Azione nonviolenta dicembre 2001
– La guerra di oggi e la nonviolenza di domani
– Comprensione e compassione sono i nomi della nonviolenza
– Gandhi e Vinoba, maestri di nonviolenza
– Sulle orme di Lanza Del Vasto nell’esempio dell’arca
– L’esperienza di un asino
– Per una strategia Lillipuziana, reticolare e nonviolenta
– Prigionieri per la pace albo d’onore 2001
– In memoria di Yitchak Rabin
Rubriche
– Cinema
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– Economia
– Storia
– Musica
– Libri
La guerra di oggi e la nonviolenza di domani
di Mao Valpiana
Noi dobbiamo dire no alla guerra ed essere duri come pietre.
La nonviolenza è il varco attuale della storia. (Aldo Capitini)
Vado subito al nocciolo della questione. Quali alternative alla guerra propone oggi la nonviolenza?
Non voglio eludere nessuna obiezione seria che viene fatta alla nonviolenza. Si dice che essa è assolutamente inefficace se usata verso i terroristi. Certo, oggi le proposte della nonviolenza sono solo teoriche, perché per anni, per decenni, non hanno ottenuto nessun credito. Tutte le energie, tutti i finanziamenti, tutta la politica è stata indirizzata a preparare esclusivamente la macchina bellica, che infatti oggi è pronta e aggressiva, con portaerei, bombe, truppe, elicotteri, carri armati; tutto ben organizzato, costruito e finanziato in anni e anni. E dopo aver speso migliaia di miliardi nell’apparato tecnico-scientifico-militare e non aver mai investito nemmeno una lira nella preparazione nonviolenta, si viene a chiedere a noi nonviolenti una possibile soluzione della tragedia in corso? La convulsione storica che stiamo vivendo non è scoppiata improvvisamente, come un terremoto, ma è cresciuta per decenni, nei quali nulla si è fatto per evitarne l’esplosione, né per preparare una valida alternativa. E’ come trovarsi davanti ad un incendio devastatore senza aver mai fatto prevenzione e senza avere in mano neppure un bicchiere d’acqua per spegnerlo. Che si potrebbe fare? Nulla, solo scappare.
Oggi, per rispondere al terrorismo internazionale, di pronto c’è solo lo strumento militare; ma si deve avere la consapevolezza che quello strumento porterà alle estreme conseguenze; se i terroristi alzeranno il livello della sfida, la risposta dovrà adeguarsi, e dalle armi chimiche, si passerà alle armi nucleari, con le conseguenze che si possono immaginare: la tragedia delle torri gemelle rischia di essere moltiplicata per mille.
Tutti noi nonviolenti sentiamo l’urgenza di fare qualcosa e l’insufficienza del solo mettere a verbale il nostro no. La nonviolenza si pone anche il problema di un’alternativa efficace e di un programma costruttivo: per questo lavoriamo incessantemente per far avanzare la progettualità nonviolenta.
Quali sono le nostre proposte? Finanziare istituti di ricerca per la risoluzione nonviolenta dei conflitti internazionali; istituire, reclutare ed addestrare Corpi Civili di Pace per la prevenzione dei conflitti; avviare un processo di democratizzazione dell’ONU; dotare l’Onu di una polizia internazionale; favorire processi di integrazione con i paesi a rischio; sostenere i gruppi dissidenti dei regimi dittatoriali; creare una rete di monitoraggio nelle aree a rischio di crisi; avviare passi di disarmo unilaterale e preparare forme di difesa nonviolenta; investire in diplomazia e favorire processi di pacificazione, di riconciliazione, di convivenza; eliminare il commercio di armamenti, bandire la produzione di armi chimiche, batteriologiche, nucleari.
E allora siamo qui a proporre, seriamente, a tutte le forze politiche che dicono di aver votato con disagio a favore della guerra, che da subito prendano in considerazione le nostre proposte, sulle quali lavoriamo da decenni; se non sono applicabili da subito, serviranno almeno ad evitare la prossima tragedia. Sono le stesse proposte che facemmo al tempo della guerra del Golfo; rimasero lettera morta, perché – si disse allora- in quel momento servivano i raid aerei. Se dieci anni fa, oltre ai raid aerei, si fosse almeno iniziato a preparare un’alternativa, forse la crisi di oggi potrebbe essere affrontata al 95% con mezzi militari e al 5% con mezzi nonviolenti. Sarebbe già molto, perché forse la crisi successiva (fra qualche anno) vedrebbe l’80% di intervento militare e il 20% di intervento nonviolento, e così via… Invece siamo ancora al 100% di micidiali strumenti militari. E la nonviolenza viene solo ridicolizzata, o criminalizzata. Si dà per certo (quasi fosse una verità assoluta) che le bombe siano efficaci, mentre la nonviolenza sarebbe fallimentare. Ma è proprio così?
Questa guerra, come tutte le guerre, è un’avventura senza ritorno. Un possibile risultato è quello di aumentare l’area di consenso attorno al terrorismo fondamentalista, di radicalizzare nuove pericolose contrapposizioni; oppure di sostenere una fazione contro l’altra, mentre i terroristi restano invisibili e la popolazione civile viene colpita.
A chi, in buona fede, è convinto della bontà di tale “operazione militare” chiedo: quando finirà questa guerra? chi firmerà il trattato di resa? quando si potrà dire, ecco abbiamo vinto? chi potrà assicurare che dal giorno dopo non ci saranno più attentati? dopo la vittoria, avremo la pace, o dovremo continuare a preparare la guerra? fino a quando, per la nostra sicurezza, dovremo finanziare giganteschi apparati bellici, e quanto dovremo ancora attendere per dare credito alla nonviolenza?
L’opposizione integrale alla guerra è il fondamento costitutivo del Movimento Nonviolento. Fra tanti dubbi e incertezze, questo almeno è un punto fermo.
Intervista al monaco buddhista Thich Nhat Hanh
Comprensione e compassione, sono i nomi della nonviolenza
“Vorrei trovarmi faccia a faccia con Osama bin Laden”
Il monaco Zen Thich Nhat Hanh spiega come l’ascolto sia il primo passo verso la pace.
Thich Nhat Hanh è un monaco vietnamita della tradizione Zen, che ha lavorato instancabilmente per la pace durante la guerra del Vietnam, ricostruendo villaggi distrutti dalle ostilità. In seguito a un giro di conferenze contro la guerra negli Stati Uniti, non gli fu permesso di tornare nel suo paese e così si stabilì in Francia. Nel 1967 il Reverendo Martin Luther King jr. lo indicò come candidato per il Premio Nobel della Pace. Attualmente è conosciuto a livello internazionale per il suo insegnamento e i suoi scritti sulla consapevolezza, e per il suo lavoro per un “Buddhismo socialmente impegnato”, un richiamo all’azione sociale basata su principi buddhisti. Thay, come viene affettuosamente chiamato dai suoi seguaci, ci ha fatto conoscere le sue riflessioni sul modo in cui l’America dovrebbe rispondere agli attacchi terroristici. Questa intervista farà parte di un libro in corso di pubblicazione intitolato Out of the Ashes: A Spiritual Response to America’s Tragedy, che sarà pubblicato da Beliefnet e da Rodale Press.
A cura di Anne A. Simpkinson
Se potessi parlare a Osama bin Laden, che cosa gli diresti? E se potessi parlare al popolo americano, cosa suggeriresti di fare a questo punto, come singoli individui e come nazione?
Se mi fosse concessa l’opportunità di stare faccia a faccia con Osama bin Laden, la prima cosa che farei sarebbe ascoltare. Cercherei di comprendere perché ha agito in un modo tanto crudele. Cercherei di comprendere tutte le sofferenze che lo hanno portato alla violenza. Ascoltare in questo modo potrebbe non essere cosa facile, e così dovrei restare calmo e lucido. Avrei bisogno di avere vicino a me tanti amici molto bravi nella pratica dell’ascolto profondo, dell’ascoltare senza reagire, senza giudicare e condannare. In questo modo, si verrebbe a creare un’atmosfera di sostegno intorno a questa persona e a quelle in rapporto con lei, cosicché potrebbero davvero sperimentare una condivisione, confidare che li si sta davvero ascoltando.
Dopo aver ascoltato per qualche tempo, potremmo aver bisogno di un’interruzione per permettere a ciò che è stato detto di entrare nella nostra coscienza. Solo quando ci sentiremo calmi e lucidi, potremo dare una risposta. Risponderemmo punto per punto a quanto è stato detto. Risponderemmo in modo gentile, ma fermo, in modo da aiutarli a scoprire le loro interpretazioni sbagliate, cosicché possano recedere dagli atti violenti di loro propria volontà.
Per quanto concerne il popolo americano, suggerirei di fare tutto quanto è possibile per ristabilire la calma e la lucidità prima di rispondere alla situazione che si è creata. Rispondere troppo velocemente, prima di avere una buona comprensione della situazione, può essere molto pericoloso.
La prima cosa che possiamo fare è smorzare le fiamme di rabbia e odio che sono così forti in noi. Come ho detto prima, è di cruciale importanza guardare al modo in cui alimentiamo l’odio e la violenza dentro di noi e intraprendere misure immediate per eliminare il nutrimento al nostro odio e alla nostra violenza.
Quando reagiamo in preda alla paura e all’odio, non abbiamo ancora una comprensione profonda della situazione. La nostra azione sarà soltanto un modo molto veloce e superficiale di rispondere alla situazione e non si produrrà un vero beneficio e risanamento. Ma se aspettiamo e seguiamo il processo di calmare la nostra rabbia, guardando in modo approfondito dentro la situazione e ascoltando con una grande volontà di comprendere le radici della sofferenza che sono la causa delle azioni violente, allora avremo finalmente elementi sufficienti per rispondere in un modo tale che la guarigione e la riconciliazione possano esser realizzate per tutte le persone coinvolte.
In Sud Africa, la Commissione per la Verità e la Riconciliazione ha fatto dei tentativi per giungere a questo risultato. Tutte le parti coinvolte nella violenza e nell’ingiustizia accettano di ascoltarsi l’un l’altra in un ambiente calmo e confortevole, di guardare insieme in profondità alle radici degli atti violenti e di trovare soluzioni condivise per rispondere alle diverse situazioni. La presenza di forti leader spirituali è di grande aiuto per creare e mantenere un tale ambiente. Possiamo rifarci a questo modello per risolvere i conflitti che stanno sorgendo proprio in questo momento; non dobbiamo aspettare molti anni per metterlo in pratica.
Tu hai sperimentato di persona la devastazione causata dalla guerra combattuta in Vietnam e hai lavorato per porre fine alle ostilità laggiù. Che cosa dici alle persone che sono straziate dal dolore e arrabbiate perché hanno perduto persone care negli attacchi terroristici?
Io ho perduto i miei figli e le mie figlie spirituali durante la guerra, quando stavano penetrando nella zona di combattimento per cercare di salvare quelli sotto le bombe. Alcuni furono uccisi dalla guerra e altri furono assassinati da chi pensava erroneamente che stessero sostenendo la parte avversa. Quando guardai ai quattro cadaveri trucidati dei miei figli spirituali assassinati in modo così violento, ho sofferto profondamente.
Comprendo la sofferenza di coloro che hanno perso i loro cari in questa tragedia. In situazioni di grande perdita e dolore, dovetti ritrovare la mia calma per ripristinare la mia lucidità e la capacità di comprensione e compassione del mio cuore. Con la pratica del guardare in profondità, ho capito che se rispondo alla crudeltà con la crudeltà, l’ingiustizia e la sofferenza non possono che aumentare.
Quando venimmo a sapere del bombardamento del villaggio di Bentra in Vietnam, dove furono distrutte 300.000 abitazioni, e i piloti dissero ai giornalisti di aver distrutto il villaggio per salvarlo, io restai traumatizzato e frastornato dalla paura e dal dolore. Allora praticammo il camminare in modo calmo e gentile sulla terra, per riottenere la calma della mente e la pace del cuore.
Benché sia una grande sfida il mantenere la nostra apertura in questo momento, è di cruciale importanza che non rispondiamo in alcun modo finché non abbiamo recuperato la calma e la chiarezza indispensabili per vedere la realtà della situazione. Noi sapevamo che rispondere con la violenza e con l’odio avrebbe danneggiato soltanto noi stessi e le persone attorno a noi. Allora ci dedicammo alla meditazione in modo da essere in grado di guardare in profondità nella sofferenza della gente che ci infliggeva violenza, per comprenderli in modo più profondo e per comprendere noi stessi in modo più profondo. Grazie a questa comprensione fummo in grado di produrre compassione e di alleviare sia la nostra sofferenza, sia la sofferenza dell’altra parte.
Qual è la “cosa giusta” da fare per rispondere agli attacchi terroristici? Dovremmo cercare la giustizia per mezzo di un’azione militare? Per mezzo di azioni giudiziarie? L’intervento militare e/o la rappresaglia è giustificata se è in grado di evitare la futura uccisione di innocenti?
Ogni violenza è un’ingiustizia. Il fuoco dell’odio e della violenza non può essere estinto dall’aggiunta di altro odio e violenza. Il solo antidoto alla violenza è la compassione. E di cosa è fatta la compassione? E’ fatta di comprensione. Quando non c’è comprensione, come possiamo provare compassione, come possiamo cominciare ad alleviare la grande sofferenza che è in essa? La comprensione è la vera e propria base sulla quale costruiamo la nostra compassione.
Come possiamo arrivare alla comprensione e al discernimento che ci possono guidare attraverso questi momenti di immensa sfida che adesso stiamo fronteggiando in America?
Per provare comprensione dobbiamo trovare vie di comunicazione tali che ci permettano di ascoltare coloro che stanno invocando la nostra comprensione in modo così disperato – perché un tale atto di violenza è una richiesta disperata di attenzione e di aiuto.
Come si fa ad ascoltare in modo calmo e chiaro, così da non uccidere immediatamente le possibilità di sviluppo della comprensione?
Come nazione dobbiamo prestar attenzione a questo: in che modo possiamo sviluppare condizioni tali da permettere il verificarsi dell’ascolto profondo, in modo che la nostra risposta alla situazione possa sorgere dalla calma e dalla chiarezza della nostra mente. La chiarezza è una grande offerta che possiamo fare in questo momento.
Ci sono persone che vogliono una cosa soltanto: vendetta.
Nelle scritture buddhiste, il Buddha dice che rispondendo all’odio con l’odio si ottiene solo un aumento dell’odio. Ma se noi facciamo uso della compassione per abbracciare coloro che ci hanno danneggiati, i nostri e i loro cuori saranno sconquassati più che da una bomba.
Ma come si fa a far sgorgare una goccia di compassione che possa spegnere il fuoco dell’odio?
Sai, la compassione non si vende al supermarket. Se vendessero la compassione, dovremmo solo portarcela a casa e avremmo risolto il problema dell’odio e della violenza nel mondo con grande facilità. Ma la compassione può soltanto venir prodotta nel nostro cuore grazie alla pratica.
L’America brucia d’odio. E’ per questo che dobbiamo dire ai nostri amici cristiani “siete i bambini di Cristo”. Dovete rientrare in voi e guardare in profondità e scoprire perché si è verificata questa violenza.
Perché c’è tanto odio? Cosa c’è sotto tutta questa violenza? Perché odiano così tanto da arrivare a sacrificare le loro stesse vite e ad infliggere una sofferenza così grande ad altra gente? Perché questi ragazzi giovani, pieni di vitalità e di forza, hanno scelto di perdere la loro vita, di commettere una tale violenza? E’ questo che dobbiamo capire.
Dobbiamo trovare un modo per fermare la violenza, certo. Se è il caso, dobbiamo mettere in prigione i responsabili. Ma la cosa importante è guardare in profondità e chiedere: “Perché è successo questo? Quale responsabilità abbiamo noi nell’accaduto?”. Forse essi ci capiscono male.
Ma che cosa li ha portati a un tale livello di incomprensione da odiarci così tanto?
Il metodo del Buddha è il guardare in profondità per vedere la fonte della sofferenza; la fonte della violenza. Se dentro di noi c’è violenza, qualsiasi azione può far esplodere questa violenza. L’energia dell’odio e della violenza può essere molto grande e quando la vediamo in altre persone ci dispiace per loro. Quando sentiamo questo dispiacere, la goccia della compassione è scaturita nei nostri cuori e ci sentiamo molto più felici e più in pace con noi stessi. Questa [empatia] produce il nettare della compassione dentro di noi.
Vai in un monastero proprio al fine di imparare a far questo, in modo che ogniqualvolta soffri e sei arrabbiato sai come guardare in profondità, in modo che la lacrima di compassione possa sgorgare dal tuo cuore e scacciare la febbre della rabbia. Soltanto la lacrima della compassione può allontanare le fiamme dell’odio.
Dobbiamo guardare in profondità e con onestà alla nostra attuale situazione. Se siamo capaci di vedere le fonti della sofferenza in noi stessi e nelle altre persone, possiamo cominciare a invertire il ciclo dell’odio e della violenza. Quando la nostra casa va a fuoco, dobbiamo prima di tutto spegnere il fuoco e poi cercarne le cause. Analogamente, se noi prima spegniamo la rabbia e l’odio nel nostro cuore, avremo la possibilità di analizzare la situazione in profondità, con chiarezza e discernimento per determinare tutte le cause e le condizioni che hanno contribuito all’odio e alla violenza che stiamo sperimentando dentro noi stessi e nel nostro mondo.
La “cosa giusta” è l’azione che risulta dall’estinzione dei fuochi dell’odio e della violenza.
Credi che il male esista? E, se è così, considereresti i terroristi come persone malvagie?
Il male esiste. Anche Dio esiste. Il male e Dio sono le nostre due facce. Dio è questa grande comprensione, questo grande amore dentro di noi. E’ ciò che viene anche chiamato Buddha, la mente illuminata che è in grado di vedere attraverso l’ignoranza.
Che cos’è il male? E’ quando la faccia di Dio, la faccia del Buddha dentro di noi, risulta nascosta. Spetta a noi scegliere se il lato del male diventa più importante, o se il lato di Dio e del Buddha risplende. Ma anche se il lato della grande ignoranza, del male, può in un dato momento manifestarsi in modo molto intenso, ciò non significa che Dio non sia là.
Nella Bibbia ciò è detto con chiarezza, “Perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Questo significa che un atto malvagio è un atto di grande ignoranza e incomprensione. Forse ci sono molte percezioni sbagliate dietro un atto malvagio; dobbiamo capire che l’ignoranza e l’incomprensione sono la radice del male. Ogni essere umano contiene dentro di sé tutti gli elementi di una grande comprensione, di una grande compassione, e anche ignoranza, odio e violenza.
Nel tuo nuovo libro Anger (Rabbia), dai un esempio di “ascolto compassionevole” come uno strumento per risanare le famiglie. Questo strumento può essere usato a livello nazionale e, in tal caso, come funzionerebbe?
L’estate scorsa un gruppo di Palestinesi e Israeliani venne al Plum Village, il centro di meditazione dove vivo nel sud della Francia, per imparare e praticare le arti dell’ascolto profondo e del discorso amorevole; (circa 1.600 persone arrivano al Plum Village ogni estate da più di una dozzina di paesi, per ascoltare e imparare come portare pace e comprensione nella loro vita quotidiana). Il gruppo di Palestinesi e Israeliani partecipò al programma quotidiano di meditazione camminata, meditazione seduta e pasti silenziosi, e seguì anche un training su come ascoltare e parlare l’uno con l’altro in modo tale da rendere possibile una maggiore pace e comprensione tra i suoi membri, sia come individui sia come nazioni.
Con la guida e il sostegno dei monaci e delle suore, essi sedettero e si ascoltarono a vicenda. Quando una persona parlava, nessuno la interrompeva. Ciascuno praticava la consapevolezza del proprio respiro e del proprio ascolto in modo tale che l’altra persona si sentiva ascoltata e compresa.
Quando una persona parlava, essi/e rifuggivano dall’usare parole di riprovazione, odio e condanna. Parlavano in un’atmosfera di fiducia e rispetto. Grazie a queste conversazioni i partecipanti Palestinesi e Israeliani riuscirono davvero a comprendere che entrambe le parti soffrivano per la paura. Apprezzarono la pratica dell’ascolto profondo e si accordarono per condividere ciò che avevano imparato con altri dopo il loro ritorno nei rispettivi paesi.
Noi raccomandammo che Palestinesi e Israeliani parlassero delle loro sofferenze, paure e disperazione in un forum pubblico, in modo che tutto il mondo possa ascoltare. Potremmo tutti ascoltare senza giudicare, senza condannare, al fine di comprendere l’esperienza di entrambe le parti. Ciò preparerebbe quel terreno di comprensione appropriato per l’apertura di colloqui di pace.
La stessa situazione esiste ora tra il popolo americano e il quello delle nazioni arabe e islamiche. Vi è una grande incomprensione e una grande mancanza di quel tipo di comunicazione che ostacola la nostra capacità di risolvere le difficoltà in modo pacifico.
La compassione costituisce una grande parte del Buddhismo e della pratica buddhista. Ma in questo preciso momento, sembra impossibile fare appello alla compassione verso i terroristi. E’ realistico pensare che la gente possa provare un’autentica compassione adesso?
Senza comprensione, la compassione è impossibile. Quando comprendi la sofferenza degli altri, non hai bisogno di sforzarti per provare compassione, la porta del tuo cuore si aprirà naturalmente. Tutti i dirottatori erano molto giovani, eppure hanno sacrificato le loro vite per cosa? Perché lo hanno fatto? Che tipo di sofferenza profonda c’è qui? Ci sarà bisogno di un ascolto profondo e di uno sguardo in profondità per comprenderlo.
L’avere compassione in questa situazione è compiere un grande atto di perdono. Innanzitutto possiamo abbracciare la sofferenza, sia al di fuori dell’America, sia al suo interno. Dobbiamo aver cura delle vittime qui, nel nostro paese, ma aver compassione anche per i dirottatori e le loro famiglie, perché anche loro sono vittime dell’ignoranza e dell’odio. In questo modo possiamo davvero praticare la non discriminazione. Non c’è alcun bisogno di aspettare molti anni o decenni per realizzare la riconciliazione e il perdono. Abbiamo bisogno adesso di una sveglia, per non permettere all’odio di schiacciare i nostri cuori.
Ritieni che le cose accadano per una ragione? Se è così, qual era la ragione per gli attacchi agli USA?
La ragione profonda della nostra attuale situazione risiede nei nostri modelli di consumo. I cittadini statunitensi consumano il 60% delle risorse mondiali di energia, ma sono solo il 6% della popolazione mondiale. In America i bambini hanno assistito a 100.000 atti di violenza alla televisione prima di aver finito la scuola elementare. Un’altra ragione dell’attuale situazione è la nostra politica estera e la mancanza di ascolto profondo nelle nostre relazioni. Noi non facciamo uso dell’ascolto profondo per comprendere la sofferenza e i veri bisogni della gente delle altre nazioni.
Quale ritieni che sia la più efficace risposta spirituale a questa tragedia?
Possiamo cominciare proprio in questo istante a meditare per calmare la nostra rabbia, guardando profondamente alle radici dell’odio e della violenza nella nostra società e nel nostro mondo, e ad ascoltare in modo compassionevole per udire e comprendere ciò che non abbiamo ancora la capacità di udire e comprendere. Quando la goccia di compassione comincia a formarsi nei nostri cuori e nelle nostre menti, cominciamo a sviluppare risposte concrete alla nostra situazione. Quando abbiamo ascoltato e guardato in modo profondo, possiamo cominciare a sviluppare l’energia della fraternità e della sorellanza tra tutte le nazioni, il che costituisce il più profondo lascito spirituale di tutte le tradizioni religiose e culturali. In questo modo la pace e la comprensione nel mondo intero vengono accresciute giorno per giorno.
Lo sviluppare la goccia di compassione nel nostro proprio cuore è la sola effettiva risposta spirituale all’odio e alla violenza. Questa goccia di compassione sarà il risultato del calmare la nostra rabbia, del guardare in profondità alla radici della nostra violenza, dell’ascolto profondo e della comprensione della sofferenza di coloro che sono coinvolti negli atti di odio e violenza.
“Changemakers Journal” – October 2001
Traduzione di Carla Toscana per il Centro Studi Sereno Regis
Vogliamo celebrare il centesimo anniversario della nascita di Giovanni Giuseppe Lanza del Vasto (1901 – 1981) ricordandone la figura e gli insegnamenti. Abbiamo chiesto a studiosi e seguaci di scrivere alcune riflessioni per i lettori di Azione nonviolenta.
Gandhi e Vinoba, maestri di nonviolenza due figure ispiratrici per Lanza del Vasto
A cura di Alberto Pelissero
Un primo parallelo che ci pare utile proporre è quello tra Lanza del Vasto e Aldous Huxley. Entrambi scrittori di razza, il secondo anche (soprattutto) professionalmente, entrambi inclini a una mistica di tipo intellettuale, entrambi di estrazione sociale elevata, entrambi protagonisti di una conversione, duplice e più marcata per il primo, di difficile collocazione temporale per il secondo, approdano a esiti molto diversi. Il concetto di conciliazione in Lanza del Vasto presenta qualche parallelo con quello di philosophia perennis fatto proprio da Huxley. Quel che segna la profonda differenza tra i due è che Huxley è un razionalista agnostico che finisce con l’aderire a un misticismo razionalista, mentre Lanza del Vasto non smarrisce mai la propria formazione cristiana, incardinata nel dogma trinitario.1
Se la distanza tra Huxley e Lanza del Vasto appare incolmabile, in un certo senso il nostro autore si può proporre come il contraltare di Vinobâ Bhâve.2 Entrambi discepoli di Gândhî, restano ciascuno fedele alla propria tradizione religiosa, dimostrando con l’esempio di vita e con un appassionato studio personale che dura per tutta la loro esistenza che si può restare ciascuno ancorato alla propria posizione, mantenendo però un vivo e non superficiale interesse per l’altro, in una prospettiva di dialogo rispettoso, che non mira alla conversione ma alla reciproca conoscenza.
Si potrebbero leggere Lanza del Vasto e Vinobâ come figure parallele, essendo entrambi discepoli di Gândhî, e soggetti di un percorso spirituale per certi aspetti simile. Ciascuno di loro resta fedele alla propria tradizione religiosa, il cristianesimo per il primo, lo hindûismo per il secondo, accettando gli stimoli e i suggerimenti di una visione religiosa differente. La sintesi tra prospettive religiose diverse era stata tentata da Gândhî, in cui l’intreccio tra suggestioni cristiane (protestanti, ma anche ortodosse, pensando all’ispirazione tolstoiana), hindû (vaiïãava) e jaina appare inestricabile.3 Vinobâ propende invece decisamente per lo hindûismo, Lanza del Vasto dal canto suo per il cristianesimo.
La visione centrale di Vinobâ è rappresentata da una figura divina e da un concetto. La figura divina è Daridranârâyaãa, il “signore degli uomini povero”, che affonda le sue radici nella devozione popolare vaiïãava e che ha come unico punto di contatto con la visione cristiana la figura biblica del “servitore sofferente” di Dio della tradizione che fa capo a Isaia. Punto di contatto possibile ma non probabile, dal momento che il “servitore sofferente” si proietta da un lato nella figura del giusto che redime il mondo nella tradizione talmudica e del Cristo redentore in quella cristiana. Daridranârâyaãa invece non ha una precisa figura di riferimento: resta pur sempre una figura divina, specificamente un avatâra, una “discesa” sulla terra di una divinità, ma non si concretizza in un personaggio dai contorni definibili. Forzando un po’ la prospettiva si potrebbe dire che si tratta di una traduzione in termini indiani del concetto di Messia e della necessità di scorgere Dio nel più umile tra gli umili. È anche questo, ma non è soltanto questo. Il concetto poi è quello di sarvodaya, “benessere per tutti”, intendendo però con “benessere” non tanto un equivalente di welfare, ma soprattutto un “sorgere”, un “(ri)sorgimento”, dal momento che udaya indica propriamente fenomeni come il levare del sole, il levarsi da sedere, l’elevarsi anche in senso figurato e pertanto la buona sorte, la prosperità.
I punti cardine del pensiero di Lanza del Vasto sono invece il dogma trinitario e l’essenzialismo. Il primo viene esplorato in tutte le sue possibili implicazioni filosofiche oltre che teologiche, e posto alla base di una dialettica trinitaria che dovrebbe nelle intenzioni dell’autore superare in senso sia pratico sia teoretico la dialettica triadica hegeliana. Con essenzialismo Lanza del Vasto intende poi il ritorno all’essenziale, una sorta di “lavoro in levare” simile a quello dello scultore, volto a eliminare i falsi bisogni per giungere al cuore dell’essere umano con le sue necessità autentiche ineliminabili: necessità materiali ma soprattutto etiche, estetiche, spirituali e religiose. Dunque un altro tipo di benessere, che al pari del sarvodaya vinobiano è certo molto lontano dal possesso e dallo sfruttamento indiscriminato delle fonti di sostentamento e di piacere che sembra soggiacere al cosiddetto benessere inteso in senso consumistico.
L’ispirazione indubitabilmente cristiana dell’opera di Lanza del Vasto ci sembra si possa ricavare proprio dalla conclusione della sua biografia dedicata a Vinobâ. Per Vinôbâ o il nuovo pellegrinaggio si potrebbe in realtà parlare di una agiografia piuttosto che di una biografia. L’ispirazione agiografica non manca in Lanza del Vasto, e si ritrova talora congiunta a un certo estetismo forse più di stile che di contenuto, una sorta di francescanesimo estetizzante, una volontà non sempre limpida di martirio che ricorda, si parva licet componere magnis, altri europei alla scoperta dell’Oriente, per esempio il colonnello Thomas Edward Lawrence, altro personaggio la cui sensibilità estetico-religiosa non è sorprendentemente troppo dissimile da quella del discepolo occidentale del mahâtma.4
Ma ecco il passo che vogliamo prendere in considerazione, posto a suggello della biografia di Vinobâ:
“A te parlo, amico lettore, a te da solo a solo; e soprattutto a te mio fratello cristiano.
Ma perché fai questa smorfia, fratello mio, e perché prendi il mio invito per una sfida?
La tua collera, fin’ora contenuta esplode e mi urli: voi che vi dite cristiano non siete andato alle Indie a portare la parola di Dio, né a predicare Cristo, ma ne ritornate per esaltare la religione indù tra i cristiani.
[…]
Rispondo: per testimoniare la nostra fedeltà, che cos’è meglio? Affermare che la nostra religione è l’unica buona o dimostrarlo denigrando quelle degli altri?
Oppure provare che vi crediamo, praticando e applicando, sobri di parole, i misteri della nostra fede? E poi ammirare nelle nostre religioni ciò che hanno di grande, di vero, di nobile e simile alla nostra.
Io non esalto affatto la religione indù, né la buddhica, le difendo piuttosto da giudizi menzogneri. Le barriere del pregiudizio e della ignoranza mi paiono pessimi baluardi per la fede.
[…]
La dottrina che predico e sostengo e da cui attendo un rinnovamento sociale e spirituale in Occidente come in Oriente, è la Dottrina Gandhiana che non può scontrarsi con la nostra fede religiosa dal momento che non è una nuova religione e nemmeno una dottrina religiosa, poiché sta su di un altro piano.
È una dottrina di riforma sociale e personale che può scontrarsi solo con altre dottrine di riforma sociale.
È una dottrina sociale conforme ai precetti della religione: di tutte le religioni e più particolarmente della nostra, cosa che non ci deve sorprendere, poiché essa è direttamente tratta dai precetti evangelici.”5
Vorremmo confrontarlo con due altri testi, l’uno di ispirazione hindû (propriamente: smârta), l’altro di àmbito buddhista. Sono entrambi testi indiani antichi, di indole molto diversa, ma che rispecchiamo una comune concezione del mondo. Il primo può essere fatto risalire con molte incertezze al V sec. d.C., e fa parte di una importante opera che getta le basi di una delle più importanti scuole della filosofia indiana classica: le Gauöapâdîyakârikâ ascritte a Gauöapâda e commentate dallo (pseudo?)Šaükara. Il secondo fa parte di un editto su roccia attribuito al sovrano della dinastia Maurya Aðoka, che regnò tra il 268 e verosimilmente il 230 a.C.
Ecco i due testi:
«I dualisti, fermamente persuasi delle convinzioni generate dai propri principi fondamentali, si contraddicono reciprocamente: ma questo [punto di vista non-duale] non è in contraddizione con essi. [GK 3,17]
La visione che contempla il Sé come non-duale è corretta dal momento che è stata corroborata tanto dai trattati autorevoli quanto dal ragionamento: ogni altra visione è falsa, dal momento che risulta estranea a essa. E anche per questo la visione dei dualisti è falsa, perché si fonda su difetti come attaccamento, avversione e simili. Come? “I dualisti”, ossia i seguaci dei punti di vista di Kapila, di Kaãâda, del Buddha, dell’Arhat e simili, “persuasi delle convinzioni generate dai propri principi fondamentali”, delle norme che regolano l’attività intellettuale in base ai loro principi fondamentali, pensano: “Solo così si configura questa realtà suprema, non altrimenti”, e rimangono attaccati a questa convinzione, e contemplando un punto di vista in contrasto con il proprio prendono a odiarlo, caduti così in preda ad attaccamento e avversione, e solo a causa dei principi fondamentali della propria visione del mondo “si contraddicono reciprocamente”, vale a dire l’un con l’altro. Questo nostro punto di vista vedico, che corrisponde alla visione dell’unicità del Sé, non entra in contraddizione con questi avversari in reciproca contesa, per il fatto che non si presenta come differente da ogni cosa, al modo in cui non si può entrare in conflitto con le proprie mani, i propri piedi e simili. Pertanto esclusivamente la comprensione dell’unicità del Sé, per il fatto di non basarsi su difetti quali attaccamento, avversione e così via, costituisce la visione corretta: questo è il senso da veicolare.
La non-dualità è la realtà suprema, giacché la dualità è detta essere una scissione di essa. Per costoro in entrambi i casi c’è la dualità. Pertanto questa [visione] non confligge. [GK 3,18]
Si espone ora il motivo per cui “questo [punto di vista non-duale] non è in contraddizione con essi”. “La non-dualità è la realtà suprema, giacché”, per il fatto che, “la dualità”, l’eterogeneità, “è detta essere una scissione di essa”, ossia una scissione di tale non-dualità, un suo effettuabile (kârya): questo è il senso. Così afferma la rivelazione: “Uno solo invero senza un secondo”, “quello fece scaturire il fulgore”. E lo conferma il ragionamento. In assenza di vibrazione della propria mente, nello stato di incentramento simultaneo dell’attenzione (samâdhi), nell’obnubilamento e nel sonno profondo infatti [la dualità] viene meno. Per questo “la dualità è detta essere una scissione di essa” [ossia della non-dualità]. Ma “per costoro”, ossia per i dualisti, “in entrambi i casi”, sia dal punto di vista della realtà suprema che non dal punto di vista della realtà suprema, “c’è la dualità”, e solo lei. Se il punto di vista duale appartiene a costoro che sono soggetti all’errore, il nostro punto di vista non duale appartiene a quanti non sono soggetti all’errore. “Pertanto”, per questa ragione, il nostro punto di vista “non confligge” con costoro. Così afferma la rivelazione: “Indra grazie alle facoltà di illusione magica [s’aggira sotto molteplici aspetti]”, “non c’è tuttavia quel secondo”. Il caso è simile a quello di uno che, montando un elefante infuriato, non lo sprona contro un folle che sta a terra anche se questi gli dice: “Anch’io monto un elefante: sprona il tuo contro di me!”, per il fatto che costui non è animato da ostilità nei confronti dell’altro. E dunque, dal momento che secondo la realtà suprema il conoscitore del brahman non è altri che lo stesso Sé dei dualisti, “pertanto”, per questa ragione, il nostro punto di vista “non confligge” con costoro.
Ciò che è già pervenuto all’esistenza non nasce affatto, e neppure nasce ciò che non è ancora pervenuto all’esistenza. I duali[sti] disputanti invero proclamano così la non nascita. [GK 4,4]
Si espone ora che cosa mai venga proclamato in realtà da costoro che mediante argomentazioni opposte operano la negazione dei reciproci punti di vista. “Ciò che è già pervenuto all’esistenza”, ossia una cosa esistente, “non nasce affatto”, proprio per il fatto che è già esistente, come è il caso del Sé. Parlando così il sostenitore del[la nascita dell’effettuabile] non [pre]esistente nega il punto di vista del sâäkhya, secondo il quale ha luogo la nascita reale [dell’effettuabile preesistente]. “E neppure nasce ciò che non è ancora pervenuto all’esistenza”, ossia non esistente, proprio per il fatto che non è esistente, come è il caso di un corno di lepre. Parlando così il sostenitore del sâäkhya a sua volta nega la nascita reale [dell’effettuabile non preesistente] che costituisce il punto di vista del[la nascita dell’effettuabile] non [pre]esistente. “I duali”, ossia dualisti, “disputando”, sostenendo posizioni opposte, negando reciprocamente i due punti di vista relativi alla nascita del[l’effettuabile pre]esistente o non [pre]esistente, “invero proclamano”, mettono in luce, “così la non nascita”, vale a dire il non sorgere.
Noi approviamo la non nascita proclamata da costoro; non disputiamo con loro. Comprendete questa assenza di disputa. [GK 4,5]
Noi meramente “approviamo la non nascita proclamata da costoro”, dicendo: “così sia!”; “non disputiamo con loro”, aderendo a un punto di vista e al suo controcorrelato, come fanno quelli reciprocamente: questo è il senso implicito. Pertanto, o discepoli, “comprendete questa assenza di disputa”, questa visione della realtà assoluta esente da disputa che noi approviamo».6
“Il re Piyadassi caro agli dèi rende onore a tutte le religioni, sia a quelle di asceti sia a quelle di laici, con liberalità e con varie forme di onore. Ma il re caro agli dèi non annette tanto valore alla liberalità o agli onori quanto alla esistenza di progresso essenziale in tutte le religioni. Il progresso essenziale ha varie forme; ma la sua radice è la moderazione nel parlare: vale a dire l’astenersi dall’esaltare la propria religione o dal biasimare le altre fuor di proposito; e biasimarle con delicatezza quando sia necessario. Perché si deve rispetto alle altre religioni, in ogni caso. Agendo così, si magnifica la propria religione e si giova alle altre; agendo diversamente si nuoce alla propria religione e non si giova alle altre. Chi infatti esalta la propria religione o biasima le altre, soltanto per devozione alla propria religione, per voler magnificare la propria religione, agendo così fa invece il magior danno alla propria religione. È bene che vi sia accordo, che gli uni conoscano e rispettino la pietà degli altri, che tutte le religioni si arricchiscano di dottrine e diano buoni insegnamenti.”7
In un mondo che fa del fondamentalismo il proprio orrore l’invito a un attivo rispetto reciproco, che è certo più di una passiva tolleranza, sembra l’unica possibilità di sottrarsi alla catastrofe, spirituale prima che materiale.
Sulle orme di Lanza del Vasto, nell’esempio dell’Arca.
Una panoramica delle esperienze di vita comunitaria nonviolenta
Di Nanni Salio
Che cosa intendiamo per nonviolenza e per vita comunitaria nonviolenta? Le esperienze di cui parlerò sono sempre delle approssimazioni, più o meno riuscite, a un ideale stile di vita che intende tradurre nella quotidianità i principi della nonviolenza. Possiamo cominciare con l’individuare alcuni criteri che ci permettano innanzitutto di classificare le esperienze, nel tentativo di intravedere delle reali alternative in questo nostro mondo apparentemente invaso da fenomeni di violenza crescente e diffusa, nel quale talvolta si fa fatica a conservare la speranza di cui parlano tutti i grandi maestri, a cominciare proprio da Lanza del Vasto. E’ pertanto necessario accostarsi mediante delle approssimazioni agli esperimenti reali che ci permettono di imparare dai nostri errori.
. La prima considerazione riguarda la “dimensione di scala”. Per “dimensione di scala” si intende la modalità con la quale sono organizzate le relazioni tra le persone. Si va dalla dimensione puramente individuale a quella della famiglia e successivamente, dal micro al macro, si passa ad altre strutture sociali: famiglia allargata, comunità, villaggio (inteso in senso gandhiano), società, stato e infine società globale planetaria. Nel nostro mondo ricco e occidentale si è man mano diffusa una ideologia che privilegia a tal punto la dimensione individuale che la Margareth Tatcher è giunta a sostenere che non esiste la società, ma solo gli individui. Di fronte ad affermazioni di tale tenore, che tendono a cancellare quegli aspetti della vita umana che ad altri sembrano fondamentali, si rimane costernati e stupefatti e non ci si dovrebbe pertanto meravigliare delle conseguenze distruttive che si verificano quotidianamente. In un libro molto importante sull’economia gandhiana (in corso di traduzione e pubblicazione), l’autore, Romesh Diwan, mette a confronto la sua esperienza personale, e più in generale quella delle società non occidentali ancora organizzate secondo nuclei famigliari allargati, con la nostra condizione di crescente isolamento. Nella sua analisi, Diwan fa riferimento a un autore americano Philip Slater, poco noto in Italia nonostante il notevole successo di alcuni suoi lavori, e si richiama in particolare a uno dei suoi ultimi libri, “Un sogno rimandato” (Edizioni Pendragon, Bologna 2000), dove il sogno è quello di una società che voglia vivere secondo l’american way of life, ovvero secondo uno stile di vita, un modello, che ha prodotto e continua a produrre guasti enormi a partire proprio dalla distruzione della dimensione relazionale. Oggi c’è bisogno di comunità, e sono molti ad affermarlo, (Zygmunt Bauman, Voglia di comunità, Laterza, Bari 2001) sebbene altri considerino la proposta e la nascita di una dimensione comunitaria addirittura come un pericolo per il modello economico e sociale imperanti. Essi considerano il comunitarismo una sorta di variante del comunismo, non solo per l’evidente affinità lessicale. Perché c’è bisogno di comunità? Per ragioni relazionali ed ecologiche, per ristabilire un senso di sicurezza e per produrre significato nella nostra esistenza.
Per classificare le molteplici esperienze di vita comunitaria in corso è bene cominciare a distinguere tra le esperienze presenti in occidente (e più in generale nel mondo ricco) e quelle negli altri paesi (poveri, o impoveriti); nei quali sono ancora diffuse culture basate su modelli che noi chiamiamo tradizionali, utilizzando un termine che forse non è del tutto corretto. Esistono modelli diversi di comunità ai quali accennerò per far capire quali sono le approssimazioni possibili e i criteri che dovremmo seguire per stabilire in che misura questi esperimenti si avvicinano o meno a un modello ideale di comunità nonviolenta.
Alcune comunità si ispirano a principi anarchici. Qualcuno ha definito Gandhi l’”anarchico gentile”. Il termine anarchia non dovrebbe essere usato nel senso negativo che gli viene spesso attribuito. Gandhi immaginava che fosse possibile costruire una rete mondiale, oceanica, di villaggi, di piccole comunità che permettesse di superare l’idea di stato. Secondo questa concezione, il villaggio era sinonimo di piccola scala, quella nella quale è possibile costruire sia relazioni più profonde e durature, sia un modello di economia e di vita nonviolento, nella interconnessione di una gigantesca rete su scala mondiale che permetta di stabilire relazioni d interdipendenza senza cadere nella dipendenza. La dimensione di scala era quindi molto ben presente nella concezione sociale di Gandhi e alcune comunità anarchiche, in occidente, si richiamano in maniera talvolta implicita a questo modello, pur con qualche approssimazione. Ne esistono un po’ ovunque, anche in Italia. Alcuni studi hanno preso in considerazione soprattutto la comunità degli “Elfi del gran burrone”. Sono comunità che introducono alcuni elementi caratteristici di una economia nonviolenta, in particolare quello dell’autosufficienza, del lavoro senza condizioni di sfruttamento, senza “padroni”, un punto centrale delle Comunità dell’Arca promosse da Lanza del Vasto. Un limite di queste comunità è che molto spesso in esse non c’è sufficiente attenzione ad altre dimensioni considerate solitamente indispensabili in una prospettiva nonviolenta.
Una seconda dimensione, o caratteristica, con la quale classificare le comunità è quella di natura religiosa, ben presente nel caso delle comunità dell’Arca così come in molte altre. Alcune esperienze assumono una dimensione religiosa new age. Ben nota è la comunità di Damanhur, anch’essa oggetto di analisi sociologiche, che pur praticando alcuni degli aspetti che caratterizzano le forme di economia e di relazione nonviolenta presenta a nostro parere forti limiti sul piano relazionale.
Tutte le principali religioni hanno esaltato e praticato forme di vita comunitaria. Nell’islam c’è l’umma, la comunità per eccellenza. In questo periodo, in cui molti vedono l’islam secondo un immaginario negativo, è importante ricordare e far conoscere questa dimensione comunitaria. Nel buddhismo c’è la sangha, la comunità, vista come il luogo per eccellenza in cui rafforzare il percorso di costruzione della propria forza interiore. E’ in essa che si trova rifugio nei momenti difficili della vita. Nell’India c’è la tradizione degli ashram che è stata poi orientata da Gandhi verso veri e propri modelli di economia nonviolenta. Nel cristianesimo potrebbe sembrare a prima vista che questa tradizione si sia andata perdendo in seguito al prevalere di un modello di economia capitalista e allo smembramento della società, sempre più individualista. Oltre alle comunità d’ispirazione cristiana e nonviolenta come l’Arca, è da ricordare la tradizione delle comunità monastiche e degli ordini religiosi, che negli ultimi tempi si stanno orientando sempre più verso coerenti scelte di vita nonviolenta, spesso in controtendenza rispetto alla cultura religiosa dominante.
Ci sono poi comunità di ispirazione più laica, che non si richiamano esplicitamente a concezioni religiose o politiche, senza tuttavia escluderle a livello personale. Un possibile esempio è quello dei nuclei familiari che si sono costituiti in forme che approssimano l’idea di comunità. Una delle esperienze che bisogna prendere seriamente in considerazione e conoscere meglio è quella dei “bilanci di giustizia”, che ha portato nuclei di famiglie a vivere in una dimensione che si può definire di tipo “comunitario lasco”. Quindi esse non vivono necessariamente nello stesso ambiente, con rapporti quotidiani molto stretti, ma mantengono comunque dimensioni di tipo comunitario che comportano il ritrovarsi, l’analizzare insieme i problemi che si affrontano, in particolare dentro la prospettiva che questa campagna di bilanci di giustizia propone: la riduzione dei consumi e la ricerca di uno stile di vita equo e sostenibile.
Quali sono le attività che le comunità normalmente svolgono e quali alcuni dei risultati più interessanti? Li elenco in modo molto sommario, ma importante per avere un quadro che ci permetta di capire che questa strada è realmente percorribile. C’è innanzitutto la ricerca dell’autosufficienza, che dovrebbe essere realizzata su due piani: alimentare ed energetico, entrambi fondamentali per ridurre l’impronta ecologica e riportarla, a livello individuale e collettivo, dentro i vincoli e i limiti della sostenibilità ambientale. Anche quando non si parlava ancora di impronta ecologica, tutto ciò era stato colto con grande lungimiranza da coloro che hanno avviato le prime comunità gandhiane sia in India che in occidente. E’ un punto qualificante, fondamentale per poter parlare di comunità nonviolente.
Il secondo aspetto altrettanto importante, più difficile da valutare, ma che si può cogliere quando si partecipa direttamente a una di queste esperienze, è la qualità delle relazioni interpersonali, che Romesh Diwan chiama “benessere relazionale”. Questa è una delle caratteristiche più importanti per poter sostenere che una comunità sta vivendo in una prospettiva nonviolenta. Non so se esistano dei parametri precisi quantitativi, però quando si entra in una di queste comunità ci si accorge che c’è un clima diverso, ci si accorge che tutto ciò che circonda le persone avviene con ritmi e con una qualità differente da quelli che caratterizzano la vita all’esterno. La qualità relazionale ha a che fare con la qualità della vita, è un aspetto fondamentale che richiede un’attenzione e una cura particolari per rendere la qualità della vita decisamente più avanzata rispetto alla media degli ambienti circostanti.
L’ultimo aspetto che si coglie in molte di queste esperienze di comunità che si richiamano alla nonviolenza è la semplicità volontaria, che comprende sia condizioni estetiche sia materiali ed è stata teorizzata e praticata da coloro che ci hanno preceduto in questa sperimentazione.
Per tentare di tradurre in pratica questi ideali, la gamma di attività possibili è diversificata: da quella, già ricordata, dell’agricoltura, all’artigianato, all’accoglienza (nei confronti di chi vive situazioni di disagio), alla cooperazione internazionale e ad altro ancora. Abbiamo dunque molte comunità in Italia che vale la pena di conoscere, e farò un breve cenno a due esperienze fra le tante. La prima è un’iniziativa che, nella sua parzialità, come tutte le iniziative, si propone di introdurre alla conoscenza della nonviolenza a partire da esperienze di vita reale, quotidiana, mediante i “campi estivi” promossi dal MIR-MN. Sebbene questi campi durino soltanto una settimana, essi permettono di solito di accostarsi in modo significativo ad esperienze di vita comunitaria che altri già conducono su scale assai diverse, da quella molto ridotta di una singola famiglia, alla famiglia allargata, alla famiglia che accoglie. E’ un modo interessante e intelligente per conoscere e sperimentare direttamente.
Una comunità che merita segnalare per la bella e articolata esperienza che sta conducendo è la “comunità di Sestu” (dal nome di una località nei pressi di Cagliari): uno splendido esempio di semplicità volontaria, accoglienza, autosufficienza e attenzione alla vita locale.
Per avere una visione d’insieme più articolata e precisa manca una sorta di mappa ragionata che offra un quadro delle possibilità già in atto e ci aiuti a scoprire il gran numero di persone che si sono incamminate lungo la strada della vita comunitaria nonviolenta. Ognuna di queste esperienze è un segnale di speranza e un’ancora di salvezza in questi tempi quanto mai travagliati.
L’eterna lotta fra Bene e Male: fede e politica in Lanza del Vasto
Con lui si può dire che la nonviolenza ben ordinata inizia da se stessi. Prima di tutto egli ha curato (per conversione e per scelta politica) la riforma di religione. Tre uomini in Europa hanno pensato nel 1936 di andare da Gandhi per avere una risposta al flagello ricorrente della guerra: Buonaiuti, Bonhoeffer e Lanza del Vasto. Solo lui però è riuscito ad andare, ha conosciuto Gandhi, ne è stato discepolo, ha voluto risalire alle sorgenti del Gange, come ogni buon indù (restando però cattolico) e ne ha ricevuto la missione di fondare comunità gandhiane in Occidente. Di ritorno ha affrontato, secondo l’insegnamento di Gandhi, l’approfondimento della sua propria religione ma in termini nonviolenti, cioè ecumenici. Da qui la sua rivisitazione del Vangelo e della Genesi e dell’ Apocalisse: i testi ebraico-cristiani che esprimono la lotta tra il Bene e il Male e la sua soluzione. Da qui il fondamento della nonviolenza come conversione dalla spinta spontanea verso il male, al bene che è nella nostra natura: dal sapere-sfruttamento egoistico alla conoscenza-amore. Essendo i temi della lotta tra Bene e Male e della salvezza i temi tipici di ogni grande religione, con ciò Lanza del Vasto ha interpretato in modo moderno il fondo comune di tutte le grandi religioni, come conversione non solo personale, ma anche sociale; unendo così fede e politica come è tipicamente nella nonviolenza di Gandhi. Con ciò la nonviolenza diventa veramente il deposito del patrimonio sapienziale dell’umanità, portato alla piena coscienza dei rapporti sociali della società moderna.
La comunità allora diventa il luogo dove si concretizza questa spiritualità fattasi rete di relazioni umane capaci di risolvere i conflitti attraverso la nonviolenza; l’inizio della nuova religiosità diventa inizio della nuova società. La comunità dell’Arca può essere intesa forse come un nuovo monacato (pur essendoci sposati e celibi anche non di una fede specifica), ma anche come una microsocietà di una nuova società di tipo tribale.
La sua ispirazione religiosa chiarita socialmente lo porta a teorizzare a tutto campo, dall’individuo, alla società, alle sue strutture. Dall’etica trascendente o comunque eterna di Gandhi, con Lanza del Vasto si scende a vedere concretamente le differenti civiltà che la storia umana ci presenta e in esse i possibili quattro tipi di società (che poi con Galtung, nel 1976, verranno precisati nei quattro possibili modelli di sviluppo, dei quali il “verde” è quello gandhiano).
Antonino Drago
L’esperienza di un asino, portatore dei valori dell’Arca
A cura di Graziella e Giovanni Ricchiardi*
“Ah ! Burìc di n’asu !” : mai sentito ? Io da ragazzo sì ; in famiglia, talvolta rivolto a me. Allora forse non gradivo tanto, ma ora dopo tanti anni in campagna, accanto alle mucche e ai cavalli, trovo che la figura dell’asino non sia cosi’ male.
L’asino ha poche esigenze, aiuta con la sua umile fatica, dà compagnia senza mancare di personalità e dignità. Mi piace ! Sono un asino come gli altri: mi fa paura “ il banco dell’asino”, vorrei essere più’ intelligente, più pronto, parlar bene. Però al pensare a ciò che combinano, sotto l’etichetta della scienza molti professori chiarissimi, son lieto di esser asino !
Quest’asino sono proprio io, così come sono, diverso dagli altri, unico: devo cercare con fiducia il mio posto.
Così, nella nostra mediocrità, io e la mia asinella, prima nel calore delle nostre famiglie, poi insieme, ci siamo messi alla ricerca di quel che ci sembrava bene per noi a per gli altri. Azione Cattolica, Gesù, Gandhi, Don Milani, Sindacato, Gruppi per il terzo mondo, tentativi di comunità. Un cammino, una strada, un’avventura con buona volontà ma tanta superficialità e sprovvedutezza. Ogni esperienza confluiva nella successiva.
In Lanza Del Vasto, in Shantidas, abbiamo trovato un cammino per scoprire intorno a noi il Creato, ringraziare di farne parte e cercare il nostro posto.
Tutti dicono di lavorare ma: la speculazione, il commercio, la politica, l’esercito……..ecc..ecc.., non sono vero lavoro.
Possono esserlo invece i lavori manuali e quelli di servizio agli altri (nell’ambito educativo, sanitario, ecc.).
Poi spesso i veri lavori sono segnati dal lucro, dalla rivalità, dalla schiavitù. I salariati sono schivi perché il frutto e la direzione del lavoro sono di altri ed essi non lavorano per amore del prossimo ne per amore del lavoro, ma per il salario.
Inoltre i lavori di servizio sono nobili se liberi e se il guadagno resta un mezzo di sussistenza per darsi al servizio. Lo stesso per i lavori artigianali.
In realtà tutti rifiutano di “lavorare col sudore della fronte” (il comandamento più antico) e costringono gli altri a lavorare al loro posto. Anche perché lo spirito di lucro e la ricerca del piacere moltiplicano i desideri e i bisogni in modo sproporzionato rispetto alla capacità delle mani di soddisfarli onestamente.
Da tutto ciò viene il dramma delle ingiustizie: miserie, abusi, schiavitù, disordini; come la meccanizzazione e i suoi aspetti moderni ancora più pericolosi: l’elettronica e l’informatica (direbbero oggi Gandhi e Lanza Del Vasto); di qui lo sfruttamento regolare dei poveri, dei deboli, dei vinti, le rivolte, le repressioni, la guerra.
Il percorso alternativo è il lavoro manuale volontario, senza lucro e scaltrezza in spirito di dono, di servizio, di sacrificio (fare cosa sacra). E’ detto : “Dio diede all’uomo un giardino perché vi operasse”. Lavoro agricolo senza sfruttamento di uomini, nè animali, nè cose. Operare consapevoli della magnificenza sconosciuta della natura ricca di prodotti spontanei e, se necessario, proporre con speranza il seme sapendo che il vero lavoro lo fa la natura; accompagnare la crescita e la maturazione, raccogliere, rendere grazie e mangiare. Quello che non va in questo senso, provoca crudeltà, bruttezza, costrizione e va eliminato. Così il lavoro salariato. Così lo sfruttamento della natura su cui hanno eguali diritti gli uomini tutti, delle presenti e future generazioni.
Bisogna che il lavoro sia vita: armonizzi, componga, innalzi ; sia purificazione, santificazione, creazione comune, vada nel senso della volontà di Dio.
Ma il lavoro va facilitato e completato con la povertà volontaria. Impossibile possedere ricchezze senza commettere ingiustizie nel procurarsele, nel difenderle, nel farle fruttare ; senza servirle. Impossibile bramarle senza calpestare il prossimo. La strada verso il distacco e la carità è la povertà. Bisogna identificare i veri bisogni e soddisfarli attraverso mezzi semplici e giusti. Ecco l’artigianato per il cibo, il vestito, l’utensile e il tetto, in bellezza e pulizia. Limitando i bisogni sarà facile alla mano soddisfarli e daremo spazio alla contemplazione, allo studio, alla preghiera, alla festa, al lavoro interiore per la conoscenza il possesso e il dono di se. Si tratta della conversione: nel modo di pensare e in quello di agire, da ricercare e riprendere un po’ ogni giorno…
Questa parte d’insegnamento (che unita alle altre trova una trattazione più completa e degna nei libri e nella vita di Shantidas) ci parve La Buona Novella tradotta in pratica. Si adattava alla nostra strada, esprimeva solidamente e traduceva in vita ciò che come asinelli non avremmo potuto pensare ; era una proposta giusta, coerente e completa di vita. Partecipammo agli incontri del gruppo di Amici dell’Arca di Torino e a un campo estivo animato da Shantidas.
Trascorremmo qualche periodo all’Arca francese.
Intanto era maturato un gruppo di volontari per costituire una comunità. Ci furono incontri a Gainazzo sull’appennino in provincia di Modena. Vi parteciparono Shantidas, Pierre Parodi (suo successore) ed altri compagni dell’Arca francese. Avendo gli aderenti esperienze diverse si pensava alla comunità in differenti modi. Shantidas ci esortò a basarci sulla regola dell’Arca, il testo dei voti. Così avvenne. Insieme ad alcuni dei partecipanti ci trovammo a far parte di una nuova, difficile, straordinaria, ricca e forte avventura, temprata da prove imprevedibili (fra cui lo spostamento in Puglia a Monte Sant’Elia), benedetta da segni inconsueti, vissuta con intensità, dedizione e forte desiderio di fedeltà alla regola assunta. Anno dopo anno avevamo agricoltura con allevamento, orto, artigianati, ospitalità, campi formativi, accoglienza e presenza nella vita locale.
Molti erano gli amici vicini e lontani a sostenerci; alcuni fedelissimi del movimento dell’Arca ci davano molto loro tempo, esperienza e capacità. Sentivano la comunità attuale e significativa, la sentivano formativa come scuola di nonviolenza e aderivano al programma del suo maestro ispiratore: Lanza Del Vasto. Passarono generazioni di obiettori di coscienza, di obiettori alle spese militari, si tenne il primo campo della difesa popolare nonviolenta. Fra gli impegnati di Monte Sant’Elia ci furono molte presenze brevi, alcune di lunghezza significative, poche di lungo tempo. Il luogo e l’impegno erano selettivi. Li ricordiamo tutti con calore ed ammirazione. Ognuno fu importante. Con particolare tenerezza pensiamo Giovanni e Pasqualina Tammaro: siamo vissuti fianco a fianco per tutta la durata della comunità : tredici anni intensi e positivi.
Per una comunità dell’Arca, una comunità fedele, tante sono le necessarie circostanze e componenti che, quando si verificano, avviene come una sorta di miracolo, una Grazia. Talvolta è concessa: la comunità nasce, vive e fruttifica, poi muore, è naturale ! Ma se frutti e semi ci son stati non è veramente morta ! Si generano nuove vite: ce lo auguriamo !
Poi la famiglia di asinelli ha passato un tempo all’Arca francese di Nogaret e de La Borie; questi luoghi parlano del fondatore. Siamo lieti dell’esperienza, speriamo di avervi partecipato con dedizione e buona volontà.
E ultimamente, nel verde di un bosco dell’alta Langa piemontese, cerchiamo di ricomporre pietra su pietra con la nostra esperienza e quella degli animali, il pulsare della vita di una cascina abbandonata.
In fine permetteteci di riproporre :
la gratuità: il volontariato è vero se è dono ;
l’utilizzo di mezzi semplici, l’autonomia dal consumismo economico e politico per essere alternativi ;
verità, carità e amore per migliorare le relazioni fra persone più che ricorrere a specialisti ;
la presenza del Dio di verità che gli uomini diversi chiamano un diversi nomi ma che è l’uno, l’unico, il medesimo, che è Colui che è, che in tutto ciò che è e nell’unione di quelli che si uniscono. Che è nell’altezza e nell’abisso, nell’infinito dei cieli e nell’ombra del cuore come un piccolo seme nella ricerca dello sviluppo sostenibile.
*Cascina Scherpo, S. Benedetto Belbo CN
Per una strategia lillipuziana, reticolare e nonviolenta:
i Gruppi di Azione Nonviolenta. Un mondo in crisi.
A cura di Pasquale Pugliese
L’11 settembre 2001 a New York non sono solamente morte 5000 persone, ma si è manifestata, in maniera tragica e simbolica, la crisi del sistema-mondo che l’Occidente ha costruito.
Un sistema nel quale la minoranza ricca – della quale facciamo parte noi tutti – sperpera l’86 % delle risorse del pianeta costringendo alla morte, nel silenzio e nel buio delle televisioni, 35.000 bambini al giorno per fame; nel quale 200 persone possiedono una ricchezza pari a circa il prodotto globale lordo della metà più povera dell’umanità e nel quale ci illudiamo follemente di garantire la sicurezza non attraverso la giustizia per tutti ma la difesa militare dei privilegi per pochi.
La risposta dei governi alla crisi è la guerra, che è tutta interna ed anzi aggrava la crisi stessa. La guerra ha come obbiettivo non certo di sconfiggere il terrorismo – è piuttosto il modo più efficace per alimentarlo – ma di garantire all’Occidente, ed agli USA in primo luogo, per qualche anno ancora, gli ultimi rifornimenti di petrolio dell’Asia centrale, prima che la “crisi sistemica globale”, innescata dall’esaurimento dei pozzi, entri nella fase acuta e faccia crollare, con una violenza infinite volte superiore a quella delle Due Torri, il mondo che abbiamo costruito sul profitto e sulla crescita (1).
Ed i governanti del mondo, assolutamente irresponsabili, si preoccupano di terminare il proprio mandato elettorale garantendo, ai già garantiti, qualche altro anno di illusione di benessere, incuranti del muro dell’insostenibilità sociale ed ambientale contro il quale stanno portando velocemente – d’accordo con i decisori economici delle istituzioni internazionali e della multinazionali – a impattare l’umanità e il pianeta.
Le responsabilità dei popoli di Seattle, Porto Alegre e Genova
Di fronte alla incapacità imbelle di leggere i segni di crisi – mista alla volontà di perseverare sulle strade della violenza strutturale del sistema e della violenza diretta della guerra a sua difesa – da parte delle élite elette e non elette, la responsabilità di agire rimane tutta ai popoli della terra i quali, in questi anni, pazientemente, hanno costruito quel “movimento dei movimenti” che ha visto la sua emersione a Seattle e poi via via tutta una serie di mobilitazioni internazionali – passando per l’appuntamento costruttivo di Porto Alegre – fino alla contestazione del G8 di Genova nel luglio scorso (2).
Il conflitto sociale ed ecologico, che ha costantemente accompagnato il capitalismo in tutta la sua costruzione ed espansione, è dunque nuovamente assunto ed agito nelle strade e nelle piazze da parte di coloro che operano la resistenza alla sua violenza e ne costruiscono e, in molti casi, praticano le alternative. Oggi la posta in gioco è altissima e sempre più chiara e ravvicinata, ne va del futuro della terra e dei sui abitanti. Pertanto il movimento di lotta in atto non può permettersi di fallire nel suo obbiettivo di trasformare in senso nonviolento le strutture profonde, economiche e culturali, della società.
Ma con i fatti di Genova – nella loro drammaticità e con le dolorose ferite fisiche e morali ancora aperte – il movimento è entrato nella fase acuta del conflitto. Nella fase in cui maggiormente corre, da un lato, il rischio di involuzione verso derive violente, oltretutto inefficaci e controproducenti e, dall’altro, specularmente, il rischio della criminalizzazione e della repressione feroce e illiberale. Entrambi i rischi possono condurre alla fine del conflitto, all’azzeramento del movimento e delle sue speranze di cambiamento, al peggioramento complessivo delle condizioni dell’ambiente e degli umani al Nord come al Sud, al via libera definitivo alle guerre per il petrolio prima, per l’acqua poi e di tutti contro tutti, infine, senza più nessun argine di resistenza e alternativa politica.
Servitù volontaria e sistema capitalista
Se già nel ‘500, come ci ricorda Gene Sharp (3), Etienne de La Boétie nel suo Discorso sulla servitù volontaria, ha evidenziato come le vere radici del potere stanno nella “complicità” di chi lo subisce, questo è ancor più vero oggi, in Occidente, nel sistema di capitalismo avanzato. Il sostegno principale al sistema non è dato tanto dall’esercito o dalla polizia quanto da quel venti per cento di cittadini del mondo ricco che da un lato dissipa le risorse economiche, ecologiche ed energetiche di tutti e dall’altro comincia a pagarne le conseguenze (mucche pazze, ogm, cambiamento climatico, insicurezza sociale, terrorismo ecc.).
“Il capitalismo è sostenuto più dall’adesione passiva che dalla forza. – spiega Brian Martin – Nelle società capitalistiche le persone vivono la loro vita quotidiana invischiate in una rete di credenze e di piccole azioni che costantemente ripresentano loro ciò che è possibile e desiderabile. Quando la gente consuma un pasto pronto, vede e ascolta la pubblicità, indossa abiti firmati, aspira a ulteriori possessi materiali e si adatta a competere in un mercato del lavoro rigido, ecco che si trova coinvolta in comportamenti e sistemi di credenze che riflettono e riproducono uno stile di vita dominato dal capitalismo. Se molti disobbedissero alle leggi, l’intervento della polizia o dell’esercito potrebbe essere controproducente o inutile, ma il fatto è che quasi tutti si adeguano al sistema, anche coloro che gli sono contrari. Si tratta dunque di elaborare una politica che distrugga le credenze del capitalismo e che dia impulso ed espansione a una nuova sfida”(4).
Ed esattamente questa è la sfida che ha di fronte il “movimento dei movimenti”:
continuare a rincorrere i vertici dei potenti, trasformati ormai in abili trappole, agendo un conflitto di piazza aspro, ed anche violento, che rimane in superficie perché tende a polarizzarsi nello scontro con le forze dell’ordine – consentendo alla gente di rimanere spettatrice di qualcosa che, sostanzialmente, sente lontano, estraneo e non capisce – oppure avviare una trasformazione del conflitto in senso nonviolento, meno spettacolare, forse, ma che mira più in profondità perché alla ricerca della comunicazione efficace con tutti, avendo come interlocutori principali i cittadini, terze parti fondamentali nel confronto tra il movimento ed il potere – perché di esso sono appunto il puntello – attraverso la messa in campo di strumenti di azione inediti che proprio i cittadini persuadano e coinvolgano sui loro territori.
Una strategia lillipuziana, reticolare e nonviolenta
La Rete di Lilliput è il soggetto politico interno al “movimento dei movimenti” che in Italia ha le carte in regola per provare a trasformare il conflitto in senso nonviolento. La storia delle associazioni aderenti, il radicamento sul territorio di molte realtà che ne costituiscono l’ossatura, l’organizzazione per nodi territoriali, la scelta chiara e definitiva della nonviolenza fanno si che essa possa svolgere, per tutto il movimento, un ruolo delicato ed insostituibile: percorrere la strada stretta che passa tra l’assenza del conflitto agito e la sua degenerazione violenta. Ossia operare la trasformazione e mantenere la gestione nonviolenta del conflitto ecologico e sociale attraverso la strategia che più le è congeniale: lillipuziana, reticolare e nonviolenta.
Si tratta, dopo Genova, di modificare il paradigma del conflitto: passare dalle grandi manifestazioni concentrate ed onnicomprensive alle azioni nonviolente sui territori e su obbiettivi specifici.
A tal fine bisogna, per un verso, lasciare modalità di mobilitazione ormai usuali ma sempre più inefficaci o addirittura controproducenti:
abbandonare la rincorsa dei vertici dei potenti per uscire dalla subalternità ai luoghi e ai tempi di manifestazione imposti dalle loro agende;
uscire dalle logiche della uguaglianza nella diversità, e della contemporaneità, delle forme di lotta adottate a Genova perché le forme che non sono coerentemente nonviolente nei mezzi, nei fini, nella comunicazione, nell’immagine, fanno il gioco del potere;
uscire dalla mistica del numero propria delle manifestazioni di massa che, in questa fase, sono il ricettacolo di coloro che intendono sfidare il potere sul piano, reale o simbolico, della violenza a tutto vantaggio di chi vuole criminalizzare il movimento (altro naturalmente è lo spirito ed il senso della marcia Perugia-Assisi) .
E, per altro verso, utilizzare le sinergie della rete per avviare una trasformazione profonda dei territori locali – dove la gente tutti i giorni vive-produce-consuma – mettendo in campo una strategia complessiva che preveda, nodo per nodo, un programma costruttivo ed un progetto di azioni nonviolente.
Per quanto riguarda il programma costruttivo, se i nodi della Rete Lilliput, che legano insieme soggetti che già operano per la trasformazione del proprio territorio – dalle botteghe del mondo ai coordinamenti per la pace, dalle m.a.g. ai comitati ecologisti, dai movimenti nonviolenti ai gruppi di acquisto solidale ecc. ecc.- lavorassero alla connessione dell’enorme quantità e qualità di competenze, energie e sensibilità che riescono ad esprimere finalizzandole alla realizzazione di progetti forti di cambiamento locali, potrebbero, agendo in rete, incidere in profondità, operando trasformazioni significative nelle pieghe delle nostre e della nostra società(5). “Se un tratto sembra caratterizzare tutte le più nuove ed efficaci azioni di resistenza e di contrasto agli effetti perversi dell’assolutizzazione dell’economia e della globalizzazione finanziaria – scrive a questo proposito Marco Revelli – è che esse muovono, per così dire, <<al livello del suolo>>. Che si costituiscono dentro le pieghe del territorio – l’elemento più sfidato ed insieme più attivo nel quadro della competitività globale. In una parola , che fondano la propria pratica dal basso, per poi identificare singoli momenti, luoghi simbolici, eventi (si pensi a Seattle) in cui rappresentare la propria vocazione globale”(6). Si tratta, insomma, di dare priorità al radicamento ed al progettare insieme il cambiamento culturale, economico, sociale e politico dei territori locali, piuttosto che svolgere pellegrinaggi dell’antiglobalizzazione verso le “zone rosse” dei santuari globali.
Per quanto riguarda il progetto di azioni nonviolente, costituire presso ogni nodo un Gruppo di Azione Nonviolenta.
I Gruppi di Azione Nonviolenta
La strategia di trasformazione nonviolenta del conflitto passa anche attraverso le azioni dirette nonviolente, che fondano la loro efficacia ed incisività sulla capacità di comunicare a più persone le ragioni della propria iniziativa politica acquisendone la simpatia, il consenso ed infine l’alleanza. Esse agiscono tanto sull’avversario – le strutture da trasformare impersonate di volta in volta da coloro nei cui confronti si rivolge l’azione – del quale si cerca il cambiamento, quanto su coloro che si considerano neutrali – inconsapevoli del proprio essere i “servitori volontari” del sistema – dei quali si cerca la persuasione, la “conversione” ed infine la disobbedienza. Dopo la trappola di Genova, le azioni nonviolente possono consentire di tenere insieme la realizzazione degli obbiettivi essenziali con la possibilità democratica di agire liberamente tra la gente, la riduzione al minimo del rischio di degenerazioni violente delle mobilitazioni con la messa del potere nell’impossibilità – o nella difficoltà estrema – di dispiegare il suo apparato repressivo.
La struttura reticolare di Lilliput può garantire, inoltre, una diffusione capillare di azioni nonviolente sui territori che ha il vantaggio di incontrare più cittadini contemporaneamente, a viso aperto, senza la mediazione dei mezzi d’informazione (o dis-informazione) nazionali, e di rivolgersi ad obbiettivi particolarmente importanti per le sensibilità locali. La strada da seguire a questo scopo è la costituzione all’interno di ogni nodo Lilliput di un Gruppo di Azione Nonviolenta (GAN) (7).
Se in ogni città o provincia dove è presente un nodo, un gruppo di lillipuziani si impegnasse in un adeguato programma di formazione alla teoria ed alla prassi del metodo nonviolento e incominciasse a sperimentare delle azioni dirette nonviolente locali, collegandosi progressivamente ai GAN degli altri nodi, svolgendo sempre più azioni coordinate con questi, e magari simultanee, nel giro di qualche anno sarebbe presente in Italia una rete di lillipuziani nonviolenti capaci di attivarsi, con preparazione ed organizzazione, anche per campagne di ampio respiro. E sarebbe giunto il momento di lanciare una grande campagna nonviolenta nazionale – su un nostro tema e con i nostri tempi – condotta finalmente secondo le gandhiana “legge della progressione”, che prevede il passaggio graduale dalle forme più blande di azione a quelle via via più incisive e radicali fino alla realizzazione completa dell’obbiettivo essenziale stabilito(8). Per passare poi ad un nuovo obbiettivo…
Poiché per condurre con efficacia un’azione nonviolenta si devono condividere i valori di riferimento, e non solo gli avversari, il programma di formazione dei lillipuziani dovrebbe essere indirizzato non alla semplice acquisizione di un insieme di tecniche – perché la nonviolenza non è un mero strumento che può essere usato per qualunque scopo o applicato come etichetta su qualsiasi tipo di azione – ma alla conoscenza ed all’appropriazione dei principi, della strategia e della tattica, oltre che della pratica, che fondano storicamente e scientificamente il metodo nonviolento.
Si tratta di riuscire ad attivarsi efficacemente, insomma, attraverso i GAN e i progetti locali costruttivi, per la trasformazione tanto sul piano del cambiamento personale – nostro e degli altri – quanto su quello politico, tanto sul piano delle dinamiche globali quanto – e soprattutto – sul loro riverbero nel locale e nel quotidiano di tutti.
Infine, la profondità
In un contesto storico come quello attuale – carico di una tale violenza che può paralizzare la capacità critica e l’azione creativa – la scelta da parte della Rete Lilliput di caratterizzare la propria strategia in maniera lillipuziana, reticolare e nonviolenta – attraverso la strutturazione, nodo per nodo, dei programmi costruttivi locali e l’investimento sulla formazione dei Gruppi di Azione Nonviolenta – può non essere compresa e condivisa dal resto del “movimento”, se questo continua a reagire in maniera automatica e rituale agli input esterni. Pazienza, la posta in gioco è talmente importante che ciò che conta è cercare le strade che inducano veramente il cambiamento nel modo di pensare, di vivere e di agire in Occidente, modificandone contemporaneamente i comportamenti individuali e le strutture sociali. Serve dunque impegnarsi – piuttosto che nella ricerca di defatiganti unanimismi di facciata – in accurate modalità di azione che affrontino la complessità delle dinamiche in gioco e rifuggano dalla semplificazione, che incidano in profondità e non si dimenino sulla superficie.
Perciò è necessario – e presto – lavorare alla trasformazione del conflitto in senso nonviolento, per riuscire a tenere conto allo stesso tempo dei diversi livelli nei quali si esprime la violenza, della pluralità degli attori coinvolti nel conflitto e della molteplicità delle sue dimensioni. Non è certo una scelta di moderazione, è piuttosto una scelta di azione in profondità che non si arresta alla superficie della rincorsa, a dispersione energetica, degli avvenimenti indotti dagli avversari.
“La nonviolenza è il punto della tensione più profonda del sovvertimento di una società inadeguata” scriveva Aldo Capitini molti decenni orsono(9), e parlava dell’oggi.
Pasquale Pugliese
(1)Vedi, tra le altre cose, l’intervista ad Alberto di Fazio La guerra sul treno della crisi
petrolifera su il manifesto 17 ottobre 2001 e Massimo Riva La guerra del greggio si fa ma non si dice la Repubblica 23 ottobre 2001;
(2)Cfr. Nanni Salio Persuasi della nonviolenza per sconfiggere ogni terrorismo, Azione nonviolenta n.10/2001;
(3) Politica dell’azione nonviolenta, vol 1, Potere e lotta EGA Torino 1985;
(4)Nonviolenza contro capitalismo, si trova in appendice a Giovanni Salio Elementi di economia nonviolenta quaderni di Azione nonviolenta n.16 Verona 2001;
(5)Cfr Il progetto Lilliput: rete, territorio, nonviolenza elaborato dal nodo Lilliput di Reggio Emilia presente sul sito
(6)Marco Revelli Oltre il Novecento La politica, le ideologie e le insidie del lavoro Einaudi Torino 2001 pag.286 (vedi recensione su Azione nonviolenta 10/2001);
(7)La sigla GAN rievoca il primo GAN (Gruppo di Azione Diretta Nonviolenta) che vide la luce in Italia nei primi anni ’60, con il consenso di Aldo Capitini e il coordinamento di Pietro Pinna, e che diede impulso alla diffusione nel nostro paese delle tecniche della nonviolenza, già allora ampiamente sperimentate all’estero. Vedi Nonviolenza in cammino. Storia del Movimento Nonviolento dal 1962 al 1992 Edizioni del Movimento Nonviolento Verona 1998;
(8) Vedi M.K. Gandhi Teoria e pratica della nonviolenza Einaudi Torino 1973
(9)Il problema religioso attuale Guanda Parma 1948, pag. 61 (vedi anche Aldo Capitini Toria della nonviolenza quaderni di Azione nonviolenta n. 6 Perugia 1980)
PRIGIONIERI PER LA PACE – ALBO D’ONORE 2001
In occasione del 1°dicembre, giornata mondiale del prigioniero di coscienza, la War Resisters’ International (Internazionale dei Resistenti alla Guerra – di cui il Movimento Nonviolento è la sezione italiana) diffonde l’elenco di obiettori e nonviolenti attualmente incarcerati in vari paesi del mondo per obiezione di coscienza o per attività pacifiste considerate illegali dai rispettivi governi.
Invitiamo i lettori di Azione Nonviolenta a spedire gli auguri di Natale e per l’Anno Nuovo a questi testimoni di pace (riportiamo gli indirizzi delle varie carceri dove sono detenuti: potete inviare una cartolina, un biglietto, una lettera) come segno di solidarietà e sostegno, e per far sapere alle autorità di quei paesi che i prigionieri pacifisti non sono isolati.
Israele
32 persone imprigionate o condannate in Israele per aver rifiutato di prestare servizio militare in base a motivi di coscienza o politici; l’obiezione di coscienza è di fatto riconosciuta possibile solo per le donne, mentre le istanze di obiezione di coscienza presentate da uomini sono regolarmente rigettate.
Yesh-Gvul, organizzazione che difende gli obiettori di coscienza, dichiara di aver ricevuto più di 250 richieste di assistenza, la maggior parte da soldati della riserva, che hanno rifiutato di essere impiegati nei territori palestinesi occupati.
Non tutti gli obiettori vengono incarcerati perché l’esercito decide di impiegarli all’interno dei confini di Israele; malgrado ciò vi sono molteplici casi di penalizzazione.
La comunità Drusa promuove l’obiezione di coscienza perché rifiuta di vestire la divisa di un esercito che combatte contro la comunità stessa.
Grazie a questa scelta circa il 50 % degli uomini appartenenti alla comunità Drusa, non svolge il servizio militare.
In Israele è in arrivo una nuova generazione di obiettori, i giovani tra i 15 ed i 18 anni, più indipendenti nei loro pensieri.
62 di loro hanno scritto una lettera al Primo ministro Sharon dichiarando la loro intenzione di rifiutarsi di partecipare all’oppressione del popolo palestinese.
Anche se pochi, questi giovani rappresentano un punto di riferimento e di guida ideale per un numero sempre più ampio di giovani (e non solo) israeliani.
Ogni atto di obiezione di coscienza è un fatto visibile ed assume il senso di un crescente dissenso verso l’impiego di militari israeliani in Palestina.
L’obiettore di coscienza Eran Razgour è stato arrestato il 28 ottobre 2001 e condannato a 42 giorni di carcere. Questa condanna ad una detenzione insolitamente lunga è dovuta ad una prima condanna a 14 giorni inflitta ad Eran Razgour al momento dell’arresto, e ad una condanna a 28 giorni di prigione inflittagli tre giorni prima ma inizialmente sospesa. Entrambe le condanne gli sono state comminate a causa del suo rifiuto di arruolarsi.
Eran Razgour dovrebbe essere rilasciato dalla prigione il 4 dicembre, e altrettanto probabilmente sarà nuovamente arrestato subito dopo.
New Profile, movimento per la smilitarizzazione della società israeliana, ha informato di due nuovi arresti di obiettori di coscienza.
Leonid Kressner, un obiettore di coscienza pacifista di diciotto anni, è attualmente detenuto presso la Prigione Militare N° 6, nel reparto di isolamento, perché si è rifiutato di indossare l’uniforme militare.
Yair Halper, anch’egli diciottenne, è stato condannato a 28 giorni di carcere ed è detenuto, come Kressner, nel reparto di isolamento della prigione militare N° 6, per essersi rifiutato di arruolarsi e di indossare l’uniforme. Sebbene si tratti di ‘reparto d’isolamento’ e non di ‘cella d’isolamento’, questo reparto è conosciuto per la sua storia di abusi fisici da parte delle guardie sui detenuti.
Nomi e indirizzi:
Eran Razgour, Military ID number 7118061 – Military Prison n° 4, Tzrifin, Military postal code 02507, IDF.
Leonid Kressner e Yair Halper, Military ID 7156547, Military Prison n° 6, Military postal code 03734, IDF.
Mordechai Vanunu, Ashkelon Prison, Ashkelon –Arrestato il 30 settembre 1986 per “aver rivelato segreti sullo sviluppo della tecnologia nucleare israeliana”.
Finlandia
In Finlandia la chiamata alle armi è ancora obbligatoria e il numero di obiettori totali è in crescita in questi ultimi anni: 56 obiettori nel 99, il numero più elevato da quando i Testimoni di Geova sono stati esclusi dagli obblighi militari, e questo numero sembra destinato ad aumentare negli anni a venire; questa crescita sembra connessa sia con l’aumentare dei problemi relativi allo svolgimento del servizio civile (la durata è maggiore rispetto al servizio militare), sia con il rifiuto della coscrizione obbligatoria. Al 1° ottobre 2001 si contavano 22 obiettori totali in prigione.
Nomi: Indirizzi:
– Sadri Cetinkaya e Jarkko Mauno Helsingin työsiirtola, PL 36, 01531 VANTAA
– Mikko Korhonen Uudenmaan lääninvankila/avovankilaosasto, PL 20, 05401 JOKELA
– Juha Mikkola Satakunnan vankila, Hiuttisten osasto, Toivarintie 581, 32700 HITTINEN
– Ilkka Tillanen , Lauri Pynnönen e Naarajärven vankila, PL 1, 76851 NAARAJÄRVI
Sami Heikkinen
– Alesi Sutinen Kuopion vankila, PL 7, 70101 KUOPIO
– Ari Saastamoinen Juuan avovankilaosasto, PL 26, 83901 JUUKA
– Pyry Nurmi Suomenlinnan työsiirtola, Suomenlinna C 86, 00190 HELSINKI
Repubblica di Corea
Circa 1500 obiettori Testimoni di Geova sono attualmente imprigionati per obiezione di coscienza, 500 dei quali stanno scontando una pena detentiva di 3 anni. Per informazioni:
– Solidarity for Peace & Human Rights, 152-053 402-ho yunyoung-building, 1127-33 guro3-dong gurogu, Seoul, Korea, (+82 2 851 908; fax 851 9087; e.mail: peace@jinbo.net )
Puerto Rico
Oltre 1000 le persone arrestate per aver partecipato ad azioni di disobbedienza civile alla base militare di Vieques; molti di loro hanno subito condanne di breve durata e sono già stati scarcerati ma alcuni rimangono tuttora in prigione, come è il caso di Dàmaso Serrano, e questo numero potrebbe ricominciare a crescere con il riprendere delle azioni di disobbedienza.
Indirizzo:
– Dàmaso Serrano MDC Guaynabo, Apartado 2146, San Juan, PR 00922-2146
Spagna
Sebbene la coscrizione non sia più obbligatoria, alcuni “non-sottomessi” sono ancora incarcerati.
Nomi: Indirizzi:
– Oscar Cervera Garcìa Prisiòn Militar de Alcalà de Henares, 28870-Alcalà de Henares (Madrid)
– Josè Ignacio Royo Prieto Prisiòn Provincial de Bilbao, Lehendakari Agirre, 92, 48870-Basauri (Bizkaia)
– Jesùs Belaskoain Centro Penitenciario de Pamplona, c/ San Roque s/n, 31.008-Iruna
– Miguel Felipe Ramos Centro Penitenciario Càceres 1, Crta. De Torrejoncillo, s/n, 100001-Càceres
– Ander Eiguren Gandarias Prisiòn Provincial de Bilbao, Lehendakari Agirre, 92, 48870-Basauri (Bizkaia)
Stati Uniti
Sono 11 i pacifisti incarcerati negli USA per aver dato vita ad azioni di disobbedienza civile, realizzate nei confronti di basi militari (dove erano custoditi carri armati, missili, armamenti contenenti uranio impoverito) o nella School of the Americas. Di seguito elenchiamo i nomi e gli indirizzi che ci sono pervenuti.
Nomi: Indirizzi:
– Phillip Berrigan e Susan Crane FCI Dublin, 5701 8th Street, Dublin, CA 94568
– Rev Stephen Kelly Roxbury Correctional Institution, 18701 Roxbury Rd, Hagersttown, MD 21746
– David Corcoren Federal Prison Camp Oxford, PO Box 1085, Oxford, WI 53952
– John Alfred Hunt, Jr FCI Beckley, PO Box 350, Beaver, WV 25813
– Steve Jakobs Federal Prison Camp Leavenworth, PO Box 1000, Leavenworth, KS 66048
– Richard John Kinane FCI Englewood Camp, 9595 W Quincy Avenue, Littleton, CO 80123
Germania
Malik Sharif, diciannovenne, è stato arrestato il 3 novembre quando si è presentato alla caserma militare di Breitemburg. Malik è stato arrestato perché si è rifiutato di obbedire a qualsiasi ordine.
– Malik Sharif Wache Freiher-Von-Fitsch-Kaserme, Birkenweg 10, 25524 Breitenburg Germany
Per aggiornamenti sugli indirizzi dei prigionieri e sulla loro situazione è possibile consultare il sito della War Resisters’ International: www.wri-org
(Traduzione e adattamento di Flavia Rizzi)
In memoria di Yitchak Rabin: conquistare la pace, non i territori
A cura di Elena Buccoliero
Il 3 novembre scorso a Tel Aviv, a sei anni dalla morte, si è svolta una manifestazione in memoria di Rabin organizzata dal governo israeliano. I gruppi pacifisti del luogo la definiscono come “un incontro a-politico in cui l’oratore più importante era un rappresentante del Ministero della Difesa nel governo di Sharon, una persona che condivide la responsabilità diretta per aver inviato i carri armati in sei città della Cisgiordania e per l’uccisione di oltre cinquanta palestinesi nelle sole due settimane precedenti la manifestazione, e così senza vergogna da dichiarare alla moltitudine che la pace è migliore della guerra…”. In quell’occasione, afferma l’organizzazione Gush Shalom, “Sharon ha nominato Daliah Rabin, indegna figlia del primo ministro martire, come rappresentante del Ministero della Difesa, dandole un incarico senza reale potere di influenza e guadagnando al suo governo il prestigio e la legittimazione che il nome di Rabin porta con sé”.
Ciò nonostante molti gruppi nonviolenti israeliani vi hanno preso parte per parlare alle diecimila persone che hanno affollato la piazza. In maggioranza giovani, essi costituiscono la parte migliore della coscienza pacifista israeliana, scoraggiata dagli eventi dell’anno trascorso, raggirata dalla propaganda, ma ancora vitale.
Per questi giovani, Yitchak Rabin è diventato la personificazione di una speranza tradita. “Quando vediamo le onde dell’odio più cieco salire nel nostro paese e ascoltiamo i discorsi razzisti, testimoniamo la vittoria di Yigal Amir (l’assassino di Rabin)”, recitava un volantino distribuito da uno dei gruppi giovanili. “Non lasciamo che vinca l’assassino”, si leggeva su un enorme striscione, e ancora “La pace è la ritorsione giusta”, “Rabin è Oslo e Oslo è speranza”.
“Se perdiamo la speranza abbiamo ancora l’amore” era un graffito disegnato sul muro della piazza accanto. E di fronte alla folla, Peace Now ha alzato due enormi striscioni con gli slogan “Basta con l’occupazione!” e “Negoziazione subito!”, alzati da grandi palloncini a sei metri da terra. Dal podio era impossibile non vederli. Intanto le donne della Women’s Peace Coalition erano in tante proprio di fronte al palco. Nella foto in prima pagina del giornale Ma’ariv, il giorno seguente, si leggono i loro slogan: “Ritorniamo ai confini del ’67 – Gerusalemme capitale di due stati – La fine dell’occupazione porterà la pace”.
Gli attivisti di Gush Shalom erano più indietro, dove la folla era meno fitta ed era più facile distribuire volantini. Il loro testo, distribuito in molte migliaia di copie, recitava: “Il sangue sgorga dal nostro cuore – e noi siamo in silenzio. Ogni giorno vengono portate a termine uccisioni programmate – noi ci stiamo assuefando. I crimini di guerra vengono commessi nel nostro nome – e noi li accettiamo. Il sogno di Rabin è ucciso di fronte ai nostri occhi – e noi non alziamo la voce. Basta con il silenzio! Gridiamo: basta al governo sanguinoso di Sharon – basta con l’occupazione dei territori”.
Inoltre hanno distribuito bandiere bifronte di Israele e Palestina, simbolo di Gush Shalom, che hanno decorato le magliette blu dei membri dei movimenti giovanili affiliati a Labor, e gli abiti di molti altri partecipanti. Due di queste bandiere, più grandi ed erette dagli attivisti, sono state violentemente confiscate dalla polizia.
Come di rito, alcuni dei migliori cantanti del paese si sono esibiti gratuitamente per il Rabin Rally, con poco contributo rispetto ai contenuti, tranne in alcuni casi, per esempio quando uno speaker (il cui nome non è stato reso noto) ha detto che “l’estrema destra sta facendo una campagna contro di noi che abbiamo supportato il processo di pace, chiamandoci ‘i criminali di Oslo’. Bene, io preferisco essere un criminale di pace piuttosto che un criminale di guerra”.
Il momento migliore si è avuto verso la fine, con il giovane cantante Aviv Gefen, il cui nome è legato a Rabin per aver cantato in un concerto proprio la notte fatale di sei anni fa. Gefen ha scelto di cantare il pezzo più esplicito del suo repertorio: “Camminiamo nel sogno / senza razze e nazioni. / Proviamoci semplicemente / le cose potrebbero andare meglio. / Uccidiamo le armi / non i bambini. / Conquistiamo la pace / non i territori. / Proviamoci semplicemente / le cose potrebbero andare meglio”.
I più giovani si sono uniti al ritornello, e almeno per un momento è stato davvero un incontro di pace, come un incontro di pace dovrebbe essere.
Notizie per i naviganti
Le iniziative di pace da parte di gruppi nonviolenti proseguono in Medio Oriente, nel silenzio generale. Nel dossier “Israele e Palestina” presente nel nostro sito internet www.nonviolenti.org è possibile trovare un aggiornamento sulle campagne in atto, che comprende: alcune azioni nonviolente congiunte di israeliani e palestinesi contro l’occupazione dei territori, le torture ad un gruppo di donne palestinesi prigioniere di coscienza, detenute a Neve Tirza, e la storia di alcuni obiettori di coscienza israeliani, di cui trovate alcuni accenni anche in queste pagine.
Un ricordo a quattro anni dalla morte
Nessi, creatività, comunicazione: utopia e progetto di Danilo Dolci
Ho conosciuto Danilo Dolci nel 1985, partecipando nel liceo che frequentavo a un seminario su “Poesia e maieutica”. Di Danilo non sapevo molto: avevo letto alcuni dei Racconti siciliani che mi avevano colpito e interessato, e poche altre pagine. Mi aspettavo la solita lezione: più o meno interessante, più o meno noiosa.
Quel giorno, la prima sorpresa. Tutti fummo invitati a disporci in circolo e a presentarci brevemente. Danilo non teneva conferenze: parlava poco e ascoltava molto. Poneva domande che scuotevano le intelligenze e le coscienze, riusciva a suscitare risposte e nuovi fecondi interrogativi da tutti. Ciascuno, a turno, interveniva, esponeva il proprio punto di vista, in un clima di ascolto e di rispetto reciproco. Sovente i contributi più importanti venivano da quanti la scuola aveva sbrigativamente bollato svogliati, distratti, incapaci.
Credo di aver compreso quel giorno come in ciascuno esista – quasi sempre sopito, represso – un bisogno profondo di esprimersi e di comunicare: ogni individuo è una miniera di idee e di creatività, perlopiù sprecate (il tema dello “spreco” è stato sempre centrale nel percorso intellettuale di Danilo: dallo spreco delle risorse idriche o economiche in genere nella Sicilia del dopoguerra a quello delle risorse creative degli individui nelle società moderne. Spreco è anche il titolo di uno dei libri più belli di Danilo, pubblicato nel 1960 da Einaudi).
Danilo, la struttura maieutica riuscivano a far riemergere energie nascoste.
Dopo quel primo, casuale incontro, come è capitato ad altri, ho cominciato una collaborazione continuata fino alla scomparsa di Danilo. E che, in qualche modo, ancora prosegue.
Danilo era un costruttore di ponti (di nessi, avrebbe detto lui): di fronte a una cultura e una storia (occidentali, moderne) fondate sulle divisioni (spesso arbitrarie) e le gerarchie, sui rapporti intesi in senso solamente unidirezionale, Danilo valorizzava la cooperazione, il reciproco adattamento creativo, la comunicazione. Non misconosceva il valore della cultura “ufficiale”, ma restituiva voce e dignità a quella popolare: nel corso delle riunioni – come nei suoi libri – sapeva far dialogare esperienze diverse: il contadino con il fisico nucleare, il pescatore con il premio Nobel, mettendo in luce la ricchezza di ciascun sapere, il valore di ciascun punto di vista, se autentico.
La sua riflessione ha riguardato aspetti cruciali, essenziali della crisi dei nostri tempi e del fallimento della Modernità, senza mai scadere in pura astrazione, senza mai smarrire il senso di un radicamento profondo nella realtà: il mondo nuovo di cui parlava Danilo non era una favola bella, ma un progetto concreto, che cominciava a realizzarsi nelle lotte per la diga sul fiume Jato, nelle battaglie nonviolente contro la mafia e per l’occupazione, nella nascita delle cooperative – e della cultura cooperativa – nella Sicilia nordoccidentale, nell’impegno educativo, nei laboratori maieutici, con la poesia.
Una rivoluzione del modo di pensare, di essere, di vivere, costruita dal basso verso l’alto, cui ciascuno nel proprio ambito poteva, e può, dare inizio. Un grande, lungimirante, ambizioso programma di riscatto, autocoscienza e autodeterminazione che riguarda tutti, nessuno escluso, individui e gruppi. Ma, pure, un lavoro la cui portata è, per molti aspetti, ancora tutta da indagare, approfondire.
Sarà essenziale ragionare sul modo per proseguire una ricerca che ha impegnato Danilo in ciascuno dei suoi giorni, sino all’ultimo. L’eredità che ci viene consegnata è enorme.
Creativo e rigoroso nel contempo, il percorso di Danilo Dolci ha saputo coniugare utopia e progetto. La sua vita e la sua opera ci hanno mostrato la possibilità di una strada, ardua ma concreta, per un futuro alternativo alla massificazione, alla disgregazione, alla violenza.
Giuseppe Barone
CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
Quella terra di nessuno,
piena di morti e di mine
NO MAN’S LAND
Regia e sceneggiatura: Danis Tanovic
Origine: Bosnia/Francia/Italia/Belgio/Gran Bretagna
Durata: 98’
No man’s land ovvero ‘Terra di nessuno’. Curiosa questa espressione! Bosnia. 1993. E’ notte. Una nebbia impenetrabile aggrava l’oscurità ed impedisce alla pattuglia bosniaca di trovare la strada per raggiungere la trincea, dove è attesa per il cambio di guardia. La guida decide di far accampare il gruppo per la notte: il rischio di finire dritti in braccio ai serbi è troppo grande. Finalmente l’alba: il sole disperde la nebbia notturna illuminando una natura meravigliosa, e infondendo allo spettatore un immediato senso di sollievo, che purtroppo però dura un istante. I carri armati serbi sono già qui: è una strage. Solo Ciki riesce a salvarsi e si nasconde in una trincea abbandonata, a metà tra le linee di fuoco dei due fronti.
E’ curiosa, dicevo, questa espressione. E, curiosamente, non è patrimonio esclusivo di un unico idioma: mi risulta che si possa ascoltare almeno in inglese, italiano, tedesco, spagnolo e portoghese, e chi lo sa, magari facendo una ricerca, anche in altre lingue. Se è vero che l’uomo dà il nome alle cose per indicarne la natura, l’essenza, risulta abbastanza inquietante questa espressione: come se non si riuscisse a pensare alla terra come essa è, prima che l’uomo ne rivendichi la proprietà; come se non si riuscisse a pensare ad una ‘terra di tutti’ o ‘per tutti’, ma solamente ad una ‘terra di qualcuno’, dove cioè qualcuno fa valere la sua verità e le sue regole, o tutt’al più ad una ‘terra di nessuno’, con un’espressione in negativo, una terra che ‘non è ancora di nessuno’, per la quale nessuno ancora si è fatto la guerra per averne la proprietà, e per farvi valere la sua legge. Anche in questo spazio ristretto senza bandiera, Ciki e Nino non resistono infatti, ora l’uno ora l’altro, a far valere la propria verità, e la forza delle loro argomentazioni sta tutta nella canna del fucile, ovvero dalla parte di chi, a turno, riesce ad impossessarsene. Anche in questa terra di nessuno, dove la morte smette di essere un concetto astratto e non ci sta più a farsi chiamare eroismo, storia, orgoglio nazionalistico, anche qui dove la paura ti tiene la mano sulla spalla, dove due uomini sembrano riuscire per brevi momenti a smascherare la parola ‘nemico’, e a riconoscersi l’uno nell’altro come persona, come magica alchimia di sangue, pensiero, sentimenti, ricordi, e a scoprire perfino di averne alcuni in comune, ebbene anche qui finisce per vincere l’odio e l’incapacità di parlarsi: la bandiera è un vestito strano, quando cominci ad indossarlo non ti permette più di apprezzare la bellezza della nudità. Nudità che irrompe però, di nuovo, sulla scena. Ciki e Nino scoprono presto infatti, di non essere soli: Cera, uno dei compagni di Ciki, caduto con lui nell’imboscata dei serbi e ritenuto morto, in realtà è vivo, se si può dire così: il compagno di Nino, prima di venire ucciso da Ciki, credendo si trattasse di un cadavere lo ha spostato all’interno della trincea adagiandolo sopra una mina a scatto innescata, affinché diventasse un’arma letale per i suoi compagni bosniaci, una volta che fossero venuti a prenderlo. Tutta l’assurdità della guerra è incarnata da quest’uomo. Cera, bosniaco come Ciki, non può però condividere i suoi entusiasmi nazionalistici, e non può nascondere la paura nell’odio: Cera è nudo, è l’uomo nudo, sdraiato sopra la bomba della stoltezza umana, attorno al quale si agitano, stupidamente o cinicamente, gli altri burattini di questa farsa. Accorrono infatti, per un’improbabile soluzione del problema, un sergente francese dell’Onu, ostacolato però dal comando, un artificiere impotente, e gli onnipresenti giornalisti televisivi. Ma in questo ‘teatrino dell’assurdo’, l’esordiente Danis Tanovic non risparmia nessuno: la sua commedia nera, nerissima, punta il dito non solo contro serbi e bosniaci, ma muove accuse severe anche ai soldati dell’Unprofor, chiamati ‘puffi’ forse non tanto per il colore dei loro caschi, quanto piuttosto perché si comportano come ‘cartoni animati’, e preferiscono fingere di essere utili piuttosto che esserlo davvero. Sotto accusa anche i giornalisti televisivi, che recitano la parte di critici severi e segugi indomabili della verità, mentre, cinicamente, si limitano a fiutare il sangue delle vittime da immolare sull’altare del rito sacrificale mediatico.
A volte però anche queste ‘caricature di giornalisti’, loro malgrado, indicano ad altri qualche brandello di verità: al cameraman che le domanda se è sicura di volersene andare da lì senza aver ripreso nessuna scena di quella buca di morte e desolazione, dove ormai non è rimasto più nessuno, la giornalista inglese, inconsapevole del significato delle parole che sta per pronunciare, risponde: ‘Ma sì, sono sicura. Una trincea è una trincea, sono tutte uguali’.
Già, una guerra è una guerra, sono tutte uguali!
EDUCAZIONE
A cura di Angela Dogliotti Marasso
Educhiamoci a cambiare logica e modificare i nostri schemi per sconfiggere il terrorismo senza creare nuova violenza
La cosa che colpisce di più, nelle reazioni ai drammatici fatti dell’11 settembre, è che si accetti come scontata l’affermazione secondo la quale combattere il terrorismo equivale a fare la guerra; da cui , con una logica piuttosto semplicistica, si fa derivare che “chi è contro la guerra è complice del terrorismo”. “Non si può essere neutrali – si aggiunge- o con gli USA , o con il terrorismo”.
Nell’economia di questo articolo mi limiterò a trattare un aspetto di questa revisione critica, che ha anche rilevanti risvolti sul piano educativo: la necessità di modificare radicalmente il nostro paradigma di conflitto, proprio alla luce della svolta storica che i fatti dell’11 settembre hanno prodotto.
1-I processi innescati dalla violenza e i modi per contrastarli: alcune chiavi di lettura
“Se una spina si è conficcata nel corpo di una persona, non è sufficiente togliere la parte visibile. Se non si rimuove la punta rimasta all’interno del corpo, la parte infetta persisterà” . J.Galtung cita questo proverbio cinese per sostenere che “per quanto sia doloroso per molti, in questo momento della tragedia, se vogliamo avere successo nella lotta al terrorismo, dobbiamo comprenderne le origini e rimuovere le cause dell’odio estremo che muove alcune persone a suicidarsi e commettere omicidi di massa”1
Chaiwat-Satha-Anand2 , docente all’Università di Bangkok e membro dell’International Peace Research Association, cita a questo proposito uno dei testi fondamentali sul terrorismo del XX secolo, The Philosophy of the Bomb: “Il terrorismo instilla la paura nel cuore degli oppressori, e porta speranza di vendetta e riscatto alle masse oppresse. Infonde coraggio e fiducia agli irresoluti, dissolve l’incantesimo della razza sottomessa agli occhi del mondo, perché è la prova più convincente della fame di libertà di una nazione”. Poiché può attaccare chiunque e in qualsiasi momento, il terrorismo mina le fondamenta basilari di qualsiasi società politica, il cui compito essenziale è la protezione dei cittadini e trasforma una società che piange le sue vittime in una società di potenziali carnefici, inclini all’uso della violenza contro gli altri.
In effetti, la reazione simmetrica, che contrappone una risposta violenta ad un atto violento, è la reazione più immediata, semplice e scontata, perché ripropone il meccanismo mimetico che contrassegna tanti nostri comportamenti, e induce a rassicuranti categorizzazioni, quali “Civili/Barbari”, “Buoni/Cattivi”, “Noi/Loro”.
Simili contrapposizioni hanno però l’effetto di radicalizzare lo scontro perché portano in sé il seme profondo della violenza culturale “in tempi che offrono a chi si sente umiliato e offeso i mezzi e i saperi per destabilizzare chi lo umilia e lo offende”3 .
L’antropologa belga Pat Patfoort4 interpreta quanto è avvenuto alla luce di un modello teorico che individua la fonte della violenza proprio in queste relazioni di discrepanza tra due parti, di cui una si trova in posizione di “Maggiore” e l’altra in posizione di “minore”. Il trovarsi costantemente in posizione “minore” provoca una ribellione che può tradursi in atti di violenza orribile; rispondere a questi atti con la guerra significa voler riassumere la posizione “Maggiore”, innescando una escalation di violenza che perpetua un circolo infernale di reciproca distruzione.
Secondo uno dei più noti e stimati peace researcher americani, J.P.Lederach5 , “una simile rabbia antioccidentale, che costituisce per molti di questi terroristi una caratteristica fondativa della propria identità, si costruisce sulla base della combinazione di processi ed eventi storici traumatici, di un profondo senso di minaccia e di sofferte esperienze di esclusione”. Per interrompere l’escalation della violenza si dovrebbe seguire un fondamentale principio-guida: evitare di fare ciò che i terroristi si attendono che accada, secondo lo schema usuale della risposta simmetrica.
Non si può interrompere infatti questo circolo vizioso se non si esce dallo schema vincitore/vinto. Chiunque perda troverà nella perdita stessa i semi che faranno crescere le giustificazioni per una nuova battaglia. L’unico modo per interrompere la spirale della violenza è mettersi al di fuori di essa.
2-Assumere un’ottica diversa per leggere il conflitto e trasformarlo.
Il conflitto è un processo in cui si scontrano, tra le altre cose, anche diverse percezioni e interpretazioni della realtà. Limitarsi ad etichettare semplicemente come fanatici fondamentalisti islamici i terroristi ci fa perdere la capacità di comprendere i processi attraverso cui quella visione del mondo si costruisce. Quando intere generazioni provano un profondo senso di minaccia ed esclusione e sperimentano sulla propria pelle ogni forma di violenza, tutte le loro energie sono orientate alla sopravvivenza e ciò origina una straordinaria capacità di rigenerazione dei propri miti e di rinnovata lotta, con arruolamento di nuovi adepti.
Ciò che bisogna fare, allora, è cercare di rimuovere le cause dell’odio, e con ciò disseccare le sorgenti che alimentano tale arruolamento.
Come affrontare una simile sfida è un problema molto complesso, che non può essere adeguatamente affrontato nello spazio ristretto di questo articolo, ma si possono indicare, a titolo esemplificativo, le tre direzioni di azione suggerite da Lederach:
a-sostenere il processo di pace tra Palestinesi e Israeliani. Se mettessimo le stesse risorse materiali e umane che usiamo per costruire coalizioni militari, nel costruire una coalizione internazionale per la pace, capace di offrire supporto finanziario e morale equamente bilanciato secondo le necessità delle parti, il conflitto potrebbe essere risolto;
b-investire in sviluppo sostenibile, educazione e sicurezza sociale nei paesi dell’area mediorientale, anziché cercare di distruggere i Taleban, aiutando i paesi arabi a soddisfare i bisogni fondamentali di quei popoli;
c-lavorare alla creazione di un tessuto etico per il nuovo millennio, che scaturisca dal cuore di tutte le principali culture e renda ciascuno capace di riconoscere le radici di violenza presenti nella propria tradizione.
La sfida globale è riuscire a trovare le forme per affermare, all’interno delle diverse culture e religioni, il rispetto di ogni essere vivente e per organizzare la vita politica e sociale secondo sistemi capaci di soddisfare i bisogni umani fondamentali in modo sostenibile. Le etiche orientate alla vita sono radicate in ogni cultura e possono entrare tra loro in un dialogo autentico e fecondo.
3-Le sfide a livello educativo.
Tutto ciò comporta anche una serie di riflessioni con significativi risvolti e conseguenze in ambito educativo, che qui sintetizzo in tre aspetti , tra loro connessi:
– diventare consapevoli delle proprie radici, comprese le premesse implicite che stanno a fondamento dei propri modelli culturali. Sviluppare una consapevolezza critica delle proprie radici storico-culturali è uno dei modi migliori per sostenere nei giovani la costruzione di processi identitari aperti e capaci di integrazione.
In un mondo globalizzato il rischio cui tutti siamo esposti è quello di essere omologati ai modelli culturali dominanti proposti dai media e di reagire a questa perdita di identità con chiusure localistiche e difese rigide del proprio “territorio”. Le radici sono necessarie perché la pianta possa crescere e protendere i suoi rami in tutte le direzioni.
Di questo tipo di formazione fa parte anche quella importante capacità, di cui parla Eco in un recente articolo6 , di “analizzare e discutere i parametri su cui si reggono le nostre affermazioni passionali”, che una scuola aperta al dialogo e all’ educazione interculturale dovrebbe promuovere;
– imparare a dialogare tra diversi, in una relazione di equivalenza e di reciproco riconoscimento.
Perché ciò possa avvenire è necessario superare ogni forma di etnocentrismo e le più o meno esplicite e consapevoli affermazioni di superiorità dell’Occidente sul resto del mondo, in favore di un approccio capace , come propone Eco nell’articolo citato, di discernimento e riconoscimento di valori e disvalori, in relazione ai contesti e nella consapevolezza dei criteri usati;
– costruire una diversa cultura del conflitto per affrontare in modo non distruttivo i problemi che possono nascere dalla convivenza, dallo scontro tra interessi, bisogni e valori differenti.
Tra gli obiettivi formativi essenziali per una trasformazione nonviolenta dei conflitti si possono indicare:
a-lo sviluppo dell’empatia, come capacità di saper riconoscere la sofferenza dell’altro, di decentrarsi a livello cognitivo ed emotivo, di saper assumere il punto di vista dell’altro (senza necessariamente condividerlo);
b-la costruzione di personalità assertive, capaci di affermare positivamente i propri bisogni in una prospettiva relazionale e dialogica, di lottare con la nonviolenza per ottenere giustizia senza fare violenza all’altro, né lasciarsi fare violenza.
c-L’incoraggiamento e lo stimolo alla creatività come capacità di uscire dagli schemi consueti, di saper trovare soluzioni condivise.
Anziché soffiare sul fuoco che alimenta e riproduce il terrorismo, cadendo nella logica della profezia che si autodetermina e procurando nuovi martiri e nuove giustificazioni all’agire dei terroristi, occorre dunque cambiare direzione alla nostra azione.
Come scrive Lederach, “i terroristi hanno cambiato il gioco, entrando nelle nostre vite e utilizzando a proprio vantaggio i nostri mezzi. Non fermeremo il terrorismo con le armi tradizionali della guerra. Dobbiamo cambiare , a nostra volta, il gioco”. L’attuale situazione crea un’opportunità mai prima vista perché ciò accada e sia l’occasione, per tutti, di imboccare la strada, nuova ma antica come le montagne, della nonviolenza attiva.
ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Mangiare con la bocca, fare la spesa con la testa
Intervistiamo questo mese Andrea Saroldi, impegnato in prima persona nella costruzione della rete dei Gruppi d’Acquisto equi e Solidali (GAS).
Caro Andrea, riassumiamo: 50 GAS in Italia, circa 5.000 persone coinvolte ufficialmente, il gruppo più grande riunisce addirittura 100 famiglie nel Trentino. A sei anni dalla nascita del Cocoricò a Torino, quali sono i segreti del vostro successo?
In realtà le persone coinvolte sono molte di più perché tanti gruppi non sono presenti nel nostro censimento. La gente si avvicina ai GAS perché questo risponde a sue esigenze concrete, anche per motivi di salute o di… gola. E poi per l’estrema facilità con cui ci si può organizzare: ogni gruppo in pratica si organizza come vuole, sceglie i prodotti che vuole acquistare e i produttori che lo riforniranno, fatti salvi i principi base che elenchiamo sul nostro sito (www.pages.inrete.it/cocorico). In questo modo avviciniamo anche chi non è già sensibilizzato al consumo critico.
Qual è il vostro contributo?
Il Cocoricò ha lavorato soprattutto sugli scambi di informazione: curiamo il sito internet, un bollettino trimestrale e la pubblicazione di libri in una collana della EMI. Il gruppo di Fidenza invece, che ha percorso la strada assieme a noi ed è nato nel ’94, è l’inventore dei GAS e ne ha curato l’organizzazione pratica.
Vi siete chiesti dove volete arrivare?
Intendiamo rimanere un insieme di piccole realtà indipendenti tra loro: non è prevista nessuna sovrastruttura di coordinamento. L’obiettivo più interessante per noi ora è l’organizzazione di progetti locali; in particolare a Fidenza (sempre loro) e Piacenza stanno studiando il Progetto delle Filiere.
Cosa sarebbe?
Vorremmo arrivare a conoscere ed unire tutti i passi di un processo produttivo. Non più limitarsi al prodotto acquistato direttamente dal produttore, ma istituire una filiera di produzione di cui si conoscono tutti i passaggi, coinvolgendo produttori, istituzioni, ristoratori, ambientalisti, associazioni di volontariato, distributori. Seguendo l’esperienza dei tedeschi di Brucker Land illustrataci durante un convegno GAS del ’99, vorremmo creare un marchio locale che certifica prodotti fatti secondo metodi tradizionali all’interno della regione in cui si opera.
In pratica è il vostro sogno.
Si. I GAS possono scatenare questo progetto, che porta a creare cicli chiusi, autocentrati e sostenibili di economia locale, facendo la loro parte di consumatori e coinvolgendo tutti i processi di questa filiera. Questo sarebbe il nostro contributo per cambiare l’economia, già illustrato nel libro di Alberto Magnaghi “Progetto locale”, e per questo partecipiamo all’Agenda 21 della Provincia di Torino che prevede infatti l’istituzione di una filiera locale.
Questo risolverebbe anche il bisogno di ufficialità della certificazione.
Si. Ai vari marchi di certificazione biologica o ISO, si aggiungerebbe quello locale che prevederebbe la conoscenza del produttore, il che va oltre la logica del controllo. Si può addirittura arrivare a contrattare il tipo e la quantità di produzione che il produttore si impegna a portare avanti per il GAS. In alcuni luoghi questo già avviene.
Chi volesse saperne di più può scrivere direttamente a: cocorico@inrete.it
GRUPPI DI ACQUISTO SOLIDALI: Guida al consumo locale. Di Andrea Saroldi. EMI, marzo 2001, £. 12.000.
Se siete abituati a fare la spesa di corsa, al supermercato, buttando nel carrello ciò che raccogliete qua e là tra gli scaffali, lasciate perdere questo libro. Questa guida illustra l’esperienza concreta di persone che si sono chieste come migliorare il sapore di quello che mangiano ed il gusto di quello che fanno, proseguendo quanto avevano raccontato nella precedente pubblicazione, Il giusto movimento (ed. EMI).
Le testimonianze riportate entrano nei problemi concreti che si presentano quando si mette in piedi questo tipo di attività: fisco, logistica, leggi da rispettare, piccoli trucchetti vengono affrontati nelle diverse sfumature che ogni GAS d’Italia ha assunto, essendo la creatività un altro aspetto che li caratterizza.
Dopo aver pensato a riempire eticamente il frigorifero di casa, importante per i GAS è innescare circoli virtuosi di collaborazione tra i movimenti solidaristici più diversi, che a volte non trovano il tempo di cooperare per le medesime finalità che si sono posti: ambientalisti, sindacalisti, nonviolenti possono trovare un momento di incontro che unisce l’impegno con il divertimento.
Ma l’obiettivo finale, secondo gli estensori del testo, è quello di replicare in ogni regione d’Italia l’esperienza maturata dal Consorzio di solidarietà Brucker Land a pochi chilometri da Monaco di Baviera. Dalla sua fondazione nel 1994, il Consorzio coordina una rete locale di produzione, trasformazione e distribuzione di prodotti alimentari che rispettano i criteri etici stabiliti nel loro statuto.
Paolo Macina
STORIA
A cura di Sergio Albesano
Obiettori di coscienza
alla prima guerra mondiale
Si ha conoscenza anche di altri obiettori da parte italiana durante la prima guerra mondiale. Uno di loro fu Giovanni Gagliardi di Castelvetro Piacentino (Piacenza), che oltre alla prigione soffrì la reclusione in manicomio, anche dopo la fine della guerra. Nel suo libretto manoscritto intitolato Guerra e Coscienza, composto tra il 1915 e il 1918, egli spiegò i motivi della sua opposizione alla guerra. “Ogni popolo, che abbia una storia”, scrisse “ha sempre due pagine diverse: una di difesa e una di conquista. Ma le due pagine si fondono in una sola: ché lo spirito di conservazione o di difesa lascia tosto il posto allo spirito di rapina e d’aggressione appena il pericolo di perdere ciò che si possiede sia scomparso. I soldati dicono: quando adunque cesserà questa guerra? Ecco: essi continuano, con le loro mani, a far girare una ruota e dicono: quando adunque questa ruota cesserà di girare? (…) La soluzione sta solo nella coscienza dell’individuo decisamente compenetrata dall’imperativo categorico: ‘Non uccidere’. (…) Perciò la vostra più grande vittoria rappresenta la vostra più grande sconfitta. Sconfitta del cuore, sconfitta della mente, del buon senso, della ragione e della coscienza.” Inizialmente egli fu ateo, ma, dopo una crisi religiosa, dal 1920 divenne un cristiano evangelico indipendente, non iscritto ad alcuna Chiesa protestante. La polizia fascista lo classificò come “anarchico” e dal 1939 al 1943 venne confinato all’isola di Ventotene e fu anche di nuovo internato 1.
Altro obiettore italiano fu Remigio Cuminetti 2 (1890-1938), nato a Porte di Pinerolo (Torino). Egli fu un fervente cattolico, fin quando la lettura di un libro di C. T. Russel lo orientò verso i testimoni di Geova. Volle essere ossequiente al comandamento cristiano di ‘Non uccidere’ e quando fu sotto le armi nel 1915 si rifiutò di portare le stellette sulla divisa militare e di andare al fronte e per questo soffrì il carcere e il manicomio. Dopo la guerra il fascismo lo vessò con angherie d’ogni sorta 3.
Un altro resistente alla guerra, anche se di grado differente dai precedenti, fu il pittore Amleto Montevecchi di Imola. Nel 1915, poco prima che l’Italia entrasse in guerra, scrisse parole ardenti contro il conflitto: “I socialisti – internazionalisti per antonomasia – dovrebbero rifiutarsi di partecipare a qualsiasi guerra. (…) L’antimilitarismo pratico deve fondarsi sulla renitenza. (…) L’eroismo guerriero è un pregiudizio. (…) Chi uccide comunque commette un crimine. (…) La guerra è il crimine collettivo, l’omicidio legale che trasforma l’uomo normale in delinquente. (…) Son contrario a tutte le guerre.” Un anno dopo fu chiamato sotto le armi e quando gli diedero il fucile chiese in sua vece un pennello, dicendo: “Con un pennello posso sparare, con quest’arnese mi è impossibile.” Alla fine riuscì ad evitare il fronte e fu impiegato quale disegnatore.
Un’altra personalità da ricordare è il siciliano Vincenzo Melodia (1882-1953), pastore evangelico, che svolse sempre un’intensa azione contro la guerra. Il fascismo lo perseguitò, fin quando fu costretto ad espatriare negli Stati Uniti.
Nel 1914 il Partito Socialista Italiano si oppose alla guerra. Nello stesso anno Benito Mussolini, allora direttore dell’”Avanti!”, lanciò dalle pagine del giornale la parola d’ordine “neutralità assoluta”; ma dopo pochi mesi egli passò alla neutralità relativa e quindi al deciso interventismo e per questo fu espulso dal partito. Quando, nel maggio 1915, anche l’Italia entrò in guerra, l’atteggiamento del P.S.I. fu quello riassunto dalla formula di Costantino Lazzari “né aderire, né sabotare”. All’interno del partito si formarono allora due fazioni; una che considerava proprio dovere mitigare le ripercussioni della guerra con una vasta opera civile, l’altra che badava più alle ragioni ideali dell’opposizione socialista e che disprezzava l’azione da croce rossa. L’atteggiamento elastico del P.S.I. gli permise di ottenere le simpatie delle masse che, al nord come al sud, subirono la guerra ma non vi aderirono. Dopo Caporetto, però, la maggioranza del gruppo parlamentare socialista si spostò su posizioni decisamente patriottiche, nonostante la riprovazione della Direzione del partito. Il seppure generico antibellicismo del P.S.I. gli conquistò, comunque, il consenso di una larga parte della popolazione, che si dimostrò concretamente nel successo alle elezioni del novembre 1919; contemporaneamente, infatti, subirono un fallimento le liste autonome dei reduci e di coloro che si richiamavano all’ideologia della guerra.
MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Dalla Loc a John Lennon, da Neruda al Dalai Lama
I Timoria dopo oltre dieci anni di attività sono una band che ha saputo conquistare uno spazio preciso e solido nel panorama del rock italiano, creando momenti di spettacolo in stretto legame con varie espressioni artistiche, dal teatro, alla poesia, alla pittura. Abbiamo intervistato Omar Pedrini chitarrista e leader del gruppo, impegnatissimo fra una partecipazione a MTV e una su Italia Radio-Tv, in piena promozione dell’attuale tour e dell’ultimo album.
Il vostro primo singolo si intitola “Signornò”. Come è nato e che rapporto ha con l’antimilitarismo e la nonviolenza?
Io e Diego, il batterista, siamo obiettori e lo abbiamo dedicato alla Lega Obiettori di Coscienza. Nell’88 avevamo lanciato questa provocazione in tempi in cui parlare di obiezione era ancora difficile. I pochissimi incassi di quel disco (non eravamo conosciuti e lo vendevamo ai concerti) li abbiamo dati ad Amnesty. Abbiamo esordito in questo modo.
L’11 settembre scorso ha segnato un fatto nuovo anche per la musica. I musicisti tradizionalmente erano considerati sostenitori e propositori di un messaggio di pace. Oggi, con l’eccezione, che io sappia, di Patti Smith che si è espressa contro la guerra, la maggior parte degli artisti e dei gruppi famosi americani e inglesi hanno partecipato ai megaconcerti di New York in solidarietà alle vittime e in appoggio più o meno esplicito alla risposta militare. Cosa ne pensi?
Questo è drammatico. La sensibilità dei musicisti dovrebbe andare oltre gli schieramenti. Non ho seguito questi concerti che mi sembravano eccessivamente americanizzati. Noi uomini di pace dobbiamo capire che emotivamente gli americani sono stati molto più colpiti di noi. Posso capire ma non condividere la rabbia e la voglia di scacciare i fantasmi che hanno gli americani. Io non condivido assolutamente la guerra. Lo slogan che stiamo portando avanti è del ’73, preso dai Provos di Amsterdam: “non contate su di noi” come dicevano gli americani che contestavano l’intervento in Vietnam. In tutti i concerti dall’11 settembre in poi io leggo sempre la poesia di Neruda in cui si dice che la musica è figlia della pace come il pane è figlio della farina. Non è con la violenza che si risponde alla violenza. Se combatti il mostro diventi mostro.
– Fra i musicisti italiani con chi vi trovate più in sintonia ?
Noi parliamo soprattutto al nostro pubblico. Abbiamo però cercato di organizzare un concerto per la pace in occasione della venuta del Dalai Lama in Italia. Per Sua Santità abbiamo già fatto tre concerti e centinaia di iniziative. Ci sembrava che il Dalai Lama in Italia in questo momento potesse essere un’ autorevole voce per la pace, visto che i pacifisti non sono stati ancora rappresentati da nessuno. Intorno a lui volevamo costruire con i Nomadi e i Csi un grande concerto. Il Dalai Lama quest’anno verrà a Pomaia in provincia di Livorno e lì volevamo andare. Purtroppo il Comune di Livorno si è dimostrato sordo, ottuso, non ci ha aiutato in alcun modo. Quando sembrava che ce l’avessimo fatta, abbiamo diffuso il comunicato stampa e la sera stessa ci hanno fatto saltare metà delle cose che avevamo in ballo. Ci siamo chiesti se i pacifisti fanno paura. Suonavamo tutti gratis, ci serviva un aiuto per avere il palazzetto, i manifesti e gli alberghi per chi suonava. Il concerto è stato annullato. Si vede che era una cosa scomoda che infastidiva qualcuno…
Parlando di canzoni e di musica, dopo “Signornò” cosa vorresti evidenziare fra le vostre più significative in una prospettiva di pace e nonviolenza ?
In 12 anni e 11 dischi abbiamo sempre lavorato in questa direzione. Tutti i nostri dischi parlano di pace, io sono orientalista, ho simpatie per il buddismo, per il vegetarianesimo. “Mi manca l’aria” è un brano contro ogni guerra e dal vivo lo facciamo con il nostro mimo vestito in mimetica con il mitra in mano, molto inquietante. Poi c’è “Padre Nostro” che è una canzone-preghiera che rappresenta bene il mio pensiero: si parte dal Padre Nostro cattolico per denunciare tutte le guerre di religione ed è particolarmente attuale oggi che in nome delle religioni mi pare si continui ad uccidere.
Qualche pezzo scritto da altri che per te è importante ?
“Give peace a chanche” col bed-in di John Lennon e Yoko Ono, un vero e proprio inno. Lennon assolutamente come guru e punto di riferimento di ogni musicista e di ogni pacifista. Credo sia stato il più puro perché ha sempre fatto queste cose senza far intravvedere neanche il sospetto dell’interesse. Non credo che Lennon in questo momento avrebbe suonato alla festa di New York. Mi permetto di parlare per lui, non penso che vi avrebbe partecipato, ma che avrebbe creato qualcosa di concreto, personale e meno nebuloso.
LIBRI
A cura di Silvia Nejrotti
Michele e Colette Collard – Gambiez, Un uomo che chiamano Clochard, pp. 381, Roma, Edizioni Lavoro,
Questo libro mi è stato regalato da un’amica. Se mi fosse capitato tra le mani per altre vie, credo sarebbe finito nello scaffale dei libri ‘in attesa’, che regna, sempre più consistente, nella mia libreria. Invece, per affetto più che per autentico interesse letterario, ho deciso di leggerlo. E, poiché, non lo dimenticherò facilmente, ne suggerisco la lettura.
Racconta l’esperienza di vita di Michel e Colette Collard-Gambiez, una coppia di coniugi che, esprimendo la propria fede evangelica (Michel è un ex frate francescano, Colette un ex infermiera), da più di un decennio ha scelto di condividere la vita dei clochards, all’insegna del valore dell’accoglienza. Sulla strada. Di giorno e di notte. Nella quotidianità. Rinunciando alla proprietà privata e a qualsiasi conseguente agio.
Nell’incontro con l’altro, i Collard-Gambiez sono guidati e ‘sedotti da alcune intuizioni della vita francescana originale che privilegia l’ ‘essere’ sull’ ‘agire” (pag. 29). La loro presenza accanto ai poveri e gli esclusi – oltre la ‘dimensione socio-caritativa della lotta alla miseria’, oltre la ‘dimensione politica della lotta alla miseria’ – ha il ‘fine ultimo non di alleviare le difficoltà materiali, ma di creare relazioni umane in profondità. Si tratta di una prospettiva più mistica, più contemplativa, il che non vuole dire irreale o inconsistente, che deve trovare il suo posto nella lotta contro la miseria’ (pag. 29).
L’afflato contemplativo che anima il libro non è mai immateriale e astratto, ma sempre si traduce nella fisicità dei volti e dei corpi delle persone realmente incontrate sulla strada. E qui sta la sua bellezza.
Si dipanano così pagine che narrano un mondo: il mondo parallelo di chi vive ai margini, di chi è escluso, di chi è naufrago dell’esistenza. Un mondo di violenza, abbrutimento, spoliazione. E’ il mondo abitato ‘dagli uomini e dalle donne dell’ombra’ (pag. 141), a cui i Collard – Gambiez scelgono di ‘apparentarsi’, alla ricerca di un rapporto ‘decolonizzato col povero’. Nella consapevolezza che ‘colui che ci intriga e che siamo tentati di respingere, è lo stesso che ci può guarire perché mette il dito nelle nostre piaghe (p. 341)’. A dire: il rapporto che abbiamo con gli esclusi rispecchia il rapporto che abbiamo con le nostre debolezze, con i nostri limiti.
E’ un libro, infine, profondamente nonviolento, nella misura in cui non imprigiona ‘l’altro’ come soggetto di bisogni e dunque come oggetto di cura (materiale, sociale, politica o etica), ma lo libera, invece, concependolo e incontrandolo come soggetto di relazione. A partire dal fondamento di eguaglianza, dato dall’appartenenza ad una comune umanità. O meglio, è un libro nonviolento nella misura in cui sa il carattere utopico di questa affermazione e la labilità del confine soggetto/oggetto nella relazione umana, soprattutto in quella caratterizzata da oggettiva disparità, ma in questa complessità sceglie di stare.
Silvia Nejrotti
AA.VV., Minoranze, coscienza e dovere della memoria, Jovene, Napoli 2001, pagg. 185, £ 48.000.
I temi della Shoa, dell’obiezione di coscienza al servizio militare e dell’intolleranza razziale, etnica e religiosa hanno un filo conduttore in comune: l’esistenza e la coscienza degli individui e delle minoranze di fronte alla pressione del potere e all’oppressione delle dittature. Il libro qui presentato si propone di non far svanire nel nulla le testimonianze raccolte in diversi convegni tenutisi fra il 1998 e il 2000 ed è uno strumento per ricordare avvenimenti e comportamenti che non devono essere dimenticati: tutto ciò allo scopo di esaltare i valori della coscienza, come monito che induca gli esseri umani a non “viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”.
La minoranza più presa in esame nel testo è quella dei testimoni di Geova, che diede un grande contributo di sangue durante il dominio nazista: in Germania furono diecimila i testimoni internati nei campi di prigionia, duecentotre le condanne a morte eseguite, seicentotrentacinque i testimoni che morirono di patimenti, ottocentosessanta le famiglie distrutte con la prigionia dei genitori e la scomparsa dei figli. Il tutto su un totale di circa diciannovemila testimoni presenti prima dell’inizio delle persecuzioni.
Il libro si cura però anche di altri gruppi perseguitati, quali gli zingari. Inoltre, accanto alle parti che trattano di storia fattuale, non mancano gli interventi di analisi e di riflessione.
Interessantissima l’appendice, che riporta le fotografie di innumerevoli documenti relativi alle persecuzioni subite dai testimoni di Geova.
Sergio Albesano