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Azione nonviolenta – Dicembre 2002

DiFabio

Feb 4, 2002

Azione nonviolenta dicembre 2002

– Prigionieri per la Pace albo d’onore 2002
– Un diritto umano non riconosciuto: obiezione di coscienza nel caucaso e in asia centrale, di Silke Makowski
– L’obiezione di coscienza e il nuovo servizio civile volontario, di Elena Buccoliero
– Cosi’, trent’anni fa, scrivevamo su queste stesse pagine
– La guerra di piero, intervista a Pietro Pinna
– Un operaio presidente che eredita il magggior numero di debito sociale del mondo, di Gabriele Colleoni
– Scorie radioattive e sottomarini nucleari, di Paolo Bergamaschi
– Le 10 parole della nonviolenza per fare un cammino comune, di Lev Tolstoj

Rubriche

– Alternative
– Economia
– Storia
– Educazione
– Lilliput
– Cinema
– Musica

Che sia un buon Natale e un buon Anno di pace per tutti. Senza la guerra.

Di Mao Valpiana

E’ consuetudine, alla fine di ogni anno, fare un bilancio del tempo trascorso e formulare qualche buon proposito. Vale anche per Azione nonviolenta.
Il lavoro per realizzare una rivista è sempre un fatto collettivo, che coinvolge la redazione ma anche tutti i lettori. La rivista cresce solo se gli abbonati la apprezzano e la fanno conoscere ad altri.
Basta scorrere i 10 numeri dell’annata 2002 per rendersi conto che il lavoro collettivo attorno ad Azione nonviolenta è stato proficuo. Le rubriche fisse si sono ben caratterizzate e se ne aggiungeranno di nuove. Alla cura per le foto abbiamo affiancato i nuovi disegni, fatti con cura.
Riceviamo moltissimo materiale, sempre interessante e degno di pubblicazione, ma le pagine sono limitate e il Direttore è costretto ad un ingrato lavoro mensile di selezione. A compendio sinergico della rivista, però, c’è il nostro sito internet WWW.NONVIOLENTI.ORG, che è molto apprezzato e visitato (quasi 35000 i contatti avuti) dove compaiono gli scritti che non trovano spazio sulla carta stampata o che hanno una urgenza d’attualità che non si addice alla scadenza mensile, più adatta alla riflessione e all’approfondimento.
Senza il Movimento Nonviolento, ovviamente, la rivista non esisterebbe e non avrebbe senso di essere. Il lavoro che facciamo non è un esercizio culturale fine a se stesso, ma è finalizzato unicamente alla crescita della nonviolenza organizzata. Sono molti gli amici della nonviolenza che proprio tramite le pagine del mensile vengono a conoscere ed entrano in contatto con altre realtà nonviolente e hanno la possibilità di partecipare al lavoro di Movimento.
Azione nonviolenta è riconosciuta nell’ambito del più ampio movimento per la pace e di critica alla globalizzazione, come una rivista storica ed autorevole. E’ apprezzata per la serietà, la puntualità, la coerenza e la qualità culturale che offre. Naturalmente siamo soddisfatti di questo risultato raggiunto, ma riteniamo che dovremmo fare molto di più. Duemila copie sono forse sufficienti per una pubblicazione “di nicchia”, ma siamo convinti che la richiesta di cultura e pratica nonviolenta in Italia sia molto maggiore.
Per questo invitiamo ogni singolo lettore a formulare questo buon proposito per il 2003: farsi “centro” promotore per diffondere Azione nonviolenta, uno strumento concreto per la crescita della nonviolenza.
In questo ultimo numero del 2002 proponiamo una valutazione dei 30 anni di obiezione di coscienza nel nostro paese. Oggi, come nel 1972, teniamo molto all’autonomia e all’indipendenza del nostro pensiero.

Dopo l’arresto di alcuni esponenti di gruppi “no global” meridionali, il Movimento Nonviolento ha diffuso il seguente comunicato.

SOVVERSIVI E NONVIOLENTI

Ci auguriamo che gli arrestati siano liberati al più presto e ci preoccupa l’utilizzo del Codice Penale per colpire un’opposizione politica. Abbiamo sempre chiesto l’abolizione dei reati d’opinione (per le nostre opinioni nonviolente siamo stati spesso processati e condannati). Siamo da sempre attivi sostenitori dei diritti umani e perciò stiamo dalla parte delle vittime della violenza, e ci sta a cuore anche il destino e il riscatto dei carnefici (ogni vittima ha il volto di Abele…ma è detto : “nessuno tocchi Caino”).
La magistratura deve essere rispettata nel suo lavoro, sempre. Rispettare non significa non criticare l’operato dei magistrati, o la gestione delle inchieste. Le critiche sono non solo legittime, ma necessarie ed utili all’accertamento stesso della verità dei fatti. Abbiamo visto molti processi, sia dal banco degli imputati che dai banchi del pubblico. Sappiamo che gli errori sono possibili e frequenti.
Non si esprime solidarietà agli arrestati unicamente condividendone le posizioni e le responsabilità. Contrastiamo ogni ideologia e prassi favorevole alle violenza. Fin da Seattle sottolineiamo che nell’azione, tesa a rendere possibile un mondo migliore, non deve entrare neppure il sospetto della violenza. Per questo abbiamo ritenuto e riteniamo dannosi atti e proclami che non rispettino tale orientamento.
Ci sentiamo dei sovversivi solo nel senso pieno d’amore utilizzato da Aldo Capitini: “la nonviolenza è il punto della tensione più profonda tesa al sovvertimento di una società inadeguata”.
Non siamo d’accordo con alcuni proclami che pretendono che in Italia ogni residuo barlume di libertà sia spento. Tra una democrazia anomala ed un regime autoritario c’è ancora una bella differenza. Non vogliamo in alcun modo accodarci ai partiti di potere nel loro attacco alla magistratura, all’ordinamento giuridico democratico e infine alla Costituzione.
Chiediamo a quanti sono impegnati nel movimento per la pace, per i diritti umani e un’economia di giustizia, e contro l’ingiustizia globale, di prendere una posizione netta contro la violenza, davvero “senza se e senza ma”.
E’ la miglior risposta.

MOVIMENTO NONVIOLENTO

19 novembre 2002
Prigionieri per la Pace: Albo d’onore 2002

In occasione del 1° dicembre 2002, Giornata Mondiale dei Prigionieri per la Pace, la War Resisters’ International (Internazionale dei Resistenti alla Guerra – di cui il Movimento Nonviolento è la sezione italiana) diffonde l’elenco di obiettori di coscienza e di attivisti per la pace attualmente incarcerati in vari paesi del mondo. Quest’anno l’attenzione è rivolta in modo particolare all’area del Caucaso e dell’Asia Centrale, dove la situazione degli obiettori di coscienza è particolarmente critica. Invitiamo i lettori di Azione Nonviolenta ad inviare cartoline o biglietti di sostegno a questi testimoni di pace, anche con lo scopo di far sapere alle autorità di quei paesi che i prigionieri pacifisti non sono isolati.

Armenia
Amayak Karapetyan
03/11/2000-02/05/2003
Armen Yeghiazaryan
30/03/2001-29/03/2004
Artashes Atoyan
03/12/2001-02/12/2003
Araik Sargsyan
2001/12/12-2003/12/11
Armen Vardanyan
17/01/2002-16/01/2004
Spartek Sargsyan
23/01/2002-22/07/2004
Rafael Alaverdyan
30/01/2002-20/01/2004
Araik Bagdasaryan
01/02/2002-31/07/2004
Vardan Torosyan
01/02/2002-31/07/2004
Yerem Kh’lkhatyan
26/02/2002-25/02/2004
Karen Ambartsumyan
12/03/2002-11/09/2003
Andrey Alaverdyan
15/03/2002-14/03/2005
Abgar Minasyan
25/03/2002-24/03/2003
Arman Avetisyan
09/04/2002-08/04/2004
Hovannes Serobyan
17/04/2002-16/04/2004
Gagik Gevirkyan
25/04/2002-24/04/2004
Ambartsum Nersisyan
30/04/2002-29/04/2004
? Kosh Corrective Labour Colony, Kosh

Armen Alikhanyan
29/04/2002-28/10/2003
Vanadzor Prison
Saak Oganesyan
02/06/2002 –
Sarkis Oganesyan
02/06/2002 –
Zhirayr Sukiasyan
03/06/2002 –
? Nubarashen Prison

Henrik Hovinikyan
14/01/2002-30/07/2004
? Nubarashen – 2 Prison, Nubarashen, Yerevan

Vahan Mkroyan
12/12/2000-20/12/2003
? Artik Corrective Labour Colony, Artik

Artur Kazaryan
18/09/2002-17/09/2003
Hratch Tatoyan
15/08/2002-14/08/2004
Vagan Bayatyan
29/10/2002-29/04/2004
? indirizzo della prigione sconosciuto

Sono tutti Testimoni di Geova.

Bielorussia
Yuri I Bendazhevsky
01/06/2001-01/06/2009
? Prigione di Minsk, ul Kavarijskaya 36, PO Box 36 K, MinskInvestigatore e divulgatore dei fatti di Chernobyl, fraudolentemente accusato di corruzione.

Finlandia
Oskar Lindman
31/07/2002-17/02/2003
? Helsingin työsiirtola, PL 36, 01531 Vantaa

Janne Kuusisto
06/05/2002-23/11/2002
? Turun tutkintavankila, avo-osasto, PL 55, 20251 Turku
Heikki Ulmanen
30/09/2002-17/04/2003
? Satakunnan vankila / Huittisten osasto, PL 42, 32701 Huittinen

Toni Rautiainen
26/06/2002-22/12/2002
?Iskolan avovankila, PL 2, 74345 Kalliosuo

Sono tutti in carcere per obiezione totale.

Israele
Mordechai Vanunu
30/09/1986-29/09/2004
? Ashkelon Prison, Ashkelon, IsraelDivulgatore di avvenimenti relativi alle questioni nucleari, accusato di spionaggio e tradimento – rapito il 30 settembre 1986 in Italia.

Salman Salameh
04/09/2002 –
? Military Prison No4, Military Postal Number 02507, IDF, IsraelAccusato di diserzione,in attesa di giudizio. Obiettore di coscienza druso.
In Israele si assiste quasi quotidianamente all’incarcerazione di obiettori di coscienza. La maggior parte di loro sconta una pena di 28 giorni, alcuni scontano più condanne a 28 giorni una di seguito all’altra. Per aggiornamenti: http://wri-irg.org.

Porto Rico
Pedro Colón Almendes #22192-069
Un anno – scadenza 03/01/2003
? MDC Guaynabo POB 2147, San Juan, PR 00922-2147A seguito di tafferugli di scarsa importanza, avvenuti durante una protesta contro i ROTC (Corpi di Addestramento degli Ufficiali Riservisti) del 30/04/01 presso l’Università di Porto Rico, Almendes è stato dichiarato colpevole di aggressione aggravata.Cacimiar Zenon Encarnación
Pedro Zenon Encarnción
Regaladon Miro Corcino

Tutti e tre in attesa di giudizio, previsto per il 2 novembre 2002, per la violazione dell’area di bombardamento di Vieques a Porto Rico lo scorso settembre 2002.

Federazione Russa
Grigory Pasko
25/12/2001-25/12/2005
? SIZO IZ – 25/1, Partisanskij Prospekt 28b, 690106 Vladivostock, RussiaGiornalista militare russo accusato di alto tradimento per aver dato notizia dello smaltimento di scorie nucleari ad opera della flotta russa. Aveva già trascorso in prigione 20 mesi prima che gli fosse comminata la pena.

Corea del Sud
In Corea del Sud più di 1200 Testimoni di Geova sono finiti in carcere a causa della loro obiezione di coscienza al servizio militare. Solitamente è prevista una condanna a tre anni di prigione.
Ultimamente anche obiettori di coscienza laici hanno cominciato ad organizzarsi. 12 studenti hanno dichiarato pubblicamente la loro obiezione di coscienza lo scorso settembre 2002.

Turchia
Mehmet Bal
24/10/02 –
? Adana 6. Kolordu Askeri Cezaevi, Adana, TurkeyObiettore di coscienza dichiaratosi tale dopo aver svolto parzialmente il servizio militare . Si è consegnato spontaneamente il 24 ottobre ed ora è in carcere in attesa di giudizio.

Turkmenistan
Nikolai Shelekhov
02/07/2002/07-01/01/2004
? indirizzo della prigione sconosciuto

Kurban Zakirov
23/04/1999-22/04/2008
? Turkmenbashi labour colony Respublika
Turkmenistan, BPT – 5,p/p V.S. g. Turkmenbashi

Entrambi sono testimoni di Geova.

USA
Charles Booker-Hirsch #90962-020
10/09/2002-10/12/2002
? FCI McKean, P.O. Box 8000, Bradford, PA 16701

Joanna Cohen #90962-020
10/09/2002-10/12/2002
? Federal Prison Camp Phoenix, 37930 N 45th Ave, Phoenix, AZ 85086

Kenneth F Crowley #90963-020
10/09/2002-10/03/2003
? Federal Prison Camp Beaumont, PO Box 26010, Beaumont, TX 77720

Susan Daniels #90964-020
10/09/2002-10/12/2002
Nancy Gowen #90969-020
10/09/2002-10/12/2002
Abigail Miller #90692-020
10/09/2002-10/12/2002
Kathleen Boylan #20047-016
19/09/2002-10/12/2002
? Federal Prison Camp Alderson, Box A, Alderson, WV 24910

Mary Dean #90965-020
10/09/2002-10/03/2003
Kathleen Desautels #90966-020
10/09/2002-10/03/2003
Kate Fontanazza #90967-020
10/09/2002-10/03/2003
? Federal Prison Camp Greenville, PO Box 6000, Greenville, IL 62246

Toni Flynn #90960-020
12/07/2002-12/01/2003
Jerry Zawada #4995-045
12/07/2002-12/01/2003
? Crisp County Jail, 196 South Highway 300, Cordele, GA 31015

Chantilly Geigle #90968-020
10/09/2002-10/03/2003
? Federal Prison Camp Dublin, 5775 8th Street, Camp Paks, Dublin, CA 94568

Peter Gelderloos #90688-202
12/07/2002-12/01/2003
? FCI Cumberland, 14601 Burbridge Road, SE, Cumberland, MD 21502-8771

John Heid #13815-016
10/09/2002-10/04/2003
? Federal Prison Camp Schuylkill, Camp 2, Range B, PO Box 670, Minersville, PA 17954-0670

Eric Johnson #90971-020 MB2
10/09/2002-10/03/2003
? FCI Manchester, PO Box 3000, Manchester, KY 40962

Janice Sevre-Duszynska #91104-020
10/09/2002-10/12/2002
? FMC Lexington, 3301 Leestown Road, Lexington, KY 40511

Niklan Jones-Lezama #0203593
12/09/2002-12/03/2003
? Sherburne County Jail,13880 Highway 10NW, Elkriver, MN 55330-4609

Rae Kramer #91069-020
10/09/2002-10/03/2003
? FCI Danbury, Route 37, Danbury, CT 06811

Palmer Legare #91097-020
10/09/2002-10/12/2002
? FMC Devens PO Box 879, Devens, MA 01432

Tom Mahedy #91098-020
10/09/2002-10/12/2002
? FCI Fort Dix, PO Box 38, Fort Dix, NJ 08640

Bill O’Donell #85713-011
10/09/2002-10/03/2003
? Atwater USP, PO Box 01900, Atwater, CA 95301

Michaele Pasquale #91102-020
10/09/2002-10/03/2003
? Federal Prison Camp Allenwood, PO Box 1000, Montgomery, PA 17752

Richard M. Ring #91099-020
10/09/2002-10/12/2002
? Federal Prison Camp Lewisburg, PO Box 2000, Lewisburg, PA 17837

Michael Sobol #91105-020
10/09/2002-10/12/2002
? FCI Engelwood, 9595 w Qincy Ave, Littleton, CO 80123

Fr. Louise Vitale #25803-048
02/10/2002-02/01/2003
? indirizzo della prigione sconosciuto

Tutti questi prigionieri hanno preso parte ad un’azione dimostrativa svoltasi a Fort Benning, Georgia (USA), contro la School of the Americas (SOA – lett. “Scuola delle Americhe”) lo scorso settembre 2002.
SOA è una scuola di addestramento al combattimento per soldati latino-americani che ha sede a Fort Benning.
SOA, spesso soprannominata “School of Assassins” (Scuola di Assassini), ha lasciato una scia di sangue e sofferenza in tutti i paesi a cui i suoi diplomati hanno fatto ritorno. Centinaia di migliaia di persone in America Latina sono state torturate, rapite, fatte sparire, massacrate e costrette all’esilio, dai militari addestrati dalla SOA.
Nel gennaio del 2001 SOA è stata sostituita dal Western Hemisphere Institute for Security Cooperation (Istituto dell’Emisfero Occidentale per la Cooperazione alla Sicurezza) ma la sostanza delle cose non è affatto cambiata.

 

Un diritto umano non riconosciuto: obiezione di coscienza nel Caucaso e in Asia Centrale

di Silke Makowski

Nell’area del Caucaso e dell’Asia Centrale nessun paese offre una libera scelta tra servizio militare e servizio alternativo: molti di questi paesi sono persino sprovvisti di qualsiasi fondamento giuridico per un servizio sostitutivo a quello militare. I pochi stati che hanno approvato una legge su una qualche forma di servizio alternativo non hanno comunque osservato le norme internazionali: in Georgia il servizio sostitutivo non esiste di fatto nella pratica, e in Kirghizistan e Uzbekistan si deve ricorrere alla corruzione per potervi accedere. Queste forme di servizio prevedono inoltre una durata significativamente più lunga, con chiaro intento punitivo, e non possono essere propriamente considerate forme di servizio civile, in particolar modo quella uzbeca che contempla un breve periodo di addestramento militare.

Essendo membri del Consiglio d’Europa (CdE), gli stati caucasici devono ottemperare alle norme in materia di obiezione di coscienza della Raccomandazione 1518, adottata nel 2001. Tale Raccomandazione afferma il diritto di coloro che fanno parte di un esercito ad essere registrati, in qualsiasi momento, come obiettori di coscienza, e ad essere informati in merito alle condizioni e alle procedure per l’ottenimento dello status di obiettore; la Raccomandazione prevede inoltre l’istituzione di un servizio alternativo a quello militare che sia un vero e proprio servizio civile e che non presenti aspetti punitivi. Sebbene gli stati membri debbano garantire questi diritti, la legge georgiana mostra numerose insufficienze, mentre Armenia e Azerbaigian non hanno a tutt’oggi approvato alcuna legge.

CAUCASO
Armenia
In origine la legislazione non prevedeva il diritto all’obiezione di coscienza ma, in quanto membro del CdE, il governo armeno è tenuto ad approvare una legge sul servizio alternativo entro il 2003. Nei mesi scorsi sono stati discussi due diversi progetti di legge, nessuno dei quali però è stato approvato. Entrambe le versioni ipotizzate di servizio alternativo sono punitive, sia relativamente alla durata (42 mesi, ovvero 18 mesi in più rispetto al servizio militare) che relativamente alle restrizioni professionali: coloro che avranno svolto un servizio alternativo non potranno ricoprire cariche pubbliche. Inoltre solo coloro che appartengono ad alcuni gruppi religiosi avrebbero diritto a svolgere tale servizio, che peraltro si vorrebbe mantenere all’interno dell’esercito, risultando quindi una forma di servizio militare non armato. Negli ultimi anni le persecuzioni sono persino aumentate e gli obiettori di coscienza devono solitamente affrontare periodi di detenzione di diversi anni. In seguito ad una richiesta del CdE, nel giugno del 2001 il governo armeno ha concesso la grazia, rilasciandoli, a 37 Testimoni di Geova, ma nuove condanne sono seguite subito dopo. Secondo il Ministero della Giustizia, nel 2001, 75 persone, di cui 32 Testimoni di Geova, sono state giudicate colpevoli per “aver evitato di prestare servizio militare”. Attualmente almeno 25 Testimoni di Geova si trovano in carcere in Armenia.

Azerbaigian
Il diritto a svolgere un servizio militare alternativo per motivi di fede è contemplato dalla Costituzione azera del 1995. Tuttavia i decreti che regolano il servizio militare alternativo non sono mai diventati effettivi. A causa della sua appartenenza al CdE, l’Azerbaigian è tenuto a garantire il diritto all’obiezione di coscienza. Un emendamento alla Costituzione che sostituisce la precedente espressione “servizio militare alternativo” con “servizio alternativo” è entrato in vigore dopo il referendum dello scorso agosto, e una nuova legge sul servizio alternativo dovrebbe essere approvata entro dicembre. A tutt’ora non sono disponibili informazioni dettagliate e non si ha neppure la certezza che la legge sarà resa effettiva in tempi brevi. Attualmente non ci sono obiettori in carcere e le indagini nei confronti dei Testimoni di Geova sono state interrotte a causa dei mutamenti legali. Circa 2600 persone, tra disertori e renitenti alla leva, sono in carcere, ma non si conoscono le ragioni della loro scelta.

Georgia
Sebbene siano state approvate diverse leggi sul servizio alternativo a partire dal 1991, nessuna di esse è stata resa effettiva. Anche la più recente Legge sul Servizio Civile Alternativo, approvata nel 1997, non soddisfa le norme del CdE poiché il servizio sostitutivo proposto prevede una durata punitiva (36 mesi, contro i 24 del servizio militare) e probabilmente non si tratta neppure di vero e proprio servizio civile. Non sono ancora state fissate concretamente procedure imparziali per l’accoglimento delle domande per il servizio sostitutivo, sebbene più di 300 persone ne abbiano fatto richiesta.
L’esonero dal servizio militare può essere ottenuto solo ricorrendo alla corruzione.
Negli ultimi anni le autorità georgiane hanno spesso evitato di chiamare alle armi i Testimoni di Geova, per evitare un’aperta dichiarazione di obiezione di coscienza. Poiché molti giovani non vogliono prestare servizio militare – soprattutto a causa delle ristrettezze economiche che questo comporta – il numero dei Testimoni di Geova in Georgia è rapidamente cresciuto. Secondo il Ministero della Difesa vi sono attualmente in carcere 167 persone, tra disertori e renitenti alla leva, ma non è chiaro se qualcuno tra loro si sia professato obiettore di coscienza.

Abcazia
La Costituzione del 1994 dell’autoproclamata repubblica di Abcazia (non riconosciuta a livello internazionale ma considerata una regione della Georgia), non contempla il diritto ad un’alternativa al servizio militare e, nonostante l’ultimo anno abbia visto molte discussioni circa un servizio civile sostitutivo, non si sono avuti sviluppi. Tra il 1995 e il 2000, almeno 30 Testimoni di Geova sono stati incarcerati per essersi rifiutati di prestare servizio militare.

ASIA CENTRALE
Kazakistan
Il diritto all’obiezione di coscienza non è legalmente riconosciuto e non si prevede alcun servizio sostitutivo. Le numerose discussioni intorno ad un servizio militare alternativo non miravano alla proposta di un servizio civile alternativo ma semplicemente ad una flessibilità all’interno dello stesso servizio militare, combinando un breve addestramento militare con diversi tipi di attività. La persecuzione degli obiettori di coscienza, soprattutto Testimoni di Geova, è stato un problema costante per molti anni. Poiché la Legge sul Servizio Militare consente a “coloro che appartengono ad ordini religiosi” di essere esonerati dal prestare servizio militare, i Testimoni di Geova sono pervenuti ad un accordo col governo nel 1997 proclamando ministri religiosi tutti coloro che appartengono alla loro comunità. Da allora non si sono più verificati casi di obiettori di coscienza incarcerati.

Kirghizistan
Il servizio alternativo in Kirghizistan ha una tradizione relativamente lunga, che vede l’approvazione di una prima legge nel 1992. La legge sul Servizio Alternativo del 2001 ha ridotto la durata del servizio sostitutivo da 36 a 24 mesi, mentre quella del servizio di leva è passata quest’anno da 24 a 12 mesi. Secondo la nuova legge il servizio sostitutivo può essere svolto presso un’istituzione statale di tipo non militare; il 20 % del salario è trasferito al Ministero della Difesa. Il ricorso al servizio alternativo è molto diffuso: nella primavera del 2001 più del 70% dei chiamati alla leva non ha voluto prestare servizio militare, e circa metà dei 3500 coscritti è stata chiamata a svolgere il servizio alternativo. A questo si aggiunge il numero sempre crescente di diserzioni, che mostra ancor di più quanto sia serio il problema per l’esercito del Kirghizistan, costituito da sole 12000 unità. Nel novembre del 2001 si verificò il caso di un obiettore di coscienza preso di mira dalle autorità: Baptist Dmitri Shukhov fu sottoposto ad un’indagine psichiatrica a causa del suo rifiuto di prestare giuramento. Gli ufficiali avevano precedentemente negato la possibilità che venisse accolta la sua richiesta di servizio alternativo poiché la chiesa cui appartiene si rifiuta di stipulare accordi in materia.

Tagikistan
Il diritto all’obiezione di coscienza non è contemplato dalla legislazione tagica, di conseguenza non vi è attualmente alcun fondamento giuridico a sostegno della scelta per una qualsiasi forma di servizio sostitutivo, e non sembra ragionevole ritenere che le cose cambieranno in tempi brevi. Non si ha notizia di persone che si rifiutino di prestare servizio militare sulla base di motivazioni etiche o religiose, ma disertori e renitenti sono molto numerosi. Un numero crescente di giovani si sottrae all’obbligo della leva recandosi all’estero in cerca di lavoro. Tutte queste ragioni portarono a concedere un’amnistia, nel 2001, a tutti i disertori che accettavano di prestare servizio militare al loro rientro in patria.

Turkmenistan
Anche in Turkmenistan la legislazione non contempla il diritto al rifiuto di prestare servizio militare, e anche qui non si prevedono cambiamenti a breve termine.
Gli obiettori di coscienza, in gran parte Testimoni di Geova o appartenenti ad altri gruppi religiosi, devono affrontare lunghi periodi di detenzione, previsti dal codice penale, che spesso devono scontare in campi di lavoro in condizioni estremamente dure.
In molti casi, quando i prigionieri si rifiutavano di prestare giuramento di fedeltà al presidente per motivi di coscienza, è stato negato loro il rilascio.
Lo scorso settembre almeno 2 Testimoni di Geova risultavano essere in carcere a causa della loro obiezione di coscienza.

Uzbekistan
La Legge sul Servizio Alternativo del 1992 prevede un servizio sostitutivo di 24 mesi per motivi religiosi.
Attualmente non è possibile svolgerlo se non ricorrendo alla corruzione, e se si è particolarmente generosi nell’“elargizione”, è addirittura possibile evitare lo stesso servizio militare.
Il servizio sostitutivo è molto popolare: il numero delle persone chiamate a svolgerlo è il triplo di quello dei militari di leva.
Il cosiddetto servizio alternativo però non è un vero e proprio servizio civile, e prevede un addestramento militare di base della durata di circa due mesi. Per il tempo rimanente si tratta poi di svolgere attività molto umili e malpagate, e circa il 20 % del salario è trattenuto dal Ministero della Difesa.
Attualmente sono in atto molte discussioni circa una nuova legge per il servizio alternativo, ma non è ancora stato predisposto alcun progetto di legge.
Nella prassi gli obiettori di coscienza che non intendono ricorrere alla corruzione vengono ancora puniti: ogni anno diversi Testimoni di Geova vengono giudicati colpevoli e condannati, anche se poi la sentenza viene spesso sospesa o commutata in forti ammende.
Nuova legge sull’obiezione di coscienza in Russia

Finalmente nell’estate 2002 la Duma russa ha approvato una legge sul servizio alternativo che regola il diritto all’obiezione di coscienza. E’ stata in seguito firmata dal presidente Putin lo scorso 28 luglio ed entrerà in vigore a partire dal 1° gennaio 2004. Quella che a prima vista può sembrare una vittoria per i gruppi che si battono a favore dell’obiezione di coscienza, in realtà assomiglia molto di più ad un tentativo, da parte dell’apparato militare, di tenere la situazione sotto controllo.
Secondo l’articolo 4 della nuova legge, il servizio civile alternativo potrà essere svolto – oltre che presso altre realtà, anche presso organizzazioni delle Forze Armate della Federazione Russa, in qualità di personale non combattente.
La durata del servizio inoltre è superiore del 75% a quella del servizio militare (“solo” del 50% invece in caso di servizio alternativo nelle forze armate).
A questo si aggiunga che le procedure per fare domanda per il servizio civile alternativo sono molto restrittive: la domanda deve essere inoltrata 6 mesi prima della chiamata (il che significa a 17 anni) e deve essere accompagnata da motivazioni scritte. Inoltre viene richiesto di comparire personalmente di fronte ad una commissione giudicatrice: una sorta di inquisizione.
Diverse organizzazioni russe stanno promovendo campagne contro tale legge sul servizio civile alternativo, e si appelleranno alla Corte Costituzionale della Federazione Russa. Le organizzazioni per i diritti umani hanno ribattezzato questo progetto di legge “legge sulla schiavitù alternativa”, e promuovono l’abolizione della coscrizione in Russia come unica reale alternativa.
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Tra conquista, convenienza e “rito di passaggio”

Trent’anni di obiezione di coscienza e il nuovo servizio civile volontario, nelle parole di alcuni obiettori nonviolenti.

Dicembre 1972. Viene varata in Italia la prima legge che riconosce il diritto di obiezione di coscienza al servizio militare.
A trent’anni di distanza, alle porte della riforma che darà il via al servizio civile volontario attualmente in sperimentazione, tentiamo un bilancio di questi trent’anni con alcuni amici del Movimento Nonviolento che l’obiezione hanno praticato, in tempi e con modalità diverse.

Marco Brandini (Verona, 27 anni)
È stato obiettore presso la Casa per la Nonviolenza che è anche sede nazionale del Movimento Nonviolento, dove è uno dei più assidui collaboratori.

Ho fatto l’obiettore per convinzione. Mi avevano assegnato all’Acli e ho fatto richiesta di passare al Movimento Nonviolento, perché era lì che volevo andare. Mi ha sempre interessato l’obiezione, da ragazzo seguivo la Loc, facevo berna da scuola per fare volantinaggio tra i ragazzi che entravano e uscivano dalla caserma, per la visita di leva…
Come hai vissuto la tua esperienza?
Per me l’obiezione non è ancora finita. Al momento del congedo sono stato a casa un giorno, per una pausa simbolica, e poi sono tornato a lavorare alla Casa per la Nonviolenza. È un’esperienza che ti cambia quasi senza accorgertene, è un continuo capirsi meglio, un’opportunità unica, perché riconosci in te la forza di provare a cambiare un po’ le regole del gioco.
Che opinione ti sei fatto sul servizio civile volontario?
Condivido l’impiego di ragazzi su base volontaria e di interesse personale. E poi stavolta gli enti saranno costretti a fare sul serio, a costruire un progetto su cui impiegare forze nuove, non semplicemente ad impiegare i ragazzi come tappabuchi. Il fatto del compenso non mi sembra corretto, può spingere a farsi volontari per ragioni di denaro e non per convinzione.
Poi c’è il fatto che contemporaneamente anche la scelta del militare diventa volontaria. Qualche volta mi chiedo se la spinta che porta verso il servizio civile o militare sia la stessa, anche se di segno opposto. Vedo il rischio di un maggiore radicamento dell’esercito, più potente e più costoso. E poi, il militare fa carriera, ma il servizio-civilista ha le stesse garanzie e tutele?

Piercarlo Racca (Torino, 56 anni)
È stato uno tra gli ultimi ad essere incarcerato per aver scelto l’obiezione di coscienza in tempi in cui la legge non ne riconosceva la possibilità. È membro del coordinamento nazionale del Movimento Nonviolento.

Mi sono avvicinato all’obiezione di coscienza nel 1968, come risposta al problema delle guerre, e ho fatto obiezione nel ’69. Proprio in quegli anni c’è stato il boom delle proteste di piazza per avere una legge, che è stata poi varata nel ’72. Ricordo nel ’71 la prima esperienza di sciopero della fame…
Se dovessi tracciare un bilancio ideale di questi trent’anni, che cosa sottolineeresti?
Abbiamo raggiunto tre obiettivi importanti. Il primo: l’obiezione è considerata positivamente da gran parte dell’opinione pubblica, che la interpreta come una possibilità di scelta; bisogna ricordare che trent’anni fa non era affatto così, l’obiezione era molto screditata.
In secondo luogo, questi sono stati trent’anni di miglioramento della democrazia, in cui si è sperimentata la possibilità di manifestare legalmente e personalmente contro l’istituzione armata.
Infine, l’obbligatorietà della leva è stata sospesa soprattutto perché mancavano i ragazzi, la scelta dell’obiezione si è diffusa a tal punto tanto da ostacolare la composizione di un esercito.
Il servizio civile nazionale è una nostra conquista: è aperto a ragazzi e ragazze e verrà scelto volontariamente, e tutto ciò è molto positivo. Si tratterà poi di fare un confronto tra chi e quanti sceglieranno il servizio civile o quello militare.
Bisogna pensare che è meglio un esercito di volontari e di professionisti?
Non lo so, forse è un passaggio obbligato. Spero che un giorno avremo ancora un esercito di volontari, ma non lo sceglierà nessuno.

Massimiliano Pilati (Trento, 29 anni)
Ha svolto il servizio civile presso la Caritas di Bologna. È membro del coordinamento nazionale del Movimento Nonviolento e referente per il Gruppo di Lavoro Tematico nazionale sulla Nonviolenza, all’interno della Rete di Lilliput.

Mi piace dire che non ho fatto il servizio civile ma 10 mesi di obiezione di coscienza. Io, almeno, ho vissuto quel periodo come obiezione di coscienza al servizio militare, con un forte antimilitarismo, e solo dopo mi sono avvicinato al pensiero nonviolento. Il libro “La mia obbiezione di coscienza” di Pietro Pinna mi ha folgorato.
Che cosa te lo ha reso vicino, nonostante gli anni di distanza da quella esperienza?
Mi ha dato la consapevolezza di un sentire che non capivo. Mi ha mostrato come il singolo individuo può opporsi al modello sociale o politico. Un po’ alla volta ho cominciato a pensare che oltre ad essere antimilitarista, potevo scegliere il metodo nonviolento come pratica della mia azione politica.
Che cosa ti ha dato l’esperienza di obiezione?
Una bel periodo di condivisione. Ho lavorato al centro di documentazione in Caritas, all’avvio del nodo Lilliput di Bologna, ho cercato di introdurre alcuni temi tra gli altri obiettori, e ho avuto l’occasione di conoscere in modo diretto realtà che fino ad allora mi erano sembrate lontane: la mensa per i poveri, l’handicap mentale e fisico. Traggo da quei mesi anche lo sconforto di capire che il servizio civile potrebbe essere fantastico, aiutare i giovani a crescere, ma gli enti non se ne fanno carico. Ed è stato triste per me, obiettore convinto, accorgermi che il 99% dei miei colleghi era lì per una scelta di comodo.
Che cosa pensi della nuova legge?
All’inizio ero ferocemente contrario. Mi sembrava che con un esercito di volontari si finisse per svendere quel poco che restava dell’obiezione di coscienza. Col tempo ho cominciato a vedere le cose da un altro punto di vista, e ora da un lato penso sia molto positivo che ragazzi e ragazze possano scegliere di impiegare così un anno della loro vita, in modo volontario e consapevole. Certo, il compenso lo rende una bella occasione anche per chi non è motivato ma cerca una soluzione economica temporanea…
E poi chi può dire se l’obiezione di coscienza è davvero finita? E se un professionista dell’esercito si accorge che la sua coscienza si rifiuta di obbedire a determinati ordini… che fa?
Nel frattempo l’obiezione al sistema militare passa dalle mani dei giovani a quelle di tutti i cittadini, con diverse forme, per esempio la nuova campagna di obiezione del cittadino, e una seria disobbedienza civile.

Alberto Trevisan (Padova, 55 anni)
Per la sua scelta di obiezione ha subito tre processi e ha trascorso oltre un anno presso il carcere militare di Peschiera, da cui è uscito alla vigilia di Natale del 1972, con l’approvazione della prima legge, che ha contribuito a costruire. È membro del Coordinamento nazionale del Movimento Nonviolento.

L’obiezione di coscienza ha consolidato in me idee e convinzioni che possedevo già prima, solo accennate, con tutta la paura di affrontare l’esperienza del carcere, e che nel tempo si sono consolidate attraverso la seconda e la terza carcerazione. Le scelte compiute nel lavoro (sono assistente sociale) e l’impegno nel movimento pacifista e nonviolento nascono da quella obiezione, con riferimenti precisi: don Milani, padre Balducci, padre Turoldo, Capitini…
Quale bilancio è possibile tracciare di questi trent’anni?
In questi anni il valore iniziale, ideale dell’obiezione di coscienza è andato lentamente affievolendosi. Di questo però io non mi sono mai lamentato; mi sono battuto perché questa legge potesse essere al servizio del maggior numero di giovani, era importante farlo, anche perché non avevamo alternative. Il mio giudizio sul servizio civile è negativo per come è stato gestito, ma è anche positivo perché ho conosciuto personalmente tanti ragazzi che hanno iniziato senza grosse motivazioni, un po’ per comodo, e durante quell’esperienza sono cambiati, e magari hanno continuato ad impegnarsi.
Due parole ancora sulla nuova legge di riforma del servizio civile – e militare.
Le vicende di questi anni permettono adesso, a dei giovani che lo vogliano, di avere degli strumenti sicuramente migliorabili, ma molto importanti. Un ragazzo che crede nella nonviolenza oggi ha la possibilità di coltivare la scelta del servizio civile volontario.
Ho un dubbio: riusciranno a portare avanti l’eliminazione della leva? Se penso agli impegni europei, e agli scenari di guerra che si preparano, dubito che avremo un numero di volontari sufficiente a garantire un esercito di quelle dimensioni, nonostante le garanzie e le agevolazioni che attireranno in tal senso soprattutto i giovani con maggiori difficoltà a trovare lavoro.
La legge sull’obiezione di coscienza, poi, non sparisce, rimane uno strumento legislativo accessibile per chi sceglie il servizio militare volontario nel momento in cui dovesse pentirsene. C’è sempre una legge che gli permette di dire no. E da nonviolenti, da persone che per ottenere una legge hanno pagato abbastanza, il fatto che l’obiezione di coscienza rimanga con caratteristiche buone rispetto a quella che avevamo ottenuto noi trent’anni fa, questo mi fa piacere.

Marco Siino (Palermo, 30 anni)
È uno degli animatori della sezione palermitana di MIR-MN.

Ho prestato servizio civile nel ’99 all’oratorio salesiano di S.ta Chiara a Palermo. Svolgevo attività con i ragazzi del quartiere, l’Albergheria, e con i ragazzi del mercato di Ballarò, un quartiere centrale molto povero.
Sono stati mesi intensissimi. Sono arrivato per assegnazione e senza nessuna preparazione (io avrei voluto lavorare con gli immigrati, e mi ero preparato per farlo). Ho trovato una situazione esplosiva. Basti pensare che l’oratorio di Santa Chiara è al centro di uno dei più grossi processi per pedofilia. Incontravamo circa 80 bambini e, per quanto ci era dato di sapere, almeno una trentina erano stati violati, così i padri hanno deciso di denunciare… Ecco, l’esperienza di servizio civile mi ha fatto toccare con mano queste cose. Che a Palermo c’è la povertà, la povertà assoluta. Bambini che non hanno la possibilità di mangiare due volte al giorno.
Che cosa pensi della nuova legge sul servizio civile volontario?
Perché me lo chiedi? Non vedo nessun legame con il servizio civile.
Ti riferisci alla questione del compenso, prevedi che diventerà una questione di convenienza?
Vedrai quello che succederà al sud! Con tutti i disoccupati che abbiamo, i giovani padri di famiglia… Il boom non è ancora scoppiato perché per ora il servizio riguarda quasi esclusivamente le ragazze, ma appena si fermerà il servizio di leva…

Claudia Pallottino (Torino, 28 anni)
Ha svolto l’Anno di Volontariato Sociale. È impegnata nella Caritas per l’attuazione del servizio civile volontario, Fa parte del coordinamento nazionale del Movimento Nonviolento, per il quale si occupa in particolare di servizio civile volontario e di corpi civili di pace.

L’Anno di Volontariato Sociale (AVS) è nato nel 1976 quando la CEI ha organizzato a Roma un convegno ecclesiale dal titolo “Evangelizzazione e Promozione Umana” . Da quel convegno l’iniziativa fu affidata alla Caritas in termini organizzativi. Le prime AVS sono di Vicenza nel 1980.
Inoltre c’è da aggiungere che la Germania ci lascia miglia e miglia indietro, in quanto la prima legge sul sc volontario aperto alle donne ce l’ha nel lontano 1954.
A Torino l’AVS ha sempre avuto un valore di obiezione di coscienza, in veste positiva. Come dire: lo Stato mi preclude, come ragazza, l’esperienza dell’obiezione, e io me la prendo.
Nel tempo, in Italia, hanno aderito all’anno di volontariato circa mille ragazze ed è stata formulata una proposta di legge, che però non è mai arrivata in porto.
Che cosa ha significato per te l’Anno di Volontariato Sociale?
Mi ha cambiato la vita. Ha segnato la voglia di continuare la mia crescita. Avevo 19 anni, appena superata la maturità. Ho lavorato nei centri operativi Caritas e in un centro diurno per minori a rischio di emarginazione. La proposta era di un servizio che non doveva essere indispensabile a quelle persone, ma doveva dare a me la possibilità di capire delle cose: perché loro erano ultimi ed emarginati, che cosa significa la nonviolenza, la giustizia… Valori che in altri luoghi non era stato possibile approfondire. L’AVS è anche un tempo per fare comunità, per vivere e condividere la diversità nelle relazioni quotidiane.
Alla fine mi sono detta: da qui voglio andare avanti. Ho iniziato la scuola per assistente sociale, ho proseguito un discorso di fede basato non sulla forma ma sull’impegno… Insomma, ho cominciato ad essere presente nelle mie scelte, a capire il valore delle scelte.
Che cosa pensi della legge sul servizio civile volontario?
È piuttosto disorientata. Per come viene formulato, il servizio civile volontario assomiglia di più all’AVS che al servizio civile. È un fatto singolare, perché fino ad ora l’AVS era stato messo negli angoli più reconditi delle società e della stessa Caritas: niente normativa, niente garanzie economiche, la maggior parte delle famiglie non ha capito il significato di questa esperienza, non c’è stata nessuna elaborazione culturale.
Ora improvvisamente la legge ha spalancato i fari su questo angolino di esperienza. C’è un rimborso dignitoso per i volontari, per cui le famiglie possono dire ai figli “Se vuoi puoi farlo, tanto non mi pesi”. Inoltre viene riconosciuta l’aspettativa dal lavoro, come per gli obiettori in servizio civile.
Certo, ci sono dei rischi. Il primo: che il servizio civile volontario venga visto come un’esperienza di solidarietà senza nessun rapporto con l’obiezione di coscienza e con la difesa della patria; poi, che diventi un’alternativa ai lavori socialmente utili, una forma di pre-collocamento.
Una novità forte è il riconoscimento di pari opportunità per ragazzi e ragazze.
Sì, e questo introduce aspetti importanti. Su alcuni ambiti solo le donne possono farsi strumento di pace. Voglio dire, ci sono valori e pratiche prettamente femminili: l’accoglienza, l’impegno, il sapersi tirare su le maniche, l’imparare a mettersi al servizio senza voler essere uomini, valorizzando la propria femminilità.
È una opportunità molto grossa, comincia ad esserci molto interesse anche nelle istituzioni. Mi piacerebbe che tanti ragazzi e ragazze ne cogliessero la portata di crescita personale. Un momento in cui prendersi in mano, riconoscere quello che hanno ricevuto, e agirlo.
Un po’ come nella tua esperienza.
Una volta le famiglie guardavano al servizio militare come ad un rito di passaggio: “vai in caserma”, dicevano, “che diventi grande”. Vorrei che questo si pensasse ora del servizio civile volontario: un’opportunità per passare dalla dipendenza dalle scelte e abitudini familiari, alla fase adulta. Un po’ come se i genitori dicessero ai figli: immergiti nella società, conoscila anche nelle situazioni di maggiore disagio, nelle difficoltà, nei problemi reali della gente, datti degli strumenti di lettura, e poi ritorna, ad affrontare le tue scelte quotidiane in un modo diverso.

Così, trent’anni fa, scrivevamo su queste stesse pagine

Liberiamo i prigionieri dell’esercito e della giustizia

(da Azione nonviolenta settembre/ottobre 1972)

(…) Prigionieri politici dell’esercito e della giustizia che gli è delegata, i nostri compagni e fratelli obiettori di coscienza sono rinchiusi, sempre più numerosi ed a lungo, nelle carceri militari. Ogni anno, secoli di reclusione e di sofferenze li colpiscono. Come un tempo altri uomini di vera e radicale Riforma che dovettero testimoniare con la vita e con il recere la libertà di coscienza e di religione contro il potere della Chiesa, così oggi contro il potere – che si vuole anch’esso sacro – dello Stato, gli obiettori pagano la loro fedeltà alla religione della libertà, della pace, della giustizia e della fraternità. La stessa barbarie li colpisce. La stessa pretesa di annientare le coscienze, incatenandone i fedeli, viene loro opposta:ma questo accade ora nel nostro stesso nome , e volontà, di popolo italiano. Con la nostra personale, quotidiana e multiforme collaborazione. (…)
Opporremo quindi a queste situazioni la risposta radicale, pacifica, nonviolenta della noncollaborazione e della disobbedienza civile. (…) Porteremo avanti questa forma di disobbedienza civile fino a quando il Parlamento non avrà approvato una legge che sancisca l’effettivo esercizio di diritto all’obiezione di coscienza, diritto previsto nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo ratificata dalle Camere sin dal 1965. (…)

Votata la legge truffa sull’obiezione di coscienza

(da Azione nonviolenta, novembre/dicembre 1972)

(…) Poiché allo Stato è “essenziale” l’apparato militare, essenziale è che coloro che vi si oppongono, che obiettano ragioni e modi più adeguati ai tempi (di connessioni e di problemi transnazionali, di unità mondiale), ne rimangono soffocati e sviliti. Che la testimonianza del ripudio della guerra rimanga confinata al personale aborrimento del sangue e resti appannaggio di pochi, cui siamo pronti anche a riconoscere il titolo di profeti e di eroi e di benemeriti della coscienza e del vivere civile. (…) Ecco quindi che, alla luce di questa logica, un Parlamento il quale doveva riconoscere il diritto, aperto a tutti, ad obiettare al ripudio di un mondo politico retto su strutture di guerra, vota una legge che si traduce e serve al suo opposto, cioè a statuire il reato dell’obiezione di coscienza. Non c’è, ripetiamo, da farsi meraviglia di questo esito, abnorme e logico insieme, da parte di un Parlamento composto di forze politiche che, dalla prima all’ultima, di destra e di sinistra, sono tutte concordi sul principio sommo (per il potere) della necessità dell’apparato di guerra. (…)
Ben più che imperfetta, questa è una legge inutile, e falsa, sul piano politico, democratico, civile, umano. E’ una beffa e una trappola, legge-truffa discriminante e repressiva.
Non significa essa allora nulla per i pacifisti, peggio, è da considerarsi una sconfitta? In via immediatamente pratica, così è certamente, perché tutto in pratica è come prima e peggio di prima, perché chi è obiettore avrà ancora a dover dire di no a una coscrizione che attraverso questa legge ugualmente lo militarizza, e la massa dei giovani coscritti si troverà sempre costretta a piegarsi alla schiavitù militare restando sempre arbitro l’esercito di decidere quali e quanti di essi potrà tollerare che non lo servano in armi.
Ma in termini ideali la novità del riconoscimento giuridico dell’obiettore di coscienza ha un grande significato, perché introduce un fondamentale valore di principio di contro ad uno dei massimi e pericolosi poteri dello Stato, quello di coscrivere alla guerra. (…)
A tutti il varo di questa legge-truffa porta la lezione decisiva che non ci si può attendere la soluzione adeguata del problema dal mero gioco delle gerarchie partitiche, tutte interessate a mantenere intatto l’apparato militare dello Stato e con esso lo strumento più formidabile di dominio politico. Solo la mobilitazione dal basso può imporre una diversa strada, che dando soluzione vera al problema dell’obiezione di coscienza apra la via alla più profonda istanza che essa esprime, un nuovo modo del fare umano, sociale e politico, a partire dal superamento dell’assassinio di massa istituzionalizzato.

La guerra di Piero

Pietro Pinna ha 75 anni e vive a Firenze. E’ stato il primo obiettore di coscienza italiano del dopo guerra. Successivamente divenne il più stretto collaboratore di Aldo Capitini, con cui condivise la nascita e lo sviluppo del Movimento Nonviolento. Ancor oggi è una delle figure di riferimento per tutti gli amici della nonviolenza.

Puoi raccontarci la storia del tuo rifiuto del servizio militare? Quali furono le motivazioni profonde del tuo gesto?
All’epoca, nel ’48, si era appena usciti dalla tragedia della guerra. Guerra che aveva segnato in maniera indelebile gli anni della mia adolescenza. Allora non conoscevo i presupposti teorici della nonviolenza. Non avevo letto Gandhi. Semplicemente, avevo vissuto gli orrori delle stragi, dei bombardamenti, e mi ripugnava l’idea di diventare parte di uno strumento, l’esercito, che è essenziale all’azione bellica. Sai qual è l’immagine più laida della guerra che io conservo nella mia memoria? E’ quella di una casa sventrata. Hai letto il libro di Bassani “Una notte del ’43”?

Sì, una delle Cinque storie ferraresi…
Bene, quel racconto narra di un episodio che accadde a Ferrara in quegli anni e del cui esito io sono stato testimone involontario. C’era stato un eccidio compiuto dai repubblichini, durante la notte, e il mattino dopo, mentre andavo al lavoro, ho visto i cadaveri abbandonati per la strada come monito per la popolazione… Fu allora che i repubblichini crearono l’espressione “bisogna ferrarizzare l’Italia”. Poi sono stato testimone dei rastrellamenti tedeschi, delle scene di terrore provocate dai bombardamenti. Non ti sembra sufficiente per diventare antimilitarista?

Che cos’è per te l’obiezione di coscienza?
E’ l’impegno a rifiutare la partecipazione alla preparazione e all’effettuazione della guerra. Per me la guerra e’ un crimine collettivo. Non volevo sentirmi complice di questo crimine, così rifiutai la divisa e finii in carcere.

Cosa ricordi di più dell’esperienza carceraria?
La cosa che mi mancava di più era il verde, lì si vive circondati dal cemento. Ho fatto anche un periodo di cella di rigore. A volte il caporale, per troppo zelo, mi portava il rancio un’ora dopo e allora era proprio immangiabile. Ero un traditore della Patria…

C’è stato qualche momento in cui ha sentito di non farcela?
Quando ero in cella di rigore cominciavo ad accusare la stanchezza. C’è stato un momento in cui ho perso anche la pazienza. Una volta un colonnello mi chiese se non pensavo a mia madre, al dolore che le davo. Ebbene, a quel punto mi sono davvero seccato. “Mia madre”, gli ho detto, ” soffre, ma comprende il mio gesto e mi pensa vivo, seppur in galera. Pensi lei, piuttosto, a tutte le madri a cui la guerra ha stroncato i figli, a cui ora possono rivolgersi solo come defunti”.

Da allora sono passati più di 50 anni, ma tu hai mantenuto integra la tua idea contro la guerra.
Anzi, si è rafforzata. Ma resta molto semplice: disarmo unilaterale, integrale e immediato. Capisci cosa voglio dire?

Che cosa dovrebbe fare oggi uno Stato che decidesse di impegnarsi davvero per la pace?
Cominciare a cambiare mentalità. Disarmarsi. Per sempre. A livello internazionale bisognerebbe, poi, superare il concetto della sovranità assoluta degli Stati. L’ONU ha solo un potere fittizio sugli Stati, al giorno d’oggi, come sai bene.

Secondo te è davvero possibile che qualche governo adotti una soluzione del genere?
Siccome difficilmente potrà avvenire sul piano politico, il disarmo unilaterale lo si può realizzare solo dal basso. E’ qui che devono dare un contributo le Chiese, i partiti e tutti gli uomini di buona volontà… il popolo, insomma. Questa era l’idea di Capitini.

Secondo la logica corrente il disarmo unilaterale costituirebbe un rischio per lo Stato che lo adottasse..
Sai cosa rispondeva Capitini a questa obiezione? Che potremmo anche arrivare a pensare ad un popolo che si sacrifichi fino a questo punto, un popolo-Cristo. Un popolo che accetta la croce per salvare l’umanità! La pace per tutti è ancora il problema più urgente.

Come vedi il futuro dell’umanità?
C’è una sola speranza, secondo me, per il nostro futuro. Il disarmo. Il ripudio della guerra. Senza mistificazioni di sorta (una guerra di difesa è pur sempre una guerra). Ma non è un obiettivo che si riuscirà a realizzare a breve termine, forse prima ci vorrà la terza guerra mondiale…. Noi abbiamo solo iniziato.

Cosa ti sentiresti di dire oggi al movimento “no global” che si prepara ad una grande mobilitazione contro la guerra in Irak?
Cominciamo dal punto d’arrivo; ossia dal pacifismo assoluto, quello della nonviolenza: se non vogliamo davvero la guerra dobbiamo abolirne lo strumento che la consente e la produce, vale a dire l’esercito. Si tratta dell’unica risposta che possiamo dare al semplice rifiuto verbale, perché se a manifestare il rifiuto sono in molti, a livello pratico le cose vanno in tutt’altro modo. La conclusione mi sembra semplice: l’abolizione unilaterale dell’esercito. Devo ripeterlo ancora una volta: contro la politica che vige da secoli, ingannevole, del disarmo multilaterale, cioè concordato ed equilibrato, bisogna partire dal basso. Tutti i tentativi che sono stati fatti fino a oggi si sono rivelati fallimentari, anziché il disarmo abbiamo avuto il suo opposto, vale a dire la corsa al riarmo. Ecco allora che dobbiamo procedere attraverso una diversa politica, basata su atti di disarmo unilaterale.

Puoi farci un esempio?
Un esempio è arrivato dalla politica di Gorbaciov: promulgò un atto unilaterale di disarmo atomico, al quale gli Stati Uniti dovettero adeguarsi per la sua inequivocabile valenza disarmista, per non sfigurare davanti all’opinione pubblica di tutto il pianeta. Questo è il principio. Un atto di questo tipo, di disarmo unilaterale, toglie la giustificazione primaria per il riarmo. È una costante storica che i governanti esprimano al popolo la necessità di correre al riarmo quando gli altri Stati sono armati (accade oggi fra L’America e l’Irak). Se io invece sono disarmato, privo gli altri della giustificazione primaria e fondamentale del riarmo e dell’accaparramento del potenziale bellico.

Pensi alla menzogna della guerra preventiva?
Più che di menzogna parlerei di autoinganno, quello di presumere di tutelare la pace preparando invece la guerra. Si tratta, ripeto, di un inganno plurisecolare, che segue il principio latino “si vis pacem, para bellum” (se vuoi la pace prepara la guerra). È’ una politica schizofrenica da bancarotta fraudolenta. Noi dobbiamo uscire da questo inganno, altrimenti sarebbe meglio mettersi l’anima in pace con l’ineluttabilità della guerra e finirla con qualsiasi discussione in merito.

1972-2002: che giudizio dai di questi 30 anni di obiezione di coscienza in Italia?
Negativo. Negativo, intendo, rispetto al significato dell’obiezione di coscienza, cioè dell’opposizione integrale alla guerra. Mi pare che in questi decenni non sia venuto nessun concreto contributo significativo alla ragion d’essere dell’obiezione, che è l’antimilitarismo.

Cioè pensi che generazioni di obiettori di coscienza, dagli anni ’70 ad oggi, non abbiano influito politicamente per l’affermazione dei valori della pace?
Singoli obiettori si sono espressi con forza e nettezza su posizioni antimilitariste, e ci sono stati anche gruppi o collettivi che hanno preso seriamente i valori dell’obiezione (penso ad esempio ad alcune esperienze in Caritas), ma sono state esperienze individuali, che non sono riuscite ad avere evidenza e incidenza pubblica.

Trent’anni tutti da buttare?
No, naturalmente. So ben vedere anche il lato positivo di questa esperienza: molti giovani si sono avvicinati al servizio civile acquisendo una certa consapevolezza di far parte di una società a cui bisogna dare un contributo; forse possiamo dire anche che nel servizio civile si è espresso uno stato d’animo particolare che può aver portato un certo “valore” nel tessuto sociale italiano, anche se non credo che alla fine dell’esperienza rimarrà nulla di organico.

Come vedi il futuro del servizio civile volontario?
Non so bene, ma forse il nuovo tipo di servizio potrà prendere come “spunto” dall’esperienza precedente un certo spirito di serietà e di maggior impegno.

Da una parte avremo il servizio volontario, dall’altra l’esercito professionale.
Dove potrà esprimersi l’antimilitarismo?
L’antimilitarismo e le istanze profonde dell’obiezione restano affidati a quegli organismi che si riferiscono esplicitamente alla nonviolenza. Penso anche ad iniziative specifiche come la Marcia nonviolenta “mai più eserciti e guerre”. Il Movimento Nonviolento deve continuare a mettere in rilievo il concetto di disarmo unilaterale. Finchè ci saranno gli eserciti ci dovrà essere qualcuno che promuove le istanze dell’obiezione e del disarmo unilaterale.

A chi vuole approfondire questi temi, consigliamo la lettura del diario giovanile di Pietro Pinna “La mia obbiezione di coscienza”, Edizioni del Movimento Nonviolento, € 5,15, che può essere richiesto alla nostra Redazione.

(Questa intervista è la sintesi di tre diversi colloqui avuti recentemente con Pietro Pinna da Mao Valpiana, Filomena Perna, Fabio Bacci e Alessandra Viana)
Un operaio Presidente che eredita il maggior debito sociale del mondo e promette “Fame zero” in un “Brasile decente”: Luis Inacio da Silva

Di Gabriele Colleoni *

L’ambizioso obiettivo confessato è quello di diventare il Nelson Mandela del Brasile. Il rischio, altrettanto sinceramente paventato, è invece di un declino che lo trasformi solo in un Lech Walesa di San Paolo. Tra queste Scilla e Cariddi di illustri predecessori dalle parabole politiche divergenti, protagonisti tra gli anni Ottanta e Novanta di rivoluzioni nonviolente, sa che dovrà navigare l’uomo della rottura storica che il Brasile e con questo Paese tutta l’America Latina, hanno visto realizzarsi a fine ottobre.
La svolta porta il nome e la barba di un operaio, quelli di Luis Inacio da Silva, per tutti semplicemente Lula, eletto il 27 ottobre presidente del Brasile, cioè del Paese che per dimensioni territoriali, numero di abitanti e prodotto interno lordo ha un peso geopolitico decisivo sull’intero subcontinente americano. L’elezione del leader del Partido dos Trabalhadores alla massima carica del Brasile segna una rottura storica nei confronti degli ultimi vent’anni latinoamericani, caratterizzati, insieme al generalizzato ripristino delle democrazie in campo politico dopo le dittature degli anni ’70, dall’imposizione di un modello economico di stampo neo-liberista, oggi entrato in profonda crisi insieme, peraltro, a quello della rappresentanza politica.
Nonostante la barba che li accomuna, insieme a diverse idee sulla situazione economico-sociale del continente, è una forzatura falsa e fuorviante definire Lula un secondo Fidel Castro. Completamente diverse sono le loro storie personali e politiche (quella di Lula passa peraltro dal fondamentale snodo di una rivoluzione che si è compiuta nelle urne senza nessun assalto al Palazzo della Moncada), e alla fine dunque diversi sono gli approcci agli snodi della gestione del potere e delle pratiche sociali.
Ricordiamo un passaggio di un’intervista di Lula all’immediata vigilia del voto: “La nostra politica sarà caratterizzata dal dialogo e da una pratica di negoziazione. Tutti sanno che ho iniziato la mia vita politica negoziando come sindacalista. Il primo grande accordo che ho concluso riguardava l’industria automobilistica e risale al maggio 1978. Durante tutta la mia vita ho imparato a negoziare, a fare accordi per risolvere tutti i problemi che si presentavano ed è questo che intendo fare adesso. Convocherò gli imprenditori, le confederazioni e i sindacati di categoria affinché siano conclusi accordi nell’interesse del paese. Il contratto sociale che vogliamo sottoscrivere sarà fondamentale per realizzare le riforme che vogliamo realizzare”.
L’esperienza della povertà familiare e di emigrante, il precoce lavoro operaio, la militanza sindacale, la pratica politica in un partito – come il Pt, che ha contribuito a far nascere al momento dell’epilogo della dittatura nel 1980 – davvero nuovo nel contesto latinoamericano per la sua natura classista, per la sua organizzazione e partecipazione dal basso, l’influenza della Teologia della Liberazione… Sono questi gli snodi fondamentali che bisogna tener presente per capire il contesto e la formazione del neopresidente brasiliano. Tutti tratti assai lontani dal giacobinismo rivoluzionario e poi comunista del lider maximo cubano, educato dai Gesuiti e avvocato mancato per diventare rivoluzionario di professione.
Una situazione che fa accostare immediatamente Lula a Lech Walesa. Come il leader di Solidarnosc, che oggi politicamente è fuori gioco in Polonia, il neopresidente brasiliano ha conquistato i gradi di leader politico sul campo. Facendosi arrestare e scontando il carcere per gli scioperi operai della Grande San Paolo che fecero traballare il regime militare. E non risparmiandosi, nei quasi vent’anni passati dal ritorno dei generali in caserma, nel confrontarsi di persona con la realtà di un Paese-continente, oberato da quello che ha definito un debito sociale non più sostenibile.
Un Paese, il Brasile, in cui le ineguaglianze continuano a crescere. Undicesima economia del mondo, il Brasile è al 73° posto per l’indice di sviluppo umano dell’Onu: su oltre 170 milioni di abitanti, circa un terzo vive nella miseria. Il reddito pro-capite della regione di San Paolo è dieci volte quello degli Stati poveri del Nordest (770 dollari contro 8.000).
La sfida che Lula – il Jornal do Brasil lo ha definito “l’erede del maggior debito sociale del mondo”, oltre che di quello estero oggi salito intorno ai 250 miliardi di dollari – si propone ora di affrontare è quella di riconciliare pacificamente una società dove, spiegano i sociologi brasiliani, a fianco di un piccolo Belgio di privilegiati vive un’immensa India di esclusi. Insomma, di abbattere – dopo il Muro di Berlino tropicale dell’esclusione politica – il muro di una sorta di apartheid sociale non codificata da leggi, ma che condanna decine di milioni di brasiliani a una difficile sopravvivenza a fronte di una società che ha punte di benessere e di modernità tecnologica e culturale elevatissime.
Certo, in una regione che ha conosciuto troppi populisti e populismi finiti in bagni di sangue o in fallimenti e corruzione dilagante, è lecito concedersi il beneficio del dubbio di fronte alla svolta. Ma, detto questo, Lula sembra entrare in scena con qualche efficace antidoto, a partire dal fatto di essere un uomo del popolo – la sua vita è una sorta di compendio di storia brasiliana – prima che un politico per il popolo. In secondo luogo, conta su un’esperienza maturata con la gavetta e con la traversata del deserto di quattro campagne presidenziali che lo hanno portato a diretto contatto con speranze e contraddizioni del Brasile profondo. Come nella gavetta dell’amministrazione locale (anche di una metropoli come San Paolo) è cresciuto in questi anni il Partido dos Trabalhadores, che per citare solo un esempio a Porto Alegre ha inventato il bilancio partecipativo, e ha trasformato questa città del Sud brasiliano (e del mondo), in un luogo di riferimento dei movimenti new global.
Insomma, né Lula né il Pt possono essere considerati meteore emerse dal nulla. Tantomeno invenzioni mediatiche, come invece lo fu Fernando Collor de Mello, il suo primo sfidante e vincente. Oppure l’autorevole intellettuale, sottratto agli studi e sostenuto dagli ambienti finanziari internazionali, come il presidente uscente Fernando Henrique Cardoso.
“Fame zero” è il primo grande programma su cui Lula ha deciso di puntare, ripromettendosi di dare, al termine del suo mandato, tre pasti al giorno ad ogni cittadino brasiliano. Il progetto globale di riscatto del “debito sociale”, che è stato al centro della campagna elettorale, comincia dall’urgenza primaria del cibo quotidiano, ma si proietta oltre. Dare la certezza della vita materiale è il primo passo per restituire dignità e libertà alla persona e al cittadino. Ma non si potrà parlare di cancellazione della fame finché milioni di persone dovranno dipendere – in tutti i sensi – dai sussidi per potersi cibare.
In questo senso è una sfida dovrà toccare gangli vitali della società brasiliana e che potrà realizzarsi solo con una reale e capillare partecipazione della società civile, come dicono i suoi collaboratori, perché questa sarà una garanzia essenziale nei confronti delle possibili ostilità di settori sociali, toccati nei loro interessi.
Lula porta l’esempio della riforma agraria che, dice, dovrà essere “portata avanti con il consenso dei lavoratori senza terra, dei sindacati e dei proprietari rurali; non sarà necessaria nessuna occupazione di terre e nessuna violenza: il Brasile possiede 90 milioni di ettari di terra improduttiva e possiamo distribuirla a tutte le persone che vogliano coltivarla”.
Certo, attorno al presidente che si insedierà in gennaio si sono coagulate enormi aspettative, anche della classe media che ha tradito il delfino di un presidente di indiscusso prestigio come Cardoso. Ma l’eccesso di aspettative ha come altra faccia della medaglia il pericolo di repentini tracolli di consenso. Insieme alla litigiosità interna del Pt e alla composita alleanza parlamentare cui Lula dovrà affidarsi, è questo il rischio più grande con cui si misurerà il presidente operaio. Del resto, un proverbio brasiliano avverte che all’opposizione si è solidi come pietre; al governo si diventa fragili come vetro. A Lula presidente con il loro voto i brasiliani hanno chiesto di forgiare – come ha promesso in campagna elettorale – un “Brasile decente” che alla trasparenza del vetro possa coniugare la solidità della pietra.

* Giornalista
Scorie radioattive e sottomarini nucleari: l’eredità inquinante della guerra fredda

Di Paolo Bergamaschi *

Prima di partire per Murmansk mi ero informato via internet sulle condizioni atmosferiche che avrei trovato. Sforzo inutile. All’arrivo mi spiegano che oltre il circolo polare artico non è possibile fare previsioni affidabili perché il tempo è troppo instabile. Durante la mia permanenza, infatti, turbini di neve si alterneranno a squarci di sole in modo rapido e improvviso. Murmansk è l’unico porto del mare di Barents dove l’acqua non ghiaccia d’inverno. E’ la ragione per cui la marina sovietica aveva scelto questa città come quartiere generale della Flotta del Nord, costituita in buona parte da sommergibili nucleari. La penisola di Kola è stata a lungo vietata agli stranieri perché costellata di basi militari. Negli abissi di questo tratto di mare si è consumata la tragedia del Kursk la cui carcassa è stata da poco ripescata.
I Norvegesi sospettavano da tempo che in questa zona le pratiche di smaltimento del combustibile nucleare fossero problematiche. Certo non immaginavano, quando riuscirono ad entrare dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, di trovarsi di fronte ad una situazione agghiacciante. In tutta la regione non vi è un sito di stoccaggio permanente di rifiuti radioattivi. Buona parte di questi sono in piscine di cemento armato a cielo aperto. La penisola di Kola è la più grande discarica di scorie nucleari al mondo. E per anni (dal 1960 al 1991) la marina sovietica ha scaricato illegalmente nel mare di Barents e nel Mar Bianco tonnellate di rifiuti radioattivi. Esperti hanno calcolato che per trasferire in luogo sicuro tutto il combustibile spento qui accumulato in condizioni precarie occorrerebbero almeno quindici anni.
Agli inizi degli anni novanta le autorità russe, non senza una certa resistenza, hanno accettato la collaborazione occidentale per far fronte al rischio di catastrofe ambientale che andava delineandosi in maniera sempre più tangibile. Oggi buona parte delle stazioni di caricamento e scarico della flotta nucleare sono passate sotto le competenze del Ministero per l’Energia Atomica facendo breccia, in parte, nel muro di silenzio che i militari avevano irresponsabilmente eretto per coprire il problema.
Per chiarire meglio l’argomento vorrei soffermarmi su due storie emblematiche. La prima riguarda Aleksandr Nikitin, capitano in congedo della marina sovietica. Conobbi Nikitin tre anni fa al Parlamento Europeo quando venne a ringraziarmi, assieme ad altri, per le iniziative a sostegno della sua liberazione. Ingegnere nucleare, dal 1987 era divenuto Ispettore Capo per la Sicurezza della Installazioni Nucleari al Ministero della Difesa. Una volta abbandonata la divisa collabora con Bellona, un’organizzazione ambientalista norvegese, alla redazione di un rapporto che denuncia le colpevoli carenze nella gestione dei rifiuti radioattivi nella penisola di Kola. Nel febbraio del 1996 Nikitin viene arrestato dalle forze di sicurezza russe (l’ex KGB) con l’accusa di tradimento e spionaggio per aver passato segreti di stato ad una organizzazione straniera. Dopo una massiccia campagna di mobilitazione di tutte le associazioni europee dei diritti dell’uomo nel dicembre dello stesso anno viene rimesso in libertà ma solo nel dicembre del 1999 assolto perché il fatto non sussiste. Nella mia visita a Murmansk, Nikitin è tornato con me sul “luogo del delitto” per la prima volta dopo le sue vicissitudini giudiziarie. Abbiamo visitato insieme i cantieri Nerpa dove smantellano i sottomarini nucleari e dove era in corso di smantellamento il Kursk. E’ stata la sua rivincita personale. Mai avrebbe pensato di rientrare un giorno e di constatare che grazie alle sue denunce i sistemi di sicurezza erano stati cambiati radicalmente e che finalmente nuove norme più severe erano state introdotte a protezione degli addetti.
L’altra storia riguarda la nave Lepse. Non sapendo più dove stoccare le barre di combustibile spento si è pensato ad un certo punto di immagazzinarle su navi “di servizio”. Nel porto di Murmansk sono ormeggiate sei di queste imbarcazioni cariche di tonnellate di rifiuti radioattivi solidi e liquidi contenuti in canestri e cassoni . Il Lepse è una di queste. Dopo quarant’anni i contenitori hanno cominciato a corrodersi e parte del combustibile nucleare è colato nella stiva. Le barre hanno cambiato forma e con la tecnologia esistente è quasi impossibile rimuoverle. Diciotto marinai si sono dati il cambio negli anni per la manutenzione della nave esponendosi a livelli di radioattività spaventosi (di mano in mano che ci avvicinavamo la lancetta del nostro contatore Geyger impazziva). Grazie all’intervento norvegese questi marinai oggi non sono più costretti a vivere a bordo della nave ma trascorrono buona parte del tempo in container sul molo appositamente attrezzati per il lavoro che devono svolgere.
Nel giugno di quest’anno, in Canada, consci del problema, i grandi della terra riuniti nel G8 hanno deciso di stanziare 20 miliardi di dollari per la messa in sicurezza dei rifiuti nucleari russi. Le scorie della penisola di Kola contengono uranio arricchito fino al 90%, potenzialmente in grado, quindi, di essere utilizzato per la costruzione di ordigni nucleari. A Murmansk negli anni novanta ci fu un furto di materiale fissile scoperto per fortuna dopo qualche giorno. Un attentato terroristico ad uno di questi siti provocherebbe un disastro di proporzioni inimmaginabili.
Ma è tutto il ciclo del nucleare in Russia che desta profonda preoccupazione. L’uranio arricchito arriva da Mosca dopo un viaggio in treno di 1700 km. Da Murmansk riparte per l’impianto di ritrattamento di Celiabinsk, negli Urali, a 3000 km di distanza, dove giunge dopo 15 giorni per ritornare poi a Mosca e percorrere altri 2000 km per subire una nuova operazione di arricchimento. Per ragioni di sicurezza i convogli non possono superare i 20 km all’ora e, sulla carta, non dovrebbero mai fermarsi. In una Russia dalle infrastrutture fatiscenti sconvolta da conflitti etnico-religiosi questi trasporti mettono i brividi.
Qualcuno ha definito le scorie nucleari di Murmansk come l’ultima eredità della guerra fredda. Occorreranno ancora molti anni prima che questa si concluda definitivamente.

* Commissione Esteri del Parlamento Europeo

Le 10 parole della nonviolenza, per fare un cammino comune.
Proponiamo digiuno e iniziativa per mercoledì 8 gennaio 2003
La parola del mese: “Amore”

Di Lev Tolstoj *

La dottrina cristiana in tutto il suo vero significato, che si va sempre più chiarendo nel nostro tempo, dice questo: la vita umana, nella sua essenza, consiste nella realizzazione sempre più consapevole, del principio divino in noi; il segno di questa realizzazione è l’amore den­tro di noi e perciò l’essenza della vita umana e la legge che deve dirigerla, è l’amore.
L’idea che l’amore sia condizione indispensabile e buona della vita umana, è presente in tutte le dottrine religiose della anti­chità. In tutte le dottrine: dei saggi egiziani, dei bramini, de­gli stoici, dei buddisti, dei taoisti ecc., l’amicizia, la ca­rità, la misericordia, la benevolenza e, in genere, l’amore veniva­no riconosciute come le virtù principali. Questo riconoscimento da parte delle più elevate di queste dottrine giungeva fino al punto di predicare e lodare l’amore verso tutti; e in particolare dai taoisti e dai buddisti veniva predicato di rendere il bene per il male.
Ma nessuna di queste dottrine aveva posto questa virtù come punto centrale, come la legge più importante, anzi l’unica regola di condotta della vita, così come fece il cristianesimo, il quale apparve più tardi rispetto a tutte le altre dottrine. In tutte le dottrine religiose precedenti al cristianesimo, l’amore veniva riconosciuto come una delle virtù, ma non come ha fatto la dot­trina cristiana, la quale ha riconosciuto l’amore, dal punto di vista metafisico, come base di tutto, praticamente come la legge superiore della vita umana, cioè una legge tale che non ammette eccezioni in nessun caso. La dottrina cristiana, rispetto a tutte le dottrine antiche, non è una nuova e particolare dottrina, è semplicemente una espressione più chiara e precisa di quel fonda­mento della vita umana, che era sentito e predicato in maniera più vaga dalle dottrine religiose precedenti. Lo specifico della dottrina cristiana è di esser apparsa più tardi e di aver espres­so in forma più esatta e definitiva l’essenza della legge dell’a­more e le regole di condotta che inevitabilmente ne derivano. Cosicché la dottrina cristiana dell’amore non è, come accadeva nelle dottri­ne precedenti, la predicazione di una virtù particolare, ma è la definizione della legge suprema della vita umana e delle regole di condotta, che inevitabilmente ne derivano. La dottrina di Cri­sto spiega perché questa legge è la legge suprema della vita uma­na ed inoltre mostra quali azioni l’uomo deve o non deve fare, se riconosce la verità di questa dottrina. Specificatamente, nella dottrina cristiana viene espresso in modo chiaro e definitivo il fatto che l’adempimento di questa legge suprema non può ammettere eccezioni, come facevano le dottrine precedenti e il fatto che l’amore, definito da questa legge, solo allora è amore, quando non ammette alcuna eccezione ed è rivolto sia agli stranieri, sia agli uomini di altre fedi, sia ai nemici, che ci odiano e ci fanno del male.
Il passo avanti che il cristianesimo ha fatto è questo: il cri­stianesimo ha spiegato perché questa legge è una legge suprema della vita umana e ha definito con precisione le azioni che ine­vitabilmente ne derivano, in ciò consiste il principale signifi­cato e beneficio della dottrina cristiana.
(…) Tutta la dottrina consiste in questo: ciò che noi chiamiamo “io”, la nostra vita è un principio divino, limitato in noi dal corpo; questo principio si palesa in noi attraverso l’amore e perciò la vera vita di ogni uomo, libera e divina, si manifesta nell’amore.
(…)
Proprio in questo riconoscere la legge dell’amore come legge su­prema della vita e nelle chiare regole di condotta, che derivano dalla dottrina dell’amore anche verso i nemici, verso coloro che ci odiano, ci offendono e ci maledicono, consiste la particola­rità della dottrina di Cristo; essa dando alla legge dell’amore e alle regole di condotta che ne derivano, un significato preciso e ben definito, inevitabilmente porta con sé un cambiamento radica­le della organizzazione della vita ormai stabilizzata, non solo presso i popoli cristiani, ma presso tutti i popoli del mondo.
In ciò consiste la principale differenza con le dottrine prece­denti ed il principale significato della dottrina cristiana au­tentica, in ciò consiste il passo in avanti per la coscienza dell’umanità, che fu compiuto dalla dottrina cristiana. Questo passo è il seguente. Tutte le dottrine religiose e morali prece­denti, pur riconoscendo, e non poteva essere altrimenti, i bene­fici dell’amore per la vita umana, tuttavia ammettevano la possi­bilità che si verificassero condizioni tali, per cui l’adempimento della legge dell’amore divenisse non obbligatorio e potesse esse­re eluso. Ma immediatamente, non appena la legge dell’amore ces­sava di essere la legge suprema e immutabile della vita umana, tutto il beneficio della legge stessa veniva distrutto e la dot­trina dell’amore si riduceva ad eloquenti insegnamenti non deci­sivi, a belle parole, che lasciavano immutata l’organiz­zazione so­ciale dei popoli, come era prima della dottrina dell’amore, un’organiz­zazione cioè fondata unicamente sulla violenza. Invece la dottrina cristiana autentica, riconoscendo la legge dell’amore come suprema ed il suo adempimento come inderogabile, distruggeva con ciò ogni violenza e, di conseguenza, negava tutta l’organizza­zione del mondo, basata sulla violenza.
Proprio questo significato fondamentale fu nascosto alla gente dal falso cristianesimo, che ha considerato la dottrina dell’amo­re non come la legge suprema della vita umana, ma, alla pari del­le dottrine apparse prima del cristianesimo stesso, solo come una regola di condotta che è utile osservare, quando nulla lo impedi­sce.
La dottrina di Cristo autentica consiste nel riconoscere l’amore come legge suprema della vita, legge che perciò non può ammettere alcuna eccezione.
Quel cristianesimo, cioè la dottrina sulla legge dell’amore, che ammette eccezioni per giustificare la violenza in nome di qualche altra legge, presenta una interna contraddizione, simile al fuoco freddo o al ghiaccio caldo.
Sembra evidente che se gli uni, pur riconoscendo i benefici dell’amore, ammettono la necessità di torturare o uccidere alcune persone in nome di un qualche futuro vantaggio, allora precisa­mente con lo stesso buon diritto anche gli altri, pur riconoscen­do i benefici dell’amore, possono ammettere, in nome di un bene futuro, la necessità di torturare ed uccidere. Sembra evidente che ammettere anche una sola eccezione all’esigenza di adempiere la legge dell’amore, distrugge tutto il significato, tutto il senso, tutto il beneficio della legge dell’amore, che è alla base di qualsiasi dottrina religiosa e di qualsiasi dottrina morale.

* Tratto da “La Legge della violenza e la legge dell’amore”, Quaderno di Azione nonviolenta n. 14, Ed. Movimento Nonviolento, € 4,20; disponibile presso la nostra Redazione.

ALTERNATIVE
A cura di Gianni Scotto
La guerra annunciata e il programma costruttivo

La guerra annunciata contro l’Irak fa il suo corso. L’ultimo episodio prima di stendere queste righe è la risoluzione con cui il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite impone all’Irak – pena “gravi conseguenze” – di far rientrare nel paese gli ispettori internazionali e permettergli accesso illimitato a qualunque sito nel paese. Nel frattempo, il governo statunitense rafforza la sua presenza militare nella regione. Per chi vuole la guerra il tempo stringe: essa deve iniziare al più tardi in marzo, altrimenti il clima torrido renderà troppo difficile l’attacco.
Di fronte a queste notizie, dà sollievo vedere che oggi il nuovo movimento per la pace è vivo e vitale, capace di portare centinaia di migliaia di persone a una manifestazione pacifica. Abbiamo visto i servizi mandati in onda dalla BBC e dalla televisione tedesca (tra le prime notizie nei telegiornali di sabato 9 novembre). Certo, avrebbe fatto piacere vedere nel corteo meno simboli di polarizzazione, di lotta tra il “bene” e il “male”. O forse è l’interesse dei media a concentrarsi sulle immagini più aggressive. Ma la presenza della cultura nonviolenta c’è, si fa vedere e sentire.
La “guerra annunciata” di questi mesi rende necessario il lavoro a un programma costruttivo, a una politica di pace intesa non solo come misure generali (disarmo, promozione del diritto internazionale, corpi civili di pace), ma anche come risposta efficace e realistica ai problemi posti da un conflitto concreto. Il lavoro propositivo è tanto più importante se consideriamo l’entità e la pervasività della propaganda mediatica in favore della guerra.
Il compito costruttivo che ci troviamo di fronte si situa a metà strada tra ricerca e proposta politica. Si tratta di raccogliere e sistematizzare le conoscenze sul conflitto e a partire da queste – da una base fattuale solida e incontrovertibile – esplorare le possibilità di una trasformazione nonviolenta del conflitto stesso.
Per adempiere in maniera adeguata a questo compito ci sarebbe bisogno di strutture di ricerca dotate di mezzi e personale. Per questo motivo è di grandissima importanza il progetto di istituire anche in Italia un centro di ricerca internazionale sui conflitti, sul modello di centri analoghi esistenti all’estero.
Oggi sarebbe utile supplire alla mancanza di tale centro con uno sforzo di coordinamento dal basso delle conoscenze e competenze attualmente disponibili.
Dobbiamo creare un “laboratorio virtuale di pace” in cui far interagire attivisti internazionali, ricercatori, esperti del conflitto, nonviolenti. Occorre unire alla capacità di controinformazione, per quanto possibile, la proposta di concrete opzioni politiche – corsi di azione alternativi alla guerra.
Per rimanere all’esempio dell’Irak: un importante punto di partenza per proporre un’alternativa alla guerra è la posizione degli ex funzionari delle Nazioni Unite che hanno protestato negli anni scorsi in maniera veemente contro la politica delle sanzioni: l’irlandese Dennis Halliday coordinatore del programma ONU “cibo in cambio di petrolio” si dimise nel 1998,dichiarando che non intendeva essere associato alla sofferenza dei civili iracheni. Nel 2000 ha preso la stessa decisione il tedesco Hans von Sponeck, che da allora è diventato un autorevole oppositore delle sanzioni. Un altro diplomatico, lo statunitense Scott Ritter, ha diretto il lavoro degli ispettori dell’ONU per diversi anni e denuncia oggi la campagna di disinformazione sul potenziale bellico iracheno. In Italia abbiamo una serie di gruppi e associazioni che da anni si occupano dell’Irak, effettuando iniziative e offrendo un’informazione puntuale (Un ponte per…, Guerre e pace).
La sfida – per l’Irak e per le guerre future – è passare alla proposta politica, è integrare la cultura e i valori della nonviolenza con da un lato con le conoscenze del contesto specifico di un determinato conflitto, dall’altro con le possibilità e i vincoli di azione presenti nell’attuale contesto internazionale (Unione europea, ONU, ecc.).
Non possiamo accettare i politici di turno (oggi il governo di destra, ieri e forse domani il centrosinistra) quando vengono a dirci che la violenza militare è inevitabile, che non si può far nulla, e che gli Stati Uniti faranno di testa loro e che semmai il ruolo dell’Italia è quello di aiutare la superpotenza che va alla guerra.

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Perché tanti Comuni stanno svendendo le farmacia pubbliche?

In Italia le farmacie comunali sono 1600 su un totale di 16.000 e sono dislocate, per la maggior parte, nel centro nord. In media sono il 20% del totale, ma città come Cremona su un totale di 20 farmacie ne hanno 14 di proprietà. A Milano sono 84 e hanno un attivo di 7 miliardi all’anno. Più in generale, a causa del considerevole consumo di medicinali, il mercato italiano dei farmaci è il terzo d’Europa.
La farmacia comunale è stata considerata un obiettivo prioritario da sindaci molto amati negli anni ‘50 come La Pira a Firenze e Dozza a Bologna: si forniva un servizio e si garantivano i farmaci alle fasce più deboli della popolazione nelle periferie delle città.
Questo patrimonio pubblico, che funziona, offre un servizio e porta soldi nelle casse dei comuni, sta per essere progressivamente dimesso dai comuni: perché?
Molti le stanno cedendo in blocco a una multinazionale tedesca, la Gehe, già leader in Europa come grossista dei farmaci e proprietaria di 1300 farmacie nei paesi dove non è vietato possedere catene di farmacie, come l’Inghilterra e adesso l’Italia. In Italia la legge dice che la loro titolarità, se non è pubblica, deve essere singola. Allora, come è possibile che una multinazionale tedesca ha già acquistato tutte le farmacie comunali di Milano, Bologna, Prato, Parma, Cremona, Lissone, Cesena e Rimini?
Semplice, le ha prese in gestione acquistando l’80% delle azioni per un periodo che può arrivare fino a 99 anni. Ed è il modello che vogliono seguire tutte le altre città dove è già stata costituita una SPA che prevede la cessione dell’80% delle azioni. Grazie alle imponenti risorse economiche sulle quali può contare, Gehe Italia si presenta ai bandi di gara con offerte al di sopra del prezzo di mercato, pur di vincere a tutti i costi. A Bologna, per esempio, la stima di base era di 70 miliardi per le 22 farmacie comunali; i farmacisti bolognesi in consorzio avevano offerto 90 miliardi e pensavano di vincere, ma la Gehe ha offerto 117 miliardi, 47 miliardi in più del prezzo di mercato. Stessa cosa a Cremona: i farmacisti del posto hanno offerto 36 miliardi, la Gehe 50, 14 miliardi in più. A Milano infine, a fronte dell’offerta dei farmacisti riuniti in cordata, Gehe l’ha spuntata con un rilancio a 251 miliardi.
Ecco perchè tutti i comuni si aspettano molti più soldi dal reale prezzo di mercato e preferiscono vendere la gestione per un certo numero di anni. Le farmacie non sono più considerate un fattore strategico per la divulgazione della sanità e i soldi incassati possono essere usati per altri fini. Dunque per i comuni è un affare, che rischia però di diventare un monopolio. Gli unici luoghi in cui alla Gehe è andata male sono Lucca, dove le sei farmacie comunali sono state acquistate dalla Alleanza Salute Italia, e Firenze, dove l’ha spuntata l’inglese Comifar-Phoenix.
“Non vogliamo vedere le farmacie trasformate in supermercati”, tuonano le associazioni di categoria. Strana obiezione, visto che nelle farmacie italiane, ai 12  mila miliardi di euro incassati con le medicine si devono aggiungere 1,5 mila miliardi di euro fatturati con il resto: dalle creme per abbronzarsi alle scarpe ortopediche. Forse la missione iniziale delle farmacie comunali, che dovevano sensibilizzare la cittadinanza a comportamenti più salutari, si è già persa da tempo.
Ma chi c’è dietro la Gehe? Il gruppo è stato fondato nel 1835 da Franz Ludwig Gehe a Dresda, e nel 1903 è diventato una società per azioni. Ora il principale azionista è il tedesco Franz Haniel (60%), seguito dalla compagnia assicuratrice francese AXA (10%). Haniel ha altri interessi minori nel campo del commercio e trattamento dei rifiuti, del riciclo dell’acciaio e nell’affitto di lavatrici: pur essendo il 268° nella classifica dei più importanti gruppi della rivista Fortune, non rappresenta quindi un pericolo particolare per la democrazia italiana. Semplicemente, è andato a cozzare contro gli interessi di una corporazione che ha tutto l’interesse a continuare il business in modo familiare, pilotando la vendita delle farmacie comunali in mani amiche e non desiderose di aumentare la concorrenza a vantaggio dei cittadini.
Per finire una curiosità: Sante fermi, il city manager del comune di Bologna che ha gestito la cessione delle farmacie contro il parere sfavorevole anche di un referendum consultivo, nel 2000 è diventato amministratore delegato della Gehe, cioè ha prima gestito la vendita e poi è passato a lavorare dall’acquirente.

Diverse informazioni sono tratte da “I perché? di Report”, 1 ottobre 2000 ore 23 – Rai 3.

STORIA
A cura di Sergio Albesano
Quando gli obiettori andavano all’estero

Nell’estate 1994 quattro obiettori si recarono in ex Jugoslavia senza autorizzazione, mentre altri obiettori inviarono al Governo una dichiarazione di disponibilità a recarsi in Rwanda per un progetto definito con il Governo stesso.
Dal 23 al 25 settembre si tenne a Savona la terza assemblea nazionale della L.O.C., nella quale fu appro­vata all’unanimità una mozione che invitava gli obiettori a occuparsi di difesa. La mozione iniziava considerando che fino ad allora gli obiettori avevano rivolto una scarsa at­tenzione ai problemi della difesa e che invece tale inte­resse avrebbe dovuto crescere. “Gli obiettori, in questo caso, farebbero sicuramente un grosso salto di qualità sul piano politico, dato che diventerebbero un soggetto più at­tivo, acquisterebbero un maggiore potere, derivante dalla capacità di utilizzare i metodi di lotta nonviolenta, e un maggiore prestigio nei confronti della società, in quanto sarebbero un cardine fondamentale del sistema atto a difen­dere e migliorare le strutture democratiche del Paese” (1).
Nella stessa assemblea fu approvato all’unanimità anche il nuovo statuto dell’associazione, che all’art. 1 recita: “La L.O.C. è l’associazione degli obiet­tori di coscienza al servizio militare e di coloro che si riconoscono nei valori della pace, della solidarietà, della nonviolenza e che, con la propria affermazione, intendono contribuire al superamento del modello e dell’organizzazione militare” (2).
Il 24 ottobre fu effettuata la prima missione umanitaria nell’ex Jugoslavia totalmente promossa e orga­nizzata da obiettori italiani, che condussero per dieci giorni un progetto in collaborazione con l’Alto Commissa­riato della Nazioni Unite per i Rifugiati (U.N.H.C.R.). Il gruppo di obiettori, denominato “Caschi bianchi”, rimase a Pola, in Croazia, per dieci giorni in una caserma che ospi­tava circa cinquecento mussulmani sfollati dalle città di Mostar, Sarajevo e Goradze. Il progetto consentì l’allestimento di una saletta giochi per i bambini e la co­struzione di attrezzature sportive nel parco antistante la caserma. Lo scopo ultimo era il coinvolgimento diretto dei profughi nelle attività e, contro ogni previsione, la rispo­sta fu buona, soprattutto da parte dei più giovani. L’intero campo fu organizzato e finanziato dagli obiettori che vi presero parte, sei dei quali per poter partecipare all’iniziativa dovettero compiere un gesto di disobbedienza civile, recandosi all’estero senza permesso e autodenun­ciandosi alle autorità competenti. “Finora la reazione del Ministero della Difesa di fronte a questi gesti è stata molto dura: dei circa cinquanta obiettori recatisi in disob­bedienza civile nei territori dell’ex Jugoslavia quindici hanno in atto procedimenti penali e trenta non hanno rice­vuto il congedo. (…) Maurizio Bronzetti, Simone Franchi, Gianpaolo Ardemagni e Simone Mussi, quattro obiettori di co­scienza della Caritas di Piacenza, hanno ricevuto il mandato di comparizione firmato dal dott. G. Picciau per l’udienza preliminare che si è tenuta il 30 gennaio presso il Tribu­nale di Piacenza. Sono imputati di allontanamento illecito dal servizio (art. 147 del c.p.p.m.) per aver aderito ad un’iniziativa dei Caschi bianchi ed essersi recati lo scorso ottobre a portare aiuti umanitari in ex Jugoslavia. Analoga situazione attende Pietro Ventura, Maurizio Montipò, Gaetano Linardi, Giovanni Grandi e Gianluca Landinin, già in attesa del processo. Queste vicissitudini non fermano le iniziative dei Caschi bianchi: Antonello Spanu, in servizio presso l’Associazione papa Giovanni XXIII, è appena rientrato da una missione di pace a Posedaria sul fronte serbo-croato, mentre Andrea Pagliarini è partito per trascorrere gli ul­timi due mesi di servizio civile in un campo profughi a Zara. Se gli obiettori continuano a espatriare in zone di guerra anche a rischio del carcere non lo fanno per loro in­teresse, ma chiedono esplicitamente che lo Stato italiano affronti e si interroghi sul significato di una presenza non armata in zone di guerra. Davvero l’unica risposta a questa iniziativa è il tribunale o il carcere?” (3).
A seguito della partecipazione di tanti obiettori a missioni umanitarie di pace senza autorizzazione, al mese di settembre 1994 la si­tuazione penale e amministrativa degli obiettori coinvolti era la seguente: quattro obiet­tori avevano un procedimento penale in corso, tre erano stati dichiarati decaduti dallo status di obiettore e venti­cinque avevano la sospensione del congedo ed erano a rischio di sanzioni punitive da parte dell’amministrazione militare.
(4 – continua)

EDUCAZIONE
A cura di Angela Dogliotti
Ah ah ah, la notte arriverà!
Storie per grandi e piccini

Ho sulle ginocchia un sacco opaco che contiene otto oggetti misteriosi. Li estraggo uno alla volta, lentamente, e lascio che i bambini li prendano in mano, li esplorino in ogni dettaglio, per poi stenderli in successione in mezzo al cerchio, sotto gli occhi di tutti. Sono gli unici indizi della scomparsa di una persona; non sappiamo chi, né perché è scomparsa e dove, e se è ancora viva. Tutto questo lo decideremo insieme. Nasce così Stock e l’ottavo elemento, un lungo racconto giallo in dieci capitoli, scritto in una quinta elementare.
Prosegue da alcuni anni, a Ferrara, l’esperienza dei laboratori di scrittura creativa promossi dall’Endas e dal Comune di Ferrara. Alcune di queste storie oggi sono presentate in un libro, Ah ah ah, la notte arriverà! – e altre storie, edito da Moby Dick e voluto dalla Regione Emilia Romagna e dall’Endas regionale.
All’inizio c’è quasi sempre uno stimolo, e davvero tutto può essere il pretesto per raccontare: una fotografia strappata, un articolo di giornale, una notizia, un rumore, una canzone, un nettapipe, un vecchio gioiello di bigiotteria… Così si inizia, in una fase entusiasmante, ricca, in cui tutti intervengono a modellare la storia, mentre l’insegnante ed io garantiamo l’espressione e la raccolta di tutte le idee in un clima di ascolto. Di tanto in tanto annoto alla lavagna le possibilità, tento un riassunto, stimolo chi sta in silenzio. Propongo al termine di ogni incontro brevi esperimenti di scrittura automatica, che poi verranno trascritti e distribuiti a tutti i bambini in copia, perché la storia cresca collettivamente nella memoria e nella fantasia, e perché ognuno veda riconosciuto il proprio lavoro.
Di fronte agli inevitabili bivi si pone il problema della scelta, che generalmente si risolve per consenso, in alcuni casi richiede una votazione. Qualche volta ci sono pianti, discussioni accese, si formano fazioni. Che il protagonista sia umano o animale, che sia maschio o femmina, non è cosa su cui procedere alla leggera. Ma intanto ci si allena a restare attenti, ad ascoltare gli altri, a selezionare quello che si ha da dire; a riconoscere che un’idea, una volta espressa, è di nessuno e di tutti, e il suo cammino si misura rispetto alla funzionalità per la storia.
Al momento della scrittura gli autori – generalmente due o tre bambini per ogni capitolo, secondo una ossatura sintetica ma esatta e condivisa in ogni punto – sapranno in quali confini possono muoversi all’interno della trama. Potranno arricchirla con dialoghi, descrizioni ed incontri, attenti solo a non ingarbugliare il filo, a rispettare le scelte del gruppo.
Ogni volta si affacciano i supereroi, i cartoni giapponesi… E ogni volta c’è da stipulare un patto: questo libro sarà nostro, senza scopiazzare, perché siamo certamente capaci di una storia nuova. E non è un caso che spesso proprio le scene di lotta tra i mostri siano le più banali, le meno interessanti da leggere. Se ne accorgono i ragazzi stessi, all’ultimo incontro, quando ad alta voce rileggiamo un capitolo dopo l’altro e ci scambiamo fierezze e rammarichi, insufficienze e complimenti. La storia è di tutti, nessuno è colpevole e nessuno è il più bravo.
Secondo gli insegnamenti di don Milani, il passo successivo per rendere davvero “collettiva” la scrittura sarebbe entrare insieme nella scelta delle parole, nella costruzione delle frasi. Noi questo non l’abbiamo fatto perché è lungo e difficile, impossibile in pochi incontri, e perché mi piace che sperimentino ognuno il piacere personale della scrittura fantastica, che forse ha altri meccanismi rispetto a quella saggistica o di denuncia. In certi territori della fantasia si entra in punta di piedi, in pochi, a svegliare immagini che fino al momento prima dormivano, nascoste sotto mille coperte.

Tutto il ricavato delle vendite sarà devoluto alla campagna “Acquisti trasparenti – per un marchio di qualità sociale”, promossa da una coalizione di associazioni non governative (AIFO, Amnesty International, Centro Nuovo Modello di Sviluppo, CTM per un commercio equo e solidale, Mani Tese). L’obiettivo della campagna è giungere ad una legge che obblighi le imprese alla trasparenza riguardo le condizioni sociali ed ambientali della loro produzione. In questo modo le storie dei piccoli vanno a favore di altri piccoli che forse hanno meno tempo e possibilità di raccontare storie.

Elena Buccoliero

Informazioni e contatti
Oltre ad essere presente in alcune librerie, Ah ah ah, la notte arriverà! – e altre storie può essere richiesto direttamente alla casa editrice Moby Dick, corso Mazzini 25 – Faenza, tel. 0546/681819.
Per presentazioni pubbliche o nuovi laboratori contattare: Endas Ferrara, via F. del Cossa – Ferrara, tel. 0532/203262, e-mail endas.fe@endas.net

LILLIPUT
A cura di Massimiliano Pilati
A Firenze in trentamila
Tutti insieme appassionatamente

Abbiamo chiesto a Enrico Pezza, lillipuziano fiorentino, referente del Gruppo di Lavoro che per Rete Lilliput ha seguito la “gestazione” del Forum Sociale Europeo, di raccontarci come ha vissuto le varie fasi di questo evento.

Il Forum Sociale Europeo è stato il più grande convegno mai realizzato in Italia: trentamila delegati accreditati provenienti da ogni paese Europeo, diciotto assemblee plenarie con una media di quattromila partecipanti cadauna, centocinquanta seminari, duecento laboratori, traduzione simultanea in cinque lingue, relatori di primissimo piano fra i quali numerosissimi docenti universitari e premi Nobel provenienti da tutto il mondo.
La manifestazione di sabato 9 novembre è stata l’ultimo atto di questo splendido evento.
Il Forum è stato quello che tutti speravamo che fosse: un luogo in cui le diverse espressioni della società civile hanno proposto analisi, critiche e alternative al sistema economico e sociale prevalente oggi, hanno proposto non una critica ideologica alla globalizzazione ma una globalizzazione che sia strumento di giustizia e di eguaglianza per tutti; un luogo dove la contrarietà alla guerra non è semplicemente “il pacifismo”, spesso oltraggiato perché definito irresponsabile e incapace alla risoluzione dei conflitti, ma una scelta responsabile, capace e faticosa di costruire nuove relazioni sociali e politiche attraverso la pratica della nonviolenza attiva; ancora un luogo in cui il conflitto sociale, non negato, non strumentalizzato, diventa humus per promuovere i disagi in idee, e le idee in cambiamento; un luogo dove tante realtà diverse si sono conosciute, confrontate, hanno dialogato per tentare di porre un mattone nella costruzione di un mondo di pace, di giustizia, di eguaglianza e solidarietà.
Da questo luogo non uscirà e non doveva uscire nessun documento o sintesi ma solo un grande patrimonio di contenuti e relazioni che costituiranno per ognuno di noi ricchezza e stimolo per il lavoro di ogni giorno.
Il lavoro di organizzazione è stato lungo e faticoso; è stato un cammino fatto da tanti soggetti anche molto diversi fra di loro che strada facendo hanno trovato, nel rispetto delle proprie specificità, metodi di lavoro condivisi che hanno permesso una reciproca contaminazione.
Il percorso è cominciato il 21 aprile con il primo coordinamento nazionale.
Il cammino si presentava in aspra salita, infatti all’inizio non tutte le componenti erano disposte ad accettare l’idea di tanti compagni di viaggio diversi, ma con pari dignità che lavoravano per raggiungere un obbiettivo comune, in particolare i Fori Sociali rivendicavano una sorta di titolarità, poi cammin facendo e grazie anche al tessere reti di noi lillipuziani il percorso si è fatto sempre più agevole fino ad arrivare ad una grande serenità e rispetto reciproco degli ultimi mesi di lavoro.
Come Rete di Lilliput ci siamo fatti promotori e sollecitatori della partecipazione di tante realtà fortemente rappresentative della Società Civile, con noi hanno lavorato alla costruzione di una parte significativa del programma realtà come la “Tavola della Pace”, l’AGESCI, Pax Christi, Il Movimento dei Focolari, la sezione fiorentina di Azione Cattolica, CGIL, Sinistra Giovanile.
La forte e rappresentativa presenza dell’associazionismo è stata determinante nella scelta ed elaborazione dei contenuti, ed ha inoltre avuto un forte ruolo nel positivo dialogo con le istituzioni e nella preparazione della marcia della Pace del 9 Novembre.
Rete Lilliput non era favorevole alla manifestazione del Sabato preferendo proporre un metodo di stare in piazza realmente alternativo, poi essendosi rilevato impossibile realizzare proposte alternative al corteo abbiamo lavorato poiché il tutto si svolgesse in assoluta tranquillità e seguendo metodologie del tutto nonviolente in modo da trasformare la manifestazione in una marcia per la pace.
Adesso che tutto è finito tanti ricordi tornano alla memoria: le migliaia di donne e di uomini all’interno della Fortezza, colorata e variegata rappresentanza di una Europa in movimento, l’attenzione e l’ordine con cui i delegati, in sale piene oltre ogni limite, seguivano assemblee e seminari, le piazze tematiche a Santa Maria Novella e piazza della Repubblica punti di festa e di incontro fra la città di Firenze ed i partecipanti al Forum, le interminabili discussioni dei coordinamenti ed il costruttivo e decisivo lavoro con le istituzioni locali; ma soprattutto è presente in ciascuno di noi la consapevolezza di avere dimostrato che ogni comune cittadina e cittadino mettendosi personalmente in gioco e attraverso piccoli cambiamenti del proprio quotidiano stile di vita può contribuire alla reale costruzione di un mondo di giustizia, eguaglianza, solidarietà.

Enrico Pezza

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
Le armi contro la paura e la paura delle armi

Bowling a Columbine, di Michael Moore, USA, 2002

Macchina in spalla e non un’inquadratura fuori posto; uso di un montaggio delle attrazioni e delle emozioni impeccabile (la sequenza che raccorda i “crimini” commessi negli ultimi quarant’anni dal potere americano alla vendita più o meno clandestina di armi all’ “amico” Bin Laden e allo sciagurato attentato dell’11 Settembre, è tecnicamente perfetta); video-interviste che lasciano il segno per la lucidità con la quale analizzano alla radice la problematica di fondo e per la loro carica spesso corrosiva e dirompente. Ne è un esempio quella, quasi estorta, a Charlton Heston nella sua villa di Beverly Hills: Moore si trova di fronte a uno dei membri più rappresentativi della National Rifle Association (Nra), “organizzazione già creata nel secolo scorso il cui principio di fondo si basa sul concetto che il possesso delle armi da fuoco sia un’esclusiva dei cittadini bianchi”; il Charlton Heston indimenticato di Ben Hur è nel film il leader che si reca a Flint (città natale di Moore), nel Michigan, subito dopo il massacro alla Columbine High School a gridare alla sua gente, radunata in appassionata acclamazione, che “… il suo fucile, non glielo avrebbero levato mai, dalle sue fredde mani”. Il Charlton Heston di El Cid è però oggi, nella realtà, il malato di Alzheimer che vede scivolare inesorabilmente la propria esistenza e le proprie funzioni cognitive nel “buco nero” dell’oblio; una stanca ombra del passato che saluta, ringrazia e si congeda dai propri fedeli fans prima che la malattia gli impedisca definitivamente di farlo.
Ed è proprio da Flint, dalla Columbine High School che prende le mosse l’indagine documentaristica di questo indipendente regista americano, conosciuto e apprezzato per il proprio coraggio dai cinefili americani ed europei fin dalla sua opera prima, Roger & me (1989), in cui Moore, in una sequenza difficile da dimenticare, intervista il presidente della General Motors, Roger Smith (è auspicabile che gli operai di Arese e Termini Imerese non vedano mai questo film, considerato il non trascurabile fatto che, ora, la General Motors è partner in affari della Fiat!), che aveva tre anni prima provveduto a licenziare 30.000 dei 150.000 lavoratori dello stabilimento di Flint (che come a chiudere il cerchio è anche la città della Columbine High School, per l’appunto!).
In questa pulita e ordinata cittadina del Michigan il 20 aprile 1999 due adolescenti bianchi, dopo un’allegra partita a bowling e prima di suicidarsi, penetrano nella Columbine e, armati fino ai denti, massacrano 13 studenti ferendone gravemente almeno altrettanti.
Da qui inizia la dura requisitoria di Moore; da questo tragico e, apparentemente inspiegabile, episodio ha origine il duro atto d’accusa nei confronti del “sistema America” e delle sue contraddizioni. Un “sistema” che produce circa 12.000 morti all’anno a causa delle armi da fuoco ma, nel quale, allo stesso tempo, i cittadini, in preda ad una spasmodica corsa privata all’armamento, detengono più armi che non televisori; un “sistema” che vende ai propri “clienti” pistole, fucili e ogni genere di munizioni nelle più grandi catene di supermercati ma che poi si costerna e si indigna perché un bambino di sei anni entra nella propria classe e uccide a revolverate una coetanea; lo stesso “sistema” primo produttore di armi nel mondo, teorizzatore dell’azione di guerra come strumento “preventivo”, colpisce e demonizza come unico ma indiretto responsabile di questa funebre contabilità di morte, Marilyn Manson: il perfetto capro espiatorio, funzionale lavacro delle coscienze di una società scossa e colpita al cuore. Un “sistema” che si nutre di paura, la principale causa, secondo Moore, di questo drammatico bagno di sangue. Quella paura che il “potere”, per mezzo del “libero” apparato massmediatico, instilla per piccole dosi nell’animo di un popolo, questa volta sì, del tutto inerme. Dalla paura per i più innocui gesti quotidiani a quella storica e atavica nei confronti del “diverso”, si chiami Geronimo piuttosto che Abdul poco importa: fondamentale è eliminarlo prima che lui faccia altrettanto con te. Una tesi, quella della paura, che trova conferme anche all’interno di analisi più specificamente politiche dell’attuale situazione americana rispetto all’esito vittorioso per Bush ed il suo partito nelle consultazioni di medio-termine: gli stessi elettori (il 40% circa degli aventi diritto di voto) che Moore riprende mentre nascondono la pistola sotto il cuscino e i cui figli fanno strage di coetanei in un pulito e ordinato college di provincia.

Gianluca Casadei
Cooperativa FuoriSchermo – Cinema & Dintorni

MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Canzoni, poesie e concerti contro la guerra annunciata

“Il Cielo sopra Baghdad” è stata un’azione nonviolenta creativa contro la guerra minacciata. Complimenti e applausi ai promotori: Aiutiamoli a Vivere di Pescara, Storie di Note di Roma e Progetto Poiesis di Alberobello-Bari. Attraverso un viaggio più che avventuroso, 19 musicisti, assieme a poeti, registi e fotografi hanno compiuto l’opera! Bisogna ricordarli: il poeta Giuseppe Goffredo e fra i cantanti e musicisti, Antonio Onorato, i C.u.b.a. Cabbal, Luca Faggella e Desireè Infascelli, i Mandara, Enrico Capuano e Manola Colangelo, Goran Kuzminac e il Parto delle Nuvole Pesanti. Coinvolgendo artisti locali hanno dato vita a due concerti l’8 novembre a Baghdad e domenica 11 novembre a Bakuba, preceduti da un simbolico volo di deltaplani a motore che si sono stagliati su “un cielo mozzafiato”, a detta dei partecipanti. Il tutto, filmato e fotografato, verrà tradotto in un film documentario coordinato da Citto Maselli e in una ricchissima mostra che è già in allestimento. Pochi giorni prima, Gaetano Liguori ha suonato col suo trio, ancora in Iraq e in Libano, invitando gli artisti a unirsi per celebrare la pace e la fratellanza fra i popoli, condannando la guerra preannunciata.
Queste belle notizie arrivano verso la fine di un anno denso di fatti significativi, aperto da Jovanotti che in pochi giorni è riuscito a presentare in un’infinità di trasmissioni tv “Salvami” suscitando molte polemiche, soprattutto da parte dei benpensanti guerrafondai; a seguito di queste, ha voluto Tiziano Terzani ai suoi concerti per sostenere la nonviolenza come unica via d’uscita.
L’inverno ha portato il gelo per i fans del mitico Bono degli U2, paladino delle campagne per la cancellazione del debito, protagonista di azioni nonviolente contro il nucleare per Greenpeace, sostenitore di una svolta non armata nell’Irlanda del Nord. Pare abbia dichiarato che la nonviolenza non è un assoluto, che la guerra può essere necessaria se si è minacciati e che Bush, in definitiva, ha ragione… Bono, definito da alcuni sondaggi il personaggio più potente nel mondo musicale e uno dei politici più importanti a livello mondiale, forse comincia a ragionare come i peggiori fra i Potenti ? Fortunatamente altri hanno riscattato i musicisti di lingua inglese: gli Oasis hanno costretto l’esercito britannico a ritirare trecento filmati promozionali di invito all’arruolamento, che utilizzavano due loro successi; George Michael ha scritto “Shoot the dog” ironizzando sul rapporto tra Bush e Blair, attaccando duramente la loro guerra preventiva contro il terrorismo; Dave Stewart e Jimmy Cliff hanno scritto la canzone per il “Peace One Day”, giornata internazionale di cessate il fuoco globale e nonviolenza, ideata dal regista inglese Jeremy Gilley, messa in calendario dalle Nazioni Unite ogni anno il 21 settembre; i Pearl Jam in un album molto politico hanno inserito “Bushleaguer” in chiara opposizione alla politica del presidente Usa.
In Italia l’estate ha visto il Festivalbar ufficialmente collegato ad Emergency, con tanto di invito al pubblico nelle piazze a esporre o mettersi il pezzo di stoffa bianca per evidenziare l’opposizione alla guerra. Lo stesso ha fatto Ligabue nei suoi concerti, riproponendo da solo “Il mio nome è mai più”. Sono arrivati i francesi Noir Désir, con “Le vent nous portera”, no global incalliti anche nei contenuti delle canzoni.
Nel 2002 è tornato a fare notizia Franco Trincale, cantastorie di strada siciliano trapiantato a Milano, popolare soprattutto negli anni settanta: il suo cantare in dialetto contro i potenti di turno in piazza del Duomo, ha scatenato le ire nientemeno che del Cavalier Berlusconi!
Qualche pezzo da ricordare, in ordine sparso (e non in modo esclusivo, sia chiaro!): “Shalom” di Roberto Vecchioni, “Il mio nemico” di Daniele Silvestri, “Domani smetto” degli Articolo 31, “Insidia” e “Il branco” dei Litfiba, “Sangue al cuore” e “Il re è nudo” dei Nomadi e, infine, il geniale violino jazz di Billy Bang che, reduce lui stesso, assieme ad altri musicisti reduci, in “Vietnam – The aftermath” racconta la tragedia di quella guerra e le sue conseguenze.
Moni Ovadia ha portato sulle scene “Canti per la Pace”, presentando insieme canti religiosi delle tradizioni cristiane, ebree e musulmane.
Il deplorevole spettacolo dei cosiddetti “pianisti” (i deputati che al parlamento votano per gli assenti…) ha ispirato un concerto per piano con musiche di Nicola Piovani suonate da Danilo Rea. Si è tenuto il 5 novembre a Roma in Piazza Navona in occasione del dibattito alla Camera sulla legge Cirami, con proiezione di immagini dei “pianisti” e il “concerto del Senato” di “Striscia la Notizia”. Lo hanno intitolato “Nessun dorma”…

Di Fabio