp. 528-529).

Conclusione
Un vero ‘governo europeo’ e, ancor più , ‘mondiale’ è la soluzione più indovinata e urgente, che l’on. La Pira indicava come “via istituzionale alla pace”, senza la quale il mondo è destinato a rimanere in balìa del caos globale attuale, a tutto vantaggio di multinazionali voraci e antidemocratiche, e in lotta spietata fra loro.
Del resto l’articolo 11 della Costituzione Italiana lo prevede espressamente nella sua seconda parte: “L’Italia… consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Certo è essenziale che ciò avvenga secondo il ‘principio di sussidiarietà’, che vieta al livello di autorità superiore di avocare a sé ciò che può essere fatto prima e meglio al livello inferiore o locale. Si deve evitare quel centralismo eccessivo e ingombrante che rende inceppati e insopportabili gli stessi governi democratici.
Non è detto che con il ‘sindaco’ e il ‘consiglio comunale’ vengano risolti al meglio tutti i problemi del ‘villaggio planetario’ come di qualsiasi comune; ma un paese senza sindaco e senza consiglio comunale è senz’altro peggio e inconcepibile.

* Sacerdote dehoniano, Bologna

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Aerei invisibili e aziende visibili

Il B-2 Spirit è un bombardiere in grado di trasportare sia armamento nucleare che convenzionale (viene in gergo chiamato “ multiruolo”). Le sue caratteristiche di bassa osservabilità, o stealth, gli danno l’abilità di penetrare le difese nemiche più sofisticate e i bersagli molto protetti. La combinazione fra le tecnologie d’avanguardia (soprattutto i materiali compositi impiegati e la speciale vernice che lo ricopre), l’aereodinamica efficiente e l’elevata capacità di carico attribuiscono al B-2 importanti vantaggi sui bombardieri esistenti. I B-2 hanno come equipaggio due piloti, il comandante dell’aereo nel sedile sinistro e il comandante della missione nel destro: sono stanziati nelle tre basi statunitensi Whiteman, Diego Garcia e Guam e possono volare in ogni parte del mondo con appena un rifornimento. Il loro raggio d’azione con un pieno di carburante è infatti approssimativamente di 9.600 km.
Quello che invece amichevolmente si chiama F117 o “Stealth”, all’anagrafe è registrato come Lockheed Martin F117 Nighthawk. In quel nome, falco della notte, è già racchiusa una parte della sua missione. Infatti ogni operazione che lo vede impegnato si svolge di notte, quando con il favore dell’oscurità può meglio sfruttare le sue caratteristiche. Il suo colore nero, che dà alle sue linee una parvenza di eleganza, è dovuto alla vernice speciale che lo ricopre. Anche questa, come per il B-2, serve ad assorbire parte delle onde emesse dai radar e quindi a ridurre la traccia da essi percepita.
Parlando di armamento l’F117 di solito va in volo con solo 2 bombe a guida laser, le cosiddette bombe “intelligenti”, contenute nella zona inferiore della fusoliera. Queste bombe, come il loro nome dovrebbe suggerire, sono guidate sul bersaglio da appositi segnali laser emessi dall’aereo che “illumina” il bersaglio, sensori in grado di fornire una visione infrarossa permettendo al contempo la navigazione notturna.
Nessun arma di autodifesa è montata su questo aereo e questo spiega perchè i piloti selezionati per guidarlo sono tra i più preparati. Volano di notte arrivando fin dalle prime fasi di un conflitto, le più pericolose, in profondità in territorio nemico e tutto questo senza difese in caso siano intercettati. Del costo c’è poco da dire, visto che nessuno lo conosce esattamente a parte il Pentagono che lo paga. Comunque si può dire che sta da qualche parte tra esagerato, pazzesco e smodato.
Per dipingere lo Stealth ed il B-2, dagli stabilimenti di Atlanta hanno chiesto l’aiuto dell’azienda di Francesco Peghin, a Camposampiero, Padova. Alla Blowtherm si sono dati da fare, e hanno messo in funzione un impianto di verniciatura di quelli seri: «Siamo stati là dentro una volta, e poi non ci abbiamo messo più piede, dopo avere passato mille controlli di sicurezza». Peghin, 39 anni, lo racconta divertito. Presiede l’azienda di famiglia, fondata da suo padre nel 1956. Il Gruppo Blowtherm ai tempi produceva bruciatori civili ed industriali. Negli anni ‘70 inizia l’avventura nel campo delle cabine forno di verniciatura per autoveicoli, quelle utilizzate dalle carrozzerie. Un’intuizione fortunata, visto che in un decennio la società padovana riesce a diventare il numero uno al mondo nel settore, e a ragionare in termini globali. «Avevamo una joint venture in Usa con una società americana, ma ora andiamo avanti da soli», racconta ancora Peghin.
La Blowtherm attualmente è composta da due divisioni: quella dei bruciatori, con stabilimento a Legnago (Verona), e quella degli impianti di verniciatura. Un fatturato che, nel 2002, ha toccato i 54 milioni di euro. Il fatturato è al 70% realizzato all’estero: un quarto in Nordamerica, un quarto in Italia e il resto in tutti i continenti. Il grande business ora è con le case automobilistiche, con marchi, tra gli altri, come Mercedes, General Motors e Volkswagen. «Collaboriamo anche con i produttori di vernici per automobili, soprattutto da quando si stanno imponendo le vernici ad acqua, meno inquinanti e a basso contenuto di solventi», aggiunge l’ecologico Peghin. Sono stati i primi a vendere questi forni in Cina, 10 anni fa, fino a venire copiati. Ora hanno rifornito la ditta Kremlin. Che dipinge i blindati antisommossa per la polizia di Mosca.
Francesco Peghin, presidente di Assindustria Sport, vanta anche un importante passato sportivo: per due volte (1995 e 1996) è stato campione mondiale di vela nella sesta classe Ior e per questi risultati il Coni gli ha conferito la medaglia d’oro al valore atletico. E’ iscritto ovviamente al Rotary Club di Padova.

L’AZIONE
A cura di Luca Giusti
Tornano a fiorire le biciclettate nonviolente, sobrie e piacevoli
E si candidano come alternativa alle manifestazioni con corteo

Un ciclo completo di stagioni è trascorso dalla prima Giornata nazionale dell’auto-boicottaggio, che ha portato file indiane di biciclette imbandierate a pace nelle maggiori città d’Italia, da Palermo a Torino.
E visto che con la primavera non è tornata la pace in Iraq né nella testa dei nostri politici, in molti rinasce il desiderio di gridare “non in nostro nome” di rimboccarsi i calzoni (con tanto di molletta) per un’obiezione collettiva all’auto e un’opzione personale per la bicicletta.

E’ da sottolineare come molte biciclettate ritornino maturate sulla base dell’esperienza accumulata e si candidino a diventare una vera e propria modalità di manifestazione nazionale a rete, puntando sull’integrazione bici+treno, che permette di:
ampliare il raggio d’azione non più limitato all’interno delle città capoluogo ma allargato a collegare città raggiungendo un bacino di utenza regionale o interregionale.
rivolgersi a tutti, compresi coloro che faticavano a partecipare alle biciclettate a causa degli anni o dei chili di troppo, o magari della pigrizia o goffaggine. Il treno trasforma una modalità di manifestazione che potrebbe risultare elitaria, ristretta ai più atletici tra i pacifisti convinti, in una modalità adeguata a persone di tutte le età e di tutte le taglie.

Vediamo il caso delle biciclettate convergenti organizzate da Sarzana, Massa e Carrara in occasione del passaggio della Carovana Arcobaleno di Pace il 13 marzo scorso.

PREPARAZIONE
Qualche giorno prima della partenza si è provveduto a tappezzare il percorso e i principali luoghi pubblici dei centri attraversati con manifestini che annunciavano il passaggio della biciclettata, con un’approssimazione oraria del passaggio nell’ordine di un quarto d’ora, invitando a unirsi al bicicorteo.

Grazie a un contatto con l’ufficio comitive delle ferrovie e attraverso lo studio dell’orario dei treni, si è preparata una tabella oraria con tutti i treni che fanno salire le bici negli orari previsti per la manifestazione. Gli usi del treno proposti sono vari:
raggiungere in bicicletta il punto di partenza da una città distante
raggiungere in bicicletta un punto avanzato dell’itinerario o il punto di raccordo delle biciclettate
raggiungere a piedi (combinando con il bus) il punto d’arrivo, dove si svolgerà il comizio-animazione finale
ripartenza in bicicletta e a piedi
E’ importante assicurare alle persone con problemi di mobilità e che non hanno mai messo la bici sul treno, un’assistenza nella salita e discesa dal treno. Invitare esplicitamente nei volantini persone con forti limiti di mobilità, garantisce tra l’altro gli altri utenti sulla possibilità di vivere l’esperienza in tutta serenità.
Nell’eventualità della previsione di un afflusso di bici alle stazioni superiore alla capienza massima dei vagoni biciclette utili (di 15 unità nei treni da noi individuati) è possibile richiedere una carrozza prenotando un certo numero di posti bici. Occhio però: fino a una settimana dalla partenza! In caso di pioggia e di annullamento della biciclettata viene perduto solo il costo delle prenotazioni. Chi non si è prenotato corre il rischio di trovare il treno pieno e di non poter partire.

AZIONE!
Sabato 13 marzo 2004
ore 13.32: stazione di Sarzana: in perfetto orario arriva il regionale partito da Spezia alle 14.09. Ne scendono una decina di visi giovani; sembrano divertiti dall’insolita esperienza della bici sul treno; chi è sceso prima si affretta ad aiutare chi è ancora sopra.
14.15: dopo un primo giro in città le bici ritornano alla stazione e incontrano molte altre che ne frattempo si sono raccolte. PARTENZA!
14.35 coincidenza alla stazione di Luni con il treno che porta i ciclisti dalla riviera e dalla lunigiana interna. Mano a mano che si procede al gruppo si aggiunge chi ha preferito aspettare le bici lungo il percorso si arriva a oltre cinquanta biciclette.
14.40 incontro con le biciclettate convergenti da Massa e Carrara e partenza in corteo lungo il largo viale che conduce verso il mare, passando davanti alla stazione di Avenza a raccogliere eventuali ritardatari o persone impossibilitate a fare percorsi più lunghi.
15.30 arrivo nel piazzale della coop di Avenza per comizio conclusivo e saluti alla carovana della pace che riparte per Viareggio
16,30 ripartenza ognuno nella propria direzione, a completare l’anello per la via del mare. I meno agili tornano in treno dalla vicina stazione di Avenza.
17.30 Arrivo e saluti in piazza Matteotti a Sarzana e poi alla stazione a risalire sul treno per la Spezia e Riviera.

VALUTAZIONE
E’ andato tutto molto bene: orari rispettati alla perfezione ma soprattutto un successo inaspettato dal punto di vista dell’affluenza di ciclisti e della risposta dei passanti.
Questa modalità permette a chi la attua di avere una chiara percezione dell’umore della gente riguardo al tema proposto: una sorta di sondaggio a sorpresa su due ruote che i mega cortei tradizionali non permettono perché preceduti da tutta una serie di impedimenti logistici che portano i passanti a chiudersi in se stessi, non facendo arrivare che in minima parte il proprio umore ai manifestanti.
Da sottolineare come la gran parte del lavoro organizzativo che questa tecnica di azione nonviolenta richiede sia decentrabile: non molto di diverso a quello che ogni persona può fare nel momento in cui desidera utilizzare il treno per recarsi a pedalare. La prenotazione dei posti si appoggia sul servizio comitive delle FS, lo svolgimento del corteo non intralcia il traffico (almeno finchè qualcuno non lo riterrà pericoloso) e quindi può essere autogestito.
Come nel caso dell’esperienza di critical mass il corteo si può creare spontaneamente, contando sulla capacità di autoorganizzarsi del singolo ciclista.
Infine, la biciclettata cerca di evitare ogni intralcio agli automobilisti, visti non come controparte ma come terze parti; in una manifestazione che si snoda per vie trafficate certamente uno dei principali gruppi da spostare verso le proprie posizioni con l’empatia.

GLOSSARIO
Dall’esperienza fatta rimane il senso di aver lavorato a una tecnica di azione nonviolenta dalle grandi potenzialità. Dico questo per il moltiplicarsi di proficui dettagli che si costruivano spontaneamente nel preparare e fare questa esperienza. Ho provato a raccoglierli in un glossario
AVAMPOSTO: ha la patente di scorta tecnica riconosciuta, capacità atletica e bicicletta adeguate a risalire il corteo dopo aver verificato che le macchine non ripartano a semafori e incroci prima che la fila sia interamente passata. Verifica che sulla linea delle ruoti non ci siano oggetti pericoloosi per l’equilibrio dei ciclisti meno esperti, eventualmente liberandoli con un calcio o fermandosi.
CAPOCOLONNA: tiene l’itinerario e il ritmo adeguato a conciliare tabella di marcia e differenti possibilità atletiche. Ha piena e unica autorità nei nei momenti critici e in particolare detta le traiettorie nei bivi e nei passaggi di corsia. Per avere la percezione della compattezza del gruppo, la sua bici dovrebbe essere attrezzata con specchietti retrovisori (o con un buon messaggero).
CICLOVOLANTINATORE: alcune persone particolarmente allenate ed abili a guidare la bici, attrezzate di una scorta di volantini su un cestino o qualcosa di simile, pedalano paralleli al corteo, in asse con i passanti, fermandosi a consegnare volantini per poi ripartire all’inseguimento.
DECORAZIONI: anche per la primavera-estate 2004 vanno alla grande le verdissime canne di bambù. Sottili, resistenti ed elastiche come la migliore fibra sintetica, consentono di raggiungere altezze adeguate per issare la bandiera della nonviolenza. La bicicletta offre infinite altre possibilità di decorazione che utilizzino la dinamica dell’aria in movimento, dei pedali o delle ruote.
ITINERARIO: per evitare troppi attraversamenti di strade per imboccare strade sulla sinistra a partire dalla carreggiata destra, è preferibile che l’anello dell’itinerario giri verso destra e non viceversa.
MECCANICO: posto a chiusura del corteo, offre la propria bicicletta a chi ha forato (sempre che non sia di stazza troppo diversa). Possiede strumenti tecnici e capacità adeguati a riparare la ruota in un tempo che gli consente di ricongiungere con il gruppo.
MEGAFONO: è possibile usarne uno, o un’amplificazione portatile, in grado di raggiungere anche chi non è in strada, ma è alla lunga fastidioso per chi pedala, impedendo una reale interazione con ciò che sta intorno e tende a produrre un tono slogan anche in mano al migliore declamatore.
MESSAGGERO: ruolo importante che cerca di tenere unito il gruppo, eventualmente chiedendo alla testa di rallentare o attendere. Le forature non vanno comunicate alla testa del corteo ma al messaggero più vicino che provvederà a comunicarle.
MUSICA: (canti, ritmi, scampanellate, trombette e strumenti vari) a gruppi con botta e risposta. Aiutano a segnalare il proprio passaggio ai meno attenti o più distanti. Per i ciclomusicisti meno preparati si può affiancare impianti di amplificazione portatili. Anche qui si consiglia leggerezza: il rumore del vento tra i raggi è rilassantissimo e il suddetto effetto hippie dietro l’angolo.
SEMAFORI: sono l’occasione per i più atletici (che vogliono lasciare correre un po’ i pedali) di aspettare chi va più piano. Altrimenti la coda si troverà ulteriormente ritardata dallo scattare del rosso, spezzando il corteo in due tronconi o suggerendo sconsigliabili accelerate col giallo.
SLOGAN: è possibile indirizzare ai passanti che si incrociano una breve frase immediatamente comprensibile, seguita da frasi coordinate che ne arricchiscano il senso, pronunciate da successivi speker distribuiti nel corteo, a una distanza sufficiente da ritmare il messaggio in maniera sostenibile per chi lo riceve.

LILLIPUT
A cura di Massimiliano Pilati
E’ nata “CONTROLLARMI”, la Rete italiana per il disarmo.

L’esperienza della campagna in difesa della Legge 185/90 ha lasciato in tutti gli organismi partecipanti (fra cui il Movimento Nonviolento) la voglia di continuare a spendersi sui temi del controllo degli armamenti e di contribuire ad un orizzonte di disarmo, e di farlo in maniera stabile e duratura. Il risultato di tutto ciò è la costituzione di un luogo di coordinamento degli sforzi di tutti, che parta da una lettura attenta della situazione attuale.
Oltre 25 gruppi ed associazioni si sono già impegnati a dare il loro contributo all’iniziativa, in termini di risorse, di competenze, di capacità di mettersi in gioco per un obiettivo comune.
La Rete Italiana per il Disarmo non si costituirà con una struttura giuridica particolare, ma verrà gestita in forma partecipata e libera da tutti quegli attori del mondo della Pace che ne hanno sottoscritto e ne sottoscriveranno il protocollo di intesa elaborato.
Principalmente due saranno i binari che la Rete Disarmo andrà a seguire: la ricerca e la mobilitazione. Da una parte è necessario infatti continuare ed intensificare lo sforzo di studio ed approfondimento di una tematica che diviene più complessa ed intricata ogni giorno che passa. La difficoltà sta nel fatto che già di base gli aspetti economici e legislativi non sono semplici da affrontare, ed in più le conseguenze che hanno in questo mondo globale ed in trasformazione sono davvero in rapida moltiplicazione. Collegato direttamente all’ambito di ricerca, dal quale dovrà trarre spunti, indicazioni e dati, è ovviamente fondamentale l’aspetto di azione e mobilitazione, sul quale molti degli organismi aderenti alla Rete hanno una tradizione lunga e consolidata. Non potremo pensare all’azione della nostra Rete Disarmo come quella di un’unica e singola “campagna”: solo un’articolazione intelligente permetterà di ottenere reali successi.
Il luogo di base per lo svolgimento del lavoro sarà il Gruppo di Lavoro Tematico, all’interno del quale le organizzazioni si potranno incontrare per mettere a disposizione e valorizzare le competenze possedute su un tema specifico. L’incentivazione alla creazione di gruppi di lavoro che possano sviluppare e coordinare le strategie in ciascun ambito è riconosciuto come uno degli obiettivi funzionali interni più importanti per la Rete Italiana per il Disarmo. Sebbene il fermento iniziale stia già facendo costruire nuovi Gruppi, soprattutto in vista di campagne e di azioni, ad oggi è sicura la partenza di quattro GLT legati più ad ambiti generali e di studio che a mobilitazioni particolari. Al di là dell’attività specifica dei gruppi di lavoro alcune priorità di azione trasversali sono condivise dalla Rete nel suo complesso: monitoraggio della spesa militare e del commercio di armi, controllo del rispetto dei vincoli all’esportazione di armamenti, rifinanziamento dei fondi per progetti di riconversione (185/90) e altri (raccolta armi, sminamento), raccordo con le altre iniziative europee ed internazionali in materia di disarmo, stimolo al dibattito politico sul tema del disarmo in Italia, lancio e diffusione di una campagna di informazione sul disarmo, mobilitare l’opinione pubblica nel sostegno alle azioni con lo scopo di influenzare le politiche nazionali ed europee.

Il Movimento Nonviolento, ha aderito convinto alla Rete per il Disarmo, certo di poter dare il suo apporto.
Ora starà alle nostre sezioni e ai nostri attivisti mobilitarsi per far ritornare argomento di dibattito comune il tema del DISARMO. Che sia una campagna di sensibilizzazione sull’uso delle armi leggere o che sia una campagna contro gli armamenti in generale, sta a noi lavorare per la Rete e nella Rete per dare sempre più sfondo all’orizzonte culturale del disarmo. Dobbiamo riuscire a far presa sulla società civile perché siamo certi che “anche un bambino lo capisce” che ogni altra scelta che non escluda armi belliche di qualunque genere, sarà un precipitare di voragine in voragine.

“Non pretendo e neppure presumo che la scelta del disarmo unilaterale sia LA soluzione di questa infernale storia umana bellicosa. Solo un filo di speranza, al livello politico e al livello individuale, l’unica a cui possa darmi.
Quello però di cui sono completamente certo, è che ogni altra scelta che non escluda armi belliche di qualunque genere, sarà un precipitare di voragine in voragine”.
(Pietro Pinna: La mia obbiezione di coscienza).

Massimiliano Pilati per il Movimento Nonviolento
Francesco Vignarca per la segreteria della Rete Italiana Disarmo
mail: segreteria@disarmo.org

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
Il filo della memoria di donne coraggiose

Rosenstrasse di Margarethe Von Trotta – Germania/Olanda 2003

Margarethe Von Trotta è da sempre regista rigorosa, stilisticamente ci propone un cinema ad ampio respiro e di impianto rigidamente classici; è da sempre regista attenta alle tematiche storiche e sociali, e impegnata nel sostenere le istanze dei movimenti di emancipazione della donna: il suo ultimo film, Rosenstrasse, di tutto questo ne è compendio e manifesto. La pellicola racconta la vicenda, realmente accaduta nel 1943 a Berlino, di un gruppo di donne tedesche che, in seguito all’arresto e all’internamento in un angusto palazzo della Rosenstrasse dei mariti di “razza ebrea”, decidono di riunirsi in questa strada a protestare e a reclamare la liberazione degli stessi. Un atto spontaneo di coraggio cui parteciparono anche donne fiancheggiatrici del nazismo e che si conclude con la decisione dei gerarchi nazisti di porre fine alla prigionia di questi “fortunati” ebrei. La forza, la caparbietà e lo straordinario amore di queste donne, capaci di “obiettare” nel più autentico ed etimologico senso del termine, “gettare contro, opporre” il proprio corpo e la propria anima alla barbarie, incuranti degli enormi rischi che avrebbero potuto correre, risulta essere la chiave dell’insperato atto di liberazione. E tra di loro emerge la figura di Lena, ripudiata dal padre, un esponente dell’alta nobiltà germanica fiancheggiatrice del nazismo, per avere sposato un ebreo, interpretata con intensità dalla brava Katja Riemann, premiata per questo come miglior attrice all’ultimo festival di Venezia. Lena è l’ultimo notevolissimo ritratto di donna della ricca e variegata “galleria” dell’autrice ed ex-attrice tedesca: galleria che riunisce personaggi come Rosa Luxenburg, Katharina Blum, Christa Klages… Ma il film non si esaurisce nella vicenda storica che vuole riportare alla luce: tale vicenda è in realtà un lungo (forse un po’ troppo) flashback; passato e presente si intrecciano e compenetrano nella narrazione, così come la sfera storica e quella privata (così già in “Anni di piombo” del 1981). Lena, all’interno del flashback, infatti, incontra nella Rosenstrasse la piccola Ruth, rimasta orfana in seguito alla deportazione della madre. Tale Ruth (che in seguito, per ricongiungersi ai propri parenti emigrati in America, dovrà subire un ulteriore distacco anche dalla sua nuova “madre adottiva”, la stessa Lena) la incontriamo ormai avanti con gli anni nell’incipit del film, a New York, madre a sua volta di Hanna, con la quale si è creata una frattura a causa della sua scelta di sposarsi con un uomo non ebreo. Hanna conosce poco, quasi nulla del passato della madre (anche perché la madre gliel’ha sempre tenuto misteriosamente nascosto proprio per un meccanismo di rimozione) ed è questa sua volontà di comprendere se stessa e il suo presente in relazione a quello di Ruth che la spinge a recarsi in Germania ad incontrare l’ormai ultranovantenne Lena e a riannodare i fili con una memoria storica che riguarda l’Olocausto del popolo ebreo, ma, soprattutto, con una memoria tutta privata e personale che scoprirà legare indissolubilmente Lena a Ruth e a sua volta Ruth a lei. La centralità del tema della memoria è un concetto ribadito, peraltro, dalla stessa Von Trotta che in una sua intervista dichiara: “… una delle ragioni per cui ho realizzato questo film è la memoria. Ho sempre nutrito una certa curiosità su come essa lavori: e qui sono riuscita a dimostrare che ci sono due tipi differenti di memoria. C’è Ruth, che ha speso tutta la sua esistenza cercando di annullarla. Per lei, la memoria è collegata a una profonda ferita. E poi c’è Lena, i cui ricordi sono di vittoria e di successo, e dunque non vi è nessuna ragione per scordare ciò che si ha provato…”
Si è accennato all’inizio all’impianto lineare e classico del cinema della Von Trotta; ebbene, ciò trova conferma anche in questo passaggio tra le due sfere passato/presente, storico/privato: ai dolly e alle carrellate frequenti nella ricostruzione storica si alternano i primi piani e le scene “in interni” della parte americana, con un uso delle luci e dei colori attento ed equilibrato da parte dell’ottimo direttore della fotografia Jan Betke, tale da non creare soluzione di continuità tra i due diversi piani della narrazione.

Dino Frescobaldi

MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Dall’Ariston di Sanremo all’Ariston di Mantova

La prima settimana di marzo ha visto due teatri casualmente con lo stesso nome, Ariston, ospitare non casualmente negli stessi giorni due Festival: la 54^ edizione di Sanremo e la prima del MantovamusicaFestival. La genesi dei due appuntamenti si è intrecciata mettendo a confronto artisti, intellettuali, politici, imprenditori, radio, tv pubbliche e private.
Scherzando (ma non troppo…) Nando dalla Chiesa aveva raccontato dei contatti di Tony Renis con certi “padrini”; Tony Renis ha scherzato imitando don Vito Corleone e non aveva l’aria di scherzare quando ha detto di essere amico di tutti, in particolare di certe brave persone che aiutano chi ha bisogno; forse scherzava Vittorio Sgarbi dicendo “se Renis fosse mafioso sarebbero andati tutti (gli artisti), siccome non ci va nessuno vuol dire che non è mafioso”; forse ancora ha scherzato Celentano: “anch’io ho amici criminali e se ci fossi andato (in America – ndr) avrei dovuto lavorare con gli italoamericani che organizzano gli spettacoli”. Per chi ha scherzato, l’oggetto delle burle resta piuttosto serio. Se prendiamo il punto di vista di Nando dalla Chiesa, senatore della Margherita, figlio del prefetto Carlo Alberto ucciso dalla mafia 22 anni fa, “un paese che mette a capo dello spettacolo più importante della rete più importante della tv pubblica un uomo che rivendica con orgoglio le sue amicizie di mafia, un uomo che ospita a casa sua i boss, che gli fa avere pranzi in cella di sicurezza quando vengono arrestati, questo è un paese che fa passare un messaggio devastante: essere amici della mafia non è un problema, anzi può essere un vantaggio”.
Tony Renis, apprezzato cantautore anni sessanta, vincitore di un Sanremo e poi autore e produttore di successo, in un primo momento ha così reagito: “farnetica, calunnia, sarebbe da querela ma lascio perdere”, salvo poi avvertire successivamente: “a fine Festival partiranno tante querele. Ho dato mandato ai miei avvocati”…
Lascio ad altri le analisi sui dati di fatto chiamati in causa e sulla effettiva posta in gioco. Il tempo darà alcune risposte. Prendiamo atto che qualcuno, riscontrando una minaccia alla democrazia e alla vitalità della musica e della cultura, ha pensato di avviare qualcosa di simile a una difesa nonviolenta (o attacco!?) cominciando a raccogliere e pubblicizzare dati riguardanti la situazione di allarme e poi creando una struttura parallela autogestita, per dare un palco all’Italia che di mafia non ne vuole sapere e non ci vuole convivere, coinvolgendo i musicisti a tutto campo. L’organizzazione si è mossa fra mille difficoltà e boicottaggi, mobilitando parecchi volontari e aprendo anche una sottoscrizione, collegandosi a realtà alternative esistenti come il Tora! Tora! Festival (rassegna itinerante delle etichette indipendenti). L’invito ai musicisti ha ottenuto una notevole risposta con circa 1000 adesioni, valutate poi da una commissione artistica che, in base agli spazi disponibili, oltre agli artisti invitati d’ufficio, ne ha scelti 30 da far esibire. Ne è nato un programma nutritissimo.
A Mantova si viveva l’atmosfera dell’evento culturale che coinvolge la città con iniziative collaterali, proiezioni giornaliere di film musicali, presentazioni di libri sulla musica, spettacoli teatrali e musica di diversi generi e ambientazioni, classica, contemporanea, jazz, sacra in teatri, piazze, palazzi antichi e tendoni; concerti anche improvvisati negli spazi predisposti o anche in giro per la strada (vedi Modena City Ramblers). Sabato in piazza per l’ultima serata del Tora!Tora!Festival, c’erano 5000 persone sotto la pioggia! A parte Claudio Lolli che pare non abbia potuto cantare per scelta dell’organizzazione, a Mantova c’erano parecchie delle nostre conoscenze. Fra queste, molto gradito ritrovare Fausto Amodei, con un album di canzoni nuove di zecca ispirate all’attualità politica, da cui ha tratto “ padreterno@aldilà.com “, accorato appello giunto via posta elettronica, dove il Mittente scocciatissimo minaccia “un’ira di Dio” prendendo le distanze da chi sempre più a sproposito lo vuol mettere in mezzo per supportare guerre, stragi o attentati.
Del 54° Sanremo ricorderemo ancora Celentano, ospite a sorpresa dell’ultima serata, che è riuscito col suo lungo monologo, a far saltare uno dei due collegamenti coi militari italiani in Iraq, facendoli definitivamente arrabbiare chiedendosi “cosa c’entrano con il Festival i collegamenti con Nassiriya e con altre zone operative di guerra?” e, fra le canzoni, il “Guardastelle” di Bungaro con la sua “libera preghiera e una pace da inventare” e il “Generale kamikaze” di Stefano Picchi che, accolta come canzone buonista, arriva comunque a dire “disertore perché sto seguendo il cuore (…)lascio gradi ed esplosivo sono ancora un uomo vivo”.

STORIA
A cura di Sergio Albesano
La riforma ulivista del servizio civile

Qualcuno rimase deluso nel gennaio 1997 dalla mancata riduzione della ferma, rimasta a dieci mesi, ma tra gli abolizionisti del P.D.S, che puntavano ad abolire la ferma a favore di un esercito tutto di volontari, e alcuni membri del Partito Popolare Italiano (P.P.I.), che volevano mantenerla, pre­valse una linea di mezzo. Romano Prodi spiegò: “Questo prov­vedimento era un punto importante del programma elettorale dell’Ulivo. Abbiamo scelto una via intermedia tra quelle dei Paesi che hanno abolito completamente il servizio di leva e sono passati al servizio volontario e quelle che l’hanno mantenuto. Abbiamo anche aperto il servizio civile e mili­tare al personale femminile. Si è discusso a lungo se ren­derlo obbligatorio, ma alla fine si è optato per la sua vo­lontarietà.” Sarebbe rimasto il diritto all’obiezione di co­scienza, regolato da una nuova norma che il Senato avrebbe dovuto approvare. Le ragazze invece, su base volontaria, avrebbero potuto far domanda per il servizio civile o per quello militare. Il servizio civile, che poteva essere svolto anche all’estero nei Paesi dell’Unione Europea, sa­rebbe stato regolato da un’agenzia nazionale apposita, posta sotto la presidenza del Consiglio dei ministri, tranne che per i primi tre anni durante i quali sarebbe rimasto sotto il ministero della difesa, e sarebbe durato tre mesi in più di quello militare. Questo periodo doveva servire all’addestramento nei vari campi di impiego, che erano lo sviluppo della cultura, la tutela del paesaggio e del patri­monio storico, l’educazione alla pace e alla soluzione delle controversie internazionali, la tutela della salute e l’educazione e l’integrazione sociale delle persone in dif­ficoltà. L’allungamento del periodo di servizio civile la­sciò parecchi perplessi. I giovani del P.D.S., pur salutando favorevolmente la nuova possibilità di scelta introdotta, non comprendevano le ragioni del prolungamento del servizio civile, considerato che il diritto di opzione non pregiudi­cava il soddisfacimento delle esigenze numeriche delle Forze armate. I Verdi, che pure plaudivano alla nuova “eco-forza” che sarebbe stata impiegata nella protezione dell’ambiente (il ministro Edo Ronchi arrivò a parlare di “leva verde”), dimostrarono la loro preoccupazione che il prolungamento del servizio civile causasse un condizionamento nella scelta dei giovani. Prodi tentò di giustificare l’allungamento dei tempi: “Non si può presentare un servizio civile a standard basso, come fosse un ripiego, ma un servizio civile che ab­bia riconoscibilità e doveri di fronte alla comunità, con un addestramento e ruoli precisi”. Curiosa affermazione, a cui si poteva ribattere chiedendo se i militari, che teorica­mente vegliano in armi sulla nostra difesa, non dovessero ricevere un addestramento almeno altrettanto completo.
Il 29 gennaio 1997 il Senato approvò una normativa che riconosceva come diritto soggettivo la scelta di non voler impugnare le armi e che eliminava i controlli effettuati in precedenza dall’apposita commissione ministeriale. All’obiettore era riconosciuto il diritto-dovere di di­fendere la patria nel pieno rispetto della sua scelta mo­rale, che lo avrebbe portato a impegnarsi nei servizi ci­vili, nell’opera di solidarietà sociale e nelle missioni di pace all’estero, anche in teatri di guerra, sebbene disar­mato. La riforma dell’obiezione introduceva anche alcuni “limiti per coerenza” a chi voleva esercitare questa opzione: non avrebbe potuto svolgere attività che compor­tassero l’uso delle armi, non avrebbe potuto partecipare a concorsi nelle Forze armate, non avrebbe potuto iscriversi, salvo incorrere in sanzioni penali, a corsi o scuole che preparassero all’uso delle armi. La gestione degli obiettori non sarebbe stata più affidata al ministero della Difesa, ma al dipartimento degli Affari sociali presso la presidenza del Consiglio dei ministri. Il sottosegretario alla Difesa, Massimo Brutti, commentando l’approvazione della legge di riforma, dichiarò: “Il governo ha lavorato fin dall’inizio perché sulla base del disegno di legge Bertoni si giungesse sollecitamente a un voto positivo del Senato”. Massimo Pao­licelli e Claudio Di Blasi dell’A.O.N. affermarono: ” Il testo ha alcuni aspetti che non condividiamo, ma per senso di responsabilità chiediamo alla Camera di ap­provarlo così, per permettergli di diventare subito opera­tivo”. Essi giudi­carono positivamente che nel testo vi fosse il riconosci­mento del diritto soggettivo all’obiezione di coscienza, il passaggio della gestione al dipartimento degli Affari so­ciali, la durata di dieci mesi uguale a quella del servizio militare, la possibilità per gli obiettori di partecipare a missioni umanitarie all’estero. “Le perplessità”, conclude­vano “sono per le condanne in primo grado e non definitive, assunte come cause ostative per l’obiezione”. L’Associazione per la pace dichiarò che erano “stati sconfitti i tentativi delle gerarchie militari e di alcuni settori del Parlamento di rinviare all’infinito la riforma” (1).

Di Fabio