• 23 Novembre 2024 19:15

Azione nonviolenta – Dicembre 2003

DiFabio

Feb 4, 2003

Azione nonviolenta dicembre 2003

– I bambini ci guardano, ma noi non li vediamo (di Mao Valpiana)
– Prigionieri per la pace: Albo d’onore 2003 (War Resister’s International)
– Lettera aperta a Abraham Yeshohua: riconoscere di aver bisogno dell’aiuto di tutti (di Alberto Trevisan)
– L’arte poetica di Danilo Dolci, grande comunicatore del metodo maieutico (di Germano Bonora)
– Per un’Europa neutrale, disarmata, nonviolenta (L’Appello di Verona)
– Convertirsi alla nonviolenza? Credenti e non credenti si interrogano su laicità, religione, nonviolenza (di Matteo Soccio)
– Nuove esperienze di formazione, gli operatori per la pace (di Gianni Scotto)
– Digiuno a sola acqua per una finanziaria di pace (di Luca Giusti)
– La mia storia, la tua storia, il nostro futuro (di Elena Buccoliero)
– Una politica locale per darsi dei limiti (di Antonella Valer e Massimiliano Pilati)
– Giochi da adolescenti: uccidere per divertimento (di Gianluca Casadei)
– L’impegno degli U2 per la pace a Sarajevo (di Paolo Predieri)
– Obiettori totali per la libertà individuale (di Sergio Albesano)

Rubriche

– Lettere
– Libri

EDITORIALE
I bambini ci guardano e noi non li vediamo

Di Mao Valpiana

Difficile scegliere l’argomento per questo editoriale. Scartato l’articolo che parla di noi stessi (il prossimo appuntamento per i 40 anni di Azione nonviolenta, ma per questo vi rimando alla quarta di copertina), c’era solo l’imbarazzo della scelta: la strage di Nassiriya e le sue conseguenze in Iraq e in Italia, le bombe antisemite in Turchia, la minaccia terrorista, la guerra infinita, l’aumento delle spese militari, le sparate del Presidente del Consiglio sulla Cecenia, le scorie radioattive in Basilicata, e chi più ne ha, più ne metta. Mentre facevo mentalmente questo elenco dell’orrore, ho pensato “ma cosa può pensare di questo mondo un bambino che vede la televisione o sfoglia un giornale?” e mi è venuto alla mente quel terribile passo del Vangelo “guai a chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare”. Quanto macine ci vorrebbero per riscattare tutti i bambini del mondo che sono scandalizzati, violentati, torturati, sfruttati, abbandonati, ammazzati?
I dati che l’Unicef ha fornito per la giornata dell’infanzia, ci inchiodano alle nostre responsabilità.
Ancor oggi nel mondo il 40% dei nati non viene registrato: non un nome, non una nazionalità per bambini che nella maggioranza dei casi muoiono subito per malattie che potrebbero essere facilmente prevenute (in certe zone dell’Africa Subsahariana questa cifra raggiunge il 71%). Malattie prevenibili e curabili come la pertosse ed il tetano o la difterite uccidono ancora nella Federazione Russa, in Brasile, in Vietnam e in Nigeria. Quando non uccide, la povertà compromette lo sviluppo fisico e mentale dei bambini: ad oggi sono 150 milioni i fanciulli sottopeso nei paesi del terzo mondo. A causa dell’Aids entro il 2010 il 20% dei bambini sotto il 15 anni sarà orfano in Swaziland, Lesoto, Zimbabwe, Botswana. In Africa un bambino orfano o, peggio ancora, venduto dalla famiglia, può essere arruolato con forza nei corpi militari per diventare soldato; nell’Asia meridionale molti di loro diventano schiavi sessuali e non ne conosciamo il numero poichè si tratta di paesi dove la registrazione anagrafica non avviene con regolarità. Nel mondo un fanciullo su otto, in età compresa tra i 5 e i 17 anni, è sfruttato, coinvolto nelle peggiori forme di lavoro minorile o nel business della tratta dei minori, un affare colossale da un miliardo di dollari l’anno che trascina in schiavitù le bambine africane e del sud-est asiatico, a cui si aggiungono ora quelle clandestine provenienti da Moldavia e Ucraina. In Africa il 53% delle femmine non va a scuola. Sono più di 100 milioni gli adolescenti nel mondo che non hanno fissa dimora e vivono per strada, abbandonati a se stessi. Nei paesi che hanno subito una guerra, come in Cambogia o in Afghanistan, le mine a forma di giocattolo hanno mutilato intere generazioni di fanciulli.
Questa imbarazzante lista potrebbe andare avanti per molto. Erode al confronto era un principiante!
Sono milioni e milioni i bambini che non hanno volto, che non fanno notizia, che non contano niente, che non meritano nemmeno uno straccio di funerale. Bambini che nessuno vede, ma in base ai quali qualsiasi Dio giudicherà l’umanità, che sarà condannata “per aver commesso il fatto”. Se poi verrà perdonata, non sarà certo per meriti che non ha, ma per la volontà di qualcun altro.
Fra pochi giorni sarà il 25 dicembre, giorno del ricordo della nascita in Palestina di un bambino ebreo, povero, senza casa, clandestino. Assisteremo anche quest’anno alla sagra dei buoni sentimenti. Accomodiamoci pure al banchetto sacrilego del consumismo, ma almeno non strumentalizziamo l’infanzia. Lasciamo quel bambino nella sua solitudine fino a che morirà in croce. Poi le Nazioni Unite si riempiranno la bocca: “l’infanzia ha diritto a misure speciali di protezione ed assistenza”.
Buon Natale.

Prigionieri per la Pace: Albo d’onore 2003

In occasione del 1° dicembre 2003, Giornata Mondiale dei Prigionieri per la Pace, War Resisters’ International (Internazionale dei Resistenti alla Guerra – di cui il Movimento Nonviolento è la sezione italiana) diffonde l’elenco di obiettori di coscienza e di attivisti per la pace attualmente incarcerati in vari paesi del mondo. Invitiamo i lettori di Azione Nonviolenta ad inviare cartoline o biglietti di sostegno a questi testimoni di pace, anche con lo scopo di far sapere alle autorità di quei paesi che i prigionieri pacifisti non sono isolati.

Armenia
Malgrado l’impegno ad introdurre una legislazione sul diritto all’obiezione di coscienza, l’Armenia continua a mandare in carcere Testimoni di Geova per il loro rifiuto di prestare servizio militare.
Vahan Bayatyan
2 anni 1/2 – 28/10/02-28/04/05
Artur Grigoryan
2 anni 1/2 – 26/11/02-26/05/05
Karen Abadzhyan
2 anni 1/2 – 05/12/02-12/06/05
Set Pogosyan
2 anni – 29/12/02-29/12/04
Parkev Khachatryan
1 anno – 29/01/03-29/01/04
Ashot Melikyan
2 anni – 30/01/03-30/01/05
Anton Tigranyan
2 anni – 10/02/03-10/02/05
Gor Mkhitaryan
1 anno 1/2 – 26/02/03-26/08/04
Abraham Kuzelyan
2 anni – 27/02/03-27/02/05
Grigor Oganesyan
2 anni – 12/03/03-12/03/05
Edgar Oganesyan
2 anni – 21/03/03-21/03/05
Ambartsum Odabashyan
3 anni – 01/04/03-01/04/06
Ayk Bukharatyan
2 anni – 02/04/03-02/04/05
Vahan Mosoyan
2 anni – 15/04/03-15/04/05
Arsen Akopyan
1 anno 1/2- 30/04/03-30/10/04
Arkadii Avetyan
1 anno – 02/05/03-02/05/04
Artur Stapanyan
2 anni – 12/05/03-12/05/05
Ayk Gareginyan
1 anno 1/2 – 11/06/03-11/12/04
Ashot Akopyan
2 anni 1/2 – 12/06/03-12/12/05
Grikor Mkrtichyan
2 anni – 13/06/03-13/06/05
?Kosh Corrective Labour Colony, Kosh

Araik Bedzhanyan
1 anno 1/2 – 02/07/03-02/01/05
?Vanadzor Prison

Avetik Avakyan
1 anno 1/2 – 25/03/03-25/09/04
Ashot Tsaturyan
2 anni – 29/04/03-29/04/05
Aram Khechoyan
1 anno – 06/07/03-06/07/04
Edgar Saroyan
in attesa di giudizio dal 15/05/03
Suren Akobyan
in attesa di giudizio dal 03/07/03
Artur Torosyan
in attesa di giudizio dal 03/07/03
Artjom Kazaryan
in attesa di giudizio dal 04/07/03
? Nubarashen Prison
Bielorussia
Yuri I Bendazhevsky
01/06/01 – 01/06/09
? Prison Minsk, ul Kavarijskaya 36, PO Box 36 K, Minsk
Investigatore e divulgatore dei fatti di Cernobyl, fraudolentemente accusato di corruzione.
Belgio
Il 16 febbraio 2003, 11 attivisti per la pace hanno fermato un treno che trasportava equipaggiamenti militari per l’esercito Degli Stati Uniti destinati al Golfo passando dal porto di Antwerp. La sentenza era prevista per il 27 ottobre. Ulteriori informazioni al sito www.vredesactie.be
Gran Bretagna
Centinaia di attivisti sono stati arrestati durante azioni contro la guerra. Molti sono stati multati, altri hanno visto cadere le loro accuse. Alcuni sono in attesa di una sentenza.
Ulla Roder ha disarmato un Tornado presso la base RAF di Leuchars il 10 marzo 2003. Attualmente non è più in carcere. Ulteriori informazioni al sito www.free-ulla.org.
Toby Olditch e Phil Pritchard sono stati arrestati presso la base RAF di Fairforf nel tentativo di disarmare un cacciabombardiere B52. Entrambi non si trovano in prigione attualmente. Ulteriori informazioni contattando Inspiraction2003@yahoo.co.uk
Si attendono nuovi processi.
Informazioni al sito http://scotland.motherearth.org/ulla/prisoners.shtml
Finlandia
Il 1° ottobre sono stati incarcerati insieme 19 obiettori totali in Finlandia. Si conoscono però solo i nomi di quattro di loro.
Lasse Jansson
25/08/03-12/03/04
? Suomenlinnan työsiirtola, Suomenlinna C 86, 00190 Helsinki

Pano Pietilä
08/09/03-
? Helsingin työsiirtola, PL 36, 01531 Vantaa

Johannes Lilja
24/07/03-10/02/04
? Satakunnan vankila, Köyliön osasto, PL 42, 32701 Huittinen

Väinö Järvelä
14/07/03-29/01/04
?Ylitornion avovankilaosasto, Rajantie 2, 95600 Ylitornio
Germania
Più di 1.000 persone sono state arrestate durante azioni di disobbedienza civile contro la guerra all’Iraq; la maggior parte di loro è stata arrestata presso la base aerea di Rhein-Main. Molte accuse sono state fatte cadere mentre altre sono ancora in attesa di giudizio, e saranno probabilmente commutate in multe.

Jannes von Bestenbostel
? Trukft Roland-Kaserne 313, Fohrder Landstrasse 33, 14772 BrandenburgSimon Alexander Lieberg
? Fallschirmjägerbatallion, Frieslandkaserne, 26316 Varel
Entrambi sono obiettori totali chiamati a prestare servizio militare il 1° ottobre 2003. Trascorreranno 63 0 84 giorni agli arresti militari, prima di essere inviati a giudizio presso una corte civile.
Irlanda
Il 3 febbraio 2003 partecipando ad un’azione di resistenza presso l’aeroporto Shannon i Pitstop Ploughshares hanno disarmato un aereo da combattimento statunitense.

Sono attualmente liberi su cauzione. Il loro processo è stato spostato a Dublino e probabilmente avrà luogo all’inizio del 2004.
Ulteriori informazioni al sito www.ploughsharesireland.org.
Israele
Mordechai Vanunu
30/09/86-29/09/04
? Ashkelon Prison, Ashkelon, Israel
Divulgatore di avvenimenti relativi alle questioni nucleari, accusato di spionaggio e tradimento – rapito il 30 settembre 1986 in Italia.

In Israele gli obiettori di coscienza vengono regolarmente incarcerati. Molti di loro devono scontare periodi di prigionia di 28 giorni, alcuni anche più periodi uno dopo l’altro. Attualmente sei obiettori sono stati deferiti alla corte marziale: Haggai Matar, Matan Kaminer, Noam Bahat, Adam Maor, Shimri Tzamaret, e Yonathan Ben-Artzi. I processi continuano. Controllate il sito di WRI (http://wri-irg.org/cgi/news.cgi) per gli aggiornamenti.
Porto Rico
José Vélez Acosta #23883-069
05/09/03-
José Pérez Gonzáles #21519-069
05/09/03-
? MDC Guaynabo, PO Box 2147, San Juan, PR 00922-2147
Condannati per cospirazione e per danni alle proprietà federali, in attesa di giudizio il 4 dicembre 2003.
Corea del Sud
In Corea del Sud più di 750 Testimoni di Geova sono stati incarcerati a causa della loro obiezione di coscienza al servizio militare. Solitamente sono condannati a periodi di detenzione che vanno da un anno e mezzo a tre anni.
Di recente anche obiettori di coscienza laici hanno iniziato ad organizzarsi.
Una lista di obiettori di coscienza incarcerati è disponibile al sito di WRI:
http://wri-irg.org/2003/pfp03-enhtm#southkorea.
Turkmenistan
Nikolai Shelekhov
07/02/02 – 01/01/04
? Lebap velayat, g. Turkmenabad (Chardhev), Ispravitelnaya trudovaya koloniya, Zaklyuchennomu Shelekhovu Nikolayu, TurkmenistanKurban Zakirov
23/04/99 – 22/04/08
? Akhal velayat, g. Bezmein, Ispravitelnaya trudovaya koloniya, Zaklyuchennomu, Zakirovu Kurbanu, Turkmenistan
Entrambi sono Testimoni di Geova.
E’ giunta notizia che altri tre Testimoni di Geova sono stati recentemente incarcerati per la loro obiezione di coscienza, ma non sono ancora disponibili altre informazioni.
USA
Più di 7.500 persone sono state arrestate in tutti gli Stati Uniti durante azioni di disobbedienza civile contro la guerra all’Iraq. Molte accuse sono state fatte cadere, altre sono state commutate in ammende o in periodi di detenzione. Purtroppo non ci è dato di sapere se attualmente ci siano ancora persone in carcere.

Stephen Funk
six months – out March 04
? Building 1041, PSC 20140, Camp Lejeune NC 28542
Marine degli Stati Uniti che ha fatto richiesta di essere congedato come obiettore di coscienza. Il 6 settembre è stato condannato a 6 mesi di carcere.

Azioni di disobbedienza civile tenutesi alla “School of the Americas” a Fort Benning nel novembre del 2002 hanno portato a 86 arresti. Molte persone sono state rilasciate nel frattempo, ma alcune sono ancora in carcere. Nuove azioni sono state programmate a partire dal 21/23 novembre 2003. Controllate il sito web per gli aggiornamenti.

Jeremiah Matthew John #91324-020
verrà rilasciato il 18 gennaio 2004.
? Federal Prison Camp, PO Box 33, Terre Haute, IN 47808Patrick Lincoln #91400-020
verrà rilasciato l’8 dicembre 2003.
? FCI, Cumberland, P.O. Box 1000, Cumberland, Md. 21501-1000

Condannati a sei mesi di prigione e al pagamento di una multa di 500 dollari. (http://www.soaw.org/new/article.php?id=598).

Charity Ryerson #91335-020
sei mesi – verrà rilasciato il 18 gennaio 2004.
? Pekin FCI, PO Box 6000, Pekin, IL 61555-6000Derrlyn Tom #91362-020
sei mesi – verrà rilasciato il 6 dicembre 2003.
? Federal Prison Camp, 5675 8th St. Camp Parks, Dublin, CA 94568

Jackie Hudson O.P. 08808-039
31 mesi – verrà rilasciato a luglio del 2005.
? FCI Victorville, P.O. Box 5400, Adelanto, CA 92301Carol Gilbert O.P. 10856-039
33 mesi – verrà rilasciato a ottobre del 2005.
? FPC Alderson, Box A, Alderson, WV 24910Ardeth Platte O.P. 10857-039
41 mesi – verrà rilasciato a giugno del 2006.
? FCI Danbury, Route 37, Danbury, CT 06810
Condannati per aver disarmato la base sotterranea di lancio per missili nucleari nel nord-est del Colorado.

Lettera aperta a Abraham A. Yeshohua

Di Alberto Trevisan
La lettera apparsa sulla La Stampa il 1 Novembre 2003, tradotto da Alessandra Shomron, è forse l’articolo che in molti anni mi è parso più bello, preciso, puntuale, concreto e soprattutto pieno di entusiasmo e fiducia pur in una situazione drammatica, proprio perché da anni studio e seguo da anni gli sviluppi di un conflitto assai difficile da interpretare ,soprattutto dal versante gandhiano, attraverso gli strumenti dell’analisi e delle metodologia nonviolenta.
Tutti ormai sanno che si tratta di un conflitto speculare, tra popoli cugini che da oltre cinquant’anni viene condotto senza risparmio di energie sia tecniche che umane: in sostanza un conflitto che continua a fare da entrambi le parti morte e distruzione, ansia quotidiana e disperazione e soprattutto poca possibilità di una vita “in pace”.
Certo è che entrambi i popoli hanno rinunciato ai grandi sogni: la Grande Israele o tutta la Terra di Palestina solo per il popolo palestinese.
Bene, i sogni, caro Yeshoua, sono definitivamente svaniti e la dura realtà impone la soluzione del conflitto e , personalmente penso su tempi meno lunghi, come mi sembra di aver intuito tra le righe del tuo interessante e profondo discorso.
Il tuo articolo mi ha costretto a riprendere in mano libri e numerosa documentazione e ti posso dire con certezza che questo nuovo “ trattato di Ginevra” già da oltre dieci anni era stato pensato con dovizia di particolari: e soprattutto è stato scritto a quattro mani,da Mark A.Heller, studioso israeliano, e da Sari Nusseibeh , intellettuale palestinese, in un libro pubblicato in Italia a cura di Giorgio Gomel ,del gruppo Ebrei per la Pace di Roma, per l’editore Valerio Levi , Roma 1992.
Tu ci inviti, o meglio, inviti tutti coloro ai quali “ si preoccupano del caos e della violenza crescente in Medioriente di apporre la nostra firma “in questo “appello per la Pace” che in sostanza prevede un buon vicinato tra due popoli cugini, tra due Stati e due Popoli ,entrambi in sicurezza e in pace..
Sono certo che avrai letto il libro cui faccio riferimento e anche dopo oltre dodici anni si presenta quasi come un manuale da portare al tavolo delle trattative come è successo a Oslo,Madrid, Taba, Camp David e così via .
Riprendendolo sotto mano dopo vari anni mi è bastatati sfogliarlo per scoprire la sua straordinaria attualità e sono contento di avere nella mia biblioteca questo libro: basta leggere l’indice per dare conferma e corpo ma soprattutto conferma piena e adesione sincera alla tua intuizione di un nuovo “trattato di Ginevra” per il quale tutta la società civile, dai ragazzi Salam dell’Olivo alla buona cooperazione, alle organizzazioni non governative sono pronte a riempire centinaia di fogli fitti di firme vere e sincere : non ci resta che sapere dove inviarle tutte queste firme così pregne di speranza di pace in Medioriente. .
L’indice di questo libro importantissimo, nato con non poche difficoltà e scritto a quattro mani, non tralascia nulla dei punti che sono ancora all’ordine del giorno per il superamento del conflitto: misure di sicurezza per entrambi gli stati, demarcazione chiara dei confini, il problema del ritorno dei profughi e dell’abbandono degli insediamenti, le risorse idriche, lo stato giuridico di Gerusalemme e in particolare la regionalizzazione e internazionalizzazione del Medioriente inteso come dimensione regionale della soluzione a due Stati liberi, sicuri e indipendenti e magari incrocio cruciale delle numerose tradizioni e culture delle popolazioni che abitano questo punto nevralgico del nostro pianeta.
Credimi , Abraham, in questo libro così attuale c’era già nel 1992 quasi tutto: una specie di manuale diplomatico di facile consultazione durante i difficilissimi incontri ai vari tavoli delle trattative :
Ora tu proponi con la creatività che ti è propria, uomo di cultura assai poliedrico, dall’arte al teatro, dalla scrittura al giornalismo di fare una cosa semplice come chiedeva Aldo Capitini (A ognuno di fare qualcosa) il primo che in Occidente insegnò la metodologia gandhiana: solo una piccola ma sincera firma, un piccolo segno utopico di fronte ad un mostro, la guerra, che da oltre cinquant’anni produce morti e distruzioni in entrambi le parti in conflitto.
Questa tua poliedricità forse per la prima volta in maniera così netta ti ha portato a toccare con mano il bisogno dell’aiuto di tutti ed è molto bello che forse ancora per la prima volta tu ammetta che non ce la fate più da soli, che l’America non è più garanzia di una giusta soluzione e trovi la forza di quasi sferzare l’Europa a mantenere le promesse fatte e non mantenute in passato ,a programmare nuovi piani di ricostruzione in un tessuto civile dove il bambino israeliano, dove i figli di David Grossman, solo per fare il nome di un tuo amico scrittore, possano andare tranquillamente a scuola con i loro bus e i ragazzi palestinesi possano continuare nelle loro misere baracche dei grandi campi profughi a studiare e sperare di vivere non più in baracche ma in modeste case e mantenere il più alto grado di cultura tra i paesi arabi.
Caro Abraham io sono certo che le iniziative dal basso, il non delegare le grandi scelte sempre e solo ai governi sia il terreno più fertile : per questo in molti in Italia e in Europa siamo pronti a ritornare in terra di Palestina e di Israele a collaborare alla ricostruzione, con le nostre mani, con le nostre professionalità e anche con le nostre fedi per vedere e vivere una Gerusalemme condivisa e non accerchiata da muri o barriere militari foriere di morte:
Se per difendere i luoghi santi della Città simbolo delle tre religioni monoteiste dovesse continuare a morire, dopo questi auspicati accordi di pace, anche una sola persona, magari un povero bambino ebreo o musulmano o cristiano io credo che tutti dobbiamo mettere in discussione le nostre “fedi” perché ,non esiste luogo o simbolo religioso che possano giustificare la morte di un solo essere umano proprio in un territorio che tutti chiamiamo, con le proprie diversità, Terra Santa.
Certo, caro Yeshohua , non dobbiamo seguire altre strade come quella , solo per citare un piccolo ma inquietante esempio, quello della rinomata Università di Architettura di Venezia che, accettando una proposta di “vivibilità “del muro (sic!) pensa di proporsi con un suo ambizioso progetto. Ti assicuro per quanto creatività ci possa essere non penso che un muro ,magari abbellito da piante tropicali o ameni luoghi d’incontro, possa essere reso vivibile: i muri dividono, isolano, creano odio reciproco e sono certo che anche tu la pensi allo stesso modo. come tanti altri israeliani.
Ci sono altre strade come l’obiezione di coscienza di coloro che ,da semplici militari a grandi uomini di comando, da tempo praticano questa forma di obiezione di coscienza “ limitata “ e so che su questo punto tu avevi espresso alcune perplessità pensando ad una minaccia all’unità nazionale del popolo di Israele.
Da obiettore di coscienza in Italia imprigionato per mesi e mesi negli anni “70 per ottenere il riconoscimento di questo diritto fondamentale che è la libertà di coscienza in generale ma soprattutto nel caso della preparazione alla guerra , l’unità nazionale non viene certo disgregata perché in più di trent’anni quasi un milione di ragazzi italiani hanno “servito la Patria” a fianco delle fasce più deboli della nostra società e attualmente più di diecimila ragazze servono anch’esse la società con un servizio civile e volontario.
Noi europei che stiamo costruendo una nuova realtà, che sarà guidata da una moderna Carta Costituzionale non vediamo l’ora di accogliere nel nostro ambito due popoli che dichiarino una volta per sempre la parola fine della guerra e l’inizio di una pace giusta e duratura.
Se siamo in grado di abbattere i muri che sono in noi e far uscire i mostri dai nostri cuori ,in particolare quelli dell’egoismo, dell’intolleranza, della segregazione i muri fisici si scioglieranno come neve al sole e i villaggi palestinesi e israeliani brilleranno tutti della loro magica pietra bianca con lo sfondo del verde degli ulivi e del giallo dei pompelmi in un fiume con a fianco le acque del Giordano , fiume che deve unirei popoli sino al punto più profondo della terra.
Grazie Abraham e presto spero di “ salire “ in una Gerusalemme condivisa ,come siete soliti voi esprimervi al momento del saluto tra fratelli o amici. Shalom., Salaam , Pace.

L’arte poetica di Danilo Dolci, grande comunicatore del metodo maieutico

Il 29 e 30 ottobre u. s. si è svolta in Agropoli (SA) la prima edizione del Premio Nazionale Danilo Dolci, indetto dall’Associazione Amici di Danilo Dolci.
La manifestazione è stata patrocinata dal Senato della Repubblica, dalla Regione Campania, dalla Provincia di Salerno, da alcuni Comuni del Cilento e in particolare dal Comune di Agropoli, che, oltre al cospicuo contributo, si è impegnato a sostenerlo per i prossimi anni.
Presidente onorario del Premio, il poeta Mario Luzi, amico personale del Dolci, più volte candidato al Nobel per la poesia.
Il Presidente del Senato Marcello Pera ha fatto pervenire una significativa lettera di saluto, nella quale, tra l’altro, scrive: “In particolare, vorrei ricordare l’importanza fondamentale attribuita da Danilo Dolci al metodo maieutico. Tale metodo, posto da Dolci alla base della sua opera di educatore, consente effettivamente di crescere insieme, cioè di trarre la principale ricchezza dal dialogo aperto e dal confronto delle idee, sulle questioni minime come sui grandi problemi. Ciò mi sembra assolutamente coerente con l’ispirazione fondamentale della non violenza come via per costruire e consolidare la pace”.

Di Germano Bonora *

Ho conosciuto Danilo Dolci nel 1980, in occasione di un seminario per docenti alla scuola media. Ci andai per puro caso, dopo averne sentito parlare con entusiasmo anche fuori dell’ambito scolastico.
Mi colpì soprattutto il silenzio meditativo, oltre alla insolita attenzione dei partecipanti, che uno per volta venivano chiamati a leggere dei testi poetici e a dare il proprio giudizio. Alla fine del giro seguiva la discussione coordinata dal Dolci.
Non era la solita conferenza tenuta dall’oratore e dallo specialista di turno su argomenti fumosi e astratti, scelti dall’alto o, peggio, improvvisati, seguiti stancamente da una platea rumorosa e distratta; ma piuttosto una conversazione pacata, in cui ognuno si sentiva a proprio agio, in un rapporto veramente alla pari. Anzi, come amava dire Danilo, di reciproco adattamento creativo.
Da qui, dunque, l’interesse e la partecipazione attiva e appassionata di ciascun partecipante, veramente protagonista e non comparsa, attore e non inutile figurante di un teatrino manovrato dall’alto.
Tutti sullo stesso piano, finanche nella sistemazione dei posti: tutti allo stesso livello di parità.
Nella sala c’era un silenzio assorto, quasi religioso, per ascoltare i singoli interventi e replicare con argomentazioni serie e ponderate, fuori da ogni concessione retorica o narcisistiche sbavature.
Danilo coordinava i singoli interventi a bassa voce, per favorire la concentrazione, senza ricorrere ad amplificatori assordanti, tanto cari agli imbonitori politici e mediatici, infettati dal virus del dominio.
Una cosa del tutto nuova anche per gli educatori più accorti e vaccinati contro certi venditori di fumo che si specchiano come narcisi nel fiume delle loro stesse parole inconcludenti.
Alla fine dei lavori invitai Danilo a tenere un seminario agli studenti del liceo scientifico Alfonso Gatto su argomenti da concordare e preparare opportunamente per tempo. Ne parlai con i ragazzi e alcuni colleghi, che si attivarono per la presentazione e l’approvazione del progetto nelle sedi competenti.
Si creò un clima di attesa, che coinvolse docenti e studenti anche delle classi parallele. Inutile spiegare che per la buona riuscita dei lavori i partecipanti non potevano superare un determinato numero compreso tra le quaranta e le cinquanta persone preventivamente preparate.
All’appuntamento tanto atteso c’erano più di venti docenti e un centinaio di studenti.
Danilo accettò il numero esorbitante, a condizione che il seminario durasse almeno una settimana, anziché i tre giorni stabiliti.
Tema: la nuova dimensione della Poesia.
Nella mattinata si leggevano e commentavano alcuni testi poetici, distribuiti a tutti, e nel pomeriggio si riprendeva alle quattordici, dopo la colazione a sacco dei non pochi pendolari provenienti dai centri più o meno distanti dal liceo.
Gradualmente scoprimmo una nuova dimensione della Poesia, molto diversa da quella della tradizione classica, che dal Petrarca giunge ai nostri giorni, sia pure con una certa innovazione dal Leopardi in poi, senza tuttavia mai rompere del tutto con il classicismo.
Alla fine tutti convenimmo che la Poesia non è soltanto quella composta in versi sciolti o rimati, ma anche i piccoli gesti quotidiani, che avvengono fra le pareti domestiche e in altri ambiti, possono essere autentica Poesia, a prescindere dalla istruzione di chi li compie.
Si può fare Poesia, dunque, in tanti modi diversi.
La madre o il padre, che pulisce amorevolmente il bambino sporco di cacca o di pipì, non compie soltanto un atto di amore, ma con quel gesto premuroso crea autentica Poesia. I genitori o i nonni, che guardano incantati il nipotino, tutto compreso del proprio gioco, fanno anch’essi Poesia. Non così, invece, quando lo guardano con indifferenza o, peggio, con atteggiamento ostile o di rimprovero ingiustificato.
Il Poeta e l’educatore – maieuta sono una cosa sola, quando operano con amore e competenza.
Il nascituro percepisce fin dal grembo l’amore materno attraverso il cordone ombelicale, che favorisce il più naturale rapporto di reciprocità. Questo nesso forte e meraviglioso fra la madre e il nascituro è la più bella metafora del COMUNICARE.
E la Poesia è la più alta espressione del COMUNICARE.
Il seminario si concluse con una manifestazione pubblica, alla quale parteciparono anche i genitori degli studenti.
Non pochi si avvicinavano per conoscere Danilo, di cui i figli ogni giorno parlavano con grande entusiasmo.
Ricordo l’episodio di una madre che lo abbracciò con gli occhi lucidi, dicendogli: “Voglio ringraziarla per quanto ha fatto per mio figlio, che dalla morte del padre si era chiuso e non parlava più in casa. Grazie al suo aiuto si è, finalmente, sbloccato.
Fin dal primo giorno del seminario non ha fatto altro che parlare di Lei come di un grande amico.
Quando ci riuniamo per il pranzo o per la cena, non accendiamo più il televisore per non essere disturbati nella conversazione.
La nostra famiglia ha ritrovato il sorriso scomparso da molto tempo.
Che Dio La benedica”.
Ma, subito dopo la vedova, si avvicinò a Danilo un ragazzo visibilmente contrariato, che, nel corso del seminario, era rimasto sempre in disparte. Con gli occhi bassi gli disse: “Sono rimasto un po’ deluso, perché mi aspettavo delle belle conferenze dal professore Dolci, che invece ha fatto parlare quasi sempre gli studenti, dai quali non c’è niente da apprendere…”
Danilo si fece serio e triste, senza replicare niente al ragazzo, che del resto era subito scomparso dopo la sparata.
Ma quando l’accompagnai alla stazione, stringendomi forte la mano mi fece: “State attenti a quel ragazzo che ha detto di essere rimasto deluso, perché è un disperato, che non ha fiducia in se stesso e come tutti i disperati crede di risolvere i suoi problemi affidandosi a un capo, a un leader, aggravando la sua disperazione masochisticamente…”
Dopo ogni incontro con l’Educatore-maieuta, riprendevamo le attività scolastiche con animo nuovo, profondamente contagiati dalla eccezionale vitalità di Danilo, con il quale il rapporto continuava anche a distanza, perché molti ragazzi gli scrivevano per confidarsi con lui.
Ogni anno un seminario nuovo su temi scelti volta per volta insieme e preparati con l’ausilio di letture consigliate dallo stesso Dolci, perché il tempo dell’incontro era limitato e non bisognava lasciare niente alla improvvisazione.
Rigore logico e scientifico nella piena libertà creativa. Tutti impegnati a fondo nella ricerca, perché Danilo non si faceva affatto portatore della sua verità. Maieuticamente contribuiva, come gli altri e in collaborazione con gli altri, alla ricerca della verità possibile in quel momento.
Con Danilo Dolci scoprimmo la differenza sostanziale fra il TRASMETTERE e il COMUNICARE, che anche i migliori dizionari, purtroppo, registrano come sinonimi. Mentre c’è tra loro una differenza veramente sostanziale.
E, sempre grazie alla maieutica dolciana, imparammo che il DOMINIO di uno o di molti è la malattia del POTERE, che, invece, appartiene a tutti, per diritto di natura.
Gli apporti offerti dai giovani sono registrati volutamente accanto a quelli di celebrità, come i Nobel Carlo Rubbia o Rita Levi-Montalcini e di tanti altri scienziati, più o meno famosi, messi a fianco ai contributi di gente semplice quanto saggia.
Danilo sapeva ben valorizzare ciascuno e confessava candidamente di aver imparato molto da pastori, da contadini e finanche dagli animali e dalle piante.
Il nesso di reciprocità esistente tra l’ape e il fiore si fa metafora del rapporto interpersonale, anzi intercreaturale, come amava dire l’Educatore-maieuta.
L’operatore di pace è stato candidato nove volte al Premio Nobel per la pace, ma non gli è stato mai assegnato, forse, perché nel 1958 gli venne conferito il Premio Lenin, da lui accettato come riconoscimento della sua opzione per le vie rivoluzionarie non violente, non avendo mai condiviso l’ideologia marxistica.
Né poté mai restituire l’assegno ricevuto, come gli era stato chiesto dai contestatori della politica imperialistica di Mosca, perché lo aveva interamente speso per edificare il Centro di formazione a Trappeto, che successivamente sarà trasferito a Partinico quale Centro di studi e iniziative e poi come Centro per lo sviluppo educativo. Oggi porta ovviamente il nome del fondatore. E non è affatto proprietà privata, ma patrimonio dell’umanità.
COMUNICARE è uno dei nodi fondamentali del pensiero e dell’opera di Danilo, impegnato negli ultimi venti anni a coordinare seminari di studio sia in Italia sia in altri paesi europei e nei colleges statunitensi, i cui esiti sono puntualmente documentati nelle sei edizioni del MANIFESTO, dedicato “all’educatore che è in ciascuno di noi”.
Nel 1988 le Edizioni Sonda di Torino pubblicarono la Bozza di MANIFESTO “Dal trasmettere al comunicare”. L’anno successivo uscì presso lo stesso editore la seconda edizione arricchita di nuovi contributi. Nel 1993 Lacaita pubblicò la terza edizione, ulteriormente accresciuta, sotto il titolo “Comunicare legge della vita. Bozza di MANIFESTO e contributi”. Nel 1995 uscì la quarta edizione presso il medesimo editore di Manduria. Nel 1996 La Nuova Italia pubblicò la quinta edizione dal titolo “La struttura maieutica e l’evolverci”. Nel 1997, pochi mesi prima della immatura dipartita, venne pubblicata dallo stesso editore di Firenze la sesta e ultima edizione, reiterando il titolo emblematico “Comunicare legge della vita”, che possiamo considerare il testamento morale di Danilo.
Quando tornava ad Agropoli, si recava volentieri a visitare Paestum e Velia, l’antica Elea di Parmenide, dal quale lo stesso Socrate aveva appreso il metodo maieutico, in occasione dei viaggi fatti dal filosofo eleatico in Atene.
Danilo era fortemente attratto dalla bellezza dei luoghi e ancora di più dalla mentalità aperta e disponibile degli studenti del Cilento, ai quali ripeteva con sincera ammirazione:
“Voi siete gli eredi di Parmenide e della cultura greca. Nelle vostre parole risento la voce dei filosofi greci. Voi siete gli eredi autentici di quella antica cultura”.
E questo riempiva di orgoglio i giovani, fieri di quelle nobili radici.
Nel corso del seminario sulla Poesia, che aveva tenuto pochi giorni prima a Boston, ammirato dagli interventi dei giovani, mi confidò tutto contento: “Questi studenti non hanno niente da invidiare a quelli dei migliori colleges statunitensi, anzi li trovo molto più pronti e disponibili al dialogo”.
Il merito, in verità, era in gran parte dello stesso Danilo, che riusciva a suscitare interessi in tutti, facendo parlare perfino i balbuzienti.
Un ragazzo che non riusciva a esprimere un solo concetto senza balbettare una o più volte, chiamato da Danilo per nome a intervenire, parlò per più di dieci minuti senza mai incepparsi, con grande stupore della professoressa di scienze umane e storia, che si commosse fino alle lacrime.
Per esprimergli riconoscenza e gratitudine, il Consiglio d’Istituto del Liceo Alfonso Gatto propose alla Giunta Municipale di conferire al grande Poeta-educatore la cittadinanza onoraria di Agropoli, che fu approvata all’unanimità nel maggio del 1991, e fu la prima in Italia, dopo quella di Berna e di Boston, dove la biblioteca universitaria raccoglie tutti gli scritti di e su Danilo Dolci assieme a quelli di M. L. King.
Successivamente gli è stata intitolata anche la piazzetta che si affaccia sulla Marina, da dove il Poeta amava contemplare l’orizzonte, oltre il mare, in occasione dei suoi seminari in Agropoli.

*(fondatore dell’Associazione “Amici di Danilo Dolci”)

Il nostro programma costruttivo affinché nasca l’Europa militarmente neutrale,
per la pace dentro e fuori i propri confini.

Siamo donne e uomini che affermano il diritto alla vita e alla pace per tutti, non solo come valori supremi, ma anche come categorie giuridiche.
Siamo donne e uomini impegnati per l’abolizione degli eserciti, per il disarmo unilaterale, e perciò lavoriamo affinché l’Europa sia fondata sul diritto alla pace.
Riconosciamo nella nonviolenza uno straordinario metodo a disposizione di tutti, per risolvere i conflitti, per difendersi dai soprusi, per realizzare nuove conquiste sociali. La nonviolenza è il varco attuale della storia.
Vogliamo collegare la nascita dell’Europa con la necessaria riforma dell’ONU.
Vogliamo che la Costituzione europea raccolga il meglio e i punti socialmente più avanzati delle Costituzioni degli stati membri.
Vogliamo che l’Europa sancisca il diritto alla pace e il ripudio della guerra.

Chiediamo che l’articolo 1 della Costituzione europea recepisca in pieno l’articolo 11 della Costituzione italiana.
Chiediamo che la Costituzione europea recepisca le sentenze della Corte Costituzionale italiana: la difesa non è solo quella militare, ma è anche difesa civile.
Chiediamo che la sicurezza dell’Europa sia basata sulla riduzione degli armamenti (che oggi sottraggono enormi risorse alle spese sociali).
Chiediamo che non nasca un nuovo esercito europeo, ma si costituiscano invece i Corpi Civili di Pace.

Convochiamo un convegno di studio e di proposta politica per il giorno 8 dicembre a Venezia, che si concluderà con una manifestazione per lanciare il nostro appello, rivolto a tutte le cittadine ed i cittadini europei, e ai capi di stato e di governo che si riuniranno a Bruxelles il 12 e 13 dicembre.

Ci impegniamo affinché nella prossima campagna elettorale i partiti siano costretti a confrontarsi sul progetto di un’Europa neutrale, disarmata, solidale, nonviolenta.

Andò Valeria, Palermo
Baleani Marco, Gubbio
Beltrame Elena
Benzoni Giovanni, Venezia
Bonomi Rosa Pia, Verona
Brunelli Cristina, Verona
Candelari Paolo, Torino
Cannata Maria, Verona
Capitini Annamaria e Luciano, Pesaro
Clark Lisa, Padova,
Cristini Guido Mantova,
Dalbosco Giannina, Tregnago -VR-
Dall’agata Stefano, Treviso
De Battisti Biancarosa, S.Giovanni Lupatoto -VR-
Di Rienzo Maria, Treviso
Filippini Luigi, Gubbio
Forigo Luigi
Geneth Maria, Verona
Giuffrida Angela, Mirano -Ve-
Heyhwood Asma, Padenghe -BS-
Lanfranco Monica, Genova
Magistrini Silvia
Mantovani Marisa, Mantova
Melotti Lelia, Verona
Menapace Lidia, Bolzano
Menin Matteo, Padova
Moratto Adriano, Brescia
Pacifico Anna, Verona
Palombo Marco, Porto ferraio
Paronetto Sergio, Verona
Perna Franco, Padenghe -BS-
Pesenti Rosangela
Poli Ruggero, Sarezzo -BS-
Racca Piercarlo, Torino
Restivo Alessi, Rosanna
Rossi Luciana, Genova
Soccio Matteo, Vicenza
Valpiana Mao, Verona
Zanotelli Luisa, Rovereto -TN-

Convertirsi alla nonviolenza?
Credenti e non credenti si interrogano su laicità religione nonviolenza

Esce in questi giorni per i tipi de Il Segno dei Gabrielli editori (Verona) il libro Convertirsi alla nonviolenza?, a cura di Matteo Soccio. Il volume, molto atteso nell’area nonviolenta per l’estrema attualità degli argomenti dibattuti, contiene gli Atti del convegno di studio sul tema Laicità Religione Nonviolenza, tenuto a Perugia (Villa Umbra) l’11 Giugno 2002. Il convegno era stato promosso e organizzato dal Movimento Nonviolento, dal Movimento Internazionale della Riconciliazione, dall’ Associazione Nazionale “Amici di Aldo Capitini”, con il patrocinio ed il contributo della Regione Umbria. Pubblichiamo un estratto dell’introduzione al volume, scritta dal curatore.

Quante nonviolenze?

La violenza continua a trionfare, legittimandosi con l’ostentazione delle cause più nobili mentre non è che mancanza di rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dei popoli, sopraffazione, illegalità, ingiustizia, uso spregiudicato della forza militare, follia. Di fronte a questo spettacolo, tutto pervaso di violenze, non ci sono solo gli indifferenti, complici per omissione o per inettitudine, ci sono anche uomini sinceramente convinti che questo male assoluto della violenza si possa arginare ed eliminare sviluppando, nel pensiero e nell’azione, le risposte della nonviolenza. Non sono più minoranze insignificanti. Stanno crescendo di numero. Sempre più persone credono nella nonviolenza come mezzo efficace per far cadere le armi dalle mani dei violenti e hanno il coraggio di esprimere il proprio dissenso alla guerra e a tutte le forme in cui si manifesta la politica di violenza.
Ma il loro approccio alla nonviolenza non è uniforme e si presenta con motivazioni e modi d’espressione differenti. Scelte culturali, religiose, ideologiche, politiche condizionano e rendono visibili queste differenze e le apparenti incompatibilità di pratiche e alleanze. C’è chi, partendo da posizioni laiche e umanitarie, trova la violenza illogica e intende contrastarla perché riconosce il valore della vita umana e il diritto dell’altro al rispetto della sua integrità. C’è chi, avendo aderito ad una confessione religiosa, obbedisce ai suoi precetti e comandamenti, a incominciare da quello che dice “non uccidere!”. Partendo da questa prima obbedienza arriva a sviluppare una nonviolenza come esplicitazione della morale religiosa fondata sul timor Dei e sull’imitatio Dei, che dà fondamento alla fraternità tra gli uomini e all’amore per il prossimo come immagine vivente di Dio.
Spesso i credenti si sentono a disagio trovandosi a camminare su questa strada della nonviolenza accanto ai non credenti laici, razionalisti, o addirittura atei dichiarati. Lo stesso disagio provano i non credenti. Non è facile per i laici accettare comportamenti e punti di vista chiaramente confessionali o per gli anticlericali, “mangia-preti”, trovarsi a lottare per la stessa causa insieme ai preti. Spesso fanno fatica a capirsi e a trovare accordo su questioni fondamentali. Così, sul mercato delle offerte formative, sembrano apparire “nonviolenze” diverse, tanti modi di essere della nonviolenza che, a forza di insistere su religiosità e laicità, dividono gli amici della nonviolenza. Veramente, diverse questioni attuali, di etica e bioetica separano i “laici” dai “religiosi”, ma può accadere che a dividere sia il diverso modo di porre gli accenti sui fondamenti della nonviolenza. A volte gli uni irritano gli altri e s’incrina la possibilità di una collaborazione reciproca.
Per affrontare serenamente la questione delle differenze, esponenti dell’una e dell’altra posizione si sono ritrovati a Perugia l’11 maggio 2002, hanno dichiarato le proprie convinzioni, hanno dialogato, cercato risposte comuni, scavando nel pensiero dei maestri riconosciuti della nonviolenza. Abbiamo ascoltato credenti che si esprimevano come dei laici, mostrando nonostante la fede abbracciata, di non voler rinunciare a pensare e non credenti che non nascondevano la tensione religiosa implicita nella loro scelta della nonviolenza. È stata un’occasione importante per accorciare le distanze, scoprendo e ribadendo valori comuni, liberandosi di vecchi pregiudizi. La tematica comunque è stata affrontata al di fuori delle vecchie contrapposizioni storiche, politiche e ideologiche tra clericali e anticlericali, ed è rimasta sul piano civile di una cultura del dialogo e dell’impegno comune. I laici hanno fatto appello alla ragione, i credenti al loro Dio, ma il risultato è stato una riconferma di quell’ideale comune che chiamano nonviolenza[…].

L’incontro tra credenti e non credenti è possibile

Le differenze tra mondo laico e mondo religioso ci sono e non sono trascurabili. I credenti affermano il primato della fede e della trascendenza. Legano il proprio destino di verità ad una chiesa e la moralità delle proprie azioni all’obbedienza a voleri divini desunti dalla lettura di testi sacri e assunti come dottrina e insegnamento della propria chiesa, al di fuori della quale non è possibile la salvezza. I laici invece sentono come un problema l’appartenenza di qualcuno ad una comunità religiosa o chiesa perché pensano che questa adesione acritica ad una Verità assoluta, già data, comprometta la libera ricerca, l’esercizio del senso critico, la libertà di espressione, rendendo difficile l’apertura alle novità e alle trasformazioni del mondo moderno. Aggiungiamo inoltre la diffidenza nei confronti di una chiesa che non ha separato del tutto la religione dall’esercizio dei poteri politici.
Sembrano due mondi separati e inconciliabili. È possibile ridurre lo scarto? È possibile un riavvicinamento, un incontro?
[…] I laici di oggi non sono più i “laicisti” e anticlericali di ieri. Li troviamo più attenti alle problematiche della religione e ai valori della religiosità, più informati, meno condizionati da pregiudizi ideologici. Lo studio scientifico delle “enormi masse di vita religiosa”, esaminate con gli strumenti dello storico, del filosofo, del fenomenologo, del sociologo, dello psicologo, ha rivelato anche alla cultura laica la ricchezza di pensiero, di spiritualità, di contenuti valoriali, di risultati creativi che non si possono ignorare, tantomeno condannare tout court come forme di consolazione, evasione, superstizione o stravaganze. Anche la religione, dimessa dal reparto delle tossicodipendenze e assolta dall’accusa di spacciare l’oppio dei popoli, ha qualcosa da dare allo sviluppo e alla crescita morale dell’umanità.
I credenti di oggi (qui da noi: cristiani e cattolici) non sono più quelli di ieri. Sono meno dogmatici, gelosi della propria capacità di pensare e di cercare. Spesso rivendicano l’autonomia della propria coscienza di fronte alla loro stessa chiesa e sono critici nei confronti degli errori commessi in passato. Anche su questioni fondamentali, il loro punto di vista s’incontra frequentemente con il punto di vista dei non credenti. Giustamente Mario Martini fa notare, nel suo contributo, che laico può essere anche un cattolico, perché laicità è una forma mentis, «la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che invece è oggetto di fede».
L’incontro tra laici e credenti è possibile perché laicità è un nostro modo di porci nel mondo. Dopo il crollo delle grandi ideologie del XX secolo, su questa base (la laicità) si può costruire un nuovo umanesimo. Per questo, secondo Bonati, il termine laico non deve essere confuso con “ateo” o “anticlericale”. Anzi compito dei laici è quello di superare lo stesso “laicismo”, ricreando le condizioni della laicità. Pensiamo che questo stia già accadendo per merito non solo dei laici ma anche di cristiani impegnati che cercano di dare un senso alla propria professione di fede, ripensandola in modo critico e moderno e testimoniandola nell’impegno sociale e politico. Non ci può essere contrasto tra laici e credenti quando tutti si sforzano di rendere il mondo più giusto e meno violento. A rendere possibile questo ravvicinamento, un aiuto fondamentale l’ha dato Aldo Capitini, che nel suo pensiero ha fatto incontrare religione e laicità […].
Per Capitini, la religione, come “libera aggiunta”, aiuta a pensare e a vivere religiosamente al di fuori delle istituzioni, dei riti, delle chiese, non più indispensabili. È persuasione religiosa, che si traduce in impegni pratici, che “si aggiungono” ad altre attività umane e le trasformano. È “apertura”, un modo di fare aperto verso gli altri, tutti gli altri. Questa religione non è più circoscritta in una istituzione, non è più chiesa, sacerdoti, oggetti sacri e poteri carismatici, ma profezia. Con il suo atteggiamento profetico non è più l’antitesi ma l’integrazione della laicità perché anticipa le istanze umanistiche di liberazione, per cui la laicità si batte. La religione non è più accettazione, ripetizione, consacrazione del mondo così com’è, ma forza del cambiamento, riformatrice del mondo. Sono stati infatti secoli e secoli di lotte nel campo religioso che hanno dato vita ai concetti moderni e laici di apertura, libertà, socialità.
Capitini si chiedeva quale contributo avrebbe potuto dare la “vera” vita religiosa allo sviluppo della libertà e della giustizia. La sua risposta era: sentire la realtà di tutti, volere la liberazione di tutti, l’unità con tutti, l’amore verso tutti, l’apertura ad una realtà liberata, riconoscere che possiamo ritrovarci sempre più uniti, malgrado tutto.

Dalla “religione aperta” alla nonviolenza

Su questa via capitiniana della “religione aperta”, si arriva alla nonviolenza. La nonviolenza è al centro di questo processo di riavvicinamento, realizza la mediazione tra laicità e religione, permettendo di superare gli eccessi ideologici dell’una e dell’altra. La nonviolenza può essere una condizione pregiudiziale di collaborazione tra laici e religiosi e tra fedeli di religioni e chiese differenti. Può unire tutti al di sopra delle differenze. Dice il pastore valdese Eugenio Rivoir: «bisogna imparare la lingua degli altri per capirli, guardare con il loro sguardo. Ma se uso la violenza come farò a capirli?».
La spaccatura tra laicità e religiosità, che esiste nel pensiero occidentale dopo Kant, può essere sanata dalla nonviolenza, con la quale si può fondare una nuova religiosità e una nuova laicità. Con la nonviolenza laici e religiosi assumono un impegno costruttivo con cui si aprono alle esigenze della “realtà di tutti”. Questo farà sicuramente bene sia ai credenti che ai non credenti.
Per porre fine alle violenze nel mondo, la religione potrebbe far molto, e se questo non accade è colpa di molti uomini che si dicono religiosi. Anche la prospettiva laica potrebbe far molto e se questo non accade è colpa di molti che si dicono laici. È scandaloso che nel campo religioso molti siano occupati ad alimentare il rogo delle violenze, con il proprio integralismo e fondamentalismo. È altrettanto scandaloso che ci siano quelli che pensano di poter portare il mondo sotto il governo della ragione, sottomettendo gli uomini con la violenza. Sia i laici che i religiosi sono chiamati a collaborare per trasformare i metodi del cambiamento.
La nonviolenza è un altro metodo, un altro modo di affrontare i problemi d’oggi e dell’avvenire. Ci dispiace che questa forza sia racchiusa nei panni stretti e un po’ equivoci di una parola che ha nel prefisso una negazione (non-violenza). Il termine appare negativo, mentre invece il significato vuol essere positivo. Gandhi stesso si avvide delle difficoltà comunicative del negare invece dell’affermare e decise di rinominare la forma di lotta da lui elaborata, sulla base del principio della nonviolenza. La chiamò allora efficacemente satyagraha (forza della verità).
Alla base della nonviolenza c’è il riconoscimento che, al di là dei conflitti che ci dividono, c’è una comune essenza umana che ci unisce. Ci unisce più di quanto i conflitti ci dividano. Per poter riconoscere l’umanità che è in ogni uomo, anche nei “nemici”, la nonviolenza cerca soluzioni ai conflitti escludendo a priori il ricorso alla violenza. Questa esclusione, oltre a preservare l’essenza comune, stimola la ricerca dei mezzi giusti, quelli più coerenti con il fine, quelli che ci permetteranno di conseguire veramente i nostri fini, perché nella stessa scelta dei mezzi siamo più vicini alla verità.
Ma la nonviolenza richiede agli uomini che la scelgono un cambiamento di mentalità, di atteggiamento intellettuale, di orientamento nella vita. Questo cambiamento dev’essere profondo, radicale, vale a dire una conversione. È un tornare sui propri passi, cambiare direzione, cambiare rotta e dirigersi verso tutt’altro rispetto a ciò che sperimentiamo nella vita di ogni giorno. Dobbiamo sapere che possiamo essere qualcosa di diverso da quello che siamo, che le nostre azioni e i nostri rapporti possono mutare totalmente. Dobbiamo saperlo se non conosciamo ancora la nonviolenza. Dobbiamo saperlo se la conosciamo e non la mettiamo in pratica. La nonviolenza rappresenta una “tramutazione”, una rivoluzione categoriale, in tutti i campi della vita umana.
Quello della conversione è un tema centrale delle grandi religioni. È un invito a dirigersi verso un Dio, che non si conosce, o è un ritorno a Dio, dopo aver peccato. Ma è anche una metafora nel pensare laico: uscire dall’errore, riconoscere la falsa dottrina (ideologia), aprirsi a nuove ipotesi di verità, cambiare la propria condotta, riconvertire i mezzi, vale a dire misurarli eticamente.
Ci troviamo all’inizio di un processo pedagogico di trasformazione dell’umanità, nel suo insieme, la cui posta in gioco è altissima: la sopravvivenza di noi tutti e di tutto ciò cui diamo il più alto valore, la vita, la qualità della stessa, la qualità dei rapporti umani, il futuro stesso dell’umanità.
Quando gli uomini sono stanchi e disgustati della violenza, sia quelli che hanno scelto, come via breve del cambiamento il metodo violento, e si sono accorti di aver solo riprodotto e accresciuto il male che intendevano combattere; sia quelli che non hanno saputo cosa fare e sono rimasti impotenti e complici, possono trovarsi di fronte a questa via d’uscita, la nonviolenza. È il “varco attuale della storia”, come annunciò Capitini negli anni ’30, cioè l’uscita dalla spirale di violenza, dal circolo vizioso che ripete e riproduce i mali dell’uomo.
È il momento della “conversione”, del cambiamento di rotta, dell’assunzione di quella forza nuova, che sa trarre il bene dal male. Credenti e non credenti, laici e religiosi, tutti sono chiamati, per così dire, a convertirsi alla nonviolenza. Quella forza è stata già sperimentata da Gandhi, da Luther King, da Lanza del Vasto, da Capitini e da tanti altri. Si manifesta come una forte fede, una persuasione incrollabile, una responsabilità non eludibile, un comandamento non trasgredibile, capace di portare anche al sacrificio personale, come forma di testimonianza pura.

La nonviolenza è una “religione mascherata”?

A questo punto qualcuno incomincia a preoccuparsi del rischio che la nonviolenza assuma le caratteristiche di una nuova religione, anzi sia già una “religione mascherata”. Gloria Gazzeri, credente, cristiana, nelle sue Domande ai laici, paventa il rischio che la nonviolenza diventi una religione per chi non crede in Dio, una fede per gli atei e chiede chiarimenti ai laici, perché le sembra che la cosa abbia poco senso. Sostiene inoltre che la nonviolenza non sia concepibile senza la fede in Dio. Lo sostenevano anche Gandhi e Tolstoj, che erano riconosciuti da tutti come uomini di fede. Questo pensano gli amici della nonviolenza che professano una religione.
Forse non c’è motivo di preoccuparsi. Riconosciamo che le radici della nonviolenza sono da ricercare nelle esperienze religiose e nei testi sacri delle grandi religioni, in particolare nel testo evangelico, che l’ha esaltata. Anche i laici l’hanno scoperta e apprezzata nelle testimonianze di coloro che hanno creduto e sono stati capaci, nel nome del loro Dio, di sopportare persecuzioni, sofferenze, fallimenti, convinti che alla fine sarebbe venuto in loro aiuto il più potente degli alleati. Il seme gettato dagli spiriti religiosi del passato può crescere e svilupparsi, a condizione però che non venga trasformato in un dogma da abbracciare per fede, in un principio per soli credenti, cioè per quelli che si arrendono alla volontà di Dio e ripongono in lui tutta la propria speranza.
Il fatto che la nonviolenza sia oggi accettata da tanti non credenti, significa che è stata riconosciuta come un principio universale, valido per tutti, a qualunque religione o cultura si appartenga. Non è più solo un aspetto della vita religiosa: è anche una filosofia, un’etica, una teoria politica, una metodologia per la risoluzione dei conflitti.
La nonviolenza non richiede necessariamente una “fede”, ma soltanto la buona volontà di ricercare il bene e di attuarlo. Nel considerare il rapporto tra religione e laicità, Rocco Pompeo, nel suo contributo laico (Valore della laicità e tensione religiosa della nonviolenza), sostiene che il problema non è la “religiosità”, che può accompagnare o fondare la nonviolenza, ma la “religione” nella sua versione istituzionalizzata in una chiesa. La nonviolenza è una garanzia di “inclusione” perché mira all’universalità, non a fondare una chiesa esclusiva, cioè mira a coinvolgere nel processo di liberazione sia i religiosi che i non religiosi.
[…] Quando hanno scelto la nonviolenza e si trovano ad affrontare i problemi della violenza per trovare rimedi efficaci, laici e religiosi possono credere in verità diverse, possono non riconoscere lo stesso dio, nominarlo in modo diverso, o come laici non volere alcun dio, ma possono ritrovarsi nella persuasione comune. Nelle situazioni di conflitto il credente dice: in nome di Dio, amiamo il nostro nemico, che è nostro fratello! Il non credente dice: nel rispetto della verità, in nome dei diritti umani, fermiamo la violenza, favoriamo il dialogo, cerchiamo una soluzione nonviolenta del conflitto, facciamo giustizia! Entrambi dicono la stessa cosa. Riguardo alla nonviolenza non sono dunque accettabili rivendicazioni esclusive, riduzionismi, ghettizzazioni […].

Conclusione

La nonviolenza, praticata dai credenti e quella praticata dai non credenti non si escludono a vicenda. I credenti non devono andare a verificare se la nonviolenza dei laici corrisponda ai contenuti della propria religione, e i laici non devono andare a cercare nella nonviolenza dei credenti il riconoscimento dei principi della laicità. La ricerca è aperta. C’è una definizione di Capitini che dice: «la nonviolenza è apertura all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo di ogni essere». Solo in questa apertura c’è la possibilità di un guadagno di umanità e verità per tutti.
La nonviolenza, per chi l’ha scelta, ha la forza persuasiva di una religione o di una dimostrazione matematica, ma non è una religione e non è una scienza esatta. È una possibilità che l’umanità è venuta scoprendo da quando ha incominciato a provare disgusto di fronte alle manifestazioni di violenza e ha sentito il peso di questo errore.
[…] Al di là di ciò che può dividerli, gli amici della nonviolenza, si ispirino essi alla religione o alla laicità, hanno in comune questo mezzo, che aiuterà a sottrarre la Storia alla ripetizione circolare dei suoi errori. Può essere l’inizio di una storia nuova: quella degli uomini e delle donne di buona volontà.

Matteo Soccio

Convertirsi alla nonviolenza?
Credenti e non credenti si interrogano su laicità religione nonviolenza

A cura di Matteo Soccio

Il Segno dei Gabrielli editori, pp. 180, € 14.00

È uscito, presso Il Segno dei Gabrielli editori (Verona) il libro Convertirsi alla nonviolenza? Il volume contiene gli Atti del convegno di studio sul tema Laicità Religione Nonviolenza, tenuto a Perugia (Villa Umbra) l’11 Giugno 2002. Il convegno era stato promosso e organizzato dal Movimento Nonviolento, dal Movimento Internazionale della Riconciliazione, dall’ Associazione Nazionale “Amici di Aldo Capitini”, con il patrocinio ed il contributo della Regione Umbria. Riportiamo qui di seguito l’indice dei contributi.

Sommario

Introduzione di Matteo Soccio
Laicità religione nonviolenza di Mario Martini
L’opzione nonviolenta dei cristiani di Luciano Benini
Laicità di Gandhi nei suoi esperimenti con la verità di Matteo Soccio
Capitini e la religione nei limiti della semplice ragione di Ornella Pompeo Faracovi
Possono le religioni e le chiese allevare figli nonviolenti? di Eugenio Rivoir
Valore della laicità e tensione religiosa nella nonviolenza di Rocco Pompeo
Nonviolenza alla prova: le sfide “religiose” del presente di Mao Valpiana
Aldo Capitini riformatore religioso-politico di Antonino Drago
Danilo Dolci e la santità laica di Sandro Mazzi
Laicità e nonviolenza di Liviano Bonati
Domande ai laici di Gloria Gazzeri
Può chi non crede in Dio scegliere la nonviolenza? di Adriano Moratto
Credenti e non credenti di fronte alla nonviolenza di Luciano Capitini
Dieci tesi su “Religioni violenza nonviolenza” di Enrico Peyretti
Nota sugli autori

ALTERNATIVE
A cura di Gianni Scotto
Nuove esperienze di formazione: gli operatori per la pace

Il settore della formazione alla pace e alla trasformazione dei conflitti vive attualmente in Italia una fase di forte sviluppo. Nel mese di ottobre è partito a Bolzano il primo corso per “operatori per la pace” promosso dalla Formazione Professionale della Provincia autonoma e finanziato dal Fondo Sociale Europeo. Il corso viene realizzato in cooperazione dalla Fondazione Alex Langer, dal Centro Studi Difesa Civile, da Fields (organizzazione assai attiva nella formazione degli operatori umanitari) e da Avventura Urbana, associazione torinese che si occupa di progettazione urbanistica partecipata.
L’idea portante del corso è di fornire a persone interessate e dotate di una qualificazione di base le competenze necessarie a lavorare come operatore di pace in situazioni di conflitto a livello locale e internazionale, in particolare nelle aree dell’assistenza umanitaria e di cooperazione allo sviluppo. Proprio il fatto di essere collocato all’interno della formazione professionale rende questo percorso formativo assai diverso rispetto ai corsi di di laurea sulla pace nati negli ultimi due anni all’interno dell’università.
I contenuti didattici ricalcano quelli del primo corso di questo genere tenutosi nel nostro paese, organizzato dal Centro Studi Difesa Civile e dal Comune di Roma nel 2002. Il corso di Bolzano è suddiviso in cinque grandi aree tematiche: forme di gestione costruttiva dei conflitti, promozione dei processi di pace, aiuti umanitari, cooperazione allo sviluppo, diritti umani e giustizia riparativa.
Nel progettare il corso si è cercato di prestare attenzione al profilo professionale degli operatori di pace, o meglio di quelle figure professionali che oggi operano concretamente in situazione di conflitto e che possono essere ricondotte alla professione di operatore di pace.
L’impresa non è semplice, in primo luogo perché, pur avendo un background comune, si tratta in realtà di profili professionali differenziati: nel caso dell’azione umanitaria e della cooperazione allo sviluppo, la formazione di operatori di pace costituisce in realtà un innesto su un nucleo di conoscenze e competenze pratiche relativamente ben strutturato. In questo caso la formazione mira in primo luogo a sensibilizzare gli operatori all’impatto dei progetti umanitari o di sviluppo sulle dinamiche dei conflitti all’interno dei quali si lavora. Questo filone di riflessione viene ricondotto al progetto di ricerca “Do no harm”, promosso alcuni anni or sono da Mary Anderson. Simile è il caso degli operatori giuridici, che sono chiamati a riflettere le problematiche della giustizia e dei diritti umani sotto il nuovo punto di vista della trasformazione dei conflitti.
Il discorso per gli operatori di pace “puri” – cioè coloro che intendono influenzare direttamente le dinamiche del conflitto nel senso della prevenzione della violenza e della ricerca di soluzioni adeguate ai conflitti con mezzi pacifici – è alquanto diverso. Anzitutto questa professionalità, a differenza delle altre, sta acquistando solo lentamente un profilo riconoscibile e distinto. A questo carattere di novità, embrionale, si aggiunge una manifesta eterogeneità delle conoscenze e competenze richieste. Capacità di analisi politica, di progettazione, ma anche di empatia e di ascolto attivo vanno senz’altro annoverate nel bagaglio degl operatori di pace. Le competenze riconducibili alla mediazione e alla promozione del dialogo tra le parti in lotta non possono esaurirne il profilo: gli operatori dovranno essere anche in grado di suscitare processi di capacitazione tra coloro che della violenza e della guerra sono vittime, per permettere a vaste fasce di popolazione di iniziare a lottare per la pace e la difesa dei loro diritti. In sintesi: la tradizione della nonviolenza con il suo potenziale di suscitazione di energie positive deve accompagnarsi alla tradizione della mediazione e della trasformazione creativa dei conflitti.
Il corso di formazione professionale di Bolzano cerca di rispondere a queste esigenze molteplici ed è fortemente orientato alla pratica. La didattica si incentra sui metodi della formazione alla nonviolenza e sull’apprendimento di strumenti concreti ad esempio nel campo della progettazione degli interventi e nel reporting. Un periodo di tirocinio sul campo completerà la formazione in aula.
È in fase di lancio una convenzione interregionale che permetterà di finanziare una approfondita analisi dei fabbisogni di questa figura professionale nel nostro paese. Inoltre, la convenzione permetterà ad altre regioni di replicare con facilità questo percorso formativo. Al momento segnali di grande interesse al corso vengono dalle Marche e dalla Campania. È augurabile che anche presto altre regioni seguano l’esempio di Bolzano e dell’Alto Adige/Sudtirolo.

L’Azione
A cura di Luca Giusti

Digiuno a sola acqua per una finanziaria di pace

Padre Angelo Cavagna, dehoniano, presidente del gruppo Autonomo di Volontariato Civile in Italia (GAVCI), ci parla del digiuno che ha condotto dal 27 ottobre al 14 novembre.

Parlaci innanzitutto dei contenuti di questa azione
In circa vent’anni di Finanziaria rigorosissima (“bisogna tagliare, bisogna tagliare!”), i tagli si sono abbattuti quasi sempre sulle spese sociali e quasi mai su quelle militari. E’ l’ora di invertire la tendenza.

Cosa significa “digiuno a tempo indeterminato salvo la vita”?
Io sono contrario in modo assoluto a qualsiasi uccisione di una persona umana, quindi alla guerra, all’omicidio, all’aborto, all’eutanasia e anche al suicidio. Con le parole “salvo la vita”, intendo “salvo danni alla salute di carattere irreversibile“. Cioè non voglio restare con il cuore indebolito, il fegato spappolato ecc. Il dottore mi deve bloccare quando c’è qualche pericolo serio al riguardo. Così ha fatto e io obbedisco.

Il tuo fisico come ha reagito?
Direi abbastanza bene. Lo dimostra il fatto che il medico mi ha fermato solo alla vigilia del ventesimo giorno. La prima volta che feci un simile digiuno, a sola solissima acqua, feci 27 giorni. Ma avevo almeno vent’anni in meno.
Ho continuato a fare i miei lavori normali: ministero, conferenze, articoli e anche un po’ di orto, quasi senza problemi. Ho solo rinunciato a guidare l’auto, per prudenza.

E’ un’azione isolata o inserita all’interno di una campagna?
Io e coloro che aderiscono in qualche forma al digiuno, appoggiamo sbilanciamoci (http://www.sbilanciamoci.org), una campagna promossa da vari enti con specialisti e parlamentari, che studia la proposta governativa e propone modifiche specifiche su determinati articoli. In particolare io pongo l’accento su due voci: la cooperazione internazionale, quasi azzerata, e il Servizio Civile degli obiettori.

Questi sono dunque i tuoi obiettivi particolari; quali le tue motivazioni più personali? Nei tuoi documenti accenni a una doppia motivazione: civica e religiosa…
L’art. 11 della Costituzione è chiaro: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo per la risoluzione delle controversie internazionali”. Ora, i governi italiani, non solo l’attuale ma anche i precedenti, hanno condotto l’Italia a partecipare alle guerre per risolvere le controversie internazionali e persino alle guerre di attacco, perché chiaramente mirate a soddisfare i propri interessi, camuffandole se mai di nobili ideali.
Anche in casi di legittima difesa, propria o altrui, esiste l’alternativa alla guerra, che è: la difesa popolare nonviolenta. In campo politico e anche socio – culturale si parla poco o niente di nonviolenza, quasi fosse un tabù. Invece ha scritto pagine storiche magnifiche. E’ ora di rendersene conto.

E le motivazioni religiose?
La chiesa dei primi tre secoli aveva una posizione chiara: “Sono cristiano; non posso fare il soldato”. E ciò non solo per il pericolo del giuramento idolatrico, come alcuni si ostinano ad affermare, ma anche per il “non uccidere”, come letteralmente si legge nella “Dottrina Apostolica” di Ippolito romano, opera che rifletteva la prassi della Chiesa mediterranea, a partire da Roma. Purtroppo con l’imperatore Costantino, favorevole ai cristiani, venne abbozzata la cosiddetta “Dottrina della guerra giusta”, giunta fino ai nostri giorni.
Esiste un spinta di ritorno alla nonviolenza dei primi secoli, che ha trovato sostanziale accoglimento nel Catechismo Cei “La verità vi farà liberi” (pp. 491 – 494 e 528 – 529, cc. 26 e 28). Ma c’è ancora molta strada da fare.

Come hai lanciato la notizia sui media?
Inviando comunicati stampa per internet e fax, e con un’apposita conferenza stampa, il 5 novembre. Inoltre i documenti inerenti a questa campagna dei digiuni per una finanziaria di pace si possono trovare sul sito del GAVCI (http://users.peacelink.it/gavci).

Solidarietà e adesioni?
Abbastanza bene, direi. I primi sono stati un gruppo di parlamentari. Ben presto si sono aggiunti sia singoli che gruppi a staffetta; diversi si sono impegnati a digiunare un giorno e persino due ogni settimana, sino a finanziaria terminata. Speriamo che i parlamentari non facciano orecchi da mercante.

EDUCAZIONE
A cura di Angela Dogliotti Marasso
La mia storia, la tua storia, il nostro futuro

Un gioco di ruolo per comprendere le ragioni del conflitto tra Israele e Palestina

Due ragazzi si danno le spalle, seduti sulla terra, appoggiati allo stesso albero. Non ci fosse il fusto, il loro sarebbe un contatto fisico. C’è invece una barriera naturale a separarli, così che ognuno può pensare di ignorare o di non riconoscere l’altro.
È l’immagine di copertina di La mia storia, la tua storia, il nostro futuro, un gioco di ruolo ideato da Angela Dogliotti Marasso e Maria Chiara Tropea per avvicinare i ragazzi alle ragioni del conflitto mediorientale.
Il gioco si propone di offrire agli studenti la possibilità di impersonare e dare voce a esponenti delle società israeliana e palestinese, e a persone di altri paesi coinvolte nei problemi dell’area.
Come in tutti i giochi di un certo livello, per partecipare occorre essere competenti. Ecco allora le autrici proporci una scelta di materiali ricca ed essenziale: una cronologia dall’inizio del secolo al 6 settembre 2003, un glossario per le parole “difficili” o nelle lingue araba ed ebraica, quattro cartine del territorio per seguirne le trasformazioni dal ’47 ad oggi e, ancora, una mappa dei punti controversi nel confronto tra le versioni israeliana e palestinese e un’antologia di testi che propongono una soluzione nonviolenta.
Il gioco permette di studiare e approfondire, in modo coinvolgente e appassionante, i molti perché del conflitto ripercorrendone la storia e arrivando fino ai giorni nostri, alla seconda Intifada, alla guerra per l’acqua, alla costruzione del muro. Mancano i giudizi e le condanne a priori rispetto all’una o all’altra parte. È in primo piano invece la molteplicità delle posizioni, la presenza di molte buone ragioni in ognuna di esse, il bisogno di difendersi e la paura, e per entrambi i popoli la mancanza di un luogo di accoglienza e di pace. In positivo, questo strumento è orientato affinché i ragazzi e le ragazze possano conoscere le molte voci fuori dal coro che nelle società israeliana e palestinese vogliono indicare una strada per la pace, e riescano ad intravedere nella complessità e drammaticità della situazione segni e motivi di speranza, possibilità di dialogo tra le parti, spunti e realtà di riconciliazione.
Giocare non è difficile ma ci vuole cura, apertura mentale, disponibilità a entrarci davvero tutti interi, con emozioni e pensieri. Il tutto si svolge all’incirca in 3 giornate di scuola: 4 ore per la preparazione del gioco, 4 ore e mezzo per la prima sessione di gioco, 6 ore per la seconda.
Nell’avvio è fondamentale il ruolo degli insegnanti o degli animatori nel presentare la metodologia del gioco e lo scenario del conflitto. Vengono poi introdotti i personaggi che gli studenti assumeranno personalmente, ricevendo ognuno una delle 34 schede che le autrici hanno predisposto. Sono in tutto 14 ebrei israeliani, 14 palestinesi e 6 internazionali, immaginati o liberamente ispirati a persone realmente esistite o tuttora viventi. Di ognuno vengono presentati la storia, la posizione nel conflitto, quello che potrà raccontare. Mancano i politici, dell’area e internazionali. Ci sono invece gli esponenti di una società civile estremamente sfaccettata e multiforme: operatori di ONG, medici, giornalisti, militari, figli o genitori di vittime della guerra, testimoni del passato, costruttori di pace. (Mentre scriviamo, nell’incontro con gli studenti e nella pratica del gioco sono nati altri personaggi, presenti sul sito www.arpnet.it/regis).
Nella prima fase del gioco si esplora il passato. Ogni parte in conflitto racconta la storia dal proprio punto di vista. Il passaggio successivo, con l’aiuto degli internazionali, sarà comprendere ognuno il punto di vista dell’altro e costruire una narrazione condivisa.
La seconda sessione è volta alla ricerca di soluzioni possibili e si struttura nella analisi dei problemi, nella scelta di una questione ritenuta nodale e nella successiva ricerca di un percorso che risani quell’aspetto del conflitto e conduca al miglior esito per tutti gli attori in gioco. È interessante notare come questo movimento possa avvenire a partire dal presente o a partire dal futuro, a seconda che si scelga di porre le basi dell’intervento nel presente, per poi proiettarsi in avanti, o di prospettare uno scenario futuro, cercando poi di capire quali premesse hanno dato luogo ai risultati sperati.
Nella finzione del gioco tutte le vie possono essere tentate, le più utopistiche come le più distruttive, purché con l’onestà di riconoscere, caso per caso, le possibili conseguenze di dolore o di liberazione.

Elena Buccoliero

Il libro “La mia storia, la tua storia, il nostro futuro”, di Angela Dogliotti Marasso e Maria Chiara Tropea, Edizioni Gruppo Abele, 2003, Torino, pag. 95, € 9,00, è in vendita presso l’Amministrazione di Azione nonviolenta.

LILLIPUT
A cura di Massimiliano Pilati
Una politica locale per darsi dei limiti

Riflessioni e proposte dalla Rete di Lilliput del Trentino per una politica (e uno sviluppo) più sostenibile.

“Il Trentino che vorremmo” è il documento di riflessioni e proposte per una politica provinciale più sostenibile che alcune associazioni della Rete di Lilliput del Trentino hanno presentato e inviato a tutte le forze politiche in vista delle elezioni provinciali dello scorso 26 ottobre.
“Compito della politica è progettare il futuro in modo che un futuro ci possa essere” si legge nella premessa del documento, “e allo stesso tempo essere in grado di immaginare scenari nuovi, diversi”. Per questo, il testo contiene visioni di lungo respiro e proposte concrete, frutto della riflessione dentro le associazioni e della pratica quotidiana di persone e gruppi che credono che ciascuno è responsabile del bene di tutti.
Punto di partenza dell’analisi è una lettura critica del modello di sviluppo che ha guidato le scelte politiche del Trentino fino ad oggi. E’ un modello che ha avuto forse successo nel garantire ricchezza e lavoro, ma che mostra i suoi limiti in diversi aspetti della sostenibilità tanto auspicata: fra tutti, il versante ambientale e quello sociale. Ne sono indicatori eloquenti l’impronta ecologica, i dati sulla povertà e la scarsa partecipazione dei cittadini alla vita politica. E’ proprio il desiderio di contribuire ad un processo di condivisione e di partecipazione che ha portato le associazioni trentine della Rete Lilliput alla costruzione del documento.
Le associazioni si rendono conto di essere, in quanto società civile, “altro” dal mondo politico, non tanto perché non si occupano delle stesse questioni, ma perché lo fanno in modo diverso. Non sono infatti dei decisori. Intendono però portare all’attenzione e alla riflessione di tutti questioni che riguardano il bene comune, ovvero l’oggetto stesso della politica.
Sostenibilità ambientale, pace, nonviolenza, cooperazione internazionale, questioni sociali ed economiche sono i temi toccati da questo corposo documento, senza pretesa alcuna di essere esaustivo.
Tra le proposte concrete trovano spazio suggerimenti semplici come: favorire gli spostamenti con mezzi leggeri a valenza urbana (bici e autobus), rendere più efficace il sistema di raccolta differenziata dei rifiuti, investire risorse nella cooperazione allo sviluppo, promuovere una legge antidiscriminazione, favorire i progetti di adozione e affido familiare…; ma anche progetti più ambiziosi, quali: l’istituzione di un car sharing, la costruzione di impianti di compostaggio sul territorio provinciale, la previsione dell’”aspettativa di pace” per coloro che intendono far parte di corpi civili di pace, favorire l’autoproduzione di beni e servizi, costruire un marchio di qualità per la produzione agricola locale che segua criteri di “biologicità” ed eticità del processo di produzione, affidare la gestione dei conflitti sociali ad operatori civili esperti nella risoluzione nonviolenta, piuttosto che alla forze dell’ordine.
Ciò che accomuna queste proposte è in primo luogo una certa visione dello sviluppo che mette la crescita economica in secondo piano (anzi, arriva a non auspicarla, se questa significa ulteriore sacrificio di risorse ambientali cruciali) rispetto alle persone e all’ambiente. E’ il concetto di “limite” che guida le riflessioni. Limite inteso non come sacrificio o rinuncia in nome di una austerità ideologica, ma “limite” inteso come riflessione critica sui danni che la crescita illimitata ha fino ad ora provocato e sulle risorse che sono indispensabili ad una società capace di futuro. “Limite” che non significa ritorno al passato né rinuncia ad una migliore qualità della vita. “Limite” che può invece portare a valorizzare le questioni che portano ad una migliore qualità della vita – ovviamente non più misurabile solo in termini di ricchezza posseduta e beni utilizzabili -, sulla base di un profondo ripensamento degli indicatori che questa qualità possono misurare.
“Il Trentino che vorremmo” è un documento che richiede alla politica di trovare mediazioni e nuove soluzioni entro lo spazio del pubblico, invece che tentare continuamente di spartire la torta tra diversi interessi privati.
Questa riflessione si rivolge ai responsabili della politica provinciale dei prossimi cinque anni, ma anche ai cittadini che ne saranno i protagonisti.
Per chi fosse interessato l’intero documento è scaricabile al seguente link: http://www.unimondo.org/retelilliputtn/DocLilliputTN2003.zip

Antonella Valer e Massimiliano Pilati

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
Giochi da adolescenti: uccidere per divertimento

ELEPHANT di Gus Van Sant, USA 2003 – Palma d’oro/Miglior Regia Festival di Cannes 2003

Una domenica d’inizio autunno: in sala, sullo schermo, scorrono ancora i titoli di coda dell’ultimo film di Gus Van Sant; fuori, all’ingresso della sala, davanti alla locandina del film lei, perplessa, domanda a lui: “ …Miglior film al Festival di Cannes…sono io che non ho capito nulla o sono quelli che lo hanno premiato ad aver preso un abbaglio?”
Risponde, sicuro e baldanzoso, lui: “…e me lo chiedi? Come si fa a premiare un film simile!”
Più o meno la stessa negatività di opinione, da parte del pubblico, l’avevo percepita circa un anno fa dopo la proiezione de «Il figlio» dei fratelli Dardenne, anch’esso premiato a Cannes. Al di là della superficialità di giudizio dell’ineffabile “coppietta”, («Elephant» è un buon film e la Palma a Cannes non fa certo gridare allo scandalo!) il pubblico, accomunando nella valutazione negativa questi due film, ne ha implicitamente colto gli elementi di analogia: uno fra tutti, l’uso godardiano del piano sequenza; la macchina da presa che insegue i protagonisti, spesso alle spalle, per quasi tutta la durata del film (un po’ come Eric insegue vittime virtuali con la pistola/joystick del suo videogames). Restituendo allo spettatore una modalità di visione “scomoda”, reiteratamente ravvicinata agli oggetti scopici, ossessiva e pedinatrice. Entrambe le opere si propongono di aprire una “finestra” sul mondo dell’adolescenza attraverso uno sguardo oggettivo e distaccato; in «Elephant», ad esempio, vi sono scene in cui la macchina da presa, raggelata in una fissità che confligge con i già citati frequenti piani sequenza, appare limitarsi a riprendere ciò che le si squaderna davanti, quasi per caso e senza partecipazione agli eventi. I dialoghi e la colonna sonora vengono sottoposti ad un processo di rarefazione e prosciugamento, perché ciò che interessa è l’oggettività del fatto colto nella sua asciutta e cruda essenzialità. E il fatto (di cronaca) che fornisce lo spunto per il film di Van Sant è di quelli che la società americana non ha ancora metabolizzato: due adolescenti entrano in un college (la Colombine High School già “raccontata” da Michael Moore in «Bowling for Columbine») equipaggiati di una piccola “Santa Barbara” costituita da vari modelli di armi da fuoco e da taglio acquistati in precedenza via Internet e, “per divertirsi” fanno strage dei loro coetanei. A differenza di Moore, Van Sant non è interessato a compiere un’analisi di tipo politico-sociologico delle molteplici cause che condussero all’eccidio; gli interessa, altresì, riprodurre in maniera fredda e distante la “scatola chiusa”, il college al centro della vicenda, con la sua ineffabile pulizia, l’ordine e la geometria labirintica dei suoi “kubrickiani corridoi, la varietà e l’avanguardia delle proposte extradisciplinari e infine, con i suoi fruitori, gli studenti; pedinati nell’agire quotidiano, ciascuno con il proprio tic più o meno inquietante: dalla passione dilettantesca e quasi maniacale per la fotografia del biondino, ai primi sintomi di anoressia delle tre teenager che “sbavano” per il compagno già fidanzato; dall’andirivieni goffo e ingobbito della bruttina di turno, al silenzio rabbioso di Alex, contro il quale i compagni di classe gettano palline di carta igienica imbevute nella saliva. Ed è proprio l’urlo, per troppo tempo soffocato, del suo fucile ad aprire il vulnus nascosto tra le pieghe sottili del suo universo interiore e a farne scaturire un pus putrido e virulento.
La tragedia e i suoi prodromi vengono ricostruiti da Van Sant con agghiacciante esattezza: il suo è “cinema puro”, talmente aderente al dato oggettivo del reale da sfociare in una allucinata astrazione di corpi, suoni e colori. Quella visione impressionistico-fotografica simile al processo che più di un secolo prima aveva condotto Renoir a tradurre l’osservazione precisa e minuziosa delle ninfee del suo giardino, in incorporei riflessi di luce e colore.
Ma in tutta questa abilità di stile e capacità di dominare il linguaggio filmico e nella dichiarata volontà di esimersi dal didascalico e dai processi di causalità fautori di tale inconcepibile violenza, risulta contraddittoria e incoerente con il disegno complessivo la volontà di spiegare, in maniera oltretutto abbastanza semplicistica, i risvolti nazi-omosessuali di Alex e Eric e il loro astio pregresso nei confronti dell’autorità scolastica; e il dito medio alla fine dell’esecuzione al piano del pezzo di Beethoven uno come Van Sant ce lo poteva anche risparmiare.
Gianluca Casadei
Cooperativa FuoriSchermo – Cinema & Dintorni

MUSICA
A cura di Paolo Predieri
L’impegno degli U2 per la pace a Sarajevo

Un concerto rock può essere riuscito a fermare una guerra? Non risulta esattamente questo, ma sicuramente ci sono esempi di eventi musicali che hanno giocato ruoli importanti non solo dal punto di vista simbolico in situazioni di pesante conflitto. Un caso esemplare è stato documentato di recente e per questo ne possiamo parlare. Protagonisti Bono e gli U2, artefici nel corso della loro ultraventennale carriera di svariate iniziative ecopacifiste, anche con azioni dirette nonviolente rischiose ed eclatanti. Ultimamente certe loro dichiarazioni a volte ambigue, a volte deludenti, non possono far dimenticare quanto realizzato in precedenza con un sapiente e non scontato coinvolgimento dei meccanismi del mondo dello spettacolo, mettendo in gioco l’enorme popolarità acquisita ovunque..

Il fatto

La sera del 23 settembre 1997 gli U2 suonano a Sarajevo, preceduti da un gruppo punk locale uscito direttamente dalla cantina-sala prove; questi ultimi, pur dichiarando di non apprezzare la musica del quartetto irlandese, accettano di dare voce ai musicisti bosniaci. Il conflitto è formalmente concluso, ma la città è ancora disseminata di mine e continua a vivere un clima di altissima tensione. All’interno dello stadio, oltre alle forze militari internazionali presenti nella regione, si riuniscono 50000 spettatori, donne, uomini, anziani e giovani di etnie croate, serbe e bosniache musulmane che fino a quel momento (e anche successivamente) erano state in guerra.

Il luogo

La scelta dello stadio Kosevo di Sarajevo è altamente simbolica: proprio lì nel 1991 scoppiarono i primi incidenti durante una partita di calcio fra Stella Rossa di Belgrado e Dinamo Zagabria e, durante la guerra, servì da campo di raccolta dei prigionieri bosniaci.

La preparazione

Negli anni precedenti in giro per il mondo con lo Zooropa Tour, gli U2 si erano impegnati contro la guerra proiettando nel corso di ogni concerto immagini e collegamenti da Sarajevo. Nella tragedia della città venivano evidenziate le contraddizioni dell’Europa e del mondo occidentale dopo la caduta del muro di Berlino.

L’esito

Il concerto si conclude senza incidenti di alcun genere, neanche una scazzottata; viene seguito da televisioni di tutto il mondo e diventa un grande evento mediatico. Sarajevo, simbolo delle distruzioni e della guerra nella ex jugoslavia annuncia il ritorno della normalità e offre un segno di ricongiungimento all’Europa da parte di una città e una regione dove la normalità per diversi anni è stata il fragore delle esplosioni. Un “banale concerto rock” ha annullato le differenze che la diplomazia internazionale non aveva saputo o voluto sanare…

La cronaca, corredata da abbondante e minuziosa documentazione è raccolta nel libro “U2 a Sarajevo”, scritto dal giornalista Marco Denti per la Selene Edizioni che, uscito alcuni mesi fa, ci ha dato l’occasione di analizzare questo momento importante di azione musicale per la pace.

www.edizioniselene.it
www.u2.com

STORIA
A cura di Sergio Albesano
Obiettori totali e disertori per la libertà individuale

Nel numero di luglio 1996 la rivista “Senzapatria” riportava le lettere di Saverio Ciancio e di Carlo Elio Voltolini. Il primo comunicava di aver deciso di non voler prestare il servizio civile, da lui precedentemente richiesto in sostituzione del servizio militare, poiché riteneva che esso non fosse altro che la negazione della sua libertà di individuo, capace di gestire autonomamente la propria vita e soprattutto la propria libertà. Il secondo dichiarava di rifiutare l’obbligo del servizio militare di leva e l’alternativa obbligata del servizio civile, per motivi di coscienza, etici e filosofici, e di scegliere l’obiezione totale assumendo le responsabilità che questa comporta. Egli concludeva la sua lettera con le seguenti parole: “Credo nelle scelte radicali. Essere radicali significa andare alla radice delle cose. Ma alla radice dell’uomo c’è l’uomo stesso.”
Il 7 agosto la seconda rete della R.A.I. trasmise un’interessante inchiesta d’attualità sul tema: “Servizio militare e servizio civile”. Furono intervistati soldati, volontari dell’esercito e obiettori di coscienza, che prestavano il loro servizio presso la Caritas e i salesiani.
Il 19 agosto a Torino fu fermato dai carabinieri e immediatamente arrestato Marzio Muccitelli, disertore anarchico. Muccitelli, subito rinchiuso nel carcere civile delle Vallette per scontare una condanna di due mesi per un’occupazione effettuata a Pescara, fu condannato a otto mesi di carcere militare per diserzione. Egli dichiarò: “Verso la fine del CAR mi ero accorto che la vita militare mi stava trasformando. I gesti, le azioni, persino i pensieri, diventavano meccanici. Sentivo che la mia individualità si stava spegnendo lentamente, che una garrota invisibile manovrata da un boia, altrettanto invisibile, strozzava la mia coscienza. Era naturale; quando i giorni si susseguono uguali, quando devi fare sempre le stesso cose, a che ti serve una coscienza, un’individualità? (…) Io che sono uno spirito libero e non ho voglia di sottomettermi a nessuno ho scelto la strada più logica e, perché no, più divertente per esprimermi: ho disertato. La sera del 17 gennaio ho preso le mie cose, sono uscito e mi sono scordato di rientrare” (1). Muccitelli richiese alla procura militare di La Spezia la conversione della pena militare in civile. Infatti la detenzione in un carcere militare lo avrebbe portato a scontrarsi nuovamente con quella serie di regole e riti (divisa, cubo, barba e signorsì), che con la sua scelta aveva già rifiutato. Nel mese di novembre Muccitelli fu trasferito nel carcere militare di Forte Boccea a Roma. All’epoca del suo arresto a Torino si ebbero manifestazioni di protesta, durante le quali furono deturpati monumenti e muri; in particolare furono lanciate uova colorate contro la facciata del duomo appena restaurata. Di conseguenza furono fermati e arrestati quattro ragazzi. Due furono rilasciati dopo un giorno, mentre altri due furono processati per direttissima per danneggiamento e imbrattamento. Uno dei giovani fu condannato a un anno con la condizionale, mentre il secondo, Marco Avataneo, che aveva appena finito di scontare una pena agli arresti domiciliari, fu trattenuto in attesa di un nuovo processo che si tenne il 18 settembre. Accusato anche di resistenza e oltraggio, fu condannato a un anno e quattro mesi senza condizionale, ma già il 15 ottobre seguente veniva scarcerato. Altre manifestazioni di solidarietà si svolsero a Bologna e a Trieste. In quest’ultima città il cippo di san Giusto, monumento ai bersaglieri, fu deturpato con una scritta effettuata da ignoti, che collocarono anche una finta lapide in cui si inneggiava ai disertori (2).
Il 20 agosto alla Caritas di Torino furono assegnati di nuovo gli obiettori, compresi quelli di luglio, che nel frattempo avevano lavorato per un mese in altri enti. Inoltre il ministero dichiarò che le assegnazioni sarebbero state regolari anche per il mese di settembre.
Nel mese di agosto il Consiglio di Stato diede torto al ministero della difesa e in particolare ai funzionari della Direzione generale della difesa, per i quali colui che si droga è violento e quindi non può svolgere il servizio civile. Ciò nonostante continuarono a essere respinte diverse domande, con la motivazione che il candidato era “stato segnalato come facente uso di sostanze stupefacenti”. Il ridicolo della faccenda era dato dal fatto che il giovane, la cui domanda di obiezione fosse respinta per uso di sostanze stupefacenti, avrebbe dovuto poi svolgere il servizio militare, per il quale era prevista la dispensa proprio per “tossicodipendenza” (3).

(1) Cfr. “Senzapatria”, n° 53.
(2) Cfr. “Il Piccolo”, 15 settembre 1996.
(3) Cfr. “Fogli di collegamento degli obiettori”, ottobre 1996.

LETTERE
Redazione: via Spagna 8, 37123 Verona

La grazia a Sofri, vista da un cella

Da una parte il Ministro Castelli, la destra, la sinistra, il centro. Dall’altra parte Sofri, Ciampi, la Chiesa, i detenuti e le vittime. Arbitro è Dio, inascoltato.
Purtroppo la partita non è delle più belle, continuano a mancare i goals d’autore, mentre gli autogol da usura intellettuale imperversano.
Leggo di tanti uomini che scambiano il bisogno di allontanarsi da qualcosa di negativo, con il desiderio di andare verso qualcosa di nuovo offrendo il fianco per una causa nobile e giusta, e indipendentemente dalla strumentalizzazione che il caso Sofri alimenta, questa marmellata di parole e pronunciamenti, non è di oggi, ma dell’altro ieri.
Per questa “grazia” in verità mai richiesta, perché Sofri si dichiara innocente, poco o nulla s’è fatto, anche se molto se ne è parlato, proprio come adesso, che al Governo c’è la destra e in Parlamento c’è pure la sinistra, tenendo ben presente che ribaltando i soggetti di cui sopra, abbiamo il film proiettato qualche tempo addietro.
E allora perché questo Governo dovrebbe accettare un’eredità imposta e non condivisa? Perché dovrebbe risolvere un nodo storico che non le appartiene, e slegare una zavorra che la sua antitesi politica non ha voluto impegnarsi a sciogliere?
Si potrà obiettare che impedimenti di ordine tecnico e giuridico hanno fatto sì che tale argomento restasse a mezz’aria. Sta di fatto che ora il fardello è rimpallato alla destra, senza alcun gioco di sponda né di buca, ma in maniera diretta e frontale.
Penso che nessuno abbia ragione da solo e nessuno si salvi da solo, occorreva ieri, e a maggior ragione occorre oggi, più coraggio per ciò in cui si crede, e avere più coscienza di sé, come consapevolezza dei propri limiti, delle proprie capacità, delle proprie emozioni-sentimenti, e soprattutto percepire sulle proprie spalle la responsabilità del comunicare a chi ci osserva, in particolar modo quando costui è più giovane o in una situazione di sofferenza.
Grazia, amnistia, indultino e pena certa che per molti detenuti ormai dura da trent’anni, ma mai come in questo momento vale il detto: smuovo tutto, chiedo tutto, per non spostare né concedere niente.
Grazia per Sofri, per gli uomini che cambiano (colpevoli e innocenti ), perché l’uomo della pena non è più l’uomo della condanna: ciò, nonostante il carcere mantenga perversamente il suo meccanismo di deresponsabilizzazione e infantilizzazione, di maggior riproduttore di sottocultura.
In questa condanna alla condanna, ci sono attimi che attraversano l’esistenza dell’uomo detenuto, e proprio nel sapere, nella ricerca della propria dignità, nasce l’esigenza di un’autoliberazione possibile e non più prorogabile.
Anche all’interno di una prigione, la vita può riservare incontri con se stesso e con gli altri, che disotturano le intercapedini dell’anima: le visioni unidimensionali, gli assoluti, i vicoli ciechi si sgretolano, nei disvalori che sono sempre stati.
Chi sbaglia e paga il proprio debito con decenni di carcere, attraversa davvero tempi e contesti di un lungo viaggio di ritorno, lento e sottocarico, fino a far scomparire l’uomo sconosciuto a se stesso, in uomini nuovi che tentano di riparare al male fatto, con una dignità ritrovata, accorciando le distanze tra una giusta e doverosa esigenza di giustizia per chi è stato offeso, e quella società che è tale perché offre, a chi è protagonista della propria rinascita, opportunità di riscatto e di riparazione.
Si parla oggi come si è parlato ieri del caso Sofri, ritengo sia un atto coraggioso, oltre che giusto, non solo per l’uomo che tutt’ora si dichiara innocente, ma anche e soprattutto per la ricerca di una Giustizia giusta ed equa, una Giustizia che è anche perdono, come ebbe a sottolineare il Papa, e che comprenda un granello di pietà, perché la pietà non è un atto di debolezza per i tanti uomini che in un carcere sopravvivono a se stessi, inchiodati alle loro storie anonime, blindate, dimenticate.
Sono convinto che non esiste amnistia, indulto, sanatoria d’accatto, per il detenuto, non esistono slanci in avanti utopisti, esistono solamente uomini sconfitti, perché in un carcere non sopravvivono miti vincenti, ma esistenze sconfitte dal tempo e dalle miserie che ci portiamo addosso.
Mi chiedo se è possibile perdonare, nella difficoltà di affrontare la lettura evangelica del sentimento del perdono, per non parlare della necessità di salvaguardare la collettività, ormai improntata alla sola risposta penale, al solo deterrente carcerario.
Ma occorre riconoscere il bisogno di un tragitto umano (non solo cristiano) nella condivisione e nella reciprocità, quindi nella accettazione di una possibile trasformazione e cambiamento di mentalità.
In conclusione che dire ancora, se non che occorre guardare alle decine o centinaia di Sofri, ai loro silenzi assordanti, con il coraggio di scegliere fra tanti dubbi, un percorso significativo su cui giocarsi un pezzo di vita, per il bene di tutti, società libera e detenuta.

Vincenzo Andraous
Carcere di Pavia

LIBRI
A cura di Sergio Albesano

Globalizzazione e nonviolenza con gli occhi delle donne

M. LANFRANCO M. G. DI RIENZO (a cura di), Donne disarmanti, Intra Moenia, Napoli 2003, pagg. 287, € 13,00. Spesso le storiche, le antropologhe, le filosofe, le giornaliste e le studiose femministe centrano l’attenzione sull’uso delle parole e mettono in guardia sulla stretta connessione tra violenza del linguaggio comune e violenza reale nelle relazioni quotidiane, nella politica, nella comunicazione mediatica e quindi nel tessuto sociale.
Se cercate su qualunque vocabolario la parola nonviolenza non la troverete, perché non è registrata così come la scriviamo, senza trattino o elementi di separazione. Eppure si tratta di una rivoluzione semantica quella di coniare una parola che si opponga, nel suo significato, a un’altra
altrettanto potente, contenendola ma al tempo stesso anteponendole una negazione.
Nel concetto di nonviolenza la violenza è contenuta perché non la si nega: non troverete una persona che in sincerità si possa definire nonviolenta. Infatti Aldo Capitini si definiva, umilmente, “amico della nonviolenza”. Il lavoro più duro non è il contrastare la violenza esterna, ma la propria.
Le domande che Monica Lanfranco e Maria Di Rienzo pongono sono, tra le altre: essere donne aiuta nella scelta nonviolenta e costituisce un vantaggio rispetto all’essere uomini?
Le donne sono più portate alla nonviolenza perché considerate meno aggressive e più miti, visto che la natura le ha dotate del compito di procreare e occuparsi dei cuccioli?
Dare un riscontro affermativo assoluto a queste domande sarebbe, oltre che banale e sbrigativo, davvero sbagliato. Personaggi come Margareth Thatcher sono lì a ricordarci che la nonviolenza, come la violenza, non ha sesso.
Conclude infine il libro un articolato manuale di comportamento per l’azione diretta nonviolenta, considerata un’alternativa fra il sottomettersi alle ingiustizie e la reazione violenta contro di esse.
Il volume contiene contributi di Lidia Menapace, Imma Barbarossa, Tiziana Plebani, Rosangela Pesenti, Starhawk, Vandana Shiva e interviste a Luisa Morgantini, Dawn Peterson e Giancarla Codrignani.
Per eventuali ordinazioni contattare l’editore (081 290 988; awander@tin.it ) oppure direttamente Monica Lanfranco (347 088 30 11; mochena@village.it).

E. LIOTTA, Le solitudini nella società globale, La piccola editrice, Celleno 2003, pagg. 116, € 12.

Quella di Elena Liotta, psicoterapeuta e psicoanalista junghiana, è una voce che si distingue dalle tante che evidenziano i pericoli insiti nella globalizzazione, poiché il suo libro ne analizza un aspetto particolare: l’impatto psicologico che questo fenomeno sta avendo sugli individui. Contrariamente alla visione del tradizionale approccio psicoanalitico che tende a ricerca le cause del disagio esistenziale nella storia personale del paziente, l’autrice, in base alla sua esperienza, afferma che ormai da tempo sia le patologie psicologiche sia i malesseri di diagnosi meno chiara che approdano all’analisi portano il segno della società in cui viviamo. Nell’attenzione al punto d’incontro tra l’io interiore e l’io sociale Leotta sviluppa il tema della solitudine, evidenziandone forme vecchie e nuove. L’indagine procede lungo tre linee generali: la solitudine nel mondo tecnologico, la solitudine dell’individuo nella comunità e nella società e la solitudine nei rapporti interpersonali. All’interno di queste linee trovano poi spazio la solitudine della donna, dell’artista, del mistico, del dissociato, del terrorista, dell’eroe e sono affrontate problematiche di ordine politico, economico e ambientale. L’esposizione è sintetica e non si accontenta di tracciare un quadro della situazione, anche se da una prospettiva ancora inesplorata, ma si dimostra propositiva sul piano etico, suggerendo al singolo nuove strade per agire in prima persona. A cominciare dal rifiuto della mentalità dell’”usa e getta”, inadatta alla crescita di valori comuni che invece richiedono un “usa e conserva con amore”.
Due sono i rischi che evidenziamo nella pubblicazione. Il primo è che si carichi una generica società dei disagi mentali che il singolo può provare, scaricandolo dalla propria parte di responsabilità e non aiutandolo di conseguenza a intervenire con decisione per migliorare la propria vita. Il secondo è che si attribuisca ancora una volta alla globalizzazione tutta una serie di effetti negativi, dimenticandosi che si tratta di un fenomeno ineludibile che porta anche grandi vantaggi. Per fare un esempio, senza globalizzazione Amina, la donna nigeriana condannata alla lapidazione per adulterio e salvata da una campagna di mobilizzazione mondiale, sarebbe morta in solitudine.
(Per acquisti rivolgersi a: convento.cel@tin.it )

Caritas diocesana di Trento, Questione di stile di vita, Vita Trentina Editrice, Trento 2003, pagg. 71, s.i.p.

Questo libro, che riporta come sottotitolo Dagli squilibri mondiali a comportamenti coerenti per un mondo nuovo, è un agile strumento per i singoli, i gruppi, le famiglie e le comunità che si pongono alcuni interrogativi sul proprio modus vivendi e sulle conseguenze che esso può avere sul resto del mondo.
La pubblicazione ricalca una prima edizione del 1996, ristampata già un paio di volte, e, pur mantenendo lo stile sobrio e agile del precedente opuscolo, è ora arricchita da alcuni brevi approfondimenti su diverse problematiche, suddivise in tre filoni principali: lo squilibrio sociale inteso anche in termini economici e tecnologici, lo squilibrio ecologico e quello esistenziale. Utile il fatto che per ciascuna problematica siano suggerite azioni che possano rispondere alla domanda di fondo: “Che fare?”.
Nell’ambito del proprio stile di vita è necessaria e urgente una grande opera educativa e culturale, nella quale questo testo rappresenta un piccolo ma significativo contributo, raccogliendo esperienze e iniziative diffuse che rappresentano già una concreta alternativa e che ci invitano a ripensare all’uso delle nostre cose, ai nostri bilanci familiari, ai nostri progetti, alle nostre sicurezze, allo stile delle nostre case, all’uso del nostro tempo e ai sogni sui nostri figli.
Davanti alle sfide che il nuovo millennio ha già cominciato a porre, la Caritas diocesana di Trento, in collaborazione con la pastorale giovanile, il centro missionario, il centro famiglia e l’Associazione Comunità Famiglie Accoglienti (A.C.F.A.) invita in questo modo ad attivarsi per un mondo più giusto, più equilibrato, più vivibile, che sia davvero segno dell’amore di Dio per ogni uomo.
Per richieste rivolgersi al n° 0461 261166.

Di Fabio