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Azione nonviolenta – Aprile 2007

DiFabio

Feb 2, 2007

Azione nonviolenta aprile 2007

– Nella memoria troviamo le possibilità di una nuova storia, di Fulvio Cesare Manara
– Quando la “cultura” e la “tradizione” giustificano la violenza sulle donne, fatta di delitti e umiliazioni, di Maria G. Di Rienzo
– Lo stupro come arma di guerra contro le donne. La guerra è un crimine. Lo stupro è il peggiore crimine dei crimini, di Maria G. Di Rienzo
– Essere donne e uomini liberamente: attinenze tra femminismo e nonviolenza, di Giovanna Providenti
– In servizio civile nell’isola di Cipro divisa dal muro, di Elena Buccoliero
– Abbattere l’ultimo muro d’Europa, di Paolo Bergamaschi
– Le ragioni del governo e le verità del movimento, di Adriano Moratto
– Base di Vicenza, TAV, Mose: il governo è sordo, di Michele Boato
– La rivoluzione disarmista di Carlo Cassola, di Silvano Tartarini

Le rubriche:
– Educazione. La pace come obiettivo educativo del Centro Psicopedagogico, a cura di Pasquale Pugliese
– Economia. C’era una volta Banca Etica, ma è ancora etica?, a cura di Paolo Macina
– Giovani. Ammazzare per gioco, tra finzione e realtà, a cura di Elisabetta Albesano e Agnese Manera
– Per esempio. L’attivista in abito da sposa per combattere la violenza domestica, a cura di Maria G. Di Rienzo
– Musica. Il Laboratorio musicale e il Gruppojamin-à, a cura di Paolo Predieri
– Cinema. Un film tutto da sentire o da vedere ad occhi chiusi, a cura di Flavia Rizzi
– Libri. Veri racconti di migranti e bulli, a cura di Sergio Albesano
– Lettere. Ricevere, leggere, condividere Azione nonviolenta è una festa, a cura della redazione

Nella memoria troviamo le possibilità di una nuova storia

di Fulvio Cesare Manara

Esattamente cento anni fa gli indiani sudafricani esploravano per via esperienziale una resistenza contro il tentativo di controllare e reprimere la loro immigrazione da parte dell’Assemblea Legislativa del Transvaal.
Fu, come si sa, la prima delle grandi campagne nonviolente gandhiane.
Si trattò di una vera e propria “ricerca” di vie d’azione nuove, capaci di manifestare resistenza contro l’oppressione e la violenza discriminatoria, ma senza ritorsione e senza far ricorso alla violenza. Una strada che sembrava nuova, ma era a disposizione da sempre alla specie umana.
Fu l’inizio pubblico degli “esperimenti con la verità”, che sarebbero divenuti il filo lungo il quale l’intera vita di Gandhi avrebbe preso senso ai suoi occhi.
Le direttrici lungo cui la “sperimentazione” venne condotta prevedevano alcuni chiari “punti fermi”:
a)si accettava il rischio di andare in prigione, di essere arrestati ed imprigionati in conseguenza delle proprie stesse azioni di disobbedienza;
b)si accettava di soffrire, piuttosto che far soffrire, grazie alla propria resistenza;
c)si riconosceva che nel conflitto tra sottomissione e resistenza ne andava della legge della coscienza: che manifestava apertamente il dovere di resistenza e insieme la lealtà all’Impero Britannico;
d)si manifestava apertamente il rifiuto di qualsiasi comportamento violento e distruttivo, nelle azioni, ma anche nelle parole.
Fu un vero e proprio “laboratorio” di riscoperta della forza dell’azione nonviolenta, anche senza che la parola “nonviolenza” suonasse apertamente sulle labbra dei disobbedienti.
Fare memoria oggi di quell’anno, semplicemente lasciando echeggiare alcuni frammenti delle parole che possiamo desumere dai volumi dell’opera gandhiana in cui sono raccolti scritti e interventi di quegli anni, è un atto vitale, per noi.
Mi pare che il senso di questa “memoria” possa manifestarsi almeno in due dimensioni.
Prima di tutto nella coltivazione della buona “coscienza storica” e di una coscienza vigile di fronte ai nostri stessi tempi. Far memoria significa rimettersi sempre da capo in ascolto dell’esperienza degli uomini nel tempo passato. E anche liberarsi da molti dogmi entro i quali la nostra lettura del passato resta a volte chiusa. La storia non è storia della violenza. Ma storia della lotta sempre aperta tra tensione distruttiva e forza della nonviolenza.
Di fronte alle ambiguità del nostro tempo, a questa situazione di elevato rischio ed enorme incertezza, vera e propria sfida “educativa”, potremmo rispondere cercando i semi nascosti di nonviolenza che gli uomini hanno da sempre coltivato, nel passato, e coltivano, qui ed ora, nei pensieri e nelle azioni. È forse vero che l’uomo nonviolento nella storia molto spesso sia nascosto: ma non vi è assente. Il passato, ma anche il nostro tempo, la storia, insomma, è ricca anche di questi semi e segni – spesso non veduti e inauditi – di “un altro mondo possibile”: merita ogni impegno per portarli all’evidenza, identificarli e farli conoscere.
In secondo luogo, penso che questa memoria possa rafforzare la nostra consapevolezza che possiamo fare nuova storia:
Se dobbiamo progredire, non bisogna ripetere la storia, ma fare una nuova storia. Dobbiamo aggiungere all’eredità lasciataci dai nostri predecessori. Se possiamo fare nuove scoperte ed invenzioni nel mondo fenomenico, dovremmo forse dichiarare bancarotta nel campo spirituale? È impossibile moltiplicare le eccezioni in modo da farle diventare la nuova regola? L’uomo è destinato a rimanere un bruto, prima che essere umano, o senza divenirlo mai del tutto? [«Young India» 06-05-1926]
Noi, oggi, siamo di fronte alla stessa sfida con cui si confrontarono gli indiani sudafricani tra il 1906 e il 1908.
Il luogo della memoria più opportuno è quindi quello della testimonianza, e dei nostri propri “esperimenti con la verità”. Quando noi stessi siamo in gioco, sul fronte dei conflitti e delle lotte contemporanee, nella resistenza attiva contro ogni distruttività e nella ricerca di vie di trasformazione non distruttiva dei conflitti: ecco il luogo e il momento dell’“inizio” del satyagraha. Non si tratta di “continuare” ciò che Gandhi ha iniziato, come se quello che egli ha avviato fosse un “metodo” definito e preconfezionato, un grimaldello buono per ogni conflitto futuro.
Si tratta del rischio della nostra propria esperienza, e del nostro esporci di fronte ai conflitti ed alla violenza che ci interpella nel nostro tempo: questo è il momento, il kairos, che segna la nascita del satyagraha.
Abbattere l’ultimo muro d’Europa

di Paolo Bergamaschi

L’abbattimento del muro in Ledra Street nella parte vecchia di Nicosia è stata una mossa a sorpresa altamente spettacolare che va inquadrata nell’attuale contesto europeo. Nell’aprile 2004 la Commissione Europea, per convincere la comunità turco-cipriota a votare sì nel referendum del piano di pace proposto da Kofi Annan, aveva pubblicamente promesso di mettere fine all’isolamento di Cipro nord. Si era, così, impegnata ad un pacchetto di aiuti economici per un totale di 259 milioni di euro e a adottare un regolamento che permettesse il commercio diretto fra la parte settentrionale dell’isola e gli altri paesi europei. Va ricordato, infatti, che, dopo l’invasione turca del 1974 in risposta ad un tentativo di colpo di stato greco, Cipro nord era stata bandita dalla comunità internazionale con una serie di sanzioni imposte dalle Nazioni Unite. Le cose, poi, sono andate in modo imprevisto, poiché i Turco-Ciprioti hanno approvato il piano di pace che è stato bocciato, però dai Greco-Ciprioti. La Repubblica di Cipro, di fatto la parte greco-cipriota, nel maggio 2004 è diventata membro dell’Unione Europea e da allora ha cercato in tutti i modi di mettere i bastoni fra le ruote a qualsiasi provvedimento a favore della comunità turco-cipriota per piegarla alle proprie condizioni. Nonostante i continui veti, anche se con molto ritardo, il Consiglio dei Ministri Europei nel febbraio del 2006 ha approvato il pacchetto di aiuti economici, ma non è ancora riuscito a far passare il regolamento per il commercio diretto che i Greco-Ciprioti considerano come un implicito riconoscimento internazionale di Cipro nord. In questi mesi la pressione dei paesi membri su Nicosia è cresciuta a dismisura, spazientiti dall’atteggiamento oltranzista del presidente Papadopoulos. Il governo greco-cipriota di trova in difficoltà agli occhi europei perché sembra incapace di rispondere alle aperture dei Turco-Ciprioti. L’abbattimento del muro ha l’obiettivo di allentare questa pressione rispedendo la palla nel campo avverso. E’ indubbio, comunque, che si tratta di una mossa carica di effetti simbolici perché potrebbe spianare la strada alla riunificazione della città vecchia, quella all’interno delle antiche mura, dove la partizione è più visibile. E’ anche un’occasione per i pacifisti europei di farsi finalmente sentire dopo anni di imperdonabile silenzio nei confronti dell’ultimo conflitto dell’Unione Europea.

Quando la “cultura” e la “tradizione”giustificano la violenza sulle donne, fatta di delitti e umiliazioni

di Maria G. Di Rienzo

Generalmente, siamo abituate/i a guardare alle culture come al prodotto di gruppi di persone sostanzialmente eguali che vivono in una data regione geografica. In realtà ogni gruppo contiene grandi differenze che concernono i livelli di potere, il benessere, la possibilità di esprimere i propri bisogni e i propri interessi. Le istanze relative al potere vedono spesso le donne in una posizione ambigua o svantaggiata. Le qualità, i comportamenti e le identità di uomini e donne sono determinati ovunque dal processo di socializzazione: poiché i ruoli e le responsabilità sono specificatamente culturali essi cambiano nel tempo. I ruoli di genere sono infatti influenzati da fattori storici, religiosi, economici ed etnici. Essere consapevoli della relazione di genere all’interno dei gruppi, il proprio e gli altri, mostra che le comunità non sono un armonioso insieme di individui con interessi e priorità comuni; le divisioni si disegnano ovunque lungo le linee dell’età, della religione, della classe e del genere. Questi differenziali di potere ovviamente ostacolano alcune “categorie” di persone qualora esse decidano di dar voce ad opinioni che contraddicono la visione generale o la mettono in discussione, in particolar modo se si tratta di donne.
Molte donne, esclusivamente perché sono donne, soffrono nei propri paesi serie minacce o negazioni rispetto ai loro diritti fondamentali ed alla loro libertà. Molte vivono in situazioni di povertà e violenza estreme. Alcune vengono vendute o barattate, forzate a matrimoni indesiderati sovente in giovanissima età, e vengono loro spesso imposte restrizioni o regole su cui hanno scarse o nulle possibilità di contrattazione. Altre vengono punite perché i loro mariti o congiunti sono detenuti o ricercati, e non hanno alcuna protezione per se stesse e gli eventuali figli. Delitti d’onore, lapidazioni per presunto adulterio, stupri di donne e bambine, vengono visti come “pratiche tradizionali locali”. Lo scioccante e totale disprezzo per i loro diritti umani che sottende queste giustificazioni non ha base reale nel presunto consenso delle donne: ovunque vi sono resistenze, lotte, tentativi di cambiamento o negoziazione. La negazione dei diritti umani delle donne viene usualmente giustificata con la tradizione, la religione, la coesione sociale, la moralità o complessi sistemi di valori trascendenti. Ma a questo punto è necessario chiedersi se tutta questa “cultura” non sia che un feticcio usato per mantenere privilegi sociali ed economici, o semplicemente psicologici. Oggi nessuno che voglia impegnarsi nella costruzione di pace o nella cooperazione allo sviluppo dovrebbe riferirsi a culture e costumi sociali come ragioni per non guardare alla discriminazione delle donne; al contrario, vi è la necessità di ribadire che tutte le nazioni hanno il dovere di garantire diritti umani a chiunque: “Nessuno stato può far riferimento ai costumi nazionali per non garantire diritti umani e libertà fondamentali a tutti gli individui” (Dichiarazione di Pechino, Quarta Conferenza ONU sulle Donne, 1995).
Difendere i diritti delle donne appare particolarmente minaccioso a chiunque voglia mantenere rapporti basati sulla gerarchia e la violenza. In alcune parti del mondo le cose vanno come nell’esperienza di seguito narrata. Undici uomini dell’esercito buttarono giù la porta della casa in cui una dozzina di attiviste per i diritti umani si erano riunite, nella provincia di Mindanao nelle Filippine. Era il marzo del 2004. Portarono via Angelina Ipong, all’epoca sessantenne, ma non si limitarono a chiuderla in una cella. Angelina è stata torturata e si è abusato di lei sessualmente. Siede ancora in quella prigione, in attesa di un processo che non arriva e di poter contestare le 14 accuse mosse contro di lei dal governo, che vanno dall’omicidio alla rapina. Non l’hanno accusata del suo vero crimine: Angelina stava organizzando una delegazione che sperava di aprire negoziati di pace fra il governo filippino e gli insorgenti musulmani. L’abuso che ha subito non è raro nel paese e forse Angelina è persino “fortunata”, giacché il suo caso è stato preso a cuore da Amnesty International: dal 2001, 319 attiviste/i per i diritti umani sono stati assassinati da soldati, membri delle forze dell’ordine e squadroni della morte filogovernativi; altre 185 persone sono semplicemente “scomparse”.
“La prima cosa che viene in mente a chi arresta o rapisce una donna è che lei è un oggetto sessuale. Ma dappertutto i corpi delle donne sono diventati il campo di battaglia per ottenere il controllo, l’arena più concreta.” Non farò il nome dell’amica che ha visto Angelina trascinata in carcere e che dice questo. E’ una femminista, ed è stata costretta a fuggire dalla provincia di Mindanao dopo essere stata accusata di far parte di due differenti gruppi armati. Passa le notti sveglia, rigirandosi nel letto: attende il colpo che sfonderà la porta. “Se questo è il prezzo per il mio essere una difensora dei diritti umani delle donne, sono disposta a pagarlo.”
Spesso le donne non sono neppure consapevoli di essere titolari di diritti umani, ma non appena lo diventano le loro vite cambiano immediatamente in meglio. Il programma di educazione ai diritti umani rivolto alle donne, gestito dal 1995 in Turchia da un gruppo di femministe turche, ha ormai raggiunto oltre 5.000 donne in 33 differenti province; i 30 centri che sono nati in tutto il paese in riferimento al programma ne hanno raggiunte altre 3.000.
“Ci dedicammo a più di due anni di ricerche prima di implementare il programma sul campo.”, raccontano le organizzatrici, “Gli studi confermarono che le vite delle donne erano modellate su pratiche patriarcali e che esse ignoravano i diritti che le leggi garantiscono loro. Inoltre, le pratiche patriarcali spacciate per “tradizioni” non tenevano in alcun conto le aspettative delle donne, ed i loro bisogni nei campi della salute riproduttiva e sessuale.”
La maggior parte delle partecipanti (88%) sono divenute “persone chiave” nella propria comunità di riferimento, ovvero le persone sagge a cui ci si rivolge quando le relazioni si guastano o sorgono difficoltà in seno alle famiglie e nel vicinato, e/o hanno fondato organizzazioni e comitati di base per rispondere ai problemi più svariati del loro territorio (74%). Le lotte che conducono sono rigorosamente nonviolente. Un risultato così importante non era scontato, ma di fatto queste donne “ignoranti” e ignorate sono state adeguatamente informate su tutto ciò che serve ad un attivista, femmina o maschio: diritti civili e costituzionali, tecniche antiviolenza, economia e legge, abilità comunicative, eccetera.
Il resto delle statistiche dice che il 63% delle partecipanti sono state in grado di annullare la violenza domestica nella propria casa e che il 22% l’ha grandemente ridotta; il 43% ha trovato lavoro fuori casa; il 54% ha ripreso a studiare in modo formale od informale… e il 72% dei mariti ha completamente cambiato attitudine nei loro confronti, comportandosi in modo assai più rispettoso e positivo. Ma al di là dei numeri, può essere interessante ascoltare le voci di queste donne coraggiose.
Cemile, del villaggio di Izmir, racconta di “essere cresciuta ad abusi e pestaggi. Il mio è stato un matrimonio combinato. Per me non era semplice neppure uscire a passeggiare. La famiglia in cui entrai era molto vasta e nel passato io ero l’unica a dovermi fare carico dei lavori domestici. Se facevo un errore anche piccolissimo erano guai. Un giorno ho sentito parlare di questo programma per le donne, era al Centro comunitario (una sorta di centro sociale gestito dalla municipalità, ndr.) e mi ci sono iscritta subito. Le cose che imparavo le portavo in famiglia, ne discutevo, e le mettevo in pratica. Le mie relazioni con mio marito e i suoi parenti sono enormemente cambiate. Ora i lavori di casa si dividono, e loro rispettano me e le mie idee. Ho capito che dovevo dapprima essere utile a me stessa per essere d’aiuto agli altri. Adesso sono coinvolta in un progetto che si chiama “Colline Verdi”: stiamo piantando alberi sulle colline spoglie per risanare l’ambiente. Sono andata finalmente a scuola, e ho conseguito il diploma elementare in un anno. Adesso sto frequentando le medie e poi andrò alle superiori. Inoltre, sono stata eletta al Consiglio comunale di Karsikaya.”
Museyyer, da par suo, ha scoperto l’esistenza del programma rivolto alle donne dopo la nascita del suo sesto bambino. Anche il suo è stato un matrimonio imposto, e ha dovuto sposare il proprio cugino: “Parlavo dei seminari con qualunque donna venisse a contatto con me. Dopo un po’ ci ho portato tutte le mie parenti di sesso femminile. Ai mariti all’inizio dicevamo che andavamo a prendere un caffè o un tè insieme. Sapere di avere dei diritti come donna e come madre l’ho imparato grazie al programma. In famiglia ci sono otto bocche da sfamare e solo mio marito lavorava fuori casa: dopo aver partecipato agli incontri ho deciso che anch’io avrei avuto un impiego e nel corso c’erano un sacco di donne che volevano la stessa cosa. Abbiamo fondato una cooperativa, fatto ricerche di mercato e indagato le necessità del territorio: ora produciamo candele ed abbiamo aperto un asilo infantile. La nostra cooperativa si chiama “Fiducia”. C’è stato un tempo in cui non avrei mai osato parlare dei miei desideri a mio marito, e in cui a stento mettevo il piede fuori di casa… oggi sto trattando con il Ministero dell’Industria e Commercio, con la Direzione degli Affari Culturali e non so dire con quante ditte private.”
Le esperienze, infatti, dicono che non è mai troppo tardi: Theresa Chilala ha 79 anni, e si sta battendo perché nessuna vedova venga mai più “ereditata” dalla famiglia del marito, secondo un costume della minoranza Tonga in Zambia che si può tradurre come “pulizia sessuale”. Il marito di Theresa è morto nel 1990, e da lei ci si aspettava che acconsentisse ad avere rapporti sessuali con uno dei parenti maschi del defunto: in questo modo si sarebbe stata “liberata dal fantasma del marito” e avrebbe potuto continuare a vivere con la famiglia di lui. Non è solo il timore dell’Aids, che in Zambia affligge il 16% delle persone fra i 15 ed i 49 anni, e neppure è solo il fatto che la fede di Theresa è quella cristiana: lei dice di voler difendere la sua dignità di donna. Poiché si è strenuamente rifiutata, ha potuto portarsi via appena il suo gregge e ritirarsi sul proprio pezzettino di terra. Ma i parenti acquisiti hanno continuato, per rappresaglia, a bruciare cadaveri proprio su quella terra. Nel 1997 Theresa si è rivolta all’associazione “Legge e Sviluppo”, un’ong locale che difende le donne dalle discriminazioni di genere. Nel febbraio 2006, dopo svariate vicende, ha vinto la causa legale contro i parenti acquisiti, e l’ha vinta grazie all’applicazione della “Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna” (Cedaw, Onu dicembre 1979) che lo Zambia ha sottoscritto nel 1985 e che è stata ampiamente citata in tribunale. Grazie a questa sentenza, altre vedove ed orfani cacciati dalle case in cui vivevano alla morte di mariti e padri, molti ridotti a condizioni di estrema povertà, hanno cominciato a farsi sentire.
Secondo Theresa le tradizioni e i costumi si trasformano come ogni altra cosa al mondo e non c’è nulla di tragico in questo. Specialmente quando causano dolore, dice, devono proprio cambiare. Altrimenti calcificano.

Lo stupro come arma di guerra contro le donne.
La guerra è un crimine.
Lo stupro è il peggior crimine dei crimini.

di Maria G. Di Rienzo

“Lo stupro è il processo consapevole di intimidazione grazie al quale tutti gli uomini tengono tutte le donne in stato di paura” Susan Brownmiller.
Non si tratta di un atto incontrollato. Lo stupro viene commesso dopo essere stato vagheggiato, pianificato, vagliato, preparato. E’ un atto che cerca simbolicamente la morte della propria vittima, ovvero che essa desideri essere morta. Lo stupro in guerra è anche uno strumento di esilio forzato, di distruzione di una comunità, di un gruppo o di un popolo. Lo stupro è infine spettacolo: qualcosa che deve essere visto e sentito e raccontato agli altri. L’orrore palese del conflitto armato si somma alle violazioni conseguenti nel campo dei diritti umani; la guerra distrugge o limita severamente i diritti di base sociali, economici e politici di uomini e donne: mentre eserciti e/o milizie avanzano, le scuole chiudono, i servizi sanitari spariscono o diminuiscono, l’economia vacilla e la disoccupazione cresce. Ma la violenza sessuale, sebbene anche uomini la subiscano, non è il primo timore che stringe il cuore di un uomo quando viene arrestato, o quando la sua porta di casa viene buttata giù a calci alle due del mattino, o quando i soldati “nemici” entrano con i carri armati in città. E’ il primo terrore di una donna.
Era il 1992 quando in riferimento a ciò che accadeva in Bosnia ed Erzegovina si cominciò a parlare di stupro di massa come arma da guerra. Durante il conflitto armato nella ex Jugoslavia lo stupro come strumento di guerra si rivelò persino più “efficace” dell’uccisione dei soldati nemici. Entrare in un piccolo paese, raggruppare le donne, violentarle di fronte a tutti era un mezzo sicuro per liberare il terreno: dopo gli stupri, la popolazione si spostava spontaneamente, fuggiva, e l’area poteva essere occupata in tutta tranquillità. Sia i carnefici sia le vittime erano entrambi sicuri delle implicazioni culturali legate alla violenza sessuale. Le condividevano.
Le donne dei Balcani spesso si sposano in età molto giovane, hanno bimbi presto e ricevono solo un’istruzione di tipo primario. La società le percepisce come “inferiori” agli uomini e ci si aspetta da loro che siano umili e obbedienti, a casa e sul posto di lavoro. Questo subdolo e persistente non rispetto delle donne ha lastricato la strada che portò agli stupri di massa.
Lo scopo dei violentatori era di umiliare le donne così profondamente da far divenire i ricordi legati alla loro casa una sorgente di estrema sofferenza e paura. Tali memorie, infatti, tennero le donne lontane dalle abitazioni e dai villaggi in cui erano vissute. In questo senso, si può parlare di “stupro etnico”, poiché finalizzato alla “pulizia etnica” di un’area. Ma le aggressioni in Bosnia presero anche un altro aspetto che definisce lo “stupro etnico” come assimilazione forzata ad un gruppo: lo stupro fu infatti usato per ingravidare le donne. I violentatori serbi pensavano di creare una Grande Serbia etnicamente omogenea facendo partorire bambini nati dallo stupro a donne musulmane. Nel pensiero patriarcale che fa da sostrato a questo tipo di ragionamento, è ovvio che se il padre è serbo, serbo sarà il figlio. Sebbene ciò sia avvenuto in un’epoca in cui non si ignora più il contributo genetico della madre al concepimento (e ciò è avvenuto nella seconda metà degli anni ’50 dello scorso secolo, non prima), gli stupratori non considerarono il fatto che metà dell’eredità genetica del bambino sarebbe derivata dalla madre musulmana.
L’anno scorso una delegazione di parlamentari europei acconsentì ad ascoltare cinquanta sopravvissute, ma solo una riuscì effettivamente a parlare. La donna, con vistose cicatrici sulle braccia, spiegò che non era fuggita dal proprio villaggio nei pressi di Prijedor in Bosnia perché la sua giovane nuora era in procinto di partorire e lei era rimasta ad accudirla. Assieme al figlio più piccolo e a costei viveva nascosta in una cantina. Un gruppo di soldati serbi scoprì il rifugio e nonostante le sue implorazioni l’intero gruppo la stuprò. Affinché le sue urla non svegliassero il figlioletto, la donna si morse ripetutamente le braccia. La sua storia prese due ore per essere narrata, ed alla fine i volti dei parlamentari erano bianchi: una di essi dette di stomaco. Di comune accordo, la delegazione disse che non voleva ascoltare altri resoconti, uno era bastato. Si stima che circa 60.000 donne, nell’ex Jugoslavia, siano incorse nella stessa esperienza della donna che sconvolse la delegazione europea: troppe non sono più qui per raccontarla. La cifra, rispetto al conflitto in Ruanda, raggiunge e forse supera il mezzo milione. La maggior parte di delle vittime di stupro ruandesi sono anche state mutilate, in relazione alle loro caratteristiche “razziali”: i nasi appuntiti e le dita lunghe, che generalmente caratterizzano i corpi delle donne Tutsi, sono stati tagliati via. I seni venivano amputati come ulteriore punizione. Numerose fra loro sono quelle che, sopravvissute alla prima ondata di violenza ma scopertesi incinte dei “figli dello stupro”, si sono suicidate od hanno addirittura pagato altre persone affinché le uccidessero. Il 70% delle restanti contrasse il virus Hiv, e oggi molte sono già morte di Aids.
Violenza sessuale, schiavitù sessuale e prostituzione forzata sono fattori presenti da sempre nei conflitti armati. La violenza sessuale è una parte significativa del conflitto, un modo per terrorizzare intere comunità ed implementare politiche di genocidio e “pulizia etnica”.
Oggi il diritto internazionale stabilisce che la violenza sessuale durante un conflitto è crimine di guerra, e che l’uso dello stupro è un crimine contro l’umanità. Il processo di tale sviluppo legislativo parte addirittura dal 14° secolo (con gli editti di Riccardo II d’Inghilterra) e passa attraverso il Codice Leiber della guerra civile americana, per arrivare alle Convenzioni dell’Aja e di Ginevra. Quest’ultima attesta che “le donne dovranno essere protette specificatamente contro ogni attacco al loro onore, in particolare contro lo stupro, la prostituzione forzata od ogni forma di assalto indecente.”
Come è facile notare, nel 1949 lo stupro viene ancora definito come lesione all’onorabilità ed alla decenza, e non come lesione alla persona umana che lo subisce. Saranno i tribunali speciali internazionali per l’ex Jugoslavia ed il Ruanda, nella seconda metà degli anni ’90 dello scorso secolo, a stabilire una visione diversa. Nel 1998 il Tribunale internazionale per il Ruanda condannerà Akayesu, ex sindaco della città di Taba, per aver pianificato gli orrori degli stupri di massa nel distretto di sua competenza: il verdetto è il primo a punire la violenza carnale come atto di genocidio, perpetrato con l’intento di distruggere un gruppo mirato. L’unica donna a sedere in quella Corte, la giudice Navi Pillay, racconta: “Le prove erano evidenti e indiscutibili, ma il nostro problema era che non esisteva una definizione comunemente accettata dello stupro rispetto al diritto internazionale. Perché fosse accettata ne abbiamo creata una che è “neutra” rispetto al genere e definisce lo stupro come un’invasione fisica di natura sessuale, commessa su una persona in circostanze di coercizione.”
Tre anni dopo, nel febbraio 2001, dopo sarà il Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia ad emettere una seconda sentenza storica. Zoran Vukovic, Radomir Kovac e Dragoljub Kunarac vengono riconosciuti colpevoli di numerosi stupri (alcuni commessi su bambine di 12 anni) e di aver venduto o affittato donne e ragazze a scopo di prostituzione ad altri soldati serbi. La Corte li condanna per crimini contro l’umanità, ed è la prima volta che la schiavitù sessuale viene definita entro tale cornice. La tortura delle donne è una parte intrinseca della guerra, spiegò la giudice Florence Mumba leggendo la sentenza: “Ciò che l’evidenza mostra sono donne e fanciulle musulmane, madri e figlie, spogliate delle ultime vestigia della dignità umana. Donne e ragazze trattate come beni mobili, oggetti di proprietà ad arbitraria disposizione delle forze di occupazione serbe.”
Bakira Hasecic subì questa sorte nel 1992, nella città bosniaca di Visegrad, tristemente famosa per l’hotel “Vilina Vlas”, un campo di stupro da cui pochissime vittime sono tornate. “Mentre mi violentavano gridavano: Non metterai al mondo altri piccoli turchi, ma piccoli cetnici questa volta. Quest’odio si è trasmesso di generazione in generazione, dal tempo delle conquiste turche. Il non essere serba era la mia colpa. Non aveva alcuna importanza come io definivo me stessa. Ero bosniaca, ed ero musulmana, ed ero una donna. Ecco i motivi di quanto è accaduto.”
E dove lo stupro non è perseguito con nettezza neppure dalla legge ordinaria, o viene considerato una “tradizione culturale” o un’offesa minore, diventa difficile operare. Ove ad esempio si pensa che le donne non abbiano il diritto di rifiutare atti sessuali all’interno del matrimonio, i loro stupratori si considerano pienamente legittimati qualora le tengano in qualità di “mogli”.
“In Sierra Leone, i perpetratori hanno una visione molto ristretta di cosa sia una violenza sessuale. Se catturano o rapiscono una donna, la costringono a stare nella loro casa e le danno del cibo, credono di avere tutto il diritto di stuprarla. Portati davanti ai tribunali negano l’addebito se viene formulato come stupro, ma quando si chiede loro se avevano “donne a disposizione per soddisfarsi” rispondono di sì.”, dice Maxine Marcus, che ha partecipato come avvocata delle vittime al Tribunale speciale internazionale per la Sierra Leone, “Qui l’odio tribale non c’entra: le Forze di Difesa Civile, e cioè le milizie pro-governative, assalivano donne del loro stesso gruppo. Le consideravano “razioni di guerra”, risorse naturali di cui disporre a piacimento. C’è voluto molto tempo per costruire rapporti di fiducia con le testimoni sopravvissute: queste donne venivano stigmatizzate dalle loro stesse comunità, svilite e insultate da parenti e vicini di casa. Non erano in grado di cominciare a rielaborare il trauma subìto, perché il contesto attorno a loro non considerava lo stupro un’offesa alle loro persone.”
Nella Repubblica Democratica del Congo, decine di migliaia di donne sono state stuprate pubblicamente dagli uomini delle varie fazioni combattenti, in quelle che Juliane Kippenberg di Human Rights Watch ha definito “cerimonie rituali di violenza”, ma un numero ancora maggiore è stato assalito in strada o nella propria stessa casa. Mentre scrivo (marzo 2007), attorno all’ospedale Panzi a Bukavu bivaccano circa 250 donne, in attesa di essere ricoverate per sottoporsi ad interventi di chirurgia: i loro genitali sono stati devastati dagli stupri di miliziani e soldati governativi. “Non abbiamo letti e spazio a sufficienza.”, racconta il primario, il dottor Denis Mukwege Mukengere, “Ricoveriamo in media dodici minorenni violentate al giorno. Il mese scorso circa trecento fra donne e bambine si sono sottoposte ad interventi di chirurgia riparativa. La loro età va dai tre anni agli ottanta. Molte sono state contagiate dall’Hiv.”
Lo stupro in sé è già un’orribile esperienza, ma le sopravvissute ad esso continuano a subirne gli effetti anche dopo. Spesso soffrono di gravi problemi di salute fisica e mentale. Le donne sposate che sono sopravvissute alla violenza possono essere rigettate dai loro mariti ed in alcuni casi devono darsi alla prostituzione per poter vivere. Le sopravvissute nubili possono non riuscire più a sposarsi, perché i membri delle loro comunità le considerano “guastate”. Le testimonianze rivelano che sovente le donne stuprate hanno paura di cercare rifugio nei campi profughi, perché temono l’ostracismo dei loro stessi parenti che vi si trovano; inoltre la cronica carenza, in tali campi, di cure mediche e psicologiche tende ad aggravare la loro situazione, piuttosto che a migliorarla. Molte donne, temendo ritorsioni o a causa dei tabù che circondano la violenza sessuale, non denunciano gli abusi subiti neppure quando questo si rende possibile. Come una donna del Darfur, in Sudan, ha detto ai ricercatori di Amnesty International nel 2004: “Nascondono questa vergogna nei loro cuori.” Nella regione decine di migliaia di persone sono morte a causa del conflitto interno che in tre anni ha prodotto due milioni e mezzo di rifugiati. Il governo di Khartoum si è rifiutato di investigare sulle accuse di crimini contro l’umanità commessi da eserciti e milizie, così questo lavoro lo sta facendo un Tribunale internazionale delle NU.
Il principale pubblico ministero, Luis Moreno-Ocampo, inizialmente dichiarò che le accuse di stupro non sarebbero state vagliate, ma l’evidenza delle testimonianze dirette (più di 100) e le migliaia di documenti raccolti lo hanno indotto a cambiare idea. Halima Bashir è una delle sopravvissute che probabilmente il giudice ascolterà. Nello scorso dicembre è stata torturata e ha subìto stupri di gruppo per aver denunciato un attacco congiunto delle milizie islamiste (Janjawid) e dei soldati governativi ad una scuola elementare femminile. Durante l’aggressione, finalizzata ad una violenza carnale di massa, sono state violate bambine dagli otto ai tredici anni.
“Erano sotto shock.”, racconta Halima, “Sanguinanti, piangevano e gridavano. Era terribile. Poiché ho detto pubblicamente quanto era accaduto, le autorità mi hanno arrestata. Te lo facciamo vedere noi cos’è uno stupro, mi hanno detto mentre mi picchiavano. Sono stata battuta e battuta. La notte, tre uomini mi hanno violentata. Il giorno dopo è andata allo stesso modo, solo che gli uomini erano differenti. Tortura e stupro, ogni giorno, tortura e stupro.”
In Darfur, generalmente, una donna stuprata è una donna rovinata: il biasimo dell’atto violento ricade su di lei, ed in molti casi viene espulsa dal nucleo familiare di cui ha causato la “vergogna”. Molti dei bimbi nati dalle violenze carnali vengono abbandonati. Gli stupri di massa nella regione si sono rivelati il mezzo più efficace per terrorizzare comunità tribali, spezzare la loro volontà di resistenza e farne dei profughi.
La realtà è che durante ogni guerra le donne e le ragazze divengono letteralmente i bersagli dei combattenti. Non si tratta solo di genocidio riproduttivo, di sgomberare aree e ridurre in frantumi aggregazioni umane: qualsiasi fantasia di violenza e tortura può essere effettivamente messa in opera. Soldati regolari ed irregolari sanno alla perfezione che, nel dopoguerra, le loro azioni saranno sì biasimate, ma all’interno di una nozione culturale largamente diffusa, ovvero che gli uomini fanno cose irrazionali durante un conflitto armato. Inoltre, potranno usare un tipo di difesa abbastanza consueta: obbedivo agli ordini. Tristemente, non è neppure una menzogna: nei tribunali internazionali molti generali hanno attestato che ciò è stato fatto per “alzare il morale dei nostri combattenti”.
Ci si può ovviamente chiedere quanto conti e quanto conterà in futuro l’aver definito gli stupri durante i conflitti armati come “crimini di guerra” (la guerra è di per sé un crimine, il peggiore che l’umanità infligge a se stessa) o che tipo di compensazione i tribunali internazionali possano fornire alle vittime. E’ chiaro che le donne e le ragazze violate non dimenticheranno mai le atrocità subite. Depressione, paura degli uomini, sfiducia e disistima sono esperienze comuni a chi sopravvive allo stupro. Per molti secoli esso è stato definito non come un attacco violento alla donna, ma come l’ingiuria alla “proprietà” di un altro uomo. Sino ad ora è stata l’esperienza maschile a costruire le norme considerate ingiuste in tempo di guerra. Il fatto che una nuova cornice giuridica nasca dalla narrazione dell’esperienza femminile, e demistifichi l’oggettificazione delle donne, ha un valore simbolico assai profondo. Il diritto internazionale è, naturalmente, lungi dall’essere perfetto, ma le donne come Bakira Hasecic dicono che continueranno a testimoniare e a presentarsi nei tribunali affinché chi ha loro inflitto tanto dolore venga posto di fronte alle sue responsabilità: “All’inizio ti chiedi perché dovresti andare dai giudici a rivivere quegli orrori in pubblico, ma dopo averlo fatto ti senti meglio. Guardare in faccia il proprio violentatore e costringerlo ad affrontare la verità è tutta la giustizia che possiamo avere.”

Essere donne e uomini liberamente: attinenze tra femminismo e nonviolenza

di Giovanna Providenti

Il femminismo a cui mi riferisco io è quello in cui la mia soggettività ha trovato rispondenza, da amica della nonviolenza quale sento di essere fin dall’età in cui, ancora adolescente, appassionata al pensiero di Aldo Capitini (a Messina, dove vivevo, avevamo formato un gruppo di lettura su Capitini ed una sezione del Movimento Nonviolento) non mi ero ancora accorta che lui, come la maggior parte dei filosofi, era un uomo e parlava da uomo. E io invece ero una donna che imparava a pensare e a parlare verba pronunciate quasi esclusivamente da uomini, i quali spesso davano per scontata l’esclusione della donna e del femminile dal mondo dei valori e della cultura. Studiando il pensiero femminista mi sono accorta che dietro tanto parlare “neutro” si cela l’esclusione della differenza, e che solo in questa “differenza” io donna avevo la possibilità di trovare me stessa liberata e autentica.
La pratica politica femminista si rivolge alla trasformazione e liberazione della donna a partire da sé, quella nonviolenta, alla trasformazione e liberazione della società a partire dal singolo individuo, ed entrambe poggiano su due nessi molto attinenti tra loro: “mezzo/fine” e “personale/politico”. I due nessi, “mezzo/fine” e “personale/politico”, si incontrano nel superamento del bipolarismo a favore di una concezione più complessa della realtà, e in una serie di pratiche private-pubbliche e pienamente partecipate. Per fare un esempio più concreto: la singola persona che si mette in cammino attivamente per trasformare e liberare se stessa, facendo coincidere ciò che fa con ciò che si propone di essere e ciò che è in privato con ciò che pubblicamente manifesta, si sta comportando sia da femminista che da nonviolenta. La coincidenza tra il dire e il fare è un atto di consapevolezza (anche dei propri limiti, desideri, ambiguità) più che un atto moralistico fustigante intriso di dovere e volontà. Non privazione ma arricchimento.
Il femminismo ha inizio quando le donne prendono coscienza dell’urgenza di discernere la loro personalità umana dalla retorica in cui la cultura oppressiva patriarcale e maschilista colloca il genere femminile. Nella storia delle donne la vita quotidiana è stata per lo più rivolta ad affrontare e gestire pratiche di vita: nutrire, accudire, curare, assistere, etc. A questo tipo di esperienza storica di “nutrimento” si sono riferite le prime donne scese in piazza per la pace, costituendo, durante la prima guerra mondiale, un piccolo ma significativo movimento pacifista che ha messo in crisi la retorica maschile dell’accettazione e della passività femminili.
Il tipo di femminismo che risponde a me – ovvero una pratica rivolta sia alla emancipazione dall’oppressione sia alla conquista della libertà personale – è una tappa vitale della storia delle donne e un punto di non ritorno per la storia di tutta l’umanità. Perchè la femminista, uscendo dalla condizione di oppressa, individua strade nuove di liberazione personale, coinvolgendo il compagno uomo, a sua volta oppresso nel ruolo maschile definito dalla cultura patriarcale.
Trasformando se stessa la femminista ha contribuito notevolmente a trasformare anche molti singoli uomini, come rivelava Giobbe Santabarbara in un numero del quotidiano telematico “Nonviolenza in cammino”: “Fu il femminismo a rivelarmi che il personale è politico; che la scissura cartesiana tra corpo e mente era un delirio; che la sfera della sessualità era decisiva; che dobbiamo voler bene al nostro corpo; che si pensa col cuore; che si deve lottare per una felicità sobria e condivisa: la felicità altrui, ma anche la propria, e che chi non ha cura anche di se stesso non può riuscire ad aver cura degli altri.”
Grazie al femminismo, la trasformazione della relazione uomo-donna ha agito non sul piano di ciò che è giusto idealmente, ma di ciò che è autentico nella relazione tra due persone. Un esempio in questo senso è dato del ripudio della violenza sessuale, sia a livello personale che a livello politico, e di cui sono barometro i numerosi recenti appelli pubblici di uomini contro la violenza alle donne.
Nel privato del “talamo” ormai le donne rinunciano a fingere e propongono una sessualità appagante per entrambi. Nel pubblico, donne di schieramenti diversi si sono unite per far passare leggi contro la violenza sessuale, inclusa quella tra le mura domestiche. Se si considera che il reato di violenza sessuale era considerato per legge “un atto di libidine contro la morale”, e non contro una persona, è evidente lo spostamento rivoluzionario in direzione nonviolenta.
Il femminismo auspica una rivoluzione culturale profonda della società, al fine di permettere alla donna di “realizzare la miglior vita di cui è capace”. Non soppiantare il potere del maschio per impossessarsene, bensì trasformare il “sistema patriarcale”, fondato sulla subalternità femminile, attraverso atti di disobbedienza e dissidenza rivolti alla “deculturizzazione”, al cambiamento del “simbolico”. Lo slogan patriarcale per eccellenza, “famiglia e sicurezza”, viene smentito sia da “la donna che rifiuta la famiglia” sia dal “giovane che rifiuta la guerra” (Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, “Rivolta Femminile”, Prototipi, 1974).
Una delle pratiche cardini del femminismo è quella di mutare i termini della relazione uomo-donna da una condizione di Superiore-inferiore ad una di parità. Questo passaggio richiama Pat Patfort che nel suo “Costruire la nonviolenza. Per una pedagogia dei conflitti” nel delineare la nonviolenza richiama proprio lo spostamento da una relazione Maggiore>minore (Genitore>figlia, Uomo>donna) verso una relazione paritaria Adulto><Adulta.
Spostare i termini della relazione Maggiore>minore è una pratica nonviolenta, che molte donne hanno messo in atto, divenendo protagoniste dalla propria vita, individuando i “nodi insolubili” del “rapporto emotivo superiore-inferiore”.
Il femminismo presuppone un lavoro di coscienza ed ha praticato per molti anni l’autocoscienza di gruppo. Scriveva Carla Lonzi: “prendendo coscienza dei condizionamenti culturali, di quelli che non sappiamo, non immaginiamo neppure di avere, potremmo scoprire qualcosa di essenziale, qualcosa che cambia tutto, il senso di noi, dei rapporti, della vita. Via via che si andava al fondo dell’oppressione il senso di liberazione diventava più interiore. Per questo la presa di coscienza è l’unica via, altrimenti si rischia di lottare per una liberazione che poi si rivela esteriore, apparente, per una strada illusoria”. E ancora: “Il femminismo ha inizio quando la donna cerca la risonanza di sé nell’autenticità di un’altra donna … e non per escludere l’uomo, ma rendendosi conto che l’esclusione che l’uomo le ritorce contro esprime un problema dell’uomo, una frustrazione sua, una consuetudine sua a concepire la donna in vista del suo equilibrio patriarcale” (Scacco ragionato, p. 32-33).
Sia il femminismo che la nonviolenza sono strumenti di DISARMO CULTURALE (cfr il libro di Raimon Panikar, Pace e disarmo culturale), perché si rivolgono all’acquisizione di coscienza, di consapevolezza personale. E tendono a non acquisire per buono tutto ciò che viene dall’esterno, ma a INTERLOQUIRE CRITICAMENTE, approdando così ad un tipo di politica non di potere, ma dal basso, che è poi la politica nel senso etimologico originario: la partecipazione di tutti (e tutte?) alla polis. Se per democrazia non si intende il potere al popolo, ma la partecipazione del popolo, la polis dovrebbe comprendere veramente tutti e tutte, senza bisogno di quote.
Ma qui sarebbero veramente troppi i nodi storici, indistricabili in così poco tempo e che non solo grazie al femminismo si stanno cominciando a districare. Ma anche grazie a (schematizzo per esigenza di brevità):
un pensiero sempre meno bipolare e più complesso, tendente a guardare al mondo in maniera non semplificante, ma articolata, comprendendo le varie interconnessiono-relazioni-ambiguità etc presenti nel mondo, nel linguaggio nella vita,
l’emergere di tutta una serie di categorie di persone, per prime le donne, ma anche lo straniero, le culture orientali o maya, i gay, i clandestini, i portatori di handicap, i malati terminali, etc. che prima erano interdetti e che adesso reclamano che il mondo cambi e cambi non tanto includendo anche loro ma che si trasformi a partire da loro, accogliendo le qualità che loro rappresentano,
il superamento del manicheismo e il relazionarsi in maniera aperta, creativa, positiva, all’ambivalenza della realtà. Accogliendo l’idea di essere imperfetti: sia giusti che sbagliati, sia buoni che cattivi, sia brutti che belli, sia naturali che artificiali, ed anche sia donna che uomo,
un pensiero non finalista, che non vuole giungere a precise definizioni, conclusioni, ma che si pone in continua ricerca: chiarendo nozioni, analizzando, smascherando vuote retoriche, pensando e sperimentando pratiche di vita positive e alternative alla violenza.
Il femminismo è stato, e in parte continua ad essere, una delle pratiche possibili verso un mondo migliore in cui invece di trasformare le differenze in disparità o in violenza reciproca sia possibile gestire il conflitto chiarendo il proprio punto di vista e cercando di comprendere quello dell’altro. Consapevoli di essere imperfetti: forse il proprio punto di vista, se non proprio del tutto sbagliato, probabilmente è relativo.
Come relativo è stato quasi tutto il sapere senza la partecipazione di donne (e uomini) autenticamente liberi di esprimersi in tutta la loro complessità e ambivalenza.

In servizio civile nell’isola di Cipro divisa dal muro

Elena Buccoliero
intervista Elisa Grazzi e Giacomo Natali

Il primo progetto di servizio civile internazionale promosso da enti pubblici nello spirito dei corpi civili di pace è stato sostenuto dal Comune e dalla Provincia di Ferrara, ideato insieme all’Associazione per la Pace e prevedeva l’invio nell’isola di Cipro di quattro giovani volontari per un periodo di dieci mesi – il primo era di formazione, l’ultimo di valutazione e documentazione dell’esperienza. Proprio qui si colloca la nostra conversazione con Elisa e Giacomo, due dei ragazzi inviati.
Come avete scelto questo progetto?
Elisa: “Avevo seguito un corso per operatori di pace a Bolzano, cercavo un’occasione per mettere in pratica quello che avevo imparato. Il servizio civile era perfetto perché dura un anno, è molto più di uno stage. Un’esperienza professionalizzante, anche se non proprio professionale”.
Giacomo: “Io sono partito con l’idea di fare un’esperienza e strada facendo ho capito che questo lavoro mi interessa molto. Ora sono aperto a questa prospettiva, che non è chiara ma sicuramente interessante”.
Mi manda… un Ente Locale
Il vostro è stato il primo progetto del genere supportato da enti locali.
E: “Il Comune e la Provincia di Ferrara avevano già in atto progetti di cooperazione decentrata. Certo è diverso che degli enti decidano di inviare, sotto la propria responsabilità, quattro giovani in un programma di dialogo in zona di conflitto, tramite un progetto di servizio civile. Per gli enti è anche l’occasione per farsi conoscere e instaurare relazioni di lungo periodo, per i locali è una garanzia. Tutti ci prendevano molto sul serio quando dicevamo che saremmo rimasti dieci mesi. È già un periodo che permette di fare della strada insieme”.
Per voi cambiava qualcosa il fatto di avere alle spalle una istituzione?
E: “Si viene percepiti più seriamente che se si andasse a nome di un’associazione, e lo dico con grande rispetto per il volontariato. Ma per esempio, un’associazione può sciogliersi, cosa che non è possibile per un ente locale. Anche chi si iscrive sente questa affidabilità”.
Se ripensi adesso a questi dieci mesi, quali immagini affiorano?
E: “La vista dalla nostra terrazza: il campanile di una chiesa ortodossa e accanto un minareto, a sud le cupole di un bagno turco e la torre di un supermercato, più alta dei minareti. Poi ti giri verso nord e sai che là c’è la linea verde, vedi i minareti della chiesa di Santa Sofia, molto più vicini di quanto ci si aspetti, con in mezzo la bandiera di Cipro nord e della Turchia, sempre insieme. Altre immagini riguardano i primi incontri con le persone che poi si sono rivelate le più importanti, la curiosità che avevano verso di noi. Tutti chiedevano di Ferrara, era buffo sentirmi io, trentina, un po’ una portavoce di questa città. Si capisce il senso della diplomazia popolare. Si è un po’ dei piccoli ambasciatori”.
G: “Ti veniva richiesto, addirittura. Volevano capire bene il perché delle nostre azioni, anche con un po’ di sospetto. È naturale in quella situazione, tra spie, centri di intelligence di tutto il mondo, inizialmente i residenti sono sospettosi verso gli stranieri. Il fatto che fossimo mandati con fondi del Governo italiano faceva sì che ci identificassero con le posizioni politiche della nostra ambasciata”.
La percezione del conflitto
Il conflitto in atto è immediatamente percepibile?
G: “Se stai a Cipro per un po’ e vivi normalmente la tensione è difficile da avvertire ma, appena hai che fare con il problema cipriota, diventa evidente. E questa è una delle difficoltà maggiori. Cipro è apparentemente tranquilla, rilassata, bella, serena, moderna. Nel profondo non lo è”.
Spiegati meglio.
G: “A Cipro sembra di essere in un posto normale e questo porta a comportarsi come se lo fosse, col rischio di commettere errori. Sembra di potersi esprimere liberamente… Poi capisci che è meglio non farlo, ti trattieni e ti chiedi il perché. La gente è mediamente ricca, almeno i greco ciprioti, il conflitto è lontano nel tempo, non vedi le persone soffrire, sei meno portato a giustificare la divisione, il rancore. E invece i problemi ci sono, legati alla memoria. Oggi se dovessi indicare un colpevole nella costruzione del conflitto non avrei dubbi: l’educazione. La scuola è estremamente nazionalista da entrambe le parti. Cresce proprio all’odio, e se pensi che da trent’anni questa gente non ha occasione per conoscersi… E a 17 anni i maschi prestano 2 anni e mezzo di servizio militare obbligatorio, senza possibilità di rinvio o di obiezione, e le ragazze a 24 anni seguono un corso di educazione politica che è quasi più inquietante…”
Come sono stati i rapporti con l’ambasciata italiana?
G: “Grazie alla fiducia che si è creata siamo diventati un po’ la loro mascotte e un po’ gli informatori. Lo stesso per gli amici della commissione europea. Dico anche gli informatori perché noi abbiamo potuto intessere rapporti con la gente che i funzionari non hanno. Avevamo studiato molto il conflitto cipriota e dopo un anno sentivamo il polso della situazione, così quando qualcuno veniva in missione sull’isola – giornalisti, religiosi.. – lo indirizzavano da noi per conoscere la situazione e capire come muoversi. Elisa e Carlotta hanno preparato un documento per la Commissione Europea, che lo ha presentato durante un incontro tra il direttore dell’allargamento dell’Unione e la società civile di Nicosia”.
Che cosa perde una istituzione?
G: “Una prospettiva dal basso, i contatti, la consapevolezza che di fatto non esiste una società civile o che è molto limitata e bisognerebbe incentivarla. Perde tanto. Anche le piccole cose positive che invece ci sono”.
Flauti, tai chi e gomme tagliate
Quali contatti avevate sul posto?
E: “Avevamo sede presso un’associazione culturale greco-cipriota, la Weaving Mill, partner del nostro progetto. Si occupa di cinema, poesia, fotografia… Abbiamo lavorato alle iniziative dell’associazione e anche in modo più indipendente, su obiettivi che il partner locale reputava troppo rischiosi. D’altra parte a Cipro è facile venir bollati come traditori”.
G: “Per esempio, abbiamo collaborato con l’Istituto di Turcologia dell’Università di Cipro per organizzare alcune serate di poesia con poeti turchi e turco-ciprioti, e tra il pubblico c’erano diversi studenti universitari di Cipro nord. Durante una di queste serate un gruppo nazionalista greco-cipriota ha lacerato le gomme delle auto dei turco-ciprioti e questo ci ha costretti ad avere la polizia dentro e fuori dal locale nella serata successiva… in cui, poi, l’episodio si è ripetuto ugualmente”.
Come vi siete inseriti nella società locale?
E: “La prima mossa è stata iscriverci a dei corsi che si tenevano a Cipro nord. Intaglio, tutti insieme, e poi Giacomo ha continuato e ha aggiunto un corso di flauto sufi, io ho fatto tai chi… Carlotta ha studiato greco e Giacomo turco… È stato molto importante perché ci ha permesso di conoscere le due realtà culturali, e corsisti di entrambe le comunità”.
Cosa avete fatto in questo anno?
E: “Il nostro obiettivo era promuovere il dialogo tra le due comunità, il mezzo era la promozione della città vecchia di Nicosia, divisa tra le comunità greco-cipriota e turco-cipriota, patrimonio per entrambe. Alcune delle attività previste prima della partenza non sono state possibili. D’altra parte il contesto era mutato rispetto al tempo della progettazione, e questi sono fattori che non potevano essere preventivati. Per esempio dovevamo preparare una guida turistica unica di Nicosia ma ci han detto il primo giorno che era impossibile. In compenso abbiamo preparato una banca dati sulla città vecchia con monumenti e informazioni su entrambe le parti, volendo è la base di partenza per una guida…”
G: “La struttura del sito era difficile da pensare sia per ragioni editoriali sia per motivi socio-politici nella catalogazione di monumenti da una parte e dall’altra: moschee e chiese insieme o separate, secondo quale ordine… Fino al problema della topografia, insormontabile anche per le Nazioni Unite, che non hanno messo a punto una mappa completa perché non c’è stata possibilità di accordo sui nomi delle strade. E comunque la banca dati è stata l’obiettivo del primo periodo ed è servita per ambientarci, cominciare a conoscere la città dove eravamo e il modo di lavorare della nostra associazione”.
Un caffè bipartisan e un volantino tutto da negoziare
E poi?
E: “Più avanti, nell’ottica di promuovere oltre ai monumenti i luoghi di interazione sociale, abbiamo cominciato a pensare ai caffè del centro”.
G: “A Nicosia molti turco-ciprioti svolgono lavori umili nella parte greca, i greco-ciprioti entrano nella parte turca magari due volte l’anno, per fare acquisti a buon mercato. Questo per dire che lo scambio fisico tra una parte e l’altra non manca, ma non c’è nessun luogo comune di incontro. Le persone si sfiorano ma non si parlano mai. I caffè sono ben etichettabili dal punto di vista nazionalistico, portano le effigi degli eroi di una parte che sono ovviamente gli assassini dell’altra, quindi creare un ambiente accogliente per entrambi era una sfida stimolante… Oggi l’unico luogo d’incontro condiviso è forse Star Bucks, il Mac Donald dei caffè, proprio perché è privo di storia.
Ci siamo documentati, abbiamo creato un’idea di come potrebbe essere l’ambiente di un caffè condiviso e abbiamo scritto un’idea progettuale che è arrivata alla fase di proposta.
E: “Sul rito del caffè abbiamo girato anche un documentario, raccogliendo immagini in entrambe le parti. Un breve filmato che è stato prodotto in greco, turco e inglese”.
Durante il vostro anno di servizio è girata in internet una proposta di viaggio “alternativo” sull’isola di Cipro. Siete stati anche operatori turistici?
E: “Abbiamo proposto una settimana di conoscenza dell’isola, con momenti di incontro con le associazioni del luogo per capire la complessità del conflitto e entrare a contatto con la società civile. E anche se poi non abbiamo raggiunto il numero necessario di iscrizioni, è stata fondamentale per i contatti che ha richiesto. Ad un certo punto abbiamo promosso una serata d’incontro a casa nostra con una quindicina di associazioni di entrambi i lati, e intanto abbiamo scoperto che fra loro non si conoscevano. Ci siamo allenati alla mediazione, cominciando dal volantino che presentava il viaggio”.
G: “L’incontro aveva carattere puramente organizzativo, fortunatamente è stato molto più ricco di così. Abbiamo proposto alla discussione l’introduzione al viaggio, in cui spiegavamo rapidamente le radici del conflitto. Ci siamo resi conto di come termini “neutrali” possano essere connotati per chi è coinvolto. Sapevamo già che scrivere intervento o invasione è molto diverso ma, ad esempio, avevamo parlato di minoranza turco-cipriota, nel senso di minoranza statistica, e abbiamo scoperto che anche questa parola era inaccettabile”.
Come ve la siete cavata?
G: “Scrivendo comunità invece che minoranza…”.
E: “Si sono accesi i toni, siamo stati davvero dei mediatori tra le parti, specificando sempre che il nostro testo era una proposta ed eravamo disposti a rivederlo, a imparare da loro. È importantissima questa modestia. Se c’è una cosa che non sopportano è che venga qualcuno da fuori a spiegare i termini, le soluzioni, il come del loro problema. Dopo quella sera pensavamo che non volessero più avere a che fare con noi, invece alla festa finale sono venuti tutti ed è stato veramente bello”.
Nella società turco-cipriota ci sono spinte al dialogo?
E: “Sì, anche se molto esigue. C’è un’associazione molto importante, di insegnanti a tutti i livelli, che sta tentando di togliere il nazionalismo dai libri di storia. A nord hanno già completato il lavoro, a sud non ancora”.
Ora che il progetto è terminato, potete dire di aver raggiunto il vostro obiettivo?
E: “Lo scopo del progetto era incentivare occasioni e strumenti di dialogo, e direi che ci siamo riusciti, anche se con attività diverse da quelle sulla carta”.
G: “Non voglio dire che oggi chi va a Cipro si accorge della differenza. Sicuramente però all’interno di alcuni gruppi sociali ci sono nuove iniziative, mentre altri hanno semplicemente iniziato a riflettere sul conflitto anche solo per il rapporto informale con noi”.
A Cipro con amore

Carlotta, 25 anni, toscana, laureata in Lettere, è approdata a Cipro con una buona esperienza già maturata: un campo di lavoro con le comunità rurali in Brasile (2003), due mesi di servizio volontario in Kossovo con un progetto di educazione alla pace (2004), e uno stage presso l’Ambasciata italiana a Pristina (2005). A Firenze insegnava italiano ai migrati in una associazione interculturale.
Elisa, 28 anni, trentina, laureata a Bologna in Scienze della Comunicazione, aveva già vissuto per vari mesi in Irlanda, Canada e Stati Uniti. A Bolzano ha seguito il corpo per “Operatori di pace” e continua a collaborare con la Fondazione Alexander Langer. È stata volontaria in Bosnia presso un’associazione di Tuzla dove ha svolto attività di animazione per bambini e ragazzi.
Giacomo, 26 anni, ferrarese, laureato a Bologna in Scienze della Comunicazione. È stato tra i fondatori del progetto “I Quindici” legato al collettivo letterario Wu Ming Foundation e della relativa rivista “Inciquid”. Prima di Cipro ha vissuto diverse esperienze lavorative mettendo a frutto le sue competenze informatiche e sulla comunicazione a supporto di attività di ricerca sociale.
Gianmarco, napoletano, iscritto al corso di Studi per la pace oltre che operatore di pace, aveva collaborato con diversi centri di documentazione e di ricerca (tra questi il CIES – Centro Informazione Educazione allo Sviluppo e il CIRPS – Centro Interuniversitario di Ricerca per lo Sviluppo Sostenibile). Ha curato alcune pubblicazioni e ha seguito progetti di cooperazione partecipata in Kosovo e in Palestina. Ha interrotto anticipatamente il periodo di servizio civile a Cipro per motivi personali.
Il diario da Cipro è consultabile su Occhiaperti, il sito del Comune di Ferrara dedicato ai giovani, alla pagina http://www.occhiaperti.net/index.phtml?id=3418

Abbattere l’ultimo muro d’Europa

di Paolo Bergamaschi

L’abbattimento del muro in Ledra Street nella parte vecchia di Nicosia è stata una mossa a sorpresa altamente spettacolare che va inquadrata nell’attuale contesto europeo. Nell’aprile 2004 la Commissione Europea, per convincere la comunità turco-cipriota a votare sì nel referendum del piano di pace proposto da Kofi Annan, aveva pubblicamente promesso di mettere fine all’isolamento di Cipro nord. Si era, così, impegnata ad un pacchetto di aiuti economici per un totale di 259 milioni di euro e a adottare un regolamento che permettesse il commercio diretto fra la parte settentrionale dell’isola e gli altri paesi europei. Va ricordato, infatti, che, dopo l’invasione turca del 1974 in risposta ad un tentativo di colpo di stato greco, Cipro nord era stata bandita dalla comunità internazionale con una serie di sanzioni imposte dalle Nazioni Unite. Le cose, poi, sono andate in modo imprevisto, poiché i Turco-Ciprioti hanno approvato il piano di pace che è stato bocciato, però dai Greco-Ciprioti. La Repubblica di Cipro, di fatto la parte greco-cipriota, nel maggio 2004 è diventata membro dell’Unione Europea e da allora ha cercato in tutti i modi di mettere i bastoni fra le ruote a qualsiasi provvedimento a favore della comunità turco-cipriota per piegarla alle proprie condizioni. Nonostante i continui veti, anche se con molto ritardo, il Consiglio dei Ministri Europei nel febbraio del 2006 ha approvato il pacchetto di aiuti economici, ma non è ancora riuscito a far passare il regolamento per il commercio diretto che i Greco-Ciprioti considerano come un implicito riconoscimento internazionale di Cipro nord. In questi mesi la pressione dei paesi membri su Nicosia è cresciuta a dismisura, spazientiti dall’atteggiamento oltranzista del presidente Papadopoulos. Il governo greco-cipriota di trova in difficoltà agli occhi europei perché sembra incapace di rispondere alle aperture dei Turco-Ciprioti. L’abbattimento del muro ha l’obiettivo di allentare questa pressione rispedendo la palla nel campo avverso. E’ indubbio, comunque, che si tratta di una mossa carica di effetti simbolici perché potrebbe spianare la strada alla riunificazione della città vecchia, quella all’interno delle antiche mura, dove la partizione è più visibile. E’ anche un’occasione per i pacifisti europei di farsi finalmente sentire dopo anni di imperdonabile silenzio nei confronti dell’ultimo conflitto dell’Unione Europea.

Le ragioni del governo la verità del movimento

di Adriano Moratto

Non voglio discutere dell’evidente diversità di ruoli tra i movimenti ed il governo. Le ragioni del governo sono vincolate da mille interessi “particolari” (anche fossero accordi internazionali), contrapposti e spesso poco “etici” per i miei gusti. Per questo non ho mai fatto il Primo ministro. Però apprezzo, più o meno, ben distinguendo tra sinistra e destra, il ruolo e l’importanza di chi fa il “politico” con tutte le sue contraddizioni.
Invece vorrei parlare delle mie contraddizioni, dei limiti di noi che parliamo dai movimenti, anzi, retoricamente, dal Movimento. Siamo dei presuntuosi. Chi è attivo nei movimenti rappresenta a mala pena il 5 per mille dei cittadini (metto dentro proprio tutti e di più). Però da veri integralisti pretendiamo che si facciano per tutti leggi a nostra misura. Non fa così anche il cardinal Ruini? Gandhi da esperto avvocato diffidava del potere della legge, Aldo Capitini parlava di persuasione. Non ci sono traditori e venduti, forse solo opinioni diverse.
Siamo incostanti, più attenti a criticare che a costruire, non sappiamo dare continuità alle nostre campagne. Faccio due soli esempi recenti
1) Quanti si ricordano della campagna un milione di facce? Beh si è ottenuto un significativo e parziale successo. Adesso, invece di valorizzare e “spendere” l’iniziativa, l’abbiamo abbandonata alla deriva. Ormai è solo una questione istituzionale: riguarda l’O.N.U., di cui poi lamenteremo i limiti.
2) Nodo afghano. Da mesi il governo (financo il kossoviano D’Alema) parla della necessità di privilegiare iniziative civili e non militari. Non ho sentito altri governi dire altrettanto. Noi invece di infilarci con proposte concrete, sollecitazioni (ammesso che ne fossimo capaci) ribadiamo con disco rotto: fuori dall’Afghanistan. Ci garantiamo così un’indiscutibile verginità di coscienza. Verginità bella, ma che si sa non produce mai frutti. In un mondo in cui gli Stati Uniti sono avviati ad un ridimensionamento economico, Cina ed India sono i nuovi mercati, l’America Latina si sta rendendo autonoma; l’Europa tenta arrancandosi di farsi soggetto internazionale, noi non troviamo di meglio che “tifare” o meno per la coscienza di due senatori.
A Cesare quel che è di Cesare. Ho dato il mio voto per salvare il salvabile. La mia politica è un’altra.
Abbiamo venduto milioni di bandiere arcobaleno. Vero. Milioni di persone in piazza. Così abbiamo forse impedito che una guerra diventasse guerra di religione tra musulmani contro l’occidente cristiano. Ma forse è troppo pretendere che bastassero queste iniziative a contrastare la guerra la sua logica, le sue dinamiche. La pace richiede fatica, sforzi e decime (quante risorse destiniamo alla pace?). Parliamo di pace, ma spesso non siamo capaci di affrontare i piccoli conflitti interpersonali quotidiani.
Siamo individualisti o forse solo egocentrici. Serpeggia sempre fra di noi la voglia del distinguo. Vogliamo essere visibili noi, non i nostri obbiettivi. La nostra autostima sembra crescere solo se riusciamo a metterci al centro dell’attenzione mediatica, come se i media rispondessero ai nostri interessi. Passatemi l’esempio astratto. Non voglio ferire la suscettibilità di qualcuno: se il Movimento decide di vestirsi di nero in segno di lutto c’è sempre qualcuno che sente il bisogno di ricordare che invece in Giappone il lutto è bianco, o che è razzista usare questo colore. Cose vere. Che però ci garantiscono l’assoluta divisione ed inattività. Emerge a questo punto la sindrome del martire. Siccome non ottengo mai nulla c’è contro di me un accanimento, una persecuzione. Io sono il profeta incompreso. Gli altri, tutti, sbagliano. Non ci viene il semplice sospetto che a sbagliare siamo noi con la pretesa di avere l’unica verità in tasca, incapaci di ascolto, di condivisione, sostanzialmente intolleranti.”Politica è sortirne insieme”: Se non ci riusciamo prendiamoci una buona pausa di riflessione. Per il bene comune e nostro. Ovviamente è compreso anche quanto ho appena scritto qui sopra.

Base di Vicenza, TAV, Mose: il governo è sordo

di Michele Boato

Sabato 17 febbraio ero a Vicenza assieme a Tonino Perna, arrivati entrambi in ritardo da Ferrara, dove avevamo utilmente dibattito di un futuro con meno chimica e senza inceneritori.
Invece di rincorrere il corteo, partito con quasi due ore di anticipo (perché il piazzale della stazione scoppiava di gente), ci siamo messi sul marciapiede a circa metà percorso, ad aspettarne l’arrivo, dopo che aveva girato per alcuni chilometri tutto attorno alla città. E’ arrivato subito, e per due ore siamo stati lì a vederlo scorrere, al ritmo di circa 400 persone al minuto (le ho contate!). Ho salutato decine e decine di amici, conoscenti di ogni colore politico e vari altri che mi riconoscevano e salutavano volentieri: le prime 40-50.000 persone erano quasi tutte vicentine o comunque venete: moltissime le donne e le famiglie con bambini, i gruppi scout, le associazioni di paese, orgogliose dei loro striscioni colorati e pieni di speranza di un mondo senza armi, guerre, basi militari.
Poi è stata la volta di un fiume sterminato di “No Tav”, scesi con decine di pullman dalla Val di Susa, anch’essi coloratissimi e di ogni età; dietro di loro ancora decine di migliaia di altri manifestanti, con pochissime bandiere di partito, pieni invece di strumenti e persino bande musicali, associazioni di ogni tipo, da Legambiente al Movimento Zero con lo striscione “cittadini non sudditi” fino ai centri sociali al ritmo di rap.
Vedendo la prima interminabile parte del corteo, con alla testa, tra gli altri, l’anziano ex sindaco democristiano di Vicenza, il moderatissimo Giorgio Sala, ci siamo detti “Qui il raddoppio della base americana non lo possono proprio fare: Prodi e i suoi si renderanno ben conto che significherebbe il loro karakiri”.
Vedendo scorrere poi l’interminabile fiume di NoTav, il commento di Tonino è stato simile “Se questo popolo ha la forza di venire con tali numeri, compattezza e determinazione fino a Vicenza, come può il governo pensare di domarlo e fargli ingoiare l’inutile, dannoso e costosissimo Tav ?”
La prima dose di doccia fredda è arrivata la sera stessa. La manifestazione (enorme decisa ma assolutamente pacifica, nonostante le ripetute profezie di sventure di Amato, Rutelli ecc.) non era ancora conclusa che già Prodi, invece di valutarne l’enorme significato, dichiara a stampa e telegiornali “Manifestare è un diritto, ma dobbiamo rispettare i patti e la base verrà raddoppiata” punto.
Sul Corriere della Sera, da giorni l’ex ambasciatore Sergio Romano (conservatore illuminato erede di Montanelli nella rubrica delle Lettere) andava scrivendo che non siamo più negli anni della “guerra fredda” con Italia e Germania terre di frontiera: “Oggi, dopo il crollo dell’Urss le basi americane in Europa sono al servizio di una strategia politico-militare che l’Italia potrebbe non condividere. Non credo che uno stato sovrano abbia interesse a cedere una parte del proprio territorio per un’attività cu cui, in ultima analisi, non può esercitare alcun controllo”. Romano ricordava anche “un caso recente in cui, a mio avviso, è stata fatta la scelta giusta: quando è stato eletto alla presidenza della Regione Sardegna, Renato Soru ha detto che si sarebbe impegnato per la chiusura della base americana della Maddalena. Vi sono stati contatti del nostro ministro della Difesa con il segretario Donald Rumsfeld e gli americani hanno accettato di andarsene. Mi piacerebbe – conclude Sergio Romano – che la stessa cosa accadesse a Vicenza”. Purtroppo D’Alema e Prodi non la pensano così.
Ma la seconda dose di doccia fredda è arrivata con i “Dodici punti irrinunciabili” dettati da Prodi dopo lo scivolone al Senato sull’Afganistan: Dopo il “Rispetto degli impegni internazionali” e un ”Impegno forte per la cultura e la scuola” arriva la “Rapida attuazione del piano infrastrutturale e in particolare ai corridoi europei (compresa la Torino – Lione)”. Ecco sistemati anche i NoTav.
Per buon peso, al quarto punto c’è anche la “Localizzazione e realizzazione rigassificatori”.
Il Mose non serviva nominarlo, perché la città di Venezia col suo sindaco è già stata messa a tacere dal duo Prodi – Di Pietro.
Sembra un incubo, ma è il nostro governo.

La rivoluzione disarmista
in ricordo di Carlo Cassola

di Silvano Tartarini

Quando vent’anni fa, il 4 aprile 1987, si tenne a Firenze il convegno sul famoso scrittore Carlo Cassola, erano passati poco più di due mesi dalla sua morte. Il convegno fu voluto e organizzato dalla L.D.U. per un’ urgenza. L’urgenza era quella di rimuovere l’idea di un Cassola scisso in due ad un certo punto del suo percorso di scrittore, e di più colpito da una sorta di monomania antimilitarista, che s’insinuava, arrivata alla fine dell’esaurirsi della sua vena poetica. Il titolo era “Letteratura e disarmo”, dove la “e” era chiaramente una congiunzione e non rappresentava certo alcuna contrapposizione.
Devo ricordare che quando Cassola morì, il 29 gennaio 1987, lo scrittore era ormai un isolato. Destino di molti, ma destino a cui Cassola avrebbe, a detta dei più, potuto tranquillamente sfuggire. Si trattava, in fondo, di amministrare “saggiamente” il proprio patrimonio di scrittore e di non confondersi in un assordante tam-tam antimilitarista che, a molti, parve uscire dal nulla.
Riguardo all’isolamento di Cassola, fu indicativo il giorno del suo funerale. Ricordo che era un giorno freddo e ventoso. C’erano pochi intimi. Il funerale partì dalla sua casa di Montecarlo di Lucca. Fuori dalla porta c’erano i fiori inviati dalla Presidenza del Consiglio di allora. Tanta stima “ufficiale” strideva con il non consenso reale delle istituzioni e dei media.
L’isolamento rimaneva grande anche nel momento della morte. Posso sbagliare, ma non ricordo di aver visto un solo giornalista presente quel giorno.
Tuttavia, fu un bel funerale, se l’aggettivo si può usare per un funerale. Un funerale del dopoguerra: scarno, solitario, importante come la morte, senza inutili fronzoli, letterariamente compiuto. Sarebbe piaciuto a Cassola.
Alla fine della sua vita, Cassola, come scrittore aveva dato molto alla letteratura, e come antimilitarista aveva dato molto al mondo pacifista e nonviolento. Anche la sua morte solitaria testimoniava di questo “molto”. Credo che sia giusto ricordare qualcosa di quel “molto”.
Cassola era stato tra i promotori della prima Campagna di Obiezione alle Spese Militari nel 1982 assieme a Pietro Pinna, Mario Capanna, Marco Pannella e Ernesto Balducci. Ma, soprattutto, Cassola era stato il “padre” del disarmo unilaterale in Italia. E il gesto “culturale” del disarmo unilaterale abita ancora tra noi e fa ancora vivo tra noi Carlo Cassola. Di lui ci resta il suo insegnamento semplice e forte, che va dritto al bersaglio e che ci insegna che il militare è sbagliato e che la guerra è la faccia violenta di una realtà violenta e che, se non la togliamo di mezzo, non potremo avviarci a cambiare la realtà presente, che è, in gran parte, una realtà militare.
Io credo che per traghettare questa nostra vita armata e piena di insicurezza a una vita disarmata, più vivibile e più serena, perché capace finalmente di guardare a un futuro degno di questo nome, servirà anche il pungolo delle idee antimilitariste di Cassola. Del resto, le sue idee sono già sono servite, oggi, a partorire, in parte, altre idee sulle quali i pacifisti e i nonviolenti stanno attualmente lavorando. Una di queste è, mi pare, l’idea dei corpi civili di pace, l’altra è impedire il fuoco atomico.
Mi piace ricordare queste sue parole che mi appaiono oggi decisamente attuali:
“Basterebbe che un solo popolo si ribellasse al ricatto della difesa per mettere in crisi il militarismo dappertutto. Patriotticamente mi auguro che questo popolo più intelligente degli altri sia il mio. (…) Chi non capisce che è questo il terreno dello scontro decisivo tra progresso e reazione, tra civiltà e barbarie, è di destra, anche se si proclama di sinistra. In altre parole, o la sinistra vince la battaglia per la pace, o non avrà un’occasione di farsi valere, perché il mondo salterà in aria.”
Queste sue parole sono tratte da “La rivoluzione disarmista”. Cassola vedeva il militarismo come una catena che avvolge l’intero pianeta nelle sue spire mortali. E chiedeva a tutti noi di spezzare quella catena. Questa sua posizione, come ho già ricordato, gli è costata molto.
Anche se a più d’uno, nell’area nonviolenta, l’antimilitarismo di Cassola non piaceva, perché sembrava deviare dalle complessità del problema, sembrava semplificare troppo, la realtà è che l’antimilitarismo sostenuto da Cassola è ancora, purtroppo, una lotta di questi giorni e sarà ancora di più la lotta di domani.
Per questo, credo che sia giusto che noi, amici della nonviolenza, ricordiamo Carlo Cassola come l’antimilitarista difensore della vita, l’ideologo dell’esistenza, il compagno generoso con il quale siamo fieri di aver fatto un pezzo di strada verso la costruzione faticosa della pace.

EDUCAZIONE
A cura di Pasquale Pugliese
La pace come obiettivo educativo del Centro Psicopedagocico per la Pace

È del 1989 il primo depliant del Centro Psicopedagogico per la Pace (CPP) che propone varie occasioni di formazione. Sono due le novità che il CPP introduce in un anno storico di grandi speranze:
Prima: viene posto il tema della pace non tanto in ambito politico ma come obiettivo educativo, che può essere oggetto di ricerca e mutuo apprendimento, rivolto specificamente agli adulti. Ci si chiede quali sono le connessioni tra modi di educare e violenza, quali competenze devono essere sviluppate. Con questi orientamenti un pedagogista, Daniele Novara, raccoglie un gruppo di professionisti: psicologi, insegnanti, educatori. Dalle esperienze dei membri del gruppo iniziale, utilizzando diverse metodologie, partono diversi filoni di lavoro che vengono sviluppati sul territorio nazionale e durante week-end formativi e convegni organizzati da Piacenza.
Seconda: l’educazione alla pace si pone come ambito di lavoro di tipo professionale, non come impegno di tipo volontario, legato a scelte personali di coscienza. Si tratta di aprire un nuovo campo di ricerca interdisciplinare, non ideologico ma orientato alla costruzione di nuove pratiche e di nuovi saperi, capace di attingere a diverse tradizioni metodologiche e di utilizzare e inventare strumenti educativi.
Per anni il CPP lavora come Centro caratterizzato da un contenuto, non da un metodo, ponendosi come punto di riferimento e favorendo lo sviluppo di una Rete nazionale per l’Educazione alla Pace (REAP). Sono anni necessari di “gestazione culturale” che hanno permesso la nascita di qualcosa di nuovo.
Il “conflitto” è il risultato di queste lunghe ricerche. Il “conflitto” come nuovo campo di lavoro epistemologico, pedagogico, educativo.
Infatti la seconda parte della storia del CPP, che si riorganizza nel ‘98 come Società cooperativa, si caratterizza a partire da un cruciale chiarimento, cominciando dal nome, che diventa “Centro Psicopedagogico per la Pace e la gestione dei conflitti”.
Scrive Daniele Novara:
“La pace è conflitto, in quanto permette di mantenere la relazione anche nella divergenza. In quest’ottica la guerra spesso assume le sembianze di un tentativo paradossale e ossessivo di ristabilire la pace intesa come un elemento di aconflittualità, di ordine e di assenza di divergenze. […]
L’educazione alla pace tenta di proporre un’idea di pace come conflitto, e quindi una nuova mappa per attraversare questi territori, che abbia questo orientamento preciso, assumere il conflitto come un elemento generativo, un elemento creativo, una risorsa all’interno della costruzione di una serie di relazioni che non possono prescindere dal valorizzare e contenere la diversità. […]
Si precisa il compito di “alfabetizzazione al conflitto” che consente l’aggregazione di un gruppo più omogeneo e stabile, in gran parte fra gli stessi corsisti del percorso annuale di specializzazione, e orientato in modo specifico sul tema del conflitto. Questa più chiara messa a fuoco della propria identità consente maggiormente al CPP un confronto con l’ambiente universitario, con l’organizzazione di uno o due convegni l’anno. Aumenta anche la produzione culturale dell’Istituto: Conflitti Rivista italiana di ricerca e formazione psicopedagogica, libri editi dal Gruppo Abele, da Berti e da Carocci, la collana Partenze della Meridiana.
In parallelo alla maturazione del contenuto specifico del CPP, si svolge un processo di consapevolezza metodologica. I metodi antiprescrittivi e attivi, da sempre privilegiati, vengono ripensati sottolineando la valenza maieutica della formazione degli adulti. L’orientamento è quello di favorire esperienze che consentano all’individuo di rivelare a se stesso ancora prima che all’esterno le proprie competenze e capacità, in una dimensione di creatività. Viene delineandosi un atteggiamento maieutico nel conflitto, capace di far nascere nuove possibilità, anche attraverso la consulenza maieutica, che diventa negli ultimi anni lo specifico del Corso di specializzazione annuale.
Nascono nuovi strumenti educativi interattivi di grande impatto: la Mostra Conflitti, litigi e altre rotture (1999), gli spettacoli teatrali Anna è furiosa (2003) e Cosa vuoi da me papà? (2006) rivolti a diverse età. Si allarga l’ambito territoriale: in Kossovo viene avviato un innovativo Centro Educativo, con RTM e Caritas, sperimentando la maieutica come metodo per la crescita infantile senza violenza (2-5 anni). Crescono i progetti, le collaborazioni. In alcune città (Pesaro, Bergamo, Valenza, Lastra a Signa, Cinisello, Milano, Salerno) le attività si radicano da diversi anni. Anche il calendario annuale di proposte formative si arricchisce uscendo sempre più dall’ambito strettamente educativo.
Elena Passerini
Consultare il sito www.cppp.it

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
C’era una volta la Banca Popolare Etica, ma è ancora popolare ed è ancora etica?

C’era una volta Banca Popolare Etica? L’assemblea dei soci che si terrà a Padova il 26 maggio prossimo sarà l’ottava dalla nascita, e servirà per eleggere un consiglio di amministrazione il cui mandato sarà quello di affrontare nuove e più complesse sfide future.
Lo stato odierno può già dire molto sull’operatività raggiunta dalla banca, riguardo le aspettative che aveva creato, quel lontano 8 marzo 1999. In quel giorno nasceva la prima banca in Italia che prometteva ai risparmiatori di prestare denaro solamente a progetti eticamente orientati: dando un’occhiata ai bilanci degli anni scorsi però, si scopre che la banca è riuscita faticosamente solo nel 2006 a prestare la metà dei soldi (quasi) che raccoglie, contro una media del mercato (le cosiddette banche “tradizionali”) dell’85-90%. L’altra metà della raccolta, per motivi soprattutto burocratici (spesso il prestito viene accordato quando l’ente richiedente non ne ha più bisogno), è parcheggiata in titoli di stato. Sorge a questo punto spontanea la domanda: ma perché i risparmiatori devono delegare una banca, seppur etica, a fare ciò che potrebbero fare agevolmente da soli?
Si potrebbe obiettare che almeno la metà dei soldi prestata ha un impatto socio-ambientale positivo, garantito dalla valutazione etica che i soci si impegnano ad effettuare congiuntamente alla valutazione economica. Ma anche qui, a ben vedere, per stessa ammissione del management, solo il 10% dei prestiti viene valutato anche dal punto di vista socio-ambientale, complice la cronica mancanza di volontari in diverse zone d’Italia abilitati ad effettuare la valutazione.
Ma allora solo il 5% (cioè il 10% del 50%) dei soldi raccolti viene prestato, secondo quanto pattuito otto anni fa, a soggetti eticamente orientati? La sensazione personale non conforta tale affermazione: in Torino è stato finanziato un consorzio di cui fa parte una cooperativa attualmente sotto processo per aver effettuato esumazioni al cimitero con la ruspa, suscitando l’indignazione di molti cittadini e tra questi Rita Pavone, costretta a subire il trauma della perdita dei resti di suo padre; un’altra cooperativa lavora invece da anni nel Centro di Detenzione Temporanea torinese, fra le proteste degli altri consorzi e del mondo associativo in generale. Anche il progetto assicurativo con Caes, che ha dragato una montagna di soldi, ha evitato il fallimento per un soffio ed continua ad essere oggetto di critiche pesanti (v. periodico di Mag4, www.mag4.it/scar/scar-pag.htm).
Ma i soci, cosa dicono? Tra i fondatori, Mag4 ha già gettato la spugna e due anni fa ha ritirato la propria quota sociale. E gli altri? Estromessi fin dalla nascita dalla Fondazione Culturale, che avrebbe dovuto rappresentare il naturale strumento per portare avanti i progetti culturali nel territorio; da sempre poco presenti nelle assemblee annuali (all’ultima tenutasi a Bari era presente l’1% dei soci, il 2,4% se si contano le deleghe); alcuni di loro hanno avuto un travaso di bile quando nel 2005 hanno scoperto che due soci autorevoli come Banca Popolare di Milano e Banca Popolare Reggio Emilia, importanti azioniste anche di Etica Sgr, finanziavano l’export di armi. La legge 185/90 è spietata: snocciola nomi e importi, ed entrambe risultavano finanziatrici per importi ragguardevoli di aziende come Agusta, Finmeccanica e compagnia bella. A distanza di più di due anni dalla scoperta, gli emiliani non si sono neanche degnati di rispondere alle richieste di spiegazione che il Consiglio di Amministrazione ha timidamente inoltrato, mentre i milanesi hanno accettato di incontrare un paio di volte i vertici padovani, nel tentativo di gestire l’ondata di protesta. Ormai Etica Sgr è una realtà ben avviata, anche se sempre più criticata (v. Altreconomia 2/07), e non si può litigare troppo con i compagni di viaggio. In compenso, con questo imbarazzante precedente, qualunque socio oggi può permettersi di commerciare in settori non etici ed avere la certezza di potersi appellare al caso delle due banche per non essere espulso dall’azionariato.
La nuova sede padovana di Banca Etica, più ampia e prestigiosa, sarà inaugurata l’8 marzo prossimo e servirà al nuovo Consiglio per presentarsi sulla scena internazionale con una immagine più solida e benvista da Bankitalia. Dopo l’apertura di una filiale a Bilbao ed un ufficio di rappresentanza a Bruxelles, si parla già di ripetere l’esperimento a Lione e, chissà, anche altrove, magari con nuovi compagni di viaggio, con altri capitali, con altre idee riguardo la finanza etica. Di qui allora la domanda iniziale: c’era una volta Banca Popolare Etica?

GIOVANI
A cura di Elisabetta Albesano e Agnese Manera
Ammazzare per gioco,tra finzione e realtà

“Videogiochi e violenza” è un tema di grande attualità in questi ultimi anni, a causa dell’avvento delle ultime generazioni di console (a partire dalle prime Playstation e Xbox), che hanno aumentato il livello di realismo visivo e sonoro fino a far sembrare i videogiochi veri e propri film o per meglio dire realtà.
La maggior parte di questi videogiochi ha come base la violenza; infatti ci sono sempre più simulazioni di guerra (per esempio la serie Medal of honor, che ci porta a combattere le più importanti guerre dell’ultimo secolo, oppure America’s army, prodotto direttamente dall’esercito statunitense e scaricabile gratuitamente, secondo molte persone molto propagandistico) e di crimine (Mafia, che come si può intuire dal nome tratta della principale organizzazione criminale esistente, e Hitman, dove si può impersonare un sicario professionista) o addirittura alcuni dove si uccide per semplice divertimento e come alternativa agli obiettivi principali. Sono famosi al riguardo Carmageddon, videogioco di automobili dove per ottenere la vittoria è sufficiente investire tutti gli abitanti della città dove si tiene la gara, e Soldier of fortune, che fece scandalo a causa della crudezza e realtà del suo contenuto. Capostipite dei videogiochi violenti è Grand theft auto o G.T.A, dove la libertà di agire è massima: si può picchiare, rubare automobili, navi, aereoplani e fare del male in tutti i modi possibili a chiunque.
Proprio a causa di quest’ultimo e in generale dei giochi violenti ci sono stati vari omicidi negli Stati Uniti: tra i più famosi il caso di Cody Posey, un ragazzino di quattordici anni del New Mexico che ha sterminato la sua famiglia adottiva (patrigno, matrigna e sorellastra) con un fucile. Il ragazzino ha subito per anni gli abusi fisici e mentali del patrigno, ma secondo i suoi avvocati l’efferato gesto non sarebbe avvenuto senza l’ispirazione di G.T.A.
Jack Thompson, avvocato di Miami protagonista della campagna contro la violenza nei videogiochi, afferma che essi sono la causa principale di alcuni tragici fatti avvenuti negli Stati Uniti negli ultimi anni: pulsioni violente di adolescenti che sfociano in omicidi, sparatorie e stragi, a causa delle situazioni vissute in alcuni videogiochi, che condizionano le giovani (e plasmabili) menti di questi ragazzi a tal punto da confondere e non riconoscere più realtà e finzione, bene e male.
Tuttavia la colpa non è da imputare esclusivamente ai videogiochi, anche se hanno sicuramente un grande peso nei casi di violenza sopra citati. Intanto c’è da dire che per legge i giochi riportano sulla confezione l’età di utilizzo consigliata, decisa dal Pan European Game Information (P.E.G.I.), il sistema europeo di classificazione in base all’età e al contenuto per videogiochi, che può variare dal logo “3+” (dai 3 anni in su) a quello “18+” (dai 18 anni in su) e quindi ragazzi di quattordici anni non dovrebbero nemmeno averlo G.T.A. in casa: i venditori non potrebbero venderglielo e soprattutto i genitori non dovrebbero lasciarglielo utilizzare. Non sono solo i giochi violenti a portare i ragazzi a compiere gesti folli, ma anche televisione e cartoni animati. In Giappone un bambino si è buttato dalla finestra per emulare il suo Pokemon preferito, confondendo la realtà con la finzione, e guardando indietro nel tempo ci sono stati bambini che dopo aver visto il film di Mary Poppins hanno tentato di volare con l’ombrello lanciandosi nel vuoto.
Quindi la causa principale di episodi folli da parte di bambini e ragazzi sotto i quattordici/quindici anni è la loro difficoltà a distinguere tra il reale e il non reale, soprattutto in quei casi dove i ragazzi non vivono in maniera normale e tranquilla, ad esempio in presenza di abusi da parte di coetanei o adulti, oppure di problemi psicologici preesistenti.Roberto Mosso

PER ESEMPIO
A cura di Maria G. Di Rienzo
L’attivista in abito da sposa per combattere la violenza domestica

Josie Ashton, 34enne, è convinta che la comunità latina di New York abbia bisogno di una “sveglia” rispetto alla violenza, soprattutto alla violenza domestica. Lei è divenuta la sfida costante alla compiacenza che circonda gli abusi tra le pareti di casa e non. L’evento che la mise per così dire in moto fu un omicidio che gettò nella costernazione i dominicani residenti in città: Gladys Ricart fu uccisa mentre si trovava nel proprio soggiorno, circondata da parenti felici, e splendente nel suo abito bianco da sposa. Il futuro marito la stava attendendo in chiesa. Il suo assassino era un facoltoso uomo d’affari con cui Gladys aveva avuto precedentemente una relazione.
Il fatto ebbe ampia risonanza e Josie stessa, che all’epoca già lavorava come avvocata d’ufficio a Miami per le vittime di violenza domestica, ne discuteva con amici e conoscenti: fu così che scoprì parecchie cose assai disturbanti, per lei. Per esempio, che parecchi biasimavano la vittima.
“Dicevano che in qualche modo aveva contribuito a quanto le era accaduto. Avevano la percezione che essere uccise è quanto inevitabilmente accade alle donne se hanno relazioni con più di un uomo nella loro vita. I media, come al solito, parlavano di crimine della passione e di raptus.”
La concezione machista che un uomo non possa risolvere conflitti se non tramite atti di violenza, e che debba essere il padrone delle donne con cui ha relazioni di parentela o affettive facevano il resto.
Oltraggiata dai commenti e commossa per la sorte toccata a Gladys, Josie Ashton compì un primo pellegrinaggio di testimonianza: affittò un abito da sposa, e indossatolo camminò dal New Jersey, ove l’omicidio aveva avuto luogo, alla Florida dove lei stessa vive. I suoi colleghi tentarono di dissuaderla: “Mi dissero che era un suicidio professionale.”, ricorda Josie, “Sei finita, mi ripetevano.”
Il 26 settembre 2001, al secondo anniversario della morte della ragazza dominicana, Josie Ashton si licenziò, affittò di nuovo la veste nuziale e partì per il suo secondo viaggio lungo 1.300 miglia. Durante il percorso ha visitato 14 rifugi antiviolenza e 22 città. La sua idea ha ispirato “marce di spose” a New York, in Florida, nel Wisconsin e a Washington.
Molti, quando la vedono camminare abbigliata in quel modo, la fermano per offrirle sostegno ed aiuto. Josie ha guadagnato alla causa, con tale sistema, numerosi altri attivisti e attiviste. “Ho parlato con persone che soffrono a tutti i livelli per la violenza domestica, sia perché la subiscono sia perché ne sono testimoni. Sembrava che stessero solo aspettando di essere legittimati a discuterne, di poter maneggiare la questione.”
Oggi Josie ha ripreso il lavoro di avvocata per le vittime di violenza domestica a Fort Lauderdale, ma continuerà ad usare la sua idea del pellegrinaggio e spera che le “marce” si espandano: Josie crede che la strada maestra per il cambiamento sia l’abbandono di posizioni puramente difensive. L’agenda della lotta va verso la ridefinizione dei ruoli sociali di genere e lo smantellamento sistematico degli stereotipi che alimentano la violenza. Le spose non vogliono più temere i loro mariti o i loro ex fidanzati.
“Abbiamo la necessità di essere maggiormente pro-attive. Dobbiamo trasformare la concezione che la violenza domestica è correlata ad una supposta “debolezza” delle donne. La violenza per me è una malattia, e va contrastata e curata nello stesso modo in cui ci difendiamo dalle infermità.”

MUSICA
A cura di Paolo Predieri

Due spettacoli musicali e multimediali che in questo periodo sono proposti in diverse città hanno come promotori e protagonisti amici della nonviolenza di lunga data, obiettori al servizio militare e alle spese militari, attivisti del Mir e del Movimento Nonviolento. Abbiamo contattato Gianni Penazzi e Lorenzo Fazioni e ci siamo fatti raccontare qualcosa della loro attività.
Com’è nata la vostra aggregazione fra arte e impegno per la nonviolenza?
Gianni: L’arte è una via privilegiata della comunicazione. La nonviolenza è ciò di cui l’umanità oggi ha più bisogno. Parafrasando Dostojevskij “la bellezza-nonviolenza ci salverà”. L’oggetto della nostra comunicazione è la cultura della nonviolenza, con tutto il suo corollario di solidarietà, condivisione, ascolto, pace, spiritualità, giustizia, perdono… Il Gruppojamin-à (trio acustico con voce narrante e danzatrice) rappresenta la confluenza di personali percorsi nel diuturno tentativo di aprire nuovi cammini. “Aveva un solco lungo il viso”, è uno spettacolo multimediale ispirato alla poetica e alla musica di Fabrizio De Andrè e Georges Brassens. Canzoni note e meno note si intrecciano ai passi di danza teatrale, alla lettura di brani poetici e letterari (Luzi, Cardinal, Brecht, Malatesta, Borges, don Milani, Dino Campana, Testori, Pasolini, Etty Hillesum…) attraversando i territori dell’amore, della spiritualità, della società, della pace: quattro quadri organizzati a raggruppamenti ed evocati dal filmato alle spalle dell’ensemble.
Viviamo in un momento storico in cui l’indebita importanza attribuita all’economia ci ha fatti precipitare in una vasta crisi i cui segni sono il fallimento della politica, delle religioni, della cultura/scuola… “Aveva un solco lungo il viso” è anche uno scatto d’orgoglio, una dichiarazione d’ indignazione; testi, poesie, preghiere offerte al mondo perché possano germinare consapevolezza.
Lorenzo: Il “Laboratorio Musicale L. Da Vinci” è nato in un Istituto Statale di Cerea (VR) 4 anni or sono coinvolgendo ex studenti ed insegnanti. Abbiamo così iniziato un lavoro di sperimentazione, scegliendo ed arrangiando musiche che hanno come principale filo conduttore il tema del “rispetto” e della “nonviolenza”.Questo ci ha portato a condividere un percorso musicale che si propone di trasmettere non solo le sensazioni piacevoli che proviamo noi nell’eseguire le canzoni ma anche un’energia positiva e un pensiero che aiutino a condannare ogni forma di prevaricazione e a ricostruire una società più evoluta, in cui ci sia rispetto e sensibilità verso “gli altri” e innanzitutto verso la vita. Per questo le nostre proposte musicali vanno dall’impegno contro la guerra (di recente abbiamo tenuto un concerto in occasione del giorno della memoria) a suggestioni etniche e sonorità di popoli e terre diverse. Pensiamo così di portare un messaggio di solidarietà sempre tenendo come obiettivo primario quello della condivisione di “un viaggio” tra noi e chi ci ascolta. Che risposta trovate nelle persone che seguono i vostri spettacoli?
Gianni: Intanto un interesse intergenerazionale. Don Milani diceva che “La parola rende uguali”. Se le parola è l’articolazione di un suono, il suono è comunicazione sottile: la musica è un possibile ponte che stiamo cercando tra individualità, moltitudini, etnie, popoli. La ohm preghiera o mantra autoarmonico prolunga la vibrazione primordiale secondo la quale il mondo è stato creato (cosmogonia tibetana). Nella cosmogonia cristiana c’è qualcosa di inquietante e molto simile. Nel prologo del Vangelo di Giovanni è scritto: “In principio era il Verbo e il verbo era presso Dio, e il verbo era Dio” dunque se il Verbo sta per parola e se la parola altro non è che l’articolazione di un suono… ecco la convergenza tra le due grandi religioni. Da una parte il suono-parola che genera, dall’altra ugualmente la parola-suono che genera creativamente.
Lorenzo: La risposta del pubblico è stata molto stimolante, con una partecipazione vissuta che si rivela non solo dagli applausi ma dalla voglia di parlare con noi a fine concerto e di tenere i contatti. Per questo da circa un anno funziona un indirizzo mail con una lista sempre crescente di amici. Con loro condividiamo le nostre idee e diamo informazioni varie. Di recente abbiamo lanciato la proposta di inviare aforismi e frasi significative e la cosa sta avendo un buon successo. Tutto questo ci dà entusiasmo e voglia di continuare perché ,come ci piace in ogni spettacolo ricordare al pubblico, se oltre alle note musicali è giunto il nostro messaggio, abbiamo la soddisfazione di esserci divertiti e anche la speranza di aver fatto qualcosa di utile.
Per contatti:
Gruppojamin-a
http://xoomer.virgilio.it/gruppojamin
giannipenazzi@infinito.it
Laboratorio Musicale L.Da Vinci
labodavinci@email.it
r.fazioni@email.it

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
Un film tutto da sentire o da vedere ad occhi chiusi

ROSSO COME IL CIELO
La “favola sonora” di Cristiano Bortone
di Cristiano Bortone, Italia, 2006

Vedere, ad occhi chiusi, il mondo, che non è fatto di pura immagine, ma di suoni, vibrazioni, fruscii. Distogliere lo sguardo distratto e imparare a guardare toccando e fantasticando. In un epoca come la nostra in cui il contatto tra gli uomini sembra relegato al mezzo tecnologico, Rosso come il Cielo “diseduca” all’immagine e arriva dritto al cuore. Non ha avuto paura (doverosa la citazione dal duo Ammaniti-Salvatores) il regista Cristiano Bortone (L’erba proibita, Sono Positivo), anche produttore insieme a Daniele Mazzocca (Orisa), di affrontare un film sull’handicap, interpretato da bambini, ma privandolo dei consueti pietismi e stereotipi. Rosso come il cielo ricorda molto di più la delicatezza e la fantasia di Io non ho paura, piuttosto che l’essenzialità, giusta ma non priva di calcolo, con cui Gianni Amelio raccontava la “diversa abilità” ne Le chiavi di Casa. Nel 1971, quando la legge italiana ancora negava la scuola pubblica ai non vedenti, Mirco (Luca Capriotti), un ragazzino di 10 anni con la passione per i western, si procura un danno irreparabile alla vista giocando con il fucile del padre. Viene rinchiuso nell’Istituto per ciechi “David Chiossone” di Genova, gestito dalle immancabili suore intransigenti; eppure Mirco continua a rispondere “sì” ai vari “tu ci vedi?”. La sua risposta è un evidente rifiuto della propria condizione: il ragazzino impara a vedere sentendo, nel buio di immagini ricordate, con l’ausilio di un registratore a bobine grazie a cui cattura i rumori del mondo, per merito dell’interesse da parte di Don Giulio (Paolo Sassanelli, La capa gira, Ora o mai più). Mirco, insieme al suo gruppetto, orchestra una “favola sonora” tutta composta da rumori poi montati insieme. Quando i ragazzi si recano di nascosto al cinema grazie all’unica ragazzina vedente, nonché fidanzatina di Mirco, il film si fa riflessione sull’inconscio della visione, sulla potenza della dimensione sonora e quindi sul cinema stesso. Le conseguenze di questi piccoli atti di rivolta sono fatali a tal punto da vedere Mirco espulso dal collegio. Al diffondersi della notizia le rivolte studentesche, nel frattempo esplose, si indirizzano verso un nuovo obiettivo, il Chiossone, ottenendo così l’apertura di un’inchiesta sulla gestione dell’Istituto e la riammissione di Mirco. Potrebbero sembrare questi gli ingredienti per una storia a lieto fine di dickensiana ispirazione. Invece, è la storia vera di Mirco Mencacci, uno dei sound designer di maggior talento del cinema italiano (La finestra di Fronte, La meglio Gioventù tra i vari titoli), nonché musicista e produttore musicale. Forse proprio in quanto frutto di un’appassionata ricerca su una realtà sconosciuta, tra cui un training speciale per tutti gli attori che ha messo questi in relazione con i piccoli non vedenti, il film sorprende per il suo realismo magico e in nessun momento banale. Bortone e i suoi giovani interpreti ci accompagnano in punta di piedi in una dimensione fatta di suggestioni sonore in cui gli occhi non sono necessari, sebbene molto curato sia anche l’aspetto visivo del film, in particolare le inquadrature ad ampio respiro della campagna toscana e le scenografie dell’istituto. Pur incentrandosi quasi completamente sulla “sovversiva” creazione del poema sonoro, i progressi dei ragazzini, la cui tenerezza è spontanea (molto di più e meglio di Les Choristes, altro film paragonabile) seguono un ritmo incalzante di un appassionato crescendo, supportato dalle bellissime musiche di Ezio Bosso (Io non ho paura, di cui mantiene lo stile, Quo Vadis baby? ). Si riflette sulla diversità fisica senza indugiare nei classici sensi di colpa del momento, che raramente lasciano il posto a dei contenuti veri. Ma Rosso come il cielo è anche un’eccezionale affresco di autentica umanità, offerta da un giovane regista (nonché artista visuale) molto meno famoso di quei tanti nomi il cui originario talento si è trasformato in ingannevole manierismo.
Daniela Scotto

LIBRI
A cura di Sergio Albesano
Veri racconti di migranti e bulli

G. DI BENEDETTO, Il naufragio e la notte, Mimesis, Milano 2007, pp. 171, euro 16,00.

Il libro, profondo ma agile, è la narrazione di eventi recentissimi (tutti gli scritti che lo compongono risalgono al periodo che va dal 2001 a oggi), redatta da chi a quegli eventi ha partecipato personalmente, con passione militante e amore del prossimo. La prima parte è una vera e propria ricerca teorica in cui l’autore dà conto del rapporto complesso tra globalizzazione e flussi migratori, che costituiscono in realtà “la risultante dell’incrocio, molto spesso simultanea, di una molteplicità di fattori relativi a dimensioni di ordine sociale, culturale, economico e psicologico” (p. 23). Qui la sociologia del potere mette in luce la costruzione ufficiale del discorso sui cosiddetti clandestini, chiarendo come lo straniero non esista se non come invenzione, come funzione dei concetti di confine e di identità, intesa, quest’ultima, in senso chiuso. Giovanni Di Benedetto propone di sostituire all’idea di confine, fondata sulla separazione e sull’esclusione, quella di soglia, centrata sull’accoglienza e sul meticciamento. Attraverso la soglia si costruiscono identità nuove, plurali, ricche di una teoria e di una pratica di socializzazione che sono portatrici di una “comunità che viene”.
Nella seconda parte del volume Di Benedetto racconta il ruolo di Agrigento nella questione migrante: il naufragio di Capo Rossello, le vicende della Cap Anamur, gli sbarchi che “sono spesso il frutto avvelenato determinato da inique e ingiuste forme di sfruttamento economico riconducibili, nella veste di un moderno ed arrogante neocolonialismo, agli stessi paesi dell’Occidente ricco” (p. 110), le lotte, a cui l’autore ha partecipato in prima persona, per la chiusura dei cosiddetti campi di permanenza temporanea di cui vengono ricordate le infamie (come la vera e propria marchiatura dei quarantun migranti sudanesi effettuata dalla questura di quella città nel 2001), il rapporto con il business dell’accoglienza, i pregi e i limiti del volontariato, la logica del campo di segregazione. Così indagine concreta e individuazione dei conflitti specifici si saldano pienamente con l’analisi teorica di livello macro fino a far intravedere le condizioni di possibilità della fondazione di una cultura dell’ascolto dell’altro e di una politica dell’uguaglianza giuridica (cittadinanza, diritto alla casa, diritti elettorali).
E’ proprio per questo che il libro, a nostro parere, si segnala, cioè per la sapiente capacità che l’autore (insegnante di storia e filosofia) mostra nell’amalgamare considerazioni teoriche di carattere storico e sociologico più generale, racconto di eventi, richiami filosofici (da Platone a Spinoza, da Arendt a Foucault e via dicendo) e indicazioni di rivendicazioni e forme conflittuali da portare avanti per il cambiamento delle politiche istituzionali come anche delle dinamiche culturali che non portino più a concepire i migranti come clandestini ma come persone.
Andrea Cozzo

E. BUCCOLIERO, Tutto normale, La meridiana, Molfetta (Bari) 2006.

I racconti di Tutto normale, che riporta come sottotitolo “Bulli, vittime, spettatori”, sono veramente accaduti e ben noti all’autrice. Da anni la Buccoliero si interessa, con competenza e professionalità riconosciute, al bullismo, con importanti pubblicazioni e un’intensa attività di formazione rivolta a insegnanti, genitori e studenti. E’ stata recentemente chiamata a partecipare ai lavori della Commissione nazionale sul bullismo istituita presso il Ministero della Pubblica Istruzione. Una lunga pratica di ascolto e attenzione nei confronti di adolescenti, protagonisti di ordinaria violenza e sopraffazione, dei loro genitori, degli insegnanti, di altre persone coinvolte si traduce in un testo commovente e coinvolgente. Non sono infatti solo racconti veri, sono veri racconti.
I lettori di “Azione nonviolenta” hanno già avuto modo di apprezzare i suoi interventi, sempre attenti e ben scritti. Forse non molti sanno che la scrittura è per l’autrice una vera passione, alla quale dedica gran parte del tempo che le rimane, assolti i molti impegni della sua lunga giornata. I risultati si vedono. La qualità della scrittura permette di cogliere appieno la sofferenza e la chiusura che adolescenti e adulti sperimentano in situazioni di violenza. Si intravvedono anche percorsi di apertura e liberazione, difficili ma non impossibili.
I racconti interessano tutti: gli adolescenti in primo luogo, per la possibilità che deve essere loro data di divenire adulti migliori di quelli che si trovano ad avere come riferimento, e gli adulti, genitori e insegnanti in primo luogo, coinvolti nel faticoso privilegio di accompagnare responsabilmente la libertà e lo sviluppo dei giovani e tenuti, almeno, a non dare esempio di conformismo, indifferenza, arrivismo.
Daniele Lugli

LETTERE
Scrivere alla Redazione Ricevere, leggere, condividere
Azione nonviolenta è una festa…

Caro Direttore,
grazie. Mercoledì sera, tornando a casa dopo la giornata universitaria, ho trovato il numero di Azione nonviolenta di Gennaio-Febbraio che ti avevo chiesto lunedì. Ti ringrazio per l’immediata sollecitudine nel riparare errori (ennesimi errori!) non certo tuoi o di altri del Movimento, ma delle Poste Italiane. Grazie mille! L’immediata disponibilità e celerità dopo la mia email sono state straordinarie.
E ti lascio solo immaginare con quanta gioia e voglia, già la sera stessa, ho letteralmente divorato la rivista. Mentre la leggevo, tra l’altro, mi è venuto in mente anche un dato al quale prima non avevo pensato: era da dicembre che non sfogliavo Azione nonviolenta. Per la combinazione dei tempi sono passati ben 3 mesi tra questo numero e il precedente. Il piacere quindi di ritrovare, dopo tutto questo tempo un caro amico, uno strumento ed un luogo di riflessione, di approfondimento lontano e diverso dall’omologazione, dai pensieri unici, dalle verità che tali non sono, è stato immenso. Noto poi che è stata cambiata la grafica della rivista. Lo noto con un po’ di malinconia perché mi ero ormai affezionato ai colori e alla struttura classica, che mi era diventata familiare. In questa maniera però i colori sono più vivaci e risaltano di più. Speriamo che i colori “grafici” si possano portare dietro e far brillare sempre più anche i colori della pace e della nonviolenza, della vita e dell’antimilitarismo. Bella anche la scelta di inserire le foto dei relatori al convegno, i cui atti sono stati pubblicati. Danno un tocco di umanità e di familiarità. Sentiamo spesso parlare di molti di loro e dei loro studi, così come leggiamo i loro articoli. Magari li ammiriamo pure, ma se li incontrassimo per strada non riusciremmo a riconoscerli.
In chiusura un accenno alla ironica e provocante lettera di una ragazza che “ha avuto la sfortuna di avere due genitori nonviolenti”. Carina e spassosissima sicuramente, ma anche interessante come spunto di riflessione. Perché smonta qualsiasi nostro comportamento integralista, non dialogante ma dogmatico, e insinua il dubbio nelle nostre certezze. Ci interroga e ci aiuta a rimetterci in discussione, ad analizzare a approfondire i nostri comportamenti perché non siano mai superficiali e dettati da scelte pregiudizievoli e preconcette.
Non voglio farti perdere troppo del tuo preziosissimo tempo, tempo troppo importante per la pace e la nonviolenza in questa nostra cara e povera Italia, già vittima di ideologismi, militarismi, fascismi e compagnia macabramente danzante perché si aggiungano anche i romanticismi di un ragazzo pazzerello di provincia. Chiudo quindi celermente e ti invio un grande abbraccio carico di Vita, speranza, resistenza, amore e gioia.
Alessio Di Florio

Caro Direttore,
ciao! Ti scrivo solo per dire che ho letto la lettera di Gerardo Orsi, pubblicata nel numero di Azione nonviolenta di dicembre 2006, relativa alla celebrazione della festa della Repubblica, e ho assolutamente condiviso la proposta. L’ho trovata intelligente, sensata, nonviolenta….una bella idea. Voglio dire che ci sto anch’io. Se, però, aspettiamo di proporla al governo e al parlamento credo che la cosa andrà per le lunghe, quindi organizziamola noi, magari già per questo anno. Io voglio partecipare e non mancherò di passare parola.
Parafrasando Tiziano Terzani……”anch’io faccio parte dell’Organizzazione!”.
Roberta Tenca

Caro Direttore,
si fa strada il messaggio che la droga sia un bene di consumo normale, a tal punto da pensare che assumere stupefacenti sia un passatempo accettabile, tutto all’interno di un’accezione diventata normalità.
Pezzi di vita immatura ammucchiata addosso a giovanissimi inconsapevoli del cappio al collo, costruito da una diseducazione che è prettamente genitoriale, e poi professorale, a tal punto da divenire cultura della fatica non eccessiva, della responsabilità che è sempre altrui, del male minore, sempre che ciò accada un passo, meglio due, più in là della nostra dimora illusoriamente intoccabile.
Non è possibile entrare in una scuola e leggere negli sguardi dei ragazzi l’inquietudine della colpa, anestetizzata dallo scampato pericolo, perché stamattina il coma etilico è toccato a un altro.
A una Giustizia giusta non appartiene la sanzione punitiva nei riguardi di una tossicodipendenza che annienta dignità e capacità di amare, aiutare non può significare incarcerare né mutilare ulteriormente la personalità più fragile.
Chi scrive non è maestro né educatore, neppure possiede grandi consigli da donare, o intuizioni geniali per arginare questo sgretolamento sociale, di certo però non riesco a pensare una droga compatibile, o collettivamente tollerabile, forse è necessario più semplicemente non tacere, non avere timori ad andare controtendenza, impattando senza indugio le icone della trasgressione, in forza delle tragedie che ci portiamo addosso, memoria indelebile per smetterla di sparare alle spalle dei più giovani.
Vincenzo Andraus

Di Fabio