• 23 Novembre 2024 21:35

Azione nonviolenta – Dicembre 1999

DiFabio

Feb 6, 1999

Azione nonviolenta dicembre 1999

– La vita di Aldo Capitini religioso, antifascista, vegetariano, nonviolento
– La democrazia, i partiti e il potere dal basso, di Aldo Capitini
– La nonviolenza attiva per trasformare la società
– La riforma religiosa e l’impegno per la pace
– Le tecniche della nonviolenza attiva

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NEL CENTENARIO DELLA NASCITA
La vita di Aldo Capitini religioso, antifascista, vegetariano, nonviolento

Biografia a cura di Lanfranco Mencaroni

Aldo Capitini nasce a Perugia il 23 dicembre 1899, in un piccolo appartamento, sotto la torre campanaria del Municipio, dove il padre, impiegato comunale, viveva come custode del campanile e addetto alle campane. Dalla finestra del suo studiolo si vedeva la grande valle umbra ai piedi del monte Subasio, con Assisi adagiata alle sue falde.

La madre era sarta e casalinga. Per la povertà della famiglia fu avviato agli studi tecnici, meno costosi.

Nel 1919, dopo aver conseguito la licenza dell’Istituto tecnico, si autofinanziò facendo il precettore e si sottopose come autodidatta agli amati studi classici, con un notevole sforzo fisico che, a causa della sua gracile corporatura, gli procurò un forte esaurimento.

Cosicché, come poi ricorderà, accanto alla conoscenza dei classici, di Leopardi, della Bibbia, conoscerà precocemente l’esperienza della finitezza della vita, del dolore fisico, dell’inattività forzata.

Nel 1924, l’anno in cui i fascisti assassinarono il deputato socialista Giacomo Matteotti e formalizzarono la dittatura, Capitini sosteneva da privatista l’esame di licenza liceale a Perugia.

Gli ottimi voti gli permisero di vincere una borsa di studio alla Scuola Normale Superiore di Pisa, diretta da Giovanni Gentile.

Si iscrisse in quella Università alla Facoltà di Lettere e Filosofia, dove conobbe grandi docenti antifascisti come Attilio Momigliano e Manara Valgimigli.

Nel 1928 conseguì la laurea a pieni voti e lode con una tesi su “Realismo e serenità in alcuni poeti italiani”.

Nel 1929 prese il diploma di perfezionamento con una tesi sui canti di Leopardi, seguita da Momigliano di cui diventa assistente volontario.

Dal 1930 al 1933 rimase come segretario economo alla “Normale” . Con numerosi docenti e normalisti inizia una attività antifascista e trasferisce la sua ricerca dalla letteratura alla filosofia, collaborando strettamente con Claudio Baglietto, nonviolento e obiettore di coscienza, motivo per il quale morì esule in Svizzera nel 1940.

Nel 1933, avendo rifiutato la tessera fascista, Gentile lo allontanò dalla Normale, e Capitini tornò a Perugia, nella casa del padre, dove vive poveramente con lezioni private fino al termine della guerra.

L’avversione al fascismo inizialmente morale divenne anche religiosa dopo il concordato raggiunto fra Mussolini e il Vaticano nel 1929. Il sostegno aperto offerto dalla Chiesa Cattolica allo stato fascista lo convinse a lavorare teoricamente e praticamente per il ritorno della democrazia e per una riforma religiosa.

Contro la violenza, ostentata quotidianamente dal fascismo e non contrastata dalla Chiesa, prese da Gandhi l’idea del metodo nonviolento impostato sulla non collaborazione, da Francesco d’Assisi il richiamo ai valori originari del cristianesimo, dal pensiero moderno quella che chiamò la serissima applicazione dei principi di libertà, di fratellanza, di eguaglianza.

Contro l’esaltazione e la preparazione delle guerre fasciste, divenne vegetariano, per marcare con decisione il rifiuto di uccidere gli esseri umani e subumani.

Continuò i suoi studi filosofici e, per il suo lavoro politico, prese contatti con gli antifascisti perugini, operai, artigiani, intellettuali e con quelli delle altre regioni, recandosi in molte città o accogliendoli a Perugia.

Nel 1937, con l’aiuto di Benedetto Croce, fu pubblicato il suo primo libro di filosofia e religione, “ELEMENTI DI UN’ESPERIENZA RELIGIOSA”, che sfuggì, per il suo tema, all’ignorante censura fascista, ma fu accolto con favore dagli intellettuali democratici.

Negli anni della dittatura fascista, scrisse altri tre libri: “VITA RELIGIOSA” nel 1942, “ATTI DELLA PRESENZA APERTA” nel 1943, “LA REALTA’ DI TUTTI” nel 1944.

Con questi quattro libri Capitini ricorda di aver già delineato in quel tempo una posizione teorico pratica di riforma, assolutamente nuova nel panorama del novecento italiano.

Nell’ultima parte degli “ELEMENTI DI UN’ESPERIENZA RELIGIOSA”, Aldo Capitini esponeva le idee del “liberalsocialismo”, un movimento che lanciò insieme al filosofo Guido Calogero. Sorsero ben presto numerosi gruppi clandestini di sostenitori, che tennero le loro prime riunioni a Perugia, ad Assisi, a Firenze: tra le molte adesioni ricordiamo quelle di Walter Binni, Norberto Bobbio, Cesare Luporini, Francesco Flora, Tristano Codignola, Carlo Ludovico Ragghianti, Ranuccio Bianchi Bandinelli. Nel 1940 comparve il primo manifesto del Movimento Liberalsocialista, redatto da Calogero.

Nel 1942 a Firenze, Aldo Capitini viene per la prima volta imprigionato per quattro mesi e insieme a lui molti aderenti al Movimento.

Nel maggio del 1943 a Perugia viene nuovamente imprigionato insieme a numerosi antifascisti e liberato per la caduta di Mussolini, dopo il 25 luglio.

Nell’agosto del 1943 a Firenze si riuniscono gli aderenti del Movimento Liberalsocialista per dar vita al Partito d’Azione. Capitini espone nello scritto “Orientamento per una nuova socialità” la sua posizione critica verso la nascita di un nuovo partito e la sua proposta che i gruppi liberalsocialisti rimanessero un movimento di opinione e di pressione politica.

Questa proposta non fu accolta, il Partito d’Azione fu fondato ma durò pochi anni: egli non aderì e rimase per tutta la vita liberalsocialista e “indipendente di sinistra”, definizione da lui coniata.

L’8 settembre 1944 segnò l’inizio per l’Italia della resistenza armata contro i nazifascisti.

I pochi persuasi della nonviolenza, come Capitini, nulla poterono organizzare – come lui stesso scrisse – di coerente, efficiente e conseguente a quella posizione: la lezione che ne trassero fu che bisogna preparare la strategia e i legami nonviolenti prima, per metterli in atto quando occorra, come sarebbe stato importante fare nell’Italia del 1924 o nella Germania del 1933.

L’entusiasmo per la vittoria delle armi e la scelta di Capitini di rimanere indipendente dai partiti, rinati alla democrazia, misero ben presto in ombra il ricordo della sua decennale resistenza non armata, efficace, estesa a tutta l’Italia, suggellata dalle due incarcerazioni.

La sua posizione politica di sinistra, ma critica dei totalitarismi e la sua figura di libero religioso nonviolento, critico dei dogmi e delle istituzioni vaticane, contribuirono al suo isolamento nel panorama italiano, che si polarizzava sempre più, sotto la spinta degli eventi internazionali, nei due schieramenti guidati dai cattolici e dai marxisti.

Liberata Perugia nel giugno 1944, Capitini, per tradurre nella realtà il suo atteggiamento liberalsocialista e il suo contributo teorico alla democrazia con il potere di tutti, già il 17 luglio apre in città il Centro di Orientamento Sociale, C.O.S., esperimento di assemblea bisettimanale per discussioni aperte a tutti, su tutti i problemi amministrativi e politici, alla quale venivano invitati, per ascoltare e parlare, dirigenti di partiti, amministratori, esperti di ogni tendenza.

I C.O.S., nel fervore della ritrovata democrazia, ebbero successo e si diffusero in Umbria e in Italia, soprattutto nelle zone d’influenza della sinistra.

Alcuni durarono fino a tre anni, poi si chiusero per la prevista e crescente insofferenza dei politici e degli amministratori a sottoporsi al controllo stretto degli elettori.

Nel 1946 Capitini dà il via anche al “Movimento di religione”. La riforma di Capitini tiene conto delle critiche mosse da quattro secoli di filosofia laica alle religioni tradizionali sia sul piano teorico che su quello storico delle origini e delle fonti; ma riafferma la verità e il bisogno di religione. “Il dolore, il rimorso, il pensiero della morte sono sempre veri; ed è qui che sorge la religione” scrive nel suo primo libro. La riforma chiama i religiosi ad aprirsi e incontrarsi in centri aperti, senza alcuna discriminazione tra battezzati e non battezzati, tra iscritti e non iscritti, tra cittadini e stranieri. Le parrocchie, le moschee, le sinagoghe, i templi, ecc. dovrebbero, aprendosi, diventare centri in cui poter vivere la comune religiosità nella “compresenza” di tutti, morti e viventi, “compresenza” che è, per Aldo Capitini, il luogo, il nome “plurale” di Dio, dove e quando, rivolgendoci a Lui, ci rivolgiamo a tutti.

Come ricorda Bobbio, “la ragione per cui, in Capitini, la battaglia contro la chiesa e la battaglia contro lo stato si confondono, si sovrappongono, è che il nemico è sempre lo stesso: il potere che viene dall’alto, anche se viene esercitato là con la coercizione spirituale, qua con la coazione fisica”. Nell’omnicrazia, nel potere di tutti, scrive Capitini, “è l’uomo religioso, post-umanistico, che vuole vivere unito con tutti nella massima solidarietà, anche al di là della morte, e perciò tende a costituire una società nuova in una realtà che abbia consumato tutti i vecchi limiti, compresi il dolore e la morte”.

Sul tema di questa riforma aperta e moderna si tennero, per iniziativa di Capitini, numerosi convegni in Italia, fino al 1954, fra i quali uno molto affollato a Roma nel 1948.

Nello stesso 1948 usciva il libro “IL PROBLEMA RELIGIOSO ATTUALE”.

La conquista del potere da parte dei cattolici, accaduta anch’essa in quell’anno, provocò la diminuzione di coraggio e d’interesse nel trattamento di un tema così rivoluzionario per l’Italia: le adesioni andarono calando, mentre, con la trasformazione della economia da agricola a industriale, si facevano largo gli allettamenti assai poco religiosi della società dei consumi.

Non diminuiva certamente l’impegno persuaso di Aldo Capitini, che dal 6 aprile del 1951 cominciò a spedire agli amici quelle “LETTERE DI RELIGIONE” che sono raccolte postume nel volume “IL POTERE DI TUTTI” e che nel 1952 aprì a Perugia il Centro di Orientamento Religioso, il C.O.R., per settimanali conversazioni di soggetto religioso, rimasto aperto a tutti e attivo fino alla sua morte nel 1968.

Dal 1946 era tornato a Pisa come incaricato di Filosofia Morale, poi dal 1956 insegnò pedagogia come professore universitario prima a Cagliari, poi a Perugia, nella quale aveva mantenuto la residenza.

Della “nonviolenza”, Capitini è stato senza dubbio, con libri e convegni, il più attivo studioso e propagatore, tanto da essere ricordato tuttora come il “Gandhi” italiano: nel 1949 pubblicava “ITALIA NONVIOLENTA”.

Dopo l’arresto e il processo di Pietro Pinna, il primo obiettore di coscienza italiano, Capitini iniziava la campagna a favore dell’obiezione di coscienza, e organizzò il primo Convegno italiano sul tema, che si tenne a Roma nel 1950.

Nello stesso anno uscì il libro “NUOVA SOCIALITA’ E RIFORMA RELIGIOSA”, ancora sui legami tra persuasione religiosa e impegno sociale e politico.

Nel 1951, usciva il primo libro di pedagogia di Capitini, “L’ATTO DI EDUCARE”. In esso cominciava a sviluppare la sua pedagogia, basata principalmente su quella che lui chiamava la “tensione” da trasmettere ai giovani per capire e rifiutare l’insufficienza della realtà in cui nasciamo e viviamo; una pedagogia di ribellione, quindi, e di lotta per quei valori che dovranno liberare la realtà dalla violenza e dall’oppressione, che la trasformeranno nella “realtà di tutti”.

A ricordare la morte di Gandhi, avvenuta il 30 gennaio del 1948, Capitini organizzò nel gennaio del 1951 a Perugia un “Convegno internazionale per la Nonviolenza” e in settembre un convegno di studi su “La Nonviolenza riguardo il mondo animale e vegetale”, dal quale ebbe origine la “Società vegetariana italiana”.

Nel 1955 Capitini pubblicò il testo di “RELIGIONE APERTA” con i temi di religione cui abbiamo accennato; l’8 febbraio il Sant’Uffizio lo pose all’Indice.

In risposta alla condanna, Capitini pubblicò nel 1957 il libro “DISCUTO LA RELIGIONE DI PIO XII” (il papa in quel tempo regnante), anch’esso posto all’Indice.

Dopo la morte di Pio XII°, con il pontificato di Giovanni XXIII° la Chiesa cattolica parlò di apertura nel Concilio Vaticano II°, ma la resistenza del vecchio apparato romano limitò lo slancio delle intenzioni e Capitini nel 1966 rinnovò ai cattolici l’incitamento a un’apertura molto più ardita e necessaria, attraverso il suo libro “SEVERITA’ RELIGIOSA PER IL CONCILIO”.

In seguito a un processo svoltosi a Firenze nel febbraio 1958, promosso dai coniugi Bellandi di Prato contro il vescovo cattolico della città, che li aveva accusati di essere “concubini” per essersi sposati soltanto con il matrimonio civile, processo seguito con molto interesse dall’opinione pubblica italiana già sensibile a certi temi, Capitini scrisse, imitato da una cinquantina di perugini, una lettera al vescovo di Perugia, chiedendo di essere cancellato dall’elenco dei battezzati, simbolo, a suo parere, di sudditanza forzosa all’autorità non più riconosciuta della Chiesa.

Sul tema Capitini scrisse nel 1962 un libro, “BATTEZZATI NON CREDENTI”.

Nel 1959 con altri docenti universitari fondava l’A.D.E.S.S.P.I. (Associazione per la difesa e lo sviluppo della Scuola Pubblica Italiana).

Nel 1958 usciva il libro “AGGIUNTA RELIGIOSA ALL’OPPOSIZIONE” in cui Capitini ribadisce la sua convinzione sull’insufficienza politica della sinistra, priva di una componente religiosa nonviolenta, e sulla utilità di un’aggiunta religiosa che aiuti l’opposizione a liberarsi dal compromesso con le vecchie tradizioni e i vecchi centri di potere vaticani, ad aprirsi ai grandi rivolgimenti mondiali, a lavorare per l’incontro fra libertà e socialismo, fra Oriente e Occidente.

Nel 1960 visitò a Barbiana il prete cattolico don Lorenzo Milani. Agli amici intellettuali che venivano a visitarlo, don Milani chiedeva di parlare ai ragazzi e di farsi interrogare da loro e da lui: cosa che fece anche con Aldo Capitini, concentrando domande e risposte sul tema della nonviolenza. Capitini, fra l’altro, promise di realizzare un’idea di don Milani: pubblicare un “GIORNALE SCUOLA”, pensato per la maggior parte dei lavoratori di allora, incapaci di affrontare letture difficili per la loro preparazione scolastica. Un giornale di un solo foglio, con un solo articolo per un tema importante e con il resto dello spazio dedicato alla spiegazione lessicale, geografica, storica, politica dell’articolo. Il “Giornale Scuola” fu pubblicato per quattro numeri mensili e diffuso in Umbria e in Italia da amici e conoscenti, con l’iniziale appoggio dei sindacati, poi venuto meno, per cui chiuse in mancanza di fondi.

Il 24 settembre 1961, organizzata dal Centro per la Nonviolenza, diretto da Capitini, si svolse da Perugia ad Assisi la I° Marcia per la Pace, che ebbe molto successo di partecipazione tra i lavoratori, i giovani e gli intellettuali di tutta l’Italia. Dalla Marcia presero avvio la “Consulta italiana per la pace”, che fu, sotto la presidenza di Capitini, una federazione delle organizzazioni italiane per la pace, il “Movimento Nonviolento per la pace”, il periodico “Azione nonviolenta” diretto da Capitini fino alla morte.

Sulla Marcia per la Pace, Perugia – Assisi, Capitini scrisse il libro testimonianza “IN CAMMINO PER LA PACE” pubblicato da Einaudi.

Gli anni ’60 videro Capitini proseguire nel suo discorso teorico e pratico sulla necessità di costruire “il massimo di socialismo insieme al massimo di libertà”, utilizzando naturalmente le “tecniche della nonviolenza”. Nel 1963 propose, insieme a un amico comunista, ancora una volta senza ascolto, la creazione a sinistra di una “corrente rivoluzionaria nonviolenta”.

Nel 1964, sui temi della partecipazione dei cittadini al potere, dei problemi della vita pubblica, dei mezzi e dei modi a disposizione dei cittadini per il controllo dal basso delle istituzioni, Capitini, insieme a un piccolo gruppo di amici, fondò a Perugia e diffuse in tutta Italia un mensile chiamato “IL POTERE E’ DI TUTTI”, che si pubblicò fino alla sua morte.

Fra i temi trattati: il controllo dal basso e il potere di tutti nell’economia e nella distribuzione del reddito, nelle fabbriche, in agricoltura, nelle città e nei villaggi, per le donne, nei sindacati, nel tempo libero, nelle scuole e nelle Università, nella sanità, nelle elezioni, nell’opinione pubblica, nei mass-media, per la pace, ecc.

Sui temi politici e civili a lui cari, sempre nel 1964, uscì il libro “L’EDUCAZIONE CIVICA NELLA SCUOLA E NELLA VITA SOCIALE” e nel 1967 fu stampato presso il libro sulle “TECNICHE DELLA NONVIOLENZA”.

Strettamente connessa al lavoro politico, che Capitini, come abbiamo visto, considerava la necessaria realizzazione della vita religiosa, proseguiva la ricerca teorica : nel 1966 fu pubblicata la summa del suo pensiero religioso, “LA COMPRESENZA DEI MORTI E DEI VIVENTI”, che ottenne nel 1967 il “Premio straordinario Viareggio”.

Per la pedagogia usciva, ancora nel 1967, “EDUCAZIONE APERTA”.

Il 19 ottobre 1968 Capitini morì a Perugia in seguito a un intervento chirurgico.

Nel libro postumo “IL POTERE DI TUTTI”, uscito nel 1969 sono raccolti la sua ultima opera politica “Omnicrazia”, alcuni interventi nel mensile “Il Potere è di tutti”, la raccolta completa delle “Lettere di religione”.

Nel 1978 è uscita la ristampa anastatica della rivista “IL POTERE E’ DI TUTTI”.

Nel 1988, a cura del Comune di Perugia, è stata ripubblicata l’autobiografia, “ATTRAVERSO DUE TERZI DI SECOLO”.

Nel 1992 e nel 1995 sono usciti il primo e il secondo volume della sua OPERA OMNIA, programmata in cinque volumi a cura della Regione dell’Umbria, della Provincia di Perugia, del Comune di Perugia.

UNO SCRITTO D’ATTUALITA’, DI TRENT’ANNI FA
La democrazia, i partiti e il potere dal basso

di Aldo Capitini

Alcuni lettori del primo numero del nostro giornale ci hanno invitato a chiarire il nostro pensiero sul rapporto che dovrebbe intercorrere fra gli organismi di democrazia diretta da noi auspicati e i partiti che agiscono nello schieramento politico italiano.
Trattandosi di un argomento molto importante e tuttora oggetto di ampia discussione, abbiamo deciso di affrontarlo in questo secondo numero, aprendo un dibattito al quale fin d’ora invitiamo i nostri amici lettori.
Facciamo due osservazioni preliminari. La prima è che siamo del tutto estranei alla polemica qualunquistica contro il regime parlamentare e contro i partiti che gli danno vita.
Malgrado tutto, consideriamo la presenza e la competizione dei partiti politici come la più alta espressione raggiunta nella società italiana dal potere popolare.
La consideriamo, anzi, una conquista del movimento popolare, strappata con lotte dolorose alle classi borghesi dirigenti nel nostro paese, che per trenta anni hanno potuto imporre a tutti il regime più conveniente ai loro interessi, il regime fascista.
Condanniamo perciò ogni polemica contro il regime attuale la quale non si ponga come obiettivo un regime ancora più democratico ed un potere popolare sempre più vasto.
Poiché questo è anche il nostro obiettivo, diciamo, come seconda osservazione, che il nostro interesse e il nostro appoggio vanno a quei partiti che si propongono la trasformazione della nostra società e lottano per realizzare questo impegno.
A tutti è ormai chiaro che l’ostacolo principale da superare è rappresentato dallo Stato capitalistico, le cui strutture economiche, sociali, politiche, giuridiche, per quanto addolcite, ammodernate e mascherate non riescono a superare le realtà sulla quale poggiano, la realtà della divisione del paese in sfruttati e sfruttatori, governati e governanti, esecutori e dirigenti.
Quando noi auspichiamo la creazione da parte di tutti gli sfruttati, i governati, gli esecutori, di organizzazioni di democrazia diretta che sappiano rivendicare l’esercizio di porzioni sempre più grandi di potere, non siamo così ingenui da vedere in questo solo fatto l’annullamento della contraddizione fondamentale dello stato capitalistico.
Crediamo, però, che questo sia il mezzo migliore, la via migliore per arrivare al superamento dello stato democratico borghese, preparando e prefigurando da oggi quel nuovo Stato che si fondi effettivamente sul potere di tutti.
Per i partiti popolari, non è certamente questo un obiettivo nuovo ; ma è certamente nuova l’esigenza che da più parti si avverte di arrivare ad esso con i metodi e per la strada che anche noi desideriamo.
La conquista antidemocratica del potere è oggi esclusa da tutti i partiti italiani, compresi quelli che vogliono arrivare al potere per trasformare la società.
Mentre però i partiti conservatori agiscono senza impacci, utilizzando le strutture di uno Stato che è in definitiva il loro Stato, non comprendiamo perché la stessa cosa debbano fare i partiti che intendono rovesciare i rapporti di classe e realizzare il potere di tutti.
Constatando che “il primo elemento della politica è che esistono davvero governati e governanti, dirigenti e diretti” Gramsci sosteneva che per dirigere nel modo più efficace e per formare a tal fine i dirigenti, un partito rinnovatore deve rispondere, come prima cosa, a questo interrogativo : “si vuole che ci siano sempre governati e governanti, oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità dell’esistenza di questa divisione sparisca ? Cioè si parte dalla premessa della perpetua divisione del genere umano o si crede che essa sia solo un fatto storico, rispondente a certe condizioni ?”.
Oggi più che mai la risposta che i partiti rinnovatori debbono dare sta nel loro impegno di creare le condizioni per abolire la divisione tra governanti e governati, tra diretti e dirigenti, dimostrando non solo in teoria ma praticamente la superiorità degli obiettivi finali.
Si utilizzino anche le strutture dello stato borghese, ma per suscitare dal basso nuovi centri di potere popolare.
Su questi impegni dovrebbe, secondo noi, basarsi l’azione politica dei partiti veramente rinnovatori.
Non può bastare a questo impegno la loro organizzazione e il loro funzionamento come partiti di massa, anche se potessero raggruppare milioni di iscritti.
Vediamo infatti che, poiché le decisioni vengono applicate nelle varie istituzioni dello Stato borghese, non solo il popolo ma anche gli iscritti ai partiti rimangono sempre lontano dall’esercizio di un potere reale.
Il popolo viene consultato ogni quattro anni e in maniera paternalistica e demagogica ; gli iscritti vengono consultati più spesso, ma la decisione rimane sempre nelle mani degli apparati dirigenti, degli eletti, della tanto discussa burocrazia.
Questa burocrazia, pur essendo necessaria al funzionamento dei partiti, è portata a chiudersi, a difendere la sua posizione, a perdere il contatto con la base.
Soprattutto non si sente in alcun modo vincolata ad essa, giacchè i suoi incarichi, stipendi, promozioni, trasferimenti ecc. dipendono esclusivamente da organi centrali dei vari partiti.
Per questo il cittadino che milita nei partiti è solo in parte e saltuariamente impegnato alla vita politica, e reagisce abbandonando i partiti, non iscrivendosi, partecipando sempre più svogliatamente alla loro vita. Sono fatti che abbiamo sotto gli occhi.
Ci sembra inutile dare la colpa di tutto ciò alla TV, al cinema, al benessere, alla attrazione sessuale ecc.
L’azione di questi mezzi diviene corruttrice solo perché trova nella maggior parte dei cittadini un vuoto politico, sociale, morale e culturale che i partiti conservatori coltivano e quelli rivoluzionari non sanno colmare.
Occorre superare questo stato di cose, se non si vuole pregiudicare non solo il futuro ma anche le basi delle conquiste democratiche realizzate finora.
L’esercizio del potere dal basso ci sembra l’unico mezzo per superare il fossato che divide oggi la politica della maggioranza degli italiani.
In questa opera istituzioni e forme sono di secondaria importanza.
Occorre superare questo stato di cose, se non si vuole pregiudicare non solo il futuro ma anche le basi delle conquiste democratiche realizzate finora.
L’esercizio del potere dal basso ci sembra l’unico mezzo per superare il fossato che divide oggi la politica della maggioranza degli italiani.
In questa opera istituzioni e forme sono di secondaria importanza. Alcune ne esistono già, come i sindacati quando agiscono sul luogo di lavoro ; altre ne vediamo attuate e proposte in varie parti del paese.
Due condizioni che riteniamo indispensabili sono : 1) il potere dal basso deve essere esercitato nella maniera più decentrata possibile ; 2) i partiti, le associazioni, i gruppi promotori devono garantire l’esercizio di questo potere consentendo la revoca degli eletti.
In questo senso intendiamo e desideriamo che si attui il rapporto dei partiti innovatori con gli organismo di democrazia diretta : per cui ci pare ovvio osservare che, pur considerando i partiti le sole forze politiche capaci di trasformare lo Stato attuale, riteniamo insufficiente allo scopo il loro funzionamento, la loro organizzazione e i loro attuali metodi per tradurre in realtà il vero scopo della loro esistenza : l’esercizio del potere di tutti.

IL POTERE E’ DI TUTTI – ANNO I° – N°2 – febbraio 1964

RASSEGNA DI PENSIERI CAPITINIANI
La nonviolenza attiva, per trasformare la società

Persuadere alla convivenza pacifica le nazioni è per Aldo Capitini un processo strettamente collegato alla trasformazione nonviolenta ormai indilazionabile sia dei rapporti fra le singole persone, sia dei rapporti economici, sociali, politici tra governanti e governati.

La necessità di una trasformazione nonviolenta nasce dal rifiuto crescente di questa società in cui la vita di milioni di persone è sottoposta tutti i giorni alla violenza pubblica e privata, che ci fa sentire insicuri e indifesi nelle nostre abitazioni, sulle nostre strade, nei luoghi pubblici e nei luoghi più appartati, negli uffici davanti alla burocrazia, nei servizi come utenti, nei posti di lavoro come dipendenti, davanti alla radio e alla televisione come oggetti di condizionamento consumistico o di eccitazione spettacolare, nei luoghi di cura e in quelli di riposo, nelle famiglie se si è bambini o donne o vecchi, nell’ambiente degradato dalla speculazione, nell’alimentazione inquinata dalla frode, nei rapporti umani quando si è deboli, malati, ignoranti o solo timidi, nella società se si è donna, tra i bianchi se si è neri, al nord se veniamo dal sud del mondo.

Aldo Capitini ha sempre sollecitato l’uso della nonviolenza attiva, come lui la chiamava, per ottenere la trasformazione della società, per mettere i detentori del potere sotto il controllo reale e non formale dei cittadini, nei modi adeguati per non intralciare l’attività, ma neanche difendendo l’onnipotenza burocratica con la necessità dell’efficienza.

Nell’insoluto problema di trovare un rapporto meno competitivo e aggressivo tra i governanti e i governati, l’esercizio democratico e nonviolento sia dell’opposizione e che del potere, il controllo dal basso dei cittadini sulle istituzioni si trasformano, nel pensiero di Aldo Capitini, da mezzo a fine per il miglioramento dell’umanità.

“Ebbe sempre ben chiaro in mente che l’ideale della nonviolenza, nella tradizione realistica del pensiero politico italiano, era la novità assoluta della sua opera….Molta strada ha fatto anche in Italia che la nonviolenza non è più un sogno da visionari, un’illusione da spiriti deboli, un’evasione dalla realtà, che gli spiriti forti non debbono prendere troppo sul serio, se non addirittura una stravaganza, ma è un ideale da perseguire senza illusioni, con tenacia, con serietà, con la convinzione che la potenza degli strumenti della violenza è tale da richiedere un mutamento radicale nelle nostre riflessioni sul passato e del nostro modo di andare incontro all’avvenire.”

(NORBERTO BOBBIO – Prefazione a “Elementi di un’esperienza religiosa” di A.Capitini, pag.XIX)

“Oggi molti, osservando l’enorme sviluppo della tecnica fino alla costruzione delle armi nucleari e chimiche, hanno capito che bisogna usare un metodo diverso da quello della violenza, che diventa così illimitata e rovinosa per tutti, e anche sproporzionata, per i danni e le conseguenze, ai fini che si vogliono raggiungere.

Sin nel 1918 Lenin, parlando con lo scrittore Wells, disse: “Se arriveremo a stabilire comunicazioni interplanetarie, bisognerà rivedere le concezioni filosofiche, sociali e morali. In questo caso, il potenziale tecnico, divenuto illimitato, imporrebbe la fine della violenza come mezzo e come metodo di progresso “.

Dunque: far posto ad altro metodo, perché quello appoggiato alla tecnica tanto avanzata può produrre distruzioni enormi e sproporzionate.”

(POTERE DI TUTTI, pag.407)

” La lotta per la difesa e lo sviluppo della pace porta preziosi elementi di coesione dal basso contro l’individualismo e il conformismo e per di più associa di colpo le donne, le famiglie, ancor prima delle lotte politiche. E con l’accento posto sul superamento dei metodi violenti, sull’apertura e sul dialogo, non solo sollecita la nostra democrazia, e qualsiasi altra, ma preme sulle religioni esistenti, e particolarmente su quelle tradizionali, perchè sia messo in primo piano il rapporto nonviolento con tutti gli esseri.”

(IN CAMMINO PER LA PACE pag. 37/38)

” A noi pare che ci siano due posizioni sbagliate:

a) quella di coloro che dicono di volere la pace, ma lasciano effettivamente la società attuale come è, con i privilegi, i pregiudizi, lo sfruttamento, l’intolleranza, il potere in mano a gruppi di pochi;

b) quella di coloro che vogliono trasformare la società usando la violenza di minoranze dittatoriali e anche la guerra, che può diventare atomica e distruttiva per tutti.

Per noi il rifiuto della guerra e della sua preparazione militare, industriale, psicologica, è una componente fondamentale del lavoro per la trasformazione generale della società. Perciò lavoriamo in queste due direzioni:

1) spingere a costituire dappertutto forme di controllo dal basso;

2) orientare e alimentare questo controllo con idee e iniziative contrarie al capitalismo, al colonialismo, all’imperialismo.

(IL POTERE DI TUTTI pag.159)

” COME SI MUOVE LA STORIA. La grossolanità dell’azione ideologica, politica, diplomatica, e purtroppo anche militare, di Mussolini risulta con evidente rilievo a chi ne consideri l’ispirazione che la muoveva.

A parte il fatto che, nel suo attivismo rumoroso e polemizzante, egli non credette effettivamente in nulla che non fosse un’affermazione o meglio un’esaltazione quotidiana del proprio animo e del proprio nome, se su qualche cosa volle basare la sua teoria, fu il fatto della , cosa alquanto ingenua, malgrado il superficiale e vantato realismo.

Egli non pensò affatto né volle ascoltare (come avviene invece là dove, mediante la libertà di stampa, il pensiero non asservito collabora con la politica) quelli che avrebbero insegnato a tutti e a lui, privo della modestia dell’ignorante e della larghezza dell’uomo colto, che la storia procede secondo le sue intime esigenze: per cui può anche darsi che san Paolo abbia fondato più di Alessandro Magno, e la civiltá ebraica splenda di un lume ben più inesauribile della civiltà persiana, che pure spinse qua e là sterminati eserciti.”

(PRIME IDEE DI ORIENTAMENTO pag.3/4)

” Non solo l’idea, ma acquista maggior rilievo oggi anche il mezzo che viene adoperato per affermarla, il modo intero in cui essa vive.

I mezzi sono azioni vere e proprie; si avverte che chi usa certi modi nello affermarsi, fa suoi quei modi, li approva, li propugna, li diffonde.

Una idea si insinua anche in questo punto: non è vero che basti calcolare il mezzo più adatto, più politico per ottenere l’intento; si vuol prendere in esame questo mezzo in sè, vederlo se è accettabile o se è sostituibile con un altro che soddisfi di più la coscienza: si mette un ideale pur nello scegliere i mezzi.”

(ELEMENTI DI UN’ESPERIENZA RELIGIOSA pag.20)

” Il problema del rapporto tra i mezzi e il fine assume perciò un’importanza ben maggiore che se si trattasse di scrupoli; d’altronde ben rispettabili in un mondo che ne è crescentemente privo, e che non potrà così costruirsi un’altra vita sociale e un’altra vita religiosa.

Si tratta di fare in modo che quel non sia qualcosa di dipinto in fondo, interessando invece esclusivamente il mezzo; ma che quel fine viva già nella qualità e nell’assunzione del mezzo, e sia lì evidentemente riconoscibile.

Mettere del tempo nell’intervallo, e rimandare a tempo indeterminato l’armonia del mezzo col fine, è manifestare uno scarso interesse alla vita del fine, alla sua scelta, all’accorciamento della distanza da esso.

Se si ama il fine, esso pervade già il presente, e lo muta, non rassegnandosi ad essere procrastinato indefinitamente.”

(RELIGIONE APERTA pag.204)

Pur dichiarandosi a favore della gestione collettiva dell’economia e della struttura socialista dello stato, Capitini ha visto e denunciato da sempre l’insufficienza dell’esperimento sovietico

“L’uso della violenza lascia residui gravissimi, produce conseguenze antirinnovatrici; si veda per es. la mancanza della libertà di informazione, di critica, di espressione, di associazione, che è costata la trasformazione violenta delle strutture in Russia; non vale dire che “il fine giustifica i mezzi” quando i mezzi hanno conseguenze che costano troppo rispetto al fine.”

(POTERE DI TUTTI, pag.414)

” Più volte fino ad oggi sono state fatte rivoluzioni, e ci sono quelli che vogliono anche ora fare una rivoluzione. Noi non abbiamo paura di questa parola, anzi ci diciamo senz’altro rivoluzionari proprio perché non possiamo accettare che la società e la realtà restino come sono, con il male, che è anche sociale, ed è l’oppressione, lo sfruttamento, la frode, la violenza, la cattiva amministrazione, le leggi ingiuste. Rivoluzione vuol dire cambiamento di tutte queste cose, liberazione, rinascita come persone liberate e unite.”

(RIVOLUZIONE APERTA pag.9)

“…l’esigenza mia era liberatoria-popolare, pronta ad assimilare le rivoluzioni (se nonviolente) pur di allargare a tutti la società.”

(ANTIFASCISMO TRA I GIOVANI pag.98)

” Voi avete ragione di essere insoddisfatti di questa società sbagliata e ingiusta, ma come potrete voi cambiare tutto e subito con le vostre mani? volete distruggere le persone che vedete come avversarie, e anche quelle che sospettate di non essere rivoluzionarie? volete che la rivoluzione avanzi con le stragi, le torture, il governo assoluto di un gruppo che impedisca a tanti altri di parlare, di informarsi, di fare critiche, di vivere?

Noi vogliamo una società di tutti, e cominceremo con l’ammazzare migliaia? vogliamo una società amorevole, e cominceremo col coltivare e stimolare l’odio? vogliamo una società libera, e aumenteremo la tirannia, l’assolutismo? vogliamo un fine buono e pulito, e useremo mezzi sporchi e terribili?”

(RIVOLUZIONE APERTA pag.10)

(OMNICRAZIA nel IL POTERE DI TUTTI pag.71)

” Del resto, i rivoluzionari politici, quelli che ammettono anche la violenza, la distruzione degli avversari, il Terrore, confessano più volte che non ce la fanno a cambiare profondamente l’uomo. E se lo confessano, sono sinceri; se non lo confessano, sono i loro fatti, le loro azioni, che mostrano quanto del vecchio uomo è spesse volte rimasto in loro. Dei riformisti c’è da dire meno, perché per loro non c’è bisogno di tendere all’uomo nuovo, di trasformare profondamente l’uomo attuale, perché si accontentano di cambiamenti particoIari.”

(RIVOLUZIONE APERTA pag.14)

“…la soluzione marxista, pur essendo più vicina alla realtà di tutti, per la finalità universale – oltre ogni istituzione – di liberazione di tutti, aveva il difetto di non fornire mezzi adeguati ad una parte della società civile, quella proletaria, per realizzarsi nel modo richiesto dalla compresenza.

La violenza, la dittatura, l’eliminazione degli avversari, concepiti come mezzi dal marxismo, non sono gli strumenti adeguati per trasformare gli elementi di naturalità e violenza viventi nella società civile.”

(OMNICRAZIA nel IL POTERE DI TUTTI pag.104)

” La lezione era che bisogna preparare la strategia e i legami nonviolenti da prima, per metterli in atto quando occorre; e nessuno può negare che in Italia nel 1924, al tempo del delitto Matteotti, e in Germania nel 1933, una vasta e complessa azione dal basso di noncollaborazione nonviolenta, sarebbe stata occasione di inceppamento e di caduta per i governi.”

(ATTRAVERSO DUE TERZI DEL SECOLO in SCRITTI SULLA NONVIOLENZA pag.6)

” Non si può pretendere di tramutare il vecchio col vecchio, la legge con la legge, la violenza con la violenza…

(POLITICA E TRAMUTAZIONE, nel “IL MATTINO DEL POPOLO” del 30/6/48)

” Col metodo di Gandhi le armi le abbiamo già, e possiamo cominciare subito la rivoluzione, le armi dell’unione con altri, della solidarietà, della protesta nonviolenta, dello sciopero a rovescio, della noncollaborazione col male, del sacrificio; e queste armi le usano con maggiore efficienza i poveri, i deboli, i sofferenti, gli ultimi; mettiamoci dunque, con loro.”

(RIVOLUZIONE APERTA pag.15)

” La nonviolenza è prova di sovrabbondanza interiore, per cui all’uso della violenza che sarebbe ovvio, naturale, possibilissimo, viene sostituita, per ulteriore ricerca e sforzo, la nonviolenza…

Tra il nonviolento inerte e il soldato che si esercita faticosamente e arrischia, la possibilità di un valore morale è più nel secondo che nel primo. Il nonviolento deve essere attivissimo sia per conoscere le ragioni della violenza, per individuare la violenza implicita che si ammanta di legalità e smascherarla impavidamente, sia per supplire all’efficacia dei mezzi violenti con il moltiplicarsi dei mezzi nonviolenti, facendo come le bestie piccole che sono più prolifiche (e anche sopravvivono alle specie delle bestie grandi ); sia per vincere l’accusa e il pericolo intimo che la nonviolenza venga scelta perché meno faticosa e meno rischiosa.

Il nonviolento deve portarsi alla punta di ogni azione, di ogni causa giusta, appunto per curare il proprio sentimento che potrebbe stagnare e per farsi perdonare dalla società la propria singolarità.”

(IL PROBLEMA RELIGIOSO ATTUALE in SCRITTI SULLA NONVIOLENZA pag.24)

” E’ un errore credere che la nonviolenza sia pace, ordine, lavoro e sonno tranquillo, matrimoni e figli in grande abbondanza, nulla di spezzato nelle case, nessuna ammaccatura nel proprio corpo. La nonviolenza non è l’antitesi letterale e simmetrica della guerra: qui tutto infranto, lì tutto intatto. La nonviolenza è guerra anch’essa, o, per dir meglio, lotta, una lotta continua contro le situazioni circostanti, le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie, contro il proprio animo e il subcosciente, contro i propri sogni, che sono pieni, insieme, di paura e di violenza disperata. La nonviolenza significa esser preparati a vedere il caos intimo, il disordine sociale, la prepotenza dei malvagi, significa prospettarsi una situazione tormentosa. La nonviolenza fa bene a non promettere nulla dal mondo, tranne la croce.”

(IL PROBLEMA RELIGIOSO ATTUALE in SCRITTI SULLA NONVIOLENZA pag.21)

” E chi vi assicura che io ho una natura nonviolenta? A me pare di avere mille impulsi violenti, e di sentirmi disposto a controbattere violentemente. Tuttavia mi sono messo da molto tempo a lavorare per frenare la violenza che porto in me, per persuadermi della nonviolenza, e non è detto che questo lavoro sia compiuto se più volte mi accade perfino di sognare casi difficili, situazioni in cui essere nonviolenti è molto più duro. Ciò vuol dire che la nonviolenza è una persuasione che deve lavorare interiormente e non un istinto: e perciò è questione più di carattere (che si forma) che di temperamento con cui si nasce… Il problema è, dunque, non di essere in un modo o nell’altro, ma di scegliere di lavorare per una interiore persuasione alla nonviolenza.”

(LA NONVIOLENZA OGGI in SCRITTI SULLA NONVIOLENZA pag.180)

” La nonviolenza non è appoggio all’ingiustizia. Oltre l’equivoco della nonviolenza come pace, io vorrei chiarire e dissipare un altro equivoco, che è ancor più insinuante e pericoloso.

Nella lotta politica e sociale, necessaria in una società di ingiustizia e di privilegi, la nonviolenza fa tirare un sospiro di sollievo ai tiranni di ogni specie; e questo sospiro di sollievo è per noi oltremodo tormentoso.

Se la nonviolenza dovesse essere interpretata, o comunque risolversi in un’acquiescienza all’ingiustizia, a quella violenza di secoli cristallizzata in potere e in privilegi, decorati ora di un’apparente legittimità, non ci sarebbe sollecitazione più tentatrice a metterla in dubbio ed abbandonarla. La nonviolenza non è soltanto rifiuto della violenza, ma è diffidenza contro il risultato ingiusto di una violenza passata. Quanto più di violenza è carico un regime capitalistico o tirannico, tanto più il nonviolento entra in stato di diffidenza verso di esso.

Bisogna aver ben chiaro che la nonviolenza non si colloca dalla parte dei conservatori e dei carabinieri, ma proprio dalla parte dei propagatori di una società migliore, portando qui il suo metodo e la sua realtà. Il nonviolento che si fa cortigiano è disgustoso: migliore è allora il tirannicida, Armodio, Aristogitone, Bruto. Due grandi nonviolenti come Gesù Cristo e San Francesco si collocarono dalla parte degli umiliati e degli offesi. La nonviolenza è il punto della tensione più profonda del sovvertimento di una società inadeguata.”

(IL PROBLEMA RELIGIOSO ATTUALE in SCRITTI SULLA NONVIOLENZA pag.23/24)

” La scelta della rivoluzione nonviolenta al posto di quella violenta dipende dalla fiducia che i mezzi della nonviolenza assicurano, a lungo andare, una maggiore stabilità alle conquiste.”

(OMNICRAZIA nel IL POTERE DI TUTTI pag.86)

” E’ nella società che le trasformazioni radicali di struttura avvengono mediante un rivoluzione, che elimina tirannie, profonde ingiustizie, oppressioni. La nonviolenza tende a stabilire una società esente da qualsiasi oppressione, sfruttamento, violenza sul singolo, per cui essa propugnerà quei modi ( noncollaborazione ecc. ), che già inizialmente non significhino oppressione per nessuno, ma appello all’altrui ragione, e non distruzione dell’avversario.”

(RELIGIONE APERTA Pag. 158)

“Un nonviolento tende, oltre che a semplificare la sua vita materiale, a non collaborare con lo sfruttamento attraverso la proprietà di industrie e di terreni, a collaborare alle forme cooperative, alle lotte sindacali, a tutto ciò che decentra il potere e mette tutto a disposizione di tutti”

(POTERE DI TUTTI, pag.244)

” La buona accoglienza che viene fatta da un certo tempo al termine nonviolenza (che si comincia a scrivere giustamente in una sola parola), sta a significare probabilmente una accettazione della negazione, del rifiuto della violenza, dell’auspicio che se ne pulisca il terreno, piuttosto che la consapevolezza delle possibilità positive, costruttive e il pensiero preciso dell’articolazione e delle tecniche della nonviolenza stessa.”

(LA NONVIOLENZA OGGI in SCRITTI SULLA NONVIOLENZA pag.139)

“Può darsi, se le forze della rivoluzione violenta corrono il rischio di non esser più vittoriose poiché il fronte della conservazione può dispiegare una capacità repressiva schiacciante ora che ha capito di essere messo in pericolo, che questo sia il momento storico nel quale bisogna soprattutto consolidare la posizione che teniamo e trovare i modi di rafforzare e confortare i persuasi, perché non si disperdano….Proprio in questi tempi sta avvenendo l’arricchimento dell’opposizione, mediante la posizione nonviolenta, che condivide la lotta, ma non l’uso dei mezzi violenti.”

(POTERE DI TUTTI, pag.87)

(a cura di Lanfranco Mencaroni)
La riforma religiosa e l’impegno per la pace

“Non solo le due guerre mondiali, ma gli strazi nei campi di sterminio, l’apparire delle armi nucleari, hanno posto come urgentissimo il problema che non accada la guerra, hanno fatto ricercare le colpe di chi non ha saputo impedire quegli strazi e quelle lacerazioni del tessuto dell’umanità. Ecco l’accusa ai vecchi di aver collaborato a compiere quegli strazi.”

(POTERE DI TUTTI, pag.421)

“Noi siamo convinti che le popolazioni si fidano troppo dei governi.

La guerra è voluta, preparata e fatta scoppiare da pochi, ma questi pochi hanno in mano le leve del comando. Se c’è chi preferisce lasciarli fare, e non pensarci, divertirsi e tirare a campare, noi dobbiamo pensare agli ignari, ai piccoli, agli innocenti, al destino della civiltà, dell’educazione, della progressiva liberazione di tutti. Noi dobbiamo dire NO alla guerra ed essere duri come pietre…”

(POTERE DI TUTTI, pag.158)

Educazione permanente dei cittadini grandi e piccoli, con tutti i mezzi a disposizione, con l’aiuto di tutti, al fine di difendere la pace, di educare alla pace.

I giovani ad es. debbono sapere che la legge sulla obbiezione di coscienza, che permette loro di sostituire, senza rischiare più la galera, il servizio militare con un servizio di solidarietà civile, è frutto in gran parte dell’impegno di Aldo Capitini, che a Pietro Pinna, il primo giovane carcerato in Italia per obbiezione di coscienza al servizio militare, scriveva :”E’ la prima volta che in Italia un fatto tale ha una così grande risonanza. E sicuramente ne deriveranno frutti benefici per la coscienza e la situazione di tanti giovani. Noi facciamo di tutto perché al tuo sacrificio corrisponda un’eco degna, in modo che il problema venga una buona volta posto davanti alla nazione.”

“Si sa cosa significa la guerra e la sua preparazione: la sottrazione di enormi mezzi allo sviluppo civile, la strage di innocenti e di estranei, l’involuzione dell’educazione democratica e aperta, la riduzione della libertà e il soffocamento di ogni proposta di miglioramento della società e delle abitudini civili, la sostituzione totale dell’efficienza distruttiva al controllo dal basso.”

(OMNICRAZIA nel IL POTERE DI TUTTI pag.66)

” Non credo affatto che la guerra sia soltanto colpa dei grandi uomini, dei governanti e dei capitalisti. La piccola gente la fa altrettanto volentieri, altrimenti i popoli si sarebbero rivoltati da tempo. C’è negli uomini un impulso alla distruzione, alla strage, all’assassinio, alla furia, e fino a quando tutta l’umanità, senza eccezioni, non avrà subìto una grande metamorfosi, la guerra imperverserà, tutto ciò che è stato ricostruito o coltivato verrà distrutto e rovinato di nuovo: l’umanità dovrà ricominciare da capo.”

(ANNA FRANK – DIARIO – pag.254)

” E’ singolare il fatto che mentre per le folle l’impresa etiopica del ’36 fosse un successo, per i giovani migliori cominciò la delusione e la rivolta, perché videro che con quell’azione prepotente si faceva più manifesta la rovina diplomatica dell’Italia che aveva abbandonato il suo compito europeo e iniziava le avventure antidemocratiche.

Sentirono che la costruzione doveva avvenire allineando l’Italia con le moderne democrazie, affrontando la questione sociale, appoggiando l’educazione a motivi ben più profondi che non quello anacronistico del colonialismo.”

(NUOVA SOCIALITA’ E RIFORMA RELIGIOSA pag.70)

Citato da Aldo Capitini:

” E’ immenso il debito che abbiamo verso William James per il titolo del suo saggio .

Esso rivela come uno sprazzo di luce la vera psicologia della guerra.

Il suggerimento di un equivalente della guerra richiama l’attenzione sulla confusa mescolanza di impulsi che per caso si sono raccolti sotto il titolo di impulso bellicoso, e richiama l’attenzione sul fatto che gli elementi di questa mescolanza confusa si possono intrecciare insieme in molti tipi diversi di attività, alcuni dei quali possono mettere in funzione gli impulsi nativi in modi molto migliori che non abbia mai fatto la guerra.

Sono le condizioni sociali, piuttosto che il vecchio Adamo, che hanno generato le guerre; gli impulsi irriducibili che vi sono utilizzati possono essere convogliati in molti altri canali.

Il secolo che è stato testimone del trionfo della dottrina scientifica della convertibilità delle energie naturali, non dovrebbe rifiutare le prospettive del miracolo non meno grande delle equivalenze e delle sostituzioni sociali.”

(DEWEY: NATURA E CONDOTTA DELL’UOMO pag.120)

” Ma poi ci si accorge che miglior realista, come dice Dewey, è colui che riconosce che la realtà è incompleta e attende di essere liberata da ideali”

(COMPRESENZA DEI MORTI E DEI VIVENTI pag.106)

” D’accordo con il Dewey che ha posto con vigore l’esigenza della qualità dei valori per i quali si vive e che ai valori e alla loro elevatezza unisce l’esigenza della comunicazione con gli altri, l’apertura”.

(EDUCAZIONE APERTA I pag.109)

” Avevo visto, nei dopoguerra della mia vita, le domeniche nella campagna frotte di donne vestite a lutto per causa delle guerre, sapevo di tanti giovani ignoranti ed ignari mandati ad uccidere e a morire da un immediato comando dall’alto, e volevo fare in modo che questo più non avvenisse, almeno per la gente della terra a me più vicina. Come avrei potuto diffondere la notizia che la pace è in pericolo, come avrei potuto destare la consapevolezza della gente più periferica, se non ricorrendo all’aiuto di altri e impostando una manifestazione elementare come la marcia?”

(IN CAMMINO PER LA PACE pag. 13)

” (Al termine della Marcia per la pace Perugia – Assisi del 1961 Capitini lesse la Mozione per la pace, che terminava così:)

Il popolo memore dei morti delle guerre, e delle immense ricchezze sottratte per esse allo sviluppo civile, impegnato a dedicare la pace al bene proprio e dei figli in un mondo aperto ai più alti valori della coscienza e della scienza, esige da tutti i governi di smobilitare la guerra fredda e di trattare immediatamente con animo di pace.”

(IN CAMMINO PER LA PACE pag.49)

” Tutto quello che possa essere fatto dappertutto, per costruire nelle moltitudini una resistenza agli ordini della guerra, prepara lo scadere dei nuclei dirigenti attuali e può evitare la strage.”

(LETTERA DI RELIGIONE del 5 ottobre 1951dal Potere di tutti).

“Mi si domanda: come evitare la guerra?….rispondo:…il modo ci sarebbe; e se la guerra non scoppierà presto, il modo c’è senz’altro: ed è quello di svegliare talmente le popolazioni del mondo, sia nel diffidare e nel rifiutarsi ai nuclei dirigenti che le porterebbero alla guerra, sia nel rinnovarsi interiormente…Pochi lavorano a questo svegliare le popolazioni; e meno di tutti i nuclei dirigenti. Tanto è vero che nessun governo educa i cittadini alla resistenza nonviolenta contro l’eventuale invasore, e preferisce inebriarli con le armi.”

(POTERE DI TUTTI, pag.214)

“…io mi impegno ad agire nel modo sopra indicato di svegliare e trasformare me (e se ciò è possibile per me, è possibile anche per gli altri) ed impegnandomi, vedo due cose: o questo impegno mio e di altri – e lavoro conseguente – modifica il campo del possibile e riesce a impedire la guerra; o produce altro , sempre qualcosa di positivo, per es. pone le premesse per un rinnovamento religioso del mondo….che è trasformazione della realtà, della società, della umanità.”

(POTERE DI TUTTI, pag.215)

“La pace è troppo importante perché possa essere lasciata nelle mani dei soli governanti; è perciò urgente che in ogni nazione tutto il popolo abbia il modo di informarsi continuamente e liberamente, e sia convocato frequentemente ad esprimere il proprio parere.”

(IN CAMMINO PER LA PACE pag.48)

” La nonviolenza è stata spesso finora sacrificata dalle religioni, anche da quelle che l’avevano insegnata come un principio, e poi l’hanno perduta, sostituendola con altri principi come , , ecc. Religiosi, perfino cristiani e buddhisti, fanno guerre e guerriglie.”

(EDUCAZIONE APERTA I pag.162)

” Dietro e dopo le soluzioni provvisorie dell’equilibrio del terrore, mentre è enorme nel mondo la fabbricazione di armi di tutte le specie e la loro distribuzione anche ai popoli sottosviluppati, la nonviolenza prepara la svolta storica del possesso in tutto il mondo di un metodo di lotta che esclude la distruzione dei nemici, attraverso la non collaborazione con il male, la solidarietà dei giusti.”

(AZIONE NONVIOLENTA agosto/settembre 1968 dal Potere di tutti)

” Per affermare la pace c’è da compiere il lavoro continuo di richiamo ad una cittadinanza veramente mondiale, non ubicata in nessun luogo “eletto dalla Provvidenza” di Dio o della Storia, diffidente a tutte le soluzioni di guerra sia pure “per l’ultima volta” .

E’ necessario anche che questo cittadino del mondo non difenda il diritto di restare quello che è, angusto religiosamente e ingiusto socialmente. Egli deve vivere quel rispetto per gli altri, che non sia chiusura nel vecchio e contrarietà a ciò che si fa oggi nel mondo per fondare un nuovo uomo religioso e una nuova società.

Vi potrebbe essere il pericolo di una concezione statica di questo essere cittadini del mondo, fondata su di un tipo di uomo che siamo invece convinti debba trasformarsi: poiché non si tratta soltanto di divulgare la società attuale, ma di fondarne, sia pure dal punto alto raggiunto, una nuova.”

(ITALIA NONVIOLENTA pag.62)

” Soltanto che le donne dimenticassero di appartenere al sesso debole, non ho dubbio che potrebbero opporsi alla guerra infinitamente meglio degli uomini. Supposto che le donne e i fanciulli d’Europa si infiammino d’amore per l’umanità, trascinerebbero gli uomini e annienterebbero il militarismo in tempo incredibilmente breve.”

(GANDHI cit. in IL POTERE E’ DI TUTTI anno 1 n°12 pag.2)

” Nell’idea di fratellanza dei popoli si riassumono i problemi urgenti di questo tempo: il superamento dello imperialismo, del razzismo, del colonialismo, dello sfruttamento: l’incontro dell’Occidente con l’Oriente asiatico e con i popoli africani….; la fratellanza degli europei con le popolazioni di colore; l’impianto di giganteschi piani di collaborazione culturale, tecnica, economica.

(IN CAMMINO PER LA PACE pag.47)

“Oggi con la guerra atomica c’è una ragione di più per cominciare molto presto, quando già si prepara la guerra, stringere larghissime solidarietà dentro e fuori le nazioni, impegnare i religiosi ad usare il metodo religioso della nonviolenza, imparare e insegnare che il rifiuto attivo della guerra è una rivoluzione.

Una rivoluzione è una serie di atti, di solito collettivi, rivolti a cambiare il possesso del potere, a trasformare le strutture sociali e politiche, a influire sugli animi delle persone.

Ma ogni rivoluzione ha un suo carattere.

E quella che noi sosteniamo ha il carattere di essere la più totale che sia stata proposta, non solo per gli animi nel profondo e per le strutture che debbono essere adeguate ad una società veramente di tutti, ma soprattutto per la convocazione di tutti ad operare il nuovo corso.

Non si tratta di formare un gruppo di convinti e di lanciarli nell’azione con tutti i mezzi, ma di far partecipare tutti.

Oggi che le armi nucleari hanno margini illimitati di distruzione, si devono creare tanti centri di potere e di controllo dal basso.”

(POTERE di TUTTI, pag.158)

” Nella grossa questione del rapporto tra il mezzo e il fine, la nonviolenza porta il suo contributo in quanto indica che il fine dell’amore non può realizzarsi che attraverso l’amore, il fine dell’onestà con mezzi onesti, il fine della pace non attraverso la vecchia legge di effetto tanto instabile “se vuoi la pace, prepara la guerra “, ma attraverso un’altra legge: .”se vuoi la pace, prepara la pace”

(LE TECNICHE DELLA NONVIOLENZA pag.11)

“Per preparare la pace durante la pace è necessario diffondere nell’educazione e nei rapporti con tutti, a tutti i livelli, una capacità di dialogo, una sincera apertura alla coesistenza ed alla pacifica competizione di ideologie e di vari sistemi politici e sociali, nel comune sviluppo civile, ed affermare il lavoro come elemento costruttivo fondamentale.”

(IN CAMMINO PER LA PACE pag.47)

(a cura di Lanfranco Mencaroni)
Le tecniche della nonviolenza attiva

“…l’apertura alla compresenza e all’omnicrazia ci pone davanti tante cose che non potremo più considerare come “mezzi” per ottenere altro (l’uccisione, la frode, la tortura, la soppressione della libertà ecc.)”

(POTERE DI TUTTI, pag.115)

Dunque nonviolenza, nonmenzogna, noncollaborazione contro il potere oppressivo dei violenti sono i mezzi che la società moderna potrebbe e dovrebbe dispiegare per la costruzione un mondo migliore. Le tecniche da utilizzare per il loro uso politico dovrebbero essere conosciute, divulgate, moltiplicate. Naturalmente i liberi religiosi, i nonviolenti attivi, usciti dalle vecchie istituzioni compromesse con il potere del mondo, dovranno trovarsi in prima fila in questa lotta, poiché il loro impegno civile è oltretutto, secondo Aldo Capitini, indispensabile a vivere religiosamente.

“Per una posizione di nonviolenza è da generalizzare l’insegnamento delle tecniche della nonviolenza, addestrando tutti a saperle usare e fornendo loro i mezzi necessari: tali tecniche possono valere per le trasformazioni, o rivoluzioni, interne e per l’eventuale lotta contro invasori.

Perciò il rifiuto assoluto della guerra e della guerriglia, e della tortura e del terrorismo, che li accompagnano, è il punto di partenza, la svolta, la condizione assoluta di una nuova impostazione del potere…”

(POTERE DI TUTTI, pag.97)

” E’ stato detto che Gandhi ha lasciato all’India il metodo Satyagraha. Satyagraha è il nome che assunse il metodo usato da Gandhi.

E’ discutibile l’affermazione che l’eredità sia per l’India, perché è piuttosto da dire che l’India è stata presa dai suoi imponenti problemi di nuova nazione e non ha portato avanti nè l’autoeducazione nel Satyagraha nè la sua applicazione su massima scala, e il metodo gandhiano è piuttosto stato raccolto dal mondo, fuori dell’ambiente e della tradizione indiane, tanto è vero che Martin Luther King negli Stati Uniti, fondatore di una Gandhian Society, lo ha applicato e svolto con immensa efficacia.

Ma è esatto dire che il Satyagraha è il contributo massimo che Gandhi ha dato. Anche se tecniche nonviolente erano state usate qua e là da millenni, qualche volta collettive, il più delle volte individuali. Anzi la storia stessa dell’uomo non sarebbe quella che è se, a fianco delle tecniche della violenza, indubbiamente tanto sviluppate da lontanissimi tempi, non fossero esistite le tecniche della nonviolenza.

(LE TECNICHE DELLA NONVIOLENZA pag.14)

Aldo Capitini citava spesso una classificazione semplificata delle tecniche nonviolente.

Tecniche nonviolente individuali: il dialogo, quello vero che presuppone la disponibilità a lasciarsi convincere dall’interlocutore, l’esempio, l’obiezione di coscienza, il digiuno.

Tecniche nonviolente collettive: le marce, lo sciopero, il boicottaggio, la pubblicità delle iniziative.

“Il digiuno, sebbene sia un’arma potentissima, è governato da regole severisse e può essere intrapreso soltanto da chi si è adeguatamente preparato ad esso. E, secondo il mio metro di giudizio, la maggioranza dei digiuni non sono assolutanente riconducibili all’ambito del Satyagraha e sono, come vengono generalmente chiamati, degli scioperi della fame, intrapresi senza alcuna preparazione e coscienza. Se si ripetono troppo spesso, questi scioperi della fame sono destinati a perdere anche la limitata efficacia che possono avere e cadono nel ridicolo.”

(GANDHI – TEORIA E PRATICA DELLA NONVIOLENZA pag.188)

” Altro tipo di classificazione è quello compiuto recente da Sharp che ha distinto le tecniche in tre vaste classi:

1) Azioni di protesta e di persuasione nonviolenta: sono per lo più azioni simboliche che tendono a persuadere l’avversario o chiunque altro esprima la sua disapprovazione o dissenso;

2) Azioni di non collaborazione: il gruppo nonviolento ritira il consenso all’operato di chi detiene il potere.

A loro volta si suddividono in: a) non collaborazione sociale; b ) non collaborazione politica c) non collaborazione economica;

3) Azioni di intervento nonviolento: sono quelle azioni pratiche che implicano una prova di forza con l’avversario.”

(G. SHARP – Politica dell’azione nonviolenta, Torino, Ed. Gruppo Abele, 1985, pag.131)

“Preghiere, atti di culto, formule ed atti magici possono essere compresi tra le tecniche nonviolente quando essi mirano a esercitare sugli altri un potere che sia sempre alla luce di un valore comune, tale cioè che valga per colui verso il quale è diretto, e verso il quale si potrebbe, se si volesse, usare invece la violenza.

La rinuncia all’uso della violenza, e della maledizione, che è il suo surrogato, viene fatta affidando alla mediazione divina l’efficacia di indurre l’altro al bene.”

(LE TECNICHE DELLA NONVIOLENZA pag.60)

” La marcia è una manifestazione dal basso, al livello minimo, che tende a comprendere tutti, è assolutamente nonviolenta, cioè priva di armi e opposta perciò alla sfilata militare, tende ad essere antiautoritaria, di ammonimento ai gruppi minoritari dirigenti, proprietari di ricchi giornali quotidiani. La marcia è il simbolo della moltitudine povera, che sa di essere nel giusto, che accomuna volentieri tutti.”

(LE TECNICHE DELLA NONVIOLENZA pag.103)

” Questi quattro caratteri della Marcia (Perugia – Assisi) mi sono stati chiarissimi fin dal 1960:

1) che l’iniziativa partisse da un nucleo indipendente e pacifista integrale (Centro di Perugia per la nonviolenza);

2) che la Marcia dovesse destare la consapevolezza della pace in pericolo alle persone più periferiche e lontane dall’informazione e dalla politica;

3) che la Marcia fosse l’occasione per la presentazione e il lancio dell’idea del metodo nonviolento al cospetto di persone ignare o riluttanti o avverse;

4) che si richiamasse a Francesco, il santo italiano della nonviolenza (riformatore senza successo).”

(IN CAMMINO PER LA PACE pag.15/16)

Aldo Capitini considerava gravi atti di viltà sia il conformismo, che l’omertà, il rifiuto d’impegnarsi per la giustizia, il distogliere gli occhi dalla presenza del male.

Come lui, anche Martin Luther King quando affermava: “la più grande tragedia di questo periodo di trasformazione sociale non è nei clamori chiassosi dei cattivi ma nel silenzio spaventoso delle persone oneste.”

(a cura di Lanfranco Mencaroni)

A DUE ANNI DALLA SCOMPARSA DI DOLCI
L’eredità di Danilo: nonviolenza, utopia, progetto

di Giuseppe Barone

è stato triste, per quanti hanno avuto l’opportunità di collaborare con Danilo Dolci, particolarmente negli ultimi anni del suo straordinario percorso intellettuale e umano, leggerne sulla stampa, nella dolorosa occasione della scomparsa, un ritratto assolutamente irriconoscibile.

I giornali, salvo poche importanti eccezioni, hanno descritto un intellettuale stanco e deluso, “appartato nella sua casa a Trappeto”, un isolato costretto a lavorare “a lume di candela, perché non era più riuscito a pagare la bolletta”, “una bandiera che da tempo aveva cessato di sventolare”.

è legittimo – ovviamente – avere opinioni diverse sul significato e sugli esiti dell’opera di Danilo Dolci, ma è inaccettabile mistificare la realtà in questi termini. Tutt’altro che “autoconfinatosi nel paese di Partinico”, Dolci viaggiava moltissimo in Italia e ancor più all’estero. Presso scuole e associazioni hanno lavorato con lui migliaia e migliaia tra studenti, docenti, persone d’ogni tipo interessate alle sue proposte. Ricordo suoi recenti viaggi in India, in Cina, negli Stati Uniti, in Canada, nell’America Latina, invitato da università, gruppi, centri, riviste. Ogni anno, fino alla sua morte, si è tenuto un seminario di collaboratori provenienti da ogni parte d’Italia e dall’estero. Numerosissimi i riconoscimenti assegnatigli, e tra questi il Premio Gandhi in India nel 1989 e la laurea honoris causa in Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna nel 1996.

Tutt’altro che “scettico sulle possibilità di cambiamento”, Dolci continuava a dedicare la vita ad analizzare la crisi dei nostri tempi e a cercare possibili alternative, pure consapevole della difficoltà di questo tentativo. Numerosi libri, in buona misura ancora tutti da indagare, lo documentano in maniera puntuale.

Ancora pochi giorni prima di morire, anche se gravemente provato nel fisico, meditava nuove iniziative e inviava appunti ai collaboratori.

è vero: non utilizzava più i mezzi “clamorosi” degli anni Cinquanta e Sessanta, ma solo perché non li riteneva utili, idonei al nuovo impegno, prevalentemente educativo. Altra era l’urgenza dettata dal degrado estremo delle condizioni di vita nella Sicilia del secondo dopoguerra, dai pescatori e dai contadini che – letteralmente – morivano di fame. Il titolo di uno dei primi volumi, pubblicato nel 1953 dall’editore De Silva, è fin troppo esplicito: Fate presto (e bene) perché si muore. Il lavoro più recente, non meno importante, richiedeva strumenti diversi, meno “spettacolari”, poco adatti probabilmente alle prime pagine dei giornali.

Nessuno si è chiesto come mai il 31 dicembre 1997, ultimo giorno dell’anno, giungevano a Trappeto da ogni parte del paese, per tributargli un estremo saluto, migliaia di persone che lo conoscevano, lo leggevano, avevano lavorato con lui, curandosi poco del silenzio cui l’aveva condannato il mondo della cultura e dell’informazione “ufficiali” (non tutto, certo, ma quasi), forse per il suo essere figura scomoda, fuori dagli schemi, non asservita a nessun interesse; o forse perché il senso del suo lavoro non si poteva riassumere in trenta secondi di intervista televisiva o in dieci righe di quotidiano.

Credo sarebbe utilissimo cercare di spezzare il disinteresse colpevole che ha riguardato l’opera di Danilo Dolci dagli anni Settanta in poi.

In numerose occasioni è stata evidenziata la componente utopistica del lavoro di Danilo Dolci e non è mia intenzione negare la forza con la quale il suo sguardo si orientava verso il futuro. Mi pare essenziale, tuttavia, qualche puntualizzazione. In che senso e con quali limiti possiamo definire Dolci un utopista? E, prima ancora: di quale utopia stiamo parlando?

Un conto è, infatti, la sacrosanta diffidenza nei confronti di ideologie palingenetiche, che pretendano di edificare dal nulla mondi nuovi e perfetti, salvo poi generare nelle loro incarnazioni storiche regimi totalitari e sanguinari; un altro la resa incondizionata all’idea che la storia sia finita, che non vi sia spazio per alcuna innovazione, equivocando per leggi eterne e universali meri accidenti dell’epoca attuale.

Il rischio, insomma, è quello di bollare come utopistica qualsiasi proposta di cambiamento dello status quo, qualsiasi atteggiamento che non sia di remissiva accettazione dell’ineluttabilità delle umane cose, qualsiasi voce fornita di un accento personale che provi a distinguersi dal brusio di fondo, evitando di entrare nel merito delle proposte e delle argomentazioni.

Non era forse utopistico anche solo immaginare nell’Italia e nella Sicilia del secondo dopoguerra di poter impegnare una battaglia contro la mafia e i politici ad essa organici con le armi della nonviolenza, appellandosi al senso civico e alla volontà di riscatto dei cittadini? E non era utopistico scommettere sulla rinascita civile, democratica ed economica di una delle aree più povere e arretrate del paese e dell’intero Occidente, favorendo lo sviluppo della cultura cooperativa?

Nel 1956, il pubblico ministero di uno dei numerosi processi subiti da Dolci aveva parlato di “fanatismo mistico”.

Pochi anni dopo, molti benpensanti, combattuti tra il fastidio e la derisione, pontificavano: “Non si costruiscono dighe con i digiuni”, mentre il Centro Studi e Iniziative avviava la lunga e complessa battaglia per la costruzione della diga sul fiume Jato, per dare a tutti “acqua democratica”. Quella diga, come noto, è stata edificata, con i digiuni, la mobilitazione popolare, il coinvolgimento di migliaia e migliaia di cittadini, consentendo uno sviluppo economico che nessuno avrebbe potuto prevedere e strappando dalle mani dei mafiosi il monopolio della scarsa acqua prima disponibile.

Quando Franco Marcoaldi gli chiede se si ritenga un utopista, Dolci risponde: “Sono uno che cerca di tradurre l’utopia in progetto. Non mi domando se è facile o difficile, ma se è necessario o no. E quando una cosa è necessaria, magari occorreranno molta fatica e molto tempo, ma sarà realizzata. Così come realizzammo la diga di Jato, per la semplicissima ragione che la gente di qui voleva l’acqua”.

Individuare modalità concrete affinché il sogno possa farsi progetto: mi pare questa una possibile chiave di lettura della vita e dell’opera di Danilo Dolci.

Alla base di questo sforzo non un vago impeto volontaristico, ma un serio, continuo, approfondito lavoro di ricerca. Nessuna delle grandi battaglie di Dolci è figlia dell’improvvisazione. Non sono un caso le ricerche condotte con metodo sociologico, l’accurata raccolta di documentazione antimafia, il modo scientifico di affrontare la lettura dei problemi, il coinvolgimento nella stesura dei progetti di grandi esperti italiani e mondiali delle discipline più diverse.

è senz’altro inusuale, e nel contempo molto significativo, il numero di uomini di scienza che, in tempi diversi, hanno collaborato con Danilo Dolci. Tra i tanti voglio ricordare i nomi di Lucio Lombardo Radice, Jean Piaget, Rita Levi Montalcini, Carlo Rubbia, Giuliano Toraldo di Francia, Luca Cavalli Sforza.

Riferendosi al Dolci scrittore, ma esprimendo un giudizio che credo possa avere una valenza più generale, Cesare Zavattini ha scritto: “La poesia è in atto già nei fatti e nella vita di Danilo. è il solo della nostra generazione che ha saputo ridurre al minimo la terra di nessuno esistente tra la vita e la letteratura”.

Dolci ha sempre attribuito molta importanza alle parole, al loro significato, all’uso che ne facciamo. Allora, se proprio di utopia vogliamo parlare, quella di Dolci non è mai stata – per riferirci alla disputa ancora aperta sull’origine del vocabolo – sogno di un luogo che non esiste e non può esistere, vagheggiamento di un mondo impossibile, ma ricerca – costante, attiva, intensa – di una possibile eutopia, di un mondo migliore, alla cui realizzazione tutti possiamo – dovremmo – aspirare e partecipare.

Senza mai trovare rifugio nell’astrazione, l’intera sua opera – sociale, politica, poetica, educativa – è stata vigorosamente orientata alla concretezza.

Nel corso degli anni, la riflessione di Danilo Dolci è andata via via approfondendosi. I temi della sua elaborazione più recente sono stati la distinzione tra trasmettere e comunicare e tra potere e dominio, la critica della Modernità, l’allarme rispetto alle società contemporanee i cui cittadini sono considerati – e trattati – come massa, lo studio delle caratteristiche e delle potenzialità della struttura maieutica, la critica della cosiddetta “comunicazione di massa” che, come dimostra efficacemente Dolci, non esiste. Un’analisi assolutamente coerente, ma anche complessa, articolata, approfondita; originale nel suo insieme, ma che trova – mi pare – copiosi echi e riferimenti in importanti autori contemporanei. Tra i tanti che potremmo enumerare, mi sembrano evidenti i punti di contatto con le opere di Habermas, Gadamer, Capitini, Chomsky, Erikson, Mumford, Bloch, Arendt, Jaspers, Prigogine, Laszlo.

In nessun momento, però, malgrado l’ampliarsi della ricerca, Dolci ha smesso di guardarsi intorno e operare nei più diversi ambiti ai quali si è di volta in volta rapportato. Prima che per altri diventasse uno slogan, Dolci ha saputo pensare globalmente, agire localmente. Peraltro, mi pare, che mirare a obiettivi non immediati, più ardui – pure provvisori, in continuo divenire – sia essenziale per non smarrire il senso della direzione del nostro agire. Affinché i nostri atti non si risolvano in un insieme caotico di gesti, le nostre iniziative non ci risultino un puro agitarsi senza prospettive.

Se tutti concordiamo nel denunciare i rischi determinati dalla massificazione, dall’omologazione, dall’appiattimento di coscienze e culture, nel riconoscere la necessità di salvaguardare quello straordinario patrimonio dell’umanità costituito dalle nostre differenze, bisognerà pur sforzarsi di individuare degli strumenti, delle strade. La denuncia – certo – è importante, ma non risolve. “Non basta dire solo no”, risponde Dolci a un giornalista che gli chiede un giudizio sul valore dell’obiezione di coscienza. “Ciò che è essenziale è produrre alternative. Il lavoro preventivo è un lavoro per la salute; dire solo di no è intervenire già nella malattia, nella nevrosi”. Non ci occorrono formule magiche o verità rivelate, ma la capacità di ricercare delle ipotesi e di verificarle. Dolci ha sempre sottolineato che il suo lavoro iniziava un percorso, non lo concludeva.

Sin dal suo arrivo, nel 1952, nelle poverissime terre della Sicilia occidentale, Dolci non si atteggia a detentore di verità, non si presenta come un guru venuto a dispensare ricette, a insegnare come e cosa pensare. è convinto che le forze necessarie al cambiamento si possano trovare nelle persone più avvertite del luogo; che non vi possa essere alcun riscatto che non muova da una presa di coscienza dei diretti interessati. Sa quanto sia essenziale, per la riuscita di un’impresa, che ciascuno la senta propria: i progetti migliori, sulla carta più efficaci, falliscono se, calati dall’alto, sono avvertiti estranei, ostili. Per questo il metodo maieutico non è un dettaglio, un accidente o, peggio, una scelta eccentrica: è necessario alla riuscita di un programma come quello di Dolci veramente rivoluzionario e nonviolento. “Un cambiamento”, sostiene Dolci, “non avviene senza forze nuove, ma queste non nascono e non crescono se la gente non si sveglia a riconoscere i propri interessi e i propri bisogni”.

Alcuni bellissimi libri documentano le riunioni dei primi anni, dove i contadini e i pescatori imparano a lavorare insieme, a interrogarsi, a individuare i problemi e a cercare possibili risposte. Scoprono così di non essere oggetti sottoposti all’arbitrio e alla violenza di pochi criminali, ma di poter partecipare attivamente a scegliere e determinare il proprio futuro. Ancora Danilo Dolci, a proposito della diga di Partinico: “è sempre un’azione educativa quella che crea forze nuove e porta al cambiamento. Da principio c’erano decine di migliaia di persone che vivevano come atomizzate ed erano completamente in balia di trenta malviventi comandati dal boss mafioso Frank Coppola. Quando abbiamo capito che i contadini volevano l’acqua, non abbiamo fatto comizi, ma parlando con la gente abbiamo cominciato a chiedere chi voleva l’acqua e poi a organizzare quelli che la volevano. Senza chiacchiere i contadini hanno capito che dovevano imparare a mettersi insieme e a organizzarsi”.

Solo con molto ritardo è stata compresa appieno l’insufficienza dell’azione repressiva per sconfiggere la criminalità organizzata, la necessità di far maturare nella società civile un forte senso di estraneità e ostilità verso il sistema clientelare-mafioso. Ebbene, nella Sicilia degli anni Cinquanta e Sessanta, quando persino per tanti rappresentanti dello Stato la mafia neppure esisteva, Dolci riesce a organizzare migliaia di cittadini in un solidissimo fronte antimafia. In occasione delle denunce di collusione con la criminalità organizzata rivolte a Bernardo Mattarella, allora ministro, e Calogero Volpe, sottosegretario, oltre cento persone accettano di sottoscrivere, esponendosi direttamente, testimonianze circostanziate. La storia, lo sappiamo bene, non è fatta di ipotesi, eppure sono evidenti le responsabilità di una classe politica e anche di una magistratura che, invece di sostenere un movimento che avrebbe potuto anticipare di alcuni decenni l’inizio di una più efficace e incisiva lotta alla mafia, tentarono di isolare e spegnere il fenomeno, fino all’incredibile condanna inflitta a Danilo Dolci e al suo collaboratore Franco Alasia a due anni di reclusione per il reato di diffamazione. Qualche anno prima un altro giudice lo aveva descritto come un soggetto fornito di una “spiccata capacità a delinquere”.

Anche quando, nell’ultima fase della sua opera, Dolci si concentra particolarmente sul lavoro educativo, sviluppando e approfondendo un tema essenziale dell’intero suo percorso, il metodo seguito è lo stesso: partire dai bisogni dei diretti interessati – i bambini, le famiglie – per costruire una scuola nuova, che non sia più una scuola ma un centro educativo. Per far ciò Dolci visita centinaia e centinaia di centri attivi in Italia e nel mondo (dagli USA all’America Latina alla Russia), raccoglie documentazione, stabilisce un dialogo fittissimo con i maggiori esperti di educazione al mondo e con l’UNESCO. Il nuovo Centro educativo di Mirto, del quale persino la collocazione geografica era stata discussa nel corso delle usuali riunioni con la gente del luogo, nasce con un gruppo di collaboratori e consulenti davvero straordinario: Paulo Freire e Johan Galtung, Ernesto Treccani e Paolo Sylos Labini, Bruno Zevi e Gastone Canziani, Gianni Rodari e Italo Calvino, Mario Lodi e Aldo Visalberghi.

Ma oltre che nel Centro di Mirto, che dovrà purtroppo fare i conti con la burocrazia e i mille ostacoli opposti dalle istituzioni locali e nazionali, il nuovo metodo educativo viene messo a punto nel corso dei sempre più frequenti seminari che Dolci è invitato a tenere in Italia e nel mondo.

Ricordo anch’io con enorme emozione, per quello che la mia testimonianza può valere, la prima esperienza di seminario con Dolci: Danilo, come voleva che ciascuno lo chiamasse. La sua capacità di parlare poco e ascoltare molto. Le domande che poneva, spesso scarne, essenziali, che scuotevano l’intelligenza e la coscienza, impegnavano a un lavoro di scavo e di ricerca in se stessi. Disposti in circolo, tutti, a turno, intervenivano. Ciascuno chiariva il personale punto di vista, arricchendosi di quello altrui, in un clima di ascolto e rispetto reciproco. Sovente i contributi più profondi, importanti venivano da quanti la scuola aveva sbrigativamente bollato svogliati, distratti, incapaci. Lentamente tornavamo in possesso della nostra capacità critica e progettuale, sentivamo risvegliarsi la nostra creatività: una sorgente di idee e di bisogni, che altri ci avevano insegnato a reprimere e spegnere.

Di nuovo: un’utopia? Quanti hanno avuto l’occasione di lavorare con Danilo Dolci, anche solo episodicamente, sanno che la struttura maieutica, di cui egli parlava e scriveva, non era una favola bella, ma qualcosa di estremamente concreto.

In anni più recenti, con diversi educatori attenti alla sua esperienza, Dolci promuove la nascita di numerosi laboratori maieutici, che ancor oggi rappresentano una realtà viva, molto più ampia di quanto si possa credere e che meriterebbe, forse, di essere meglio conosciuta e studiata.

Sarebbe auspicabile, più in generale, una rilettura complessiva e più attenta dell’opera di Danilo Dolci. Non solo per rendere giustizia a questa eccezionale figura di educatore, poeta, operatore sociale, nei cui confronti il nostro paese, e il Meridione in modo particolare, hanno maturato un debito enorme, ma soprattutto perché i temi che hanno interessato il suo percorso intellettuale e ne hanno caratterizzato la vita erano e sono essenziali per il nostro futuro: l’impegno per la realizzazione di una democrazia autentica e non solo formale, la valorizzazione degli individui alternativa alla massificazione, la promozione della libera ricerca individuale e di gruppo contro ogni dogma, la pratica dell’azione nonviolenta come superamento – nel secolo di Auschwitz e Hiroshima, ma anche di tante rivoluzioni fallite – di una storia fondata prevalentemente sull’aggressione e la distruzione.
Bibliografia essenziale di Danilo Dolci

Banditi a Partinico, Laterza, Bari, 1955

Processo all’articolo 4, Einaudi, Torino, 1956

Inchiesta a Palermo, Einaudi, Torino, 1956

Spreco, Einaudi, Torino, 1960

Conversazioni, Einaudi, Torino, 1962

Racconti siciliani, Einaudi, Torino, 1963

Chi gioca solo, Einaudi, Torino, 1966

Inventare il futuro, Laterza, Bari, 1968

Il limone lunare, Laterza, Bari, 1970

Non sentite l’odore del fumo?, Laterza, Bari, 1971

Chissà se i pesci piangono, Einaudi, Torino, 1973

Poema umano, Einaudi, Torino, 1974

Esperienze e riflessioni, Laterza, Bari, 1974

Non esiste il silenzio, Einaudi, Torino, 1974

Il Dio delle zecche, Mondadori, Milano, 1976

Creatura di creature. Poesie 1949-1978, Feltrinelli, Milano, 1979

Da bocca a bocca, Laterza, Bari, 1981

Palpitare di nessi. Ricerca di educare creativo a un mondo nonviolento, Armando, Roma, 1985

Dal trasmettere al comunicare, Sonda, Torino, 1988

Sorgente e progetto, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1991

Nessi tra esperienza etica e politica, Lacaita, Manduria, 1993

La legge come germe musicale, Lacaita, Manduria, 1993

La comunicazione di massa non esiste, Lacaita, Manduria, 1995

La struttura maieutica e l’evolverci, La Nuova Italia, Firenze, 1996

Comunicare, legge della vita, La Nuova Italia, Firenze, 1997

Gente semplice, La Nuova Italia, Firenze, 1998

Principali opere su Danilo Dolci

Aldo Capitini, DANILO DOLCI, Lacaita, Manduria, 1958

Giacinto Spagnoletti, CONVERSAZIONI CON DANILO DOLCI, Mondadori, Milano, 1977

Giuseppe Fontanelli, DOLCI, La Nuova Italia, Firenze, 1984

Alda Chemello, LA PAROLA MAIEUTICA, Vallecchi, Firenze, 1988

Antonio Mangano, DANILO DOLCI EDUCATORE, Ed. Cultura della Pace, Fiesole, 1992

Tiziana Morgante, MAIEUTICA E SVILUPPO PLANETARIO, Lacaita, Manduria, 1992

DECALOGO MEDITERRANEO / 10
Nostalgia di luoghi e sogni
Il crepuscolo di un viaggio senza meta

di Christoph Baker

Nobili gabbiani volano sopra il mare della memoria. La loro voce rauca riempie i ricordi di una vita di viaggi. L’atlantico come gli angoli più bui dell’anima mia. Ci sono gli occhi spalancati del bambino e lo stupore di essere già entrato nell’autunno. Le mani sono le stesse ma aprirle diventa più raro. La poesia che si nutriva di grida disumane oggi cerca solo un rudere da salvare. E la destinazione del viaggio, così come la sua importanza, si perdono in questo mare di sofferenze, di dubbi, di assurdo.

Ho sempre avuto – già da bambino – un debole per i tramonti. La fine della giornata era la fine delle certezze ferree. Il crepuscolo mi è sembrato da subito la casa ideale per i miei sogni e le mie povere illusioni, che la luce accecante del sole mediterraneo spogliava troppo facilmente. In quei momenti prima della notte, quando anche gli occhi non vedono bene, ho cominciato a viaggiare dentro la memoria, stupito già allora di quanto i ricordi fossero dirompenti e allo stesso tempo confortanti.

Come si fa a separare le emozioni dalla conoscenza? Esiste un’esperienza umana che non sia trafitta dai sentimenti? Mi guardo intorno e vedo storie umane, storie individuali e storie di gruppo. Poi vedo la storia “ufficiale”, quella che ci inculcano a scuola, quella con i vincitori e i vinti, i numeri dei re e dei cadaveri, le giustificazioni della violenza e gli occultamenti di responsabilità. E non mi capacito.

Benedetta paura! Che ci fai sempre imboccare la strada della sicurezza, della protezione, dell’innalzamento di muri, della diffidenza. Tutta roba che porta all’impoverimento della propria esistenza, che ci hai mangiato i profumi, i colori, i sapori e gli stupori. Paura che ci hai ridotto all’indifferenza, all’insofferenza, all’incompetenza di vivere e di amare.

Arriva un giorno e bisogna decidere. Meglio, bisogna essere all’ascolto del proprio cuore. Poi la scelta va da sè. Parlo del viaggio all’indietro. Il richiamo primordiale dell’Eden perduto, come l’appello del grembo materno. Perché insistere così convinti sulla fondatezza del nostro pellegrinaggio terrestre? Perché dare tanto significato all’assurdo di cui siamo i primi protagonisti? Perché tanto determinismo volitivo? Perché è sacrilegio “tornare indietro”?

Ho un sogno nel cassetto (a scanso di equivoci, ne ho circa un migliaia, e non so più dove mettere i comò…): ripercorrere le tappe della mia vita. A volte penso che solo duecento anni fa, alla mia età, ero probabilmente già morto. Questa vita “in più” dovrebbe fare riflettere. Perché allora non abbandonare l’imperativo di andare avanti a tutti i costi, lasciare perdere i gradini della scalata sociale (e soprattutto occupazionale) e tornare sui luoghi che hanno sconvolto e plasmato la propria esistenza?

Il guaio è che funziona. Sono tornato dopo venticinque anni a Kythira e ho ritrovato tutti gli ingredienti dei miei ricordi di bambino di otto anni… La baia di Kapsali, il cimitero sotto la fortezza veneziana, i balconi fioriti dove nonne vestite di nero registrano ogni cosa fuori luogo insieme alle cose uguali di tutti i giorni. Così come Kythira, Borgio Verrezzi, Southport, Murnau, Sète, Castagneto Carducci, Aix-en-Provence, Marsiglia, o Bergamo.

L’importanza dei luoghi

Luoghi che sono atmosfere, combinazioni di colori, fonti di impressioni, stimoli per i nostri istinti. E se penso oggi ai paesaggi… Se dovessi raccontare les Cévennes piuttosto che il Ragusano, passando per le bianche vette del Queyras o l’azzurro profondo del Sheapscott River nel Maine. Per tacere dei castelli catari.

Allora confesso di non poter immaginare una vita priva di nostalgia. Priva di quella emozione semplice, primordiale, calda, che ci invade quando ci si abbandona al dolce richiamo della memoria. Quando non si pone più resistenza all’appello intimo dei rimpianti e dei rimorsi, l’appello delle cose rimaste a metà, dei piccoli fallimenti, delle delusioni e degli scoraggiamenti. Quando non è più importante rialzarsi subito per fare vedere la propria determinazione.

Cade la prima neve della stagione e da qualche parte nel profondo riaffiora il ricordo intatto di un primo amore. Anche del primo dolore, adolescente, perché non ero sicuro che lei accettasse quella mia mano tesa. E infatti, il dolore diventò una piccola ferita, e oggi ancora si fa viva per ricordarmi quanto sia fragile la speranza d’amore. Ma è anche allora che ho cominciato a sognare e i sogni sono diventati i più fidati compagni si strada.

Sogni di un mondo diverso dove gli uomini si facciano meno male l’uno all’altro. Sogni di sentimenti dirompenti che caccino per sempre il grigiore delle abitudini e del conformarsi. Sogni di trovare la parole giuste e la persona che le potesse recepire. Sogni di lunghi viaggi in mezzo al mare, lontano dalle coste e dalla terra ferma. Sogni mai realizzati, venuti male o dimenticati e tuttavia così importanti durante quel pezzo del cammino. E portarsi dentro per sempre il gusto dolce di averli sognati.

L’importanza dei sogni

E poi un giorno ti rendi conto di non avere più tanta voglia di questa realtà dominante, di questo mondo imposto come unico, vincente, moderno, progressista. Meglio solo perché più nuovo. Ti guardi intorno e vedi troppe sofisticazioni, troppo artificiale, troppa superficialità, troppo vuoto dietro al chiasso e alla confusione. Allora scopri che la nostalgia può essere un modo di resistere. Un modo per non farsi travolgere dallo stress quotidiano. Un modo anche di difendere le proprie emozioni, il proprio intimo, di fronte all’omologazione e all’appiattimento di tutto.

Quanto vorrei potere stabilire immediatamente un rapporto umano denso con un mio prossimo. Quante volte invece dobbiamo perderci in convenzioni di facciata e non riusciamo a costruire la minima passerella. Il viaggio verso gli altri è troppo spesso dirottato verso luoghi comuni e terreni di nessuno. Che tristezza che ne abbiamo fatto una ragione, con quanta facilità lasciamo perdere un’occasione di conoscersi meglio. La metafora che siamo solo ingranaggi in una grande macchina che ci è sfuggita di mano, viene rafforzata da questa crescente solitudine, dal nascondersi in un angolo buio dell’esistenza, sperando solo di non essere più disturbati da altri attacchi, da altre violenze.

Eppure, non dobbiamo abbandonare. Non si può dichiarare forfait in modo così unanime. Forse quel che ci serve qui, come in molti casi, è un po’ di sovversione. Gettare uno sguardo diverso sulla famosa realtà che ci colpisce. Forse se camminassimo con gli occhi che guardano non solo fuori ma anche dentro, non solo avanti ma anche di lato e anche indietro. Forse se non cercassimo solo di costruire vittorie, ma ci ricordassimo i fallimenti e le disfatte, potremmo cominciare a disarmare la nostra pretesa di controllo e di definizione della vita che ha portato l’uomo di oggi a pensare di avere tutte le risposte, mentre mi sembra che ha creato solo altri problemi.

Comunque sia, so di avere avuto molta fortuna nell’accumulare tante sensazioni, tante emozioni, tanta ricchezza che la vita mi ha regalato. E se sogno una vita più tranquilla, più autentica, più piena; se continuo ad inseguire il mito dell’ozio e della lentezza, se non ho abbandonato la speranza di un mondo più giusto e meno violento, è perché ho potuto verificare che queste cose esistono, sono esistite e esisteranno ancora…

Eravamo nel 1960. La fattoria era bassa e fatta di pietre nere. Non vi era una parete fra la cucina e la stalla, c’erano due misere mucche e qualche capra che riscaldavano la tavola del pranzo. L’odore degli escrementi animali e quello della zuppa di verdure si mescolavano nell’aria. Contro un muro, l’armadio che ospitava anche il letto del mio compagno di scuola. Gli uomini austeri dietro baffi bianchi parlavano poco ma con autorità. Le donne con un grembiule scuro e i cappelli a chignon si scambiavano occhiate severe. I bambini stavano zitti mentre mangiavano. In quella zona, nel Settecento, dopo la revocazione dell’ “Edit de Nantes”, avevano nascosti i profughi protestanti nelle cantine e nei passaggi sotterranei che collegavano le fattorie tra di loro. Due secoli dopo, i discendenti di quei contadini fecero la stessa cosa con più di mille bambini ebrei che fuggivano l’orrore nazista. Mai ne ho sentito parlare con vanto, mai uno di loro ha dato l’impressione che fosse stato qualcosa di eccezionale. La vita non era mai stata facile in quella campagna arida, sbattuta dai venti, rocciosa e coperta di neve sei mesi l’anno. Ancora nei primi anni sessanta, molta gente viveva in una povertà impressionante. Ma il ricordo che ho, è di una dirittura morale che permeava tutti i momenti del quotidiano. Quei contadini austeri mi hanno accompagnato tutta la vita e spesso mi hanno salvato dall’effimero.

Ho in mente anche una manifestazione politica per riavere un centro sociale a Ginevra che la polizia aveva deciso di chiudere. Ricordo le riunioni al liceo per decidere che fare, l’apprendimento della politica attiva, grandi slanci, teorie mondiali applicate ad un brutto palazzo di cemento armato, tanta voglia di lottare, discussioni interminabili… Poi andiamo all’altro liceo più “conservatore” e ci aspettano dei ragazzi armati di bastoni. All’improvviso, sbucano dalle viuzze intorno al liceo altri ragazzi sconosciuti più grandi di noi con catene e pietre. Vi fu una specie di battaglia, con denti rotti, tagli, sangue (nella candida Ginevra di Calvino, che scandalo!). Ho imparato in quel momento cosa vuole dire essere manipolati e quant’è difficile portare avanti un discorso nonviolento.

Una bomba esplode alla stazione di Lione e ci sono molte vittime. Siamo nel 1962, l’OAS (esercito segreto dei coloni francesi che non volevano abbandonare l’Algeria) semina morte, panico e paura nel paese. Vediamo mio padre scoppiare in un pianto, perché a quell’ora su quel treno ci doveva essere mia madre e mia sorella piccola. Dopo un’ora arriva la chiamata liberatrice di mia madre che racconta di avere perso la coincidenza a Ginevra e di essere a casa di amici. Mio padre ci spinse nella macchina e partimmo senza aspettare per Ginevra – un viaggio di circa quattro ore. All’improvviso, in piena campagna vediamo delle barriere in mezzo alla strada. Escono dal bosco uomini armati e incappucciati: l’OAS. Imparai quel giorno che gli avvenimenti del mondo possono entrare nella vita intima in modo brutale. Non ho più dimenticato di fare parte del mondo intero.

Cambiamento di cornice. Una coppia di cui ero la metà. Un piccolo porto del Mediterraneo alle fine di una strada. Gennaio. Arrivare di sera e già è tutto buio. L’albergo vuoto e arrivano due studenti con zaini sulle spalle. Capiscono che non serve il garage per la macchina. Ti danno la suite al prezzo della singola. Vai al ristorante tardi e ci sono solo due o tre coppie di pensionati. Si torna in albergo e c’è un mazzo di fiori nella stanza. La mattina ci svegliamo e una luce arancione bagna le lenzuola. Apri la finestra e un porticciolo magico si offre agli occhi. Dopo una passeggiata, si va a prendere l’aperitivo al caffè che dà sulla piaggia. Ancora non si è finito il vermouth rosso, accompagnato da olive, polipetti, cozze e salami, che arriva il secondo bicchiere non ordinato. Alla fine di due giorni in quel paradiso, la coppietta si innamora definitivamente. Ma i fiori? Ma il secondo vermouth? Gente del luogo, complici, anzi artefici dell’incantesimo. Posso avere sofferto l’amore, posso essermi chiesto come fa un amore a trasformarsi in odio. Ma nessuno mi potrà mai rubare quei due giorni nella patria di Dalì.

Senanque, le Thoronet, Silvacane, Valmagne, Saint Gilles, Montmajour. Ma anche Maulbronn, Romainmotier, Cluny, Vézelay, Tournus. Come Casamari, Fossanova, Sant’ Antimo e San Galgano… Da piccolo non sono sfuggito ad una seria educazione cistercense. Ma non è solo educazione, sicuramente non è solo indottrinamento. Ho negli occhi la grazia incredibilmente leggera di quelle chiese, quei muri di pietra viva nobilitate da una finestra eterea, quelle sculture scavate nelle colonne. Non sono più riuscito a concentrarmi sul gotico, vedere il barocco, sopportare tutto quello che è venuto dopo. Se sono uno scettico del progresso, lo devo a certi monaci romanici, e non ho ancora capito come sono riusciti a regalarci quel senso dell’estetica che mi manca così tanto oggi. Mi raccomando un architetto che ti contrappone New York come modello…

Fattoria dei Barbi, Montalcino. Château de Beaucastel, Châteauneuf-du-Pape, Schlosskellerei Gustav Lorenz, Alsazia, Robert Mondavi Winery, Napa Valley, e mi fermo qui. L’elenco dell’innamoramento continuo spero che non finisca mai. La cultura del vino racchiude in sè molti elementi di un senso della vita più completo. Ovviamente essere cresciuti in Francia (centro, sud ed est), Svizzera, Germania, Italia e… Stati Uniti, ha condizionato l’amore per questo processo di fermentazione dell’uva (frutto nobile per caso?). Mi devo scusare con gli astemi che probabilmente sentiranno l’offesa di un discorso tanto sentito e filosofico. Ma per noi bevitori, vi è un stretto legame fra la storia del vino e la storia dell’uomo. Non si può separare un vino dalla persona che lo ha prodotto. Non si può separare un vino dal luogo, dall’ambiente e dalla storia del posto in cui è maturato. Non si può ignorare che il vino ha accompagnato l’uomo nel suo pellegrinaggio terrestre da almeno cinque millenni. Non stiamo inventando niente quando avviciniamo il calice alla bocca. Ma accetto dal lettore un piccolo dubbio, che magari TUTTO quello che ho scritto qui, sia comunque stato scritto sotto l’effetto dell’alcol. In difesa, posso solo elencare il nome dei vini che ho bevuto e ribadire al giudice che li ho bevuti tutti con amore.

Infine, il castello di Queyribus. Devo confessare di avere applicato qui la legge della nostalgia. Di avere sognato per mesi quell’appuntamento, di avere studiato l’avvicinamento, di essermi riempito di sensazioni. Ho letto in due anni centocinquanta libri sui Catari, mi sono innamorato della loro storia, ho pensato e penso tuttora che avevano una visione della vita che poteva salvarci dalle sofferenze e dall’orrore che ha segnato l’Europa dopo il 1255. Qui si tratta di nostalgia documentata, di scelte di potere evidenti. Quando si tratta dei Catari, ci si imbatte nella storia di Roma, dei Papi, della religione cristiana. Non posso decidere. Solo che il giorno in cui sono stato in cima a Queyribus, laddove il mondo è rimasto pressoché intatto dal 1200, è arrivato un temporale. Nella sala dei cavalieri, dove la luce entra per dare indicazioni chiari a chi le capisce, un fulmine ha trafitto la quiete secolare e si è spento contro la colonna a nove (!) volute. I miei figli sono rimasti in silenzio e si respirava un’aria misteriosa. Siamo entrati nel sotterraneo che porta fuori dal castello, ci siamo abbracciati, la paura è stata mediata dall’amore famigliare… Ma io porto dentro di me per sempre la lezione di Queyribus, il fatto vissuto.

Non ho certezze, non voglio convincere nessuno di una verità, non ho mai capito un bel niente. Ma porto con me un mazzo di emozioni e di profumi, fatto di etica, impegno, bellezza, rischio, dono, gratuità, affetto ed esuberanza. Mentre mi avvio verso questo pezzo di vita che sarà la mia vecchiaia, mentre spero di rispondere alle domande di miei figli in modo abbastanza convincente, mentre un giorno in più è un giorno in meno. E mentre vi ringrazio di avere letto queste parole, di avere condiviso con uno sconosciuto un pezzo di strada caotico e pure ideale, di avere messo da parte (spero) certi pregiudizi, vi abbraccio dal fondo del cuore e vi do appuntamento nell’universo che sono i nostri sogni.

I miei affetti sono sparsi per il mondo. Il Mistral soffia sopra Saint Hilaire. La neve cade a Southport. A Roma, c’è un sole che non finisce mai. Il Mediterraneo mi aspetta ad ogni provocazione ubriaca che gli faccio. Non mi rimane che baciare gli amici sulle due spalle e avviarmi lentamente verso un parco pubblico che so io. Dove se non stai attento, calpesti una lapide.

Sopra è scritto:

Non credo in niente

Non ho paura di niente

Sono libero.

LA NONVIOLENZA NELLA LETTERATURA / 10
Mario Moretti mite scrittore di Romagna

Moretti, nato a Cesenatico (FO) nel 1885 e ivi spentosi nel 1979, acquistò una certa notorietà come poeta “crepuscolare” col libro Poesie scritte col lapis (1910); tuttavia il suo impegno maggiore fu dedicato per molti anni alla narrativa, che comprende una decina di romanzi e alcuni volumi di novelle e di ricordi autobiografici (tutte le opere sono pubblicate nelle Edizioni Mondadori).

Proveniva da una famiglia della piccola borghesia: la madre, maestra, fu la sua prima insegnante; il padre, acceso mazziniano, esponeva il tricolore ogni anno il 9 febbraio in ricordo della Repubblica romana del 1849: “Mio padre e gli altri tenevano fra i loro scartafacci di piccoli commercianti, tra le fatture, i contratti, i fogli dei tabàccoli e le lettere sgrammaticate dei capitani di mare l’edizioncina popolare dei Doveri dell’uomo e ne rileggevano qualche paragrafo a voce alta, la sera, sotto la lampada della famiglia” (tutti i ricordi, p. 1142). Ma il futuro scrittore leggeva anche, a fianco della mamma, il Vangelo, l’Imitazione di Cristo e i Fioretti di S. Francesco (ivi, p. 49).

Dopo aver frequentato il ginnasio a Ravenna e Bologna, interruppe gli studi classici e si iscrisse alla Scuola di recitazione diretta a Firenze da Luigi Rasi, che ne fece il proprio segretario. Presso tale scuola divenne amico fraterno di Aldo Palazzeschi. Affermatosi come scrittore, firmò nel 1925 il Manifesto antifascista preparato dal Croce: per questa scelta si vide negare da Mussolini il premio dell’accademia d’Italia (1932).

Dal 1923 collaborò per oltre trent’anni con racconti e novelle al “Corriere della sera”. Nel 1952 per il complesso dell’opera ottenne il premio dell’accademia dei Licei e, nel 1959, il premio Viareggio per il volume Tutte le novelle. Negli ultimi decenni riprese l’attività poetica (Tre anni e un giorno) e inviò elzeviri alla terza pagina del “Resto del carlino” di Bologna.
Il narratore degli umili

Moretti scrisse i suoi primi romanzi Il sole del sabato (1912) e La voce di Dio (1920), quando ancora imperava D’Annunzio, al quale seppe contrapporsi collocando al centro della propria narrativa la vita degli umili, dei “poveri in ispirito”, DELLE DONNE CHE LAVORANO E SOFFRONO: AD ESEMPIO, Il segno della croce (1926) è il romanzo della “serva di campagna”. Queste povere creature sono sorrette dalla fede cristiana, che dà significato alla loro vita: attraverso la fede imparano ad amare il prossimo e a perdonare chi le ha offese.

Le parole del nostro narratore si imprimono fortemente nell’animo del lettore: egli sa delineare dei personaggi dall’intensa spiritualità, che possono arricchire il nostro modo interiore. In Moretti la letteratura non rinuncia al nobile compito di rendere gli uomini più consapevoli dei reciproci vincoli di fraternità; nella sua narrativa troviamo una lezione di nonviolenza cristiana, come nel Manzoni.
Un romanzo pacifista

In piena epoca fascista pubblicò un romanzo di intonazione pacifista: Il trono dei poveri (1928). In esso racconta le esperienze di un giovane sammarinese, Marino Fogliani, che allo scoppio della guerra mondiale decide di arruolarsi come volontario nella Croce Rossa. Lo stesso autore, durante la guerra, prestò servizio come infermiere in un ospedale da campo.

Fogliani non si lascia travolgere dallo spirito nazionalista e si sente vicino a tutti quelli che soffrono a causa della violenza bellica.

Per le notizie delle prime vittorie, a cominciare da quella del Col di lana, il salone dell’ospedale, già un po’ intorpidito, fremé tutto in uno sventolìo di giornali: ma si capiva che anche nella presente occasione Mario Fogliani, perduto fra i suoi scartafacci clinici, non aderiva a fatti e scene di guerra come i suoi grandi amici e protetti.

Diverso da quei cappellani militari suoi intimi che, disciplinandosi nell’esercito operante, sposavano interamente la causa e ricorrevano al linguaggio del patriottismo più semplice e rozzo, egli serbava il suo contegno riguardoso e prudente che suscitava qualche frizzo tra i superiori. E, d’altra parte, egli non era un combattente e nella sua qualità di suddito sammarinense, non “belligerante”, quasi ci teneva a far qualcosa ‘nella’ guerra e non ‘per’ la guerra, secondo il mònito del suo vecchio maestro che aveva stabilito l’atteggiamento della perfetta umiltà repubblicana fin da prima che scoppiasse la guerra italiana. Qualcosa dello spirito d’un obiettore di coscienza, che avesse per giunta letto Romain Rolland, era dunque in lui: qualcuno forse cominciava ad accorgersene. (Romanzi dal primo all’ultimo, pp. 464-465).

R. Rolland, scrittore e pacifista francese, aveva pubblicato nel 1915 la raccolta di articoli Al di sopra della mischia, nei quali auspicava il ritorno della pace in nome della comune civiltà; curò inoltre le biografie di Tolstoj (1911), Gandhi (1924) e Ramakrishna (1929).

GLI OBIETTORI DEL 2000
Servizio Civile: quali prospettive?

di Stefano Guffanti

Il futuro del servizio civile, malgrado le rassicurazioni del Governo, rimane sempre incerto.

Come più volte segnalato, in questa rubrica, il problema principale per la piena attuazione della legge 230/98, al di là delle questioni di principio, è legato alla disponibilità finanziaria su cui potrà contare l’Ufficio Nazionale per gestire il servizio civile. Ciò che è successo nel 99 può essere di monito e di insegnamento per quanto potrebbe avvenire in futuro.

La Finanziaria 99 ha stanziato 120 miliardi per la gestione del servizio civile, una cifra esigua che ha permesso di coprire, fino alla fine del mese di settembre, esclusivamente le spese relative alle paghe obiettori ed ai rimborsi vitto ed alloggio da corrispondersi agli enti.

Per completare la gestione 99 si è reso necessario un rifinanziamento della legge 230/98, onde evitare di dover congedare, per mancanza di fondi, tutti gli obiettori in servizio e sospendere il servizio civile fino alla fine dell’anno.

Il governo, però, non ha voluto stanziare tutti i fondi necessari ed ha concesso solo 51 miliardi, cifra insufficiente, che ha costretto l’Ufficio Nazionale ad individuare un contingente annuale massimo di 60.000 obiettori da avviare al servizio; congedare anticipatamente gli obiettori già in servizio e dispensare gli obiettori in attesa che hanno condizioni particolari (familiari, economiche, lavorative etc.); assegnare gli obiettori solo ad enti della zona, onde evitare di fornire rimborsi per vitto ed alloggio; sospendere i rimborsi vitto ed alloggio per quegli enti che forniscono vitto ed alloggio anche agli obiettori residenti in zona.

La logica vorrebbe che, se per il 99, con 171 miliardi si sono riusciti ad avviare al servizio solo 60.000 obiettori, per il 2000, considerando anche un più che probabile incremento di obiettori, si stanzino almeno 200 miliardi.

Evidentemente, però, la logica del governo, in particolare del Ministro Amato, è un’altra e la Legge Finanziaria per il 2000 stanzia ancora solo 120 miliardi.

Come pensa, il governo, di riuscire a concludere l’anno 2000 con una cifra così irrisoria?

Quanti obiettori pensa di congedare per mancanza di fondi?

Da alcune voci sembrerebbe che l’escamotage potrebbe essere quello di recuperare fondi da un altro capitolo di spesa: infatti il governo ha previsto un finanziamento di 100 miliardi per una nuova legge sul servizio civile volontario che, sicuramente, non verrà approvata ed attuata entro l’anno 2000 e, così, non potendosi spendere questi soldi per questa legge non varata, si potranno deviare sulla 230/98 (sempre ammesso che il governo non cambi indirizzo).

Ci sembra che la logica sia quella di navigare a vista e, soprattutto, lascia intendere che il servizio civile continuerà a languire in questa situazione di staticità, cui la relazione dell’Ufficio Nazionale sembrava voler imprimere una svolta positiva.

Questa svolta, però, senza un adeguato finanziamento, resterà una chimera.

L’impegno dello stato a far funzionare il servizio civile non può limitarsi a garantire solo le diarie agli obiettori; il servizio civile deve essere valorizzato e per farlo ci vogliono investimenti finanziari ed umani.

Altrimenti la formazione, il controllo sulla qualità dell’impiego degli obiettori, le forme di difesa alternative, le missioni umanitarie e di pace all’estero, lo scambio di obiettori con altri paesi, rimarranno lettera morta ed il servizio civile andrà estinguendosi in un clima di distacco e disinteresse da parte di coloro che dovrebbero animarlo, obiettori, enti, istituzioni.

Facciamo pertanto appello a tutti, obiettori, enti, istituzioni, parlamentari affinché sostengano le richieste di un finanziamento adeguato del servizio civile e della Legge 230/98, senza le quali la legge stessa non potrà essere attuata nelle sue parti qualificanti che, alla sua approvazione, avevano fatto pensare che si fosse ad una svolta per le opportunità nonviolente in Italia.

VENTI DI PACE 2000

Poche lire per cooperazione e sviluppo
Troppi miliardi per le armi

Presentiamo un ampio stralcio della relazione sul Bilancio della difesa – Finanziaria 2.000, inviata dalla Campagna “Venti di Pace”, ai Senatori della Repubblica (per il documento completo, consultare il sito Internet:http://www.peacelink.it/ventidipace2000)

La nuova strategia della NATO

La nuova dottrina Nato amplia gli scopi dell’alleanza: alla difesa territoriale si aggiungono interventi a tutela degli interessi degli Stati membri: operazioni non previste dall’art. 5 del Trattato di Washington (p.e. Kossovo), realizzate senza un mandato da parte dell’ONU.

In questa evoluzione si inserisce la pretesa, dei partner europei, di ottenere maggiori responsabilità e autonomia ma, affinché ciò sia realizzabile, è indispensabile un adeguamento dello strumento militare (incremento delle spese militari – quote percentuali sul PIL da dedicare alla Difesa).

La spesa militare italiana ricomincia a crescere; + 3.000 mld, prevalentemente destinati a stipendi e armamenti; 1.000 mld stanziati in tre anni per le sole spese per il personale, necessarie alla graduale professionalizzazione delle FFAA, per la quale, invece, non sono ancora state considerate, le spese per la formazione, equipaggiamento personale, infrastrutture, outsourcing di servizi, né i costi economici e sociali per il reinserimento, nella vita civile, dei volontari congedati.

La valutazione dei costi della riforma deve considerare anche l’istituzione del servizio civile volontario (1.500 – 2.000 mld di lire all’anno).

In questi anni si è assistito ad una progressiva militarizzazione della politica estera italiana, con una crescita degli impegni militari internazionali dell’Italia, commisurati più alle ambizioni che alle risorse.

Le FFAA, inoltre, ricoprono compiti che potrebbero essere svolti da un contingente di Caschi bianchi (a disposizione dell’ONU) e da un Corpo Civile di Pace Europeo (ECPC).

Solo le Nazioni Unite, adeguatamente riformate, possono intervenire o chiedere eventualmente alle alleanze regionali di intervenire nelle situazioni di crisi e di conflitto, così come previsto dal loro statuto.

VdP chiede un drastico ridimensionamento dello strumento militare: meno personale, rinuncia a progetti di riarmo funzionali solo all’industria bellica, aumento della “spesa per soldato” (77 milioni annui, contro 170 di Francia o Germania) finalizzata a equipaggiamento e formazione che, al momento, non è certamente all’altezza né delle loro aspirazioni, né delle aspettative della società.

Lo stato di previsione del ministero della difesa

Il ministero della difesa, lo scorso anno, prevedeva di spendere, per il 2000, 32.083,6 mld; ora chiede 32.839,4 mld per il 2.000, 33.148,1 per il 2001 e 33.343,5 per il 2002.

Si tratta di un incremento di 1984,6 mld rispetto a quanto stanziato lo scorso anno; + 6,4% in termini monetari e + 4,9% in termini reali.

Rispetto al bilancio assestato del 99, ci sono solo 626,7 mld in più, a conferma del fatto che la Difesa spende di più di quanto inizialmente previsto.

Ripartizione del bilancio della Difesa anni 97-00. Mld di lire correnti>Previsioni 97Previsioni 98Previsioni 99Previsioni 00BILANCIO DIFESA

31.060,030.987,6

(- 0,23%930.854,7

(-0,43%)32.839,4

(6,43%)Funzione difesa

(Forze armate)21.766,721.742,721.425,922.948,1

(7,1%)Funzione pubblica sicurezza (CC)7.172,27.024,96.981,67.459,9

(6,8%)Funzioni esterne396,5405,0247,3221,1

(-10,6)Pensioni provvisorie1.724,51.815,02.200,02.210,3

(0,5%)

Il bilancio della Difesa include le spese per le Forze armate, per i CC, i trattamenti pensionistici e le funzioni “esterne”: rifornimento idrico delle isole in situazioni di emergenza – 7 mld; Corpo militare ausiliario della CRI – 21 mld; servitù militari – 34 mld; contributi ad enti vari – 14 mld; trasporto aereo civile di stato – 31 mld; assistenza al traffico aereo civile – 76 mld circa.

Il bilancio, invece, non include le missioni nazionali ed internazionali delle FFFAA e dei CC, finanziate con leggi speciali o fondi di altri ministeri, né include una parte delle spese per armamento, imputate al ministero dell’industria1.

La Nato informa che la spesa complessiva per la Difesa italiana (38.701 mld di lire nel 97; 40.089 mld nel 98) è in linea con quelle europee (vedi tabella seguente – dati NATO), smentendo chi sostiene che il nostro paese dedichi alle FFAA risorse insufficienti.

Spese Difesa dei paesi Nato, in percentuale al PIL 96 – 98 969798*Belgio1,61,51,5Danimarca1,71,71,6Francia3,03,02,8Germania1,71,61,5Grecia4,54,64,8
Italia1,92,02,0Lussemburgo0,80,90,9Paesi Bassi2,01,91,8Norvegia2,22,12,1Portogallo2,52,52,4Spagna1,51,41,3Turchia4,14,14,4Regno Unito3,02,82,7Nato Europa2,32,22,2Canada1,51,31,2Usa3,73,53,3Totale2,92,82,7

Gli aumenti per la funzione difesa (1522,2 mld) sono dovuti a spese:

per il personale: + 538,1 mld; + 5,2% sul 99. Gli aumenti per la spesa del personale sono dovuti in parte agli adeguamenti del trattamento economico ma, soprattutto, al prospettato incremento del numero dei militari volontari (+10.000) a fronte di una diminuzione di quello dei coscritti (20.000 in meno)2;

per l’esercizio: +298,3 mld; + 4,6% sul 99, che comprendono formazione e addestramento (699,2 mld; + 20% sul 99), oltre a quelle di approntamento dello strumento militare, infrastrutture, ripianamento di scorte, incluso l’avvio dell’outsourcing di alcuni servizi di catering e pulizie;

per l’investimento (ovvero per gli armamenti): +685,8 mld; + 14,7% sul 99.

Ripartizione del bilancio della Difesa (Funzione difesa), anni 97-00. Mld di lire correnti.Previsioni 97Previsioni 98Previsioni 99Previsioni 00FUNZIONE Difesa21.766,721,742,721.425,922.948,1Personale11.611,610.279,710.341,210.879,3
Esercizio5.121,06.024,46.432,16.586,6Investimento5.034,15.438,64.652,65.338,5

La voce investimento può essere a sua volta scomposta per le tre Forze armate.

La ricerca e sviluppo interforze diminuisce rispetto allo scorso anno e anche rispetto a quelli precedenti (vedi tabella seguente), in attesa del compimento della riforma delle FFAA, che consentirà una progettazione unitaria dello strumento militare.

L’aumento più sensibile sembrerebbe a prima vista quello che riguarda l’aeronautica.

Alla quota 99, vanno aggiunti 930 mld, relativi al finanziamento del programma Eurofighter: per far fronte a questo impegno si era fatto ricorso a finanziamenti esterni attraverso l’attivazione di limiti d’impegno quindicinali previsti dalla finanziaria.

Spesa per investimenti anni 97-00 Mld di lire correnti.Previsioni 97Previsioni 98Previsioni 99Previsioni 00INVESTIMENTI5.034,15.438,64.652,65338,4R/S interforze576,5519,2602,2455,2Esercito1.162,41.371,91.449,51.493,2Marina1.253,81.394,31.501,91.536,1
Aeronautica2.041,32.153,21.099,01.853,9

Principali programmi di acquisto di armamenti

Non ci sono programmi nuovi (vedi tabella); gli aumenti sono principalmente dovuti o alla attivazione di programmi già approvati ma non avviati, o alla lievitazione dei costi di quelli in corso:

esercito: avvio, in coproduzione con Francia, Germania e Olanda, della sostituzione degli elicotteri AB205 e AB212 con gli NH-90 (supporto tattico);

marina: avvio della sostituzione dei 2 cacciatorpediniere classe Ardito con due fregate AAW;

aeronautica: avvio di una partecipazione italiana al programma di studio del nuovo velivolo multiruolo americano Joint Strike Fighter, destinato a sostituire gli AM-X.

La legge finanziaria

La legge finanziaria contiene voci relative alla Difesa, in particolare:

stanziamenti per la riforma della leva: 81 mld per il 2000, 362 per il 2001 e 618 per il 2002. 240 milioni stanziati per il Comitato consultivo sul servizio militare volontario femminile;

sovvenzioni all’industria bellica attraverso il rifinanziamento di norme varie, in relazione ad autorizzazioni di spesa (leggi) pluriennali:

– 137,400 mld per la ristrutturazione delle industrie della difesa;

– limiti d’impegno per altri 15 mld per la ristrutturazione dell’industria bellica e 84,800 mld per programmi settore aerospaziale e duale;

– altri limiti d’impegno per 199,700 mld destinati al settore aeronautico civile3 e militare (questi ultimi per coprire le rate annuali del programma Eurofighter). All’acquisto del nuovo cacciabombardiere europeo sono anche da ricollegare ulteriori limiti d’impegno per 50 mld;

– la finanziaria prevede inoltre che gli stanziamenti per consumi intermedi del Ministero della Difesa, non impegnati nell’esercizio 2000, possano essere mantenuti in bilancio per il 2001: si tratta di circa 1.000 mld.

Missioni internazionali

La Difesa, con le attuali previsioni di bilancio, non sarà in grado di sostenere i costi delle missioni, per lo più all’estero, delle FFAA; 9.823 99 militari impegnati in queste missioni, contro i 2.823 dell’anno precedente.

Obiezione di coscienza

Gli stanziamenti per l’obiezione di coscienza, inclusi nella tabella del Ministero del Tesoro, ammontano a 120 mld (cifra fissata dalla legge 230/98). Nel 99 il fondo è stato integrato di 51 mld, con il dl n. 324. Sono previsti inoltre 850 milioni per il funzionamento dell’Ufficio nazionale per il servizio civile. Per il 2000, 2001 e 2002, la finanziaria stanzia rispettivamente 100, 110 e 130 mld l’anno, all’istituendo servizio civile nazionale.

Note:

Per quest’anno l’analisi non tiene conto dei costi sostenuti per i Carabinieri e ascrivibili alle spese per la difesa, per le difficoltà di separarli da quelli relativi alla sicurezza pubblica. Quando la riforma dell’Arma sarà completata, questa costituirà a tutti gli effetti la quarta forza armata ed è auspicabile che anche la contabilità della Difesa sia riorganizzata di conseguenza.

2 Sempre in tema di spese per il personale, ulteriori 462 miliardi di aumento rispetto allo scorso anno sono anche destinati alle spese per il personale dell’Arma dei Carabinieri.

3 Parte delle spese dell’aeronautica civile, sono da imputarsi al settore Difesa in quanto vi è la necessità, della Aeronautica militare, di poter disporre di dieci-dodici grandi vettori da trasporto, capaci di svolgere funzioni di cisterna volante, evacuazione malati, trasporto personale e trasporto VIP.”

Rodolfo Venditti, L’obiezione di coscienza al servizio militare, Terza edizione aggiornata secondo la Legge n. 230/98, Ed. Giuffré, Milano 1999, pag. 205, L. 28.000.

Venditti, magistrato e docente universitario, è senza dubbio il maggiore studioso italiano, di fama internazionale, dell’obiezione di coscienza (odc). A questo tema, come ad altri riguardanti il servizio militare, egli ha dedicato molti studi giuridici, rigorosamente scientifici e nel contempo impegnati con passione nello sviluppo della cultura di pace. I suoi lavori non sono di immediata “militanza”, ma offrono una base di esattezza giuridica e di cultura storica e morale tanto a chi ricerca alternative concrete alla guerra nei conflitti politici, quanto anzitutto agli obiettori stessi che vogliano crescere nella consapevolezza della loro scelta, come pure agli enti di servizio civile per un impiego degli obiettori legalmente corretto e per i corsi di formazione, che la nuova legge impone, per i quali il nuovo volume di Venditti è un manuale molto idoneo.

Questa terza edizione di L’obiezione di coscienza al servizio militare rinnova profondamente le due precedenti del 1981 e del 1994, perché è aggiornata con la legge 8.7.1998 n. 230, che ha riformato interamente l’odc e il servizio civile degli obiettori. Dei sette capitoli del libro, i primi tre sono dedicati al valore e alla storia dell’odc, perciò offrono materiale prezioso alla formazione degli obiettori. I capitoli dal quarto al sesto analizzano le norme della nuova legge, sia riguardo alle molte importanti novità legislative ed ai loro fondamenti etici, sia riguardo allo status dell’obiettore (suoi rapporti con l’ente, possibili reati e sanzioni).

Il settimo capitolo interessa anche in prospettiva perché tratta dell’avvenire dell’odc ora che un progetto di legge governativo prevede l’abolizione della leva. L’Autore ritiene che questo progetto, che avrebbe pieno effetto solo nel 2006, non tolga significato e importanza nella società di oggi alla scelta degli oltre 70.000 giovani che attualmente ogni anno preferiscono il servizio civile al militare, e sono impiegati da circa 5.000 enti convenzionati. Il loro servizio al Paese è stato riconosciuto dalla Corte Costituzionale (sent. 24.5.1985 n. 164) come vero servizio di difesa della Patria, dovere «del cittadino», come recita, senza distinzione tra militari e civili, tra uomini e donne, l’art. 52 della Costituzione, aprendo lo spiraglio giuridico, che la nuova legge raccoglie (art. 8 comma e), al concetto di «difesa non armata e nonviolenta».

Enrico Peyretti

Di Fabio