• 24 Novembre 2024 23:59

Azione nonviolenta – Dicembre 2004

DiFabio

Feb 3, 2004

Azione nonviolenta dicembre 2004

– Da Gubbio un rinnovato impegno per il Movimento (di Daniele Lugli e Mao Valpiana)
– La Mozione politica generale (mozioni particolari e raccomandazioni)
– Dalla violenza del secolo scorso alla necessità della nonviolenza (di Marco Revelli)
– Lavoriamo insieme per l’alternativa possibile (di Paolo Candelari)
– Il potere sta sulla canna della bici (di Nanni Salio)

LE RUBRICHE
– Un monumento al disertore (Andrea Trentini)
– Il denaro degli immigrati (Paolo Macina)
– Guerre pesanti con armi leggere (Fabio Affinito, Emilio Emmolo)
– La profezia delle ranocchie (Paolo Rizzi)
– Con la voce e la chitarra canto l’amore per la vita (Paolo Predieri)
– Il declino degli indiani e di un loro grande amico (Sergio Albesano)
– Libri
– Lettere

EDITORIALE
Da Gubbio un rinnovato impegno per il Movimento

di Daniele Lugli e Mao Valpiana

Poche parole per presentare i risultati del nostro XXI Congresso nazionale. La mozione generale, quelle uscite dai gruppi di lavoro, quelle presentate in seduta plenaria forniscono un quadro articolato dei lavori e tracce di attività, sulle quali sollecitiamo il contributo dei lettori di Azione nonviolenta e degli aderenti al Movimento, che non hanno potuto partecipare al Congresso.
Circa un centinaio le persone che hanno accolto l’invito eugubino. Vogliamo ringraziare l’amministrazione comunale per l’ospitalità che ci ha riservato, e tutti coloro che hanno dedicato tre giorni pieni a progettare il futuro del nostro Movimento. In particolare ci ha fatto piacere la presenza di tanti giovani che si sono mescolati bene fra i “veterani” della nonviolenza italiana. Segnaliamo il contagioso entusiasmo del giovanissimo ottuagenario Sandro Canestrini, storico avvocato degli obiettori di coscienza, che alle tre “i” del berlusconi-pensiero (impresa, internet, inglese) ha voluto contrapporre le tre “i” della nonviolenza -idee, ideali, impegno- che si sono concretizzate la sera stessa nella straordinaria sorpresa dello spettacolo teatrale “Fuori tempo” ideato e realizzato dal bel gruppo giovanile di San Michele al Fiume.
Il Congresso ha corrisposto al titolo che ci eravamo dati: La nonviolenza è politica. Certo, si sono registrati limiti nel coinvolgimento di Partiti, che si erano dichiarati o si ritenevano interessati, sono mancati relatori, sul cui contributo contavamo, ben poco è stato colto l’invito a confrontarsi nel nostro Congresso, rivolto all’area di movimento per la pace, che pure si richiama alla nonviolenza. I motivi addotti per le assenze non sono stati però pretestuosi e ciò ci incoraggia nell’approfondimento dei temi e nella proposta di confronto.
Nel Congresso si è sentito l’apporto di esperienze e sensibilità diverse, consapevoli tutte della profonda crisi della politica, che ritrova nella guerra (nelle guerre: militari, civili, economiche, sociali, ambientali…) lo strumento decisivo per affrontare i conflitti emergenti. Questo procedere prepara conflitti maggiori e più distruttivi, cancella conquiste di civiltà e democrazia, che sembravano consolidate, discredita istituzioni civili e diritti umani, che appaiono a gran parte del mondo pura propaganda in difesa di privilegi.
Il rifiuto della guerra – ci ha insegnato Capitini e il Congresso ha ripetuto – è la condizione preliminare per un nuovo orientamento. Si tratta di una scelta essenziale. In un recente articolo Giorgio Bocca esortava ad avere il coraggio di essere civili, ad abbandonare la pratica della guerra, come già abbiamo abbandonato la pratica dell’antropofagia, mangiando altro e meglio. E’ la condizione per intravvedere un orizzonte più vasto nel quale si inserisce il nostro operare collettivo. Abbandonare la guerra (perdere la guerra, come dice Peyretti) vuol dire abbandonarne la preparazione, le armi, le alleanze, la cultura. Già questo richiede un grande e coerente impegno che è politico.
La guerra non può governare il mondo. Può solo preparare maggiori distruzioni e alimentare la paura di cui si alimenta. Questa consapevolezza, pur minoritaria, si diffonde. Di qui l’attenzione che alla nonviolenza viene rivolto da persone e organizzazioni, che nella politica non vedono solo uno strumento di esercizio di potere e privilegio. L’aggiunta nonviolenta, l’apertura cioè all’esistenza, libertà, sviluppo di chi vive sullo stesso pianeta, divenuto un’unica polis, è ormai condizione per la stessa difesa di quel tanto di democrazia che ancora abbiamo.
Ma libertà, partecipazione, consapevolezza, solidarietà, capacità critica si difendono solo se si esercitano e si accrescono. C’è bisogno anche del nostro contributo, e non è facile. Nelle grandi religioni sembrano prevalere le letture più bigotte, ottuse, escludenti. La ricerca di certezze in un mondo i cui mutamenti appaiono minacciosi e incontrollabili può spiegare questo rifugio in sicurezze irrazionali. La ricerca scientifica sembra risolversi in tecnica asservita a logiche di profitto. La razionalità appare impotente di fronte ai mostri del nuovo millennio. Il dialogo sparisce, sparisce il confronto, non esiste partecipazione e opinione pubblica, che richiede esperienza in comune, condotta da protagonisti e non da semplici spettatori. Telepredicatori delle varie aggregazioni – di difesa da pericoli veri o supposti, di rivendicazione di diritti negati, di accrescimento di privilegi, di attese salvifiche – alle quali diamo il vecchio nome di chiese e partiti, conducono un monologo collettivo nel quale, credenti o no, siamo coinvolti come spettatori, quando non plagiati e mobilitati come seguaci. Questo avviene nelle nostre democrazie “accidentali”. Fuori è peggio. Il cammino per ricostruire uno spazio della politica è lungo e faticoso. Non ci sono scorciatoie. Alcune cose da fare ci sembra di averle capite. Cerchiamo di farle bene e di proporle ad altri.

21° CONGRESSO NAZIONALE DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Gubbio, 1 novembre 2004
Mozione politica generale

Il Congresso fa propria la relazione della segreteria di invito al XXI congresso del MN.
Il confronto con gli esponenti politici che hanno accolto l’invito del Movimento ha mostrato quanto lunga sia, al di là delle intenzioni manifestate, la strada perché si affermi nella pratica politica un orientamento ispirato alla nonviolenza. Tuttavia impegni non trascurabili sono stati assunti ed è assicurata la collaborazione del Movimento, nelle forme possibili ed opportune, perché siano osservati.
Si tratta di un aspetto rilevante stante l’impermeabilità al controllo democratico dei poteri dominanti non solo nel nostro paese ed alla costante riduzione delle istituzioni elettive a luoghi di ratifica di decisioni prese altrove. Fondamentale acquisizione da parte delle forze politiche è comprendere come il rifiuto integrale della guerra sia la condizione preliminare per un nuovo orientamento e una rifondazione degli stessi processi di democrazia.
In questa direzione la pratica e la riflessione della nonviolenza possono dare un contributo importante. La democrazia ha bisogno dell’aggiunta nonviolenta, che è attenzione alla coerenza dei mezzi impiegati per il raggiungimento delle finalità dichiarate e apertura costante e crescente alla vita, libertà e sviluppo di tutti, nella consapevolezza che il destino di ciascuno è indissolubilmente legato al destino degli altri. A questo porta infatti un modello di sviluppo che mostra la sua insostenibilità sia sul piano sociale che ecologico.
Se, come è stato detto, un’opinione pubblica consapevole, avvertita, competente, costituisce l’elemento decisivo per garantire una democrazia che non sia solo di facciata, si comprende la necessità del contributo della nonviolenza che, partendo dalla consapevolezza della fallibilità delle nostre conoscenze e punti di vista, opera esperimenti con la verità – per usare l’espressione di Gandhi – in un atteggiamento di ricerca e nonmenzogna.
Alla sudditanza delle democrazie liberali nei confronti dei detentori del potere economico non si risponde con esercizi di ingegneria costituzionale, con processi di finta partecipazione popolare. Solo la crescita del controllo dal basso e la pratica degli strumenti dell’azione nonviolenta possono essere l’avvio dell’esercizio di un potere diverso, largo e complesso: il potere di tutti al quale anche il nostro Movimento è chiamato a dare il proprio contributo.

Approvata all’unanimità

Il Congresso impegna gli organi eletti per la miglior traduzione operativa degli indirizzi emersi dal lavoro di Commissione

1. Commissione Corpi Civili di Pace

La Commissione ha discusso su ciò che sta avvenendo nell’Unione Europea sul piano della Difesa e attorno al progetto di istituzione dei CCP. Il nuovo Trattato Europeo, impropriamente chiamato “Costituzione”, presenta luci ed ombre, ma vi sono anche elementi di novità significative: per la prima volta compare l’equiparazione, almeno in linea di principio, della difesa civile e della difesa militare, anche se poi le politiche dei singoli paesi vedono una sproporzione assoluta dei finanziamenti a favore dell’opzione militare. Riteniamo comunque positivo che nel Trattato venga richiamata, sia pure impropriamente (intesa solo come volontariato giovanile o come elemento di protezione civile), la presenza dei corpi civili tra gli strumenti di intervento dell’Unione Europea. Su questa base si potrà intervenire con emendamenti per cercare di modificare la “Costituzione” ma, intanto, vale la pena utilizzare ciò che oggi è già esistente per promuovere il progetto dei CCP a livello italiano ed europeo, con un programma politico unitario, credibile e praticabile.
Accanto a questo si è ripercorso il cammino della Rete italiana Verso i Corpi Civili di Pace, cui il MN partecipa attivamente. Esistono oggi due binari per la costruzione dei CCP, sia dal basso, cioè dall’esperienza delle associazioni e dei volontari, sia dall’alto, per via istituzionale, nella direzione di una professionalizzazione. Riconfermiamo l’esigenza di trovare una via di integrazione tra le due opzioni, mentre ribadiamo che gli interventi civili e gli interventi militari di peacekeeping o di peacebuilding sono due realtà diverse e non sovrapponibili, che devono avere una reciproca e totale autonomia di intervento e di finanziamento.
Altro nodo centrale è la possibilità di dare continuità all’esperienza delle associazioni, per la quale la Rete ha deciso di promuovere un progetto di legge che garantisca l’aspettativa ai lavoratori che volessero partecipare a un progetto riconosciuto di presenza in luoghi di conflitto.
Infine la Commissione ha affrontato il tema della formazione e della identità specifica dei CCP, sia come tematica interna all’area pacifista, sia nella relazione con il mondo della politica e con l’opinione pubblica.
Sono poi stati individuati i punti di applicazione possibili per il MN, che possono essere così riassunti:
1.impegno a dare maggiore visibilità ai CCP con una campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica (interventi sui mass media, informazione diretta, pubblicazioni, ecc);
2.ricerca di alleanze, coinvolgendo anche altre associazioni, per far avanzare il progetto di legge tramite contatti specifici con parlamentari e gruppi tanto di maggioranza quanto di opposizione;
3.cercare di introdurre il tema propositivo dei CCP nel dibattito politico, in particolar modo nell’ambiente pacifista, per dare concretezza a questo progetto con finanziamenti nazionali e progetti anche negli enti locali;
4.avvicinare il lavoro della Rete e quello del Parlamento Europeo promuovendo un momento di incontro specifico, a Strasburgo, tra associazioni e parlamentari impegnati in questa direzione;
5.elaborare una proposta programmatica per i partiti del centro sinistra, in vista delle elezioni politiche del 2006, perché si impegnino a dare applicazione concreta al progetto dei CCP, anche basandosi sulle indicazioni già presenti nel nuovo trattato europeo;
6.partecipare alla definizione del percorso formativo per i volontari coinvolti nei CCP, garantendo una preparazione specifica;
7.sostenere e aderire al progetto del MAN francese per l’invio di un corpo civile di interposizione in Israele e Palestina, costruendone le condizioni con le due parti e assicurando una funzione di collegamento tra le associazioni israeliane e palestinesi.
8. collaborare con IPRI per la presentazione di progetti finanziabili da sottoporre al Comitato consultivo per la difesa civile nonviolenta.

Approvata (2 astenuti)

2. Commissione Laicità, religione, nonviolenza

La commissione ha fatto proprio il contenuto del documento preparatorio. Gli interventi hanno messo in evidenza la forte incidenza che il confronto tra laicità e religione ha sul vissuto dei nonviolenti e nel definire i rapporti tra il MN e istituzioni, associazioni, gruppi. Gli interrogativi, che i nonviolenti si pongono, sulla natura laica e politica della nonviolenza affermata da alcuni e sul suo carattere religioso affermato da altri, invitano il MN a non marginalizzare la riflessione sui diversi aspetti di questa problematica.
Per realizzare l’approfondimento sollecitato, la commissione ha individuato come tema centrale su cui lavorare quello della “conversione alla nonviolenza” che si esplicita nei principi di universalità, laicità, responsabilità, coerenza. In continuità con l’esperienza del seminario di Perugia (2002) e la pubblicazione degli atti relativi, la commissione ritiene opportuno individuare la possibilità di un ulteriore momento pubblico di riflessione e di approfondimento. È stata sottolineata l’incoerenza manifesta di molte istituzioni (sia religiose che laiche) che mentre affermano il valore del principio della nonviolenza la disattendono nella pratica. Questo vale sia per gli uomini di chiesa, nei momenti (ad es. la guerra) in cui devono far sentire la loro voce, che per gli uomini politici che dimenticano le loro affermazioni di principio nel momento in cui assumono incarichi amministrativi o di governo.
Si propone la costituzione, per il prossimo biennio, di un gruppo di lavoro che, sulla base di ricerche e lavori preparatori, organizzerà un conclusivo momento di riflessione e dibattito nella forma di un seminario/convegno dal titolo: “Convertirsi alla nonviolenza – le istituzioni religiose e laiche alla prova della nonviolenza”.
Il gruppo di lavoro costruirà questo percorso di ricerca valorizzando le esperienze di confronto tra laici e religiosi avvenute o avviate in varie realtà locali, con riflessioni specifiche, ad esempio, sui seguenti temi:
a.la nonviolenza nella chiesa cattolica dal Concilio in poi;
b.la nonviolenza nell’Islam;
c.la nonviolenza nel confronto interculturale

Si propone inoltre un’iniziativa da definire per porre l’attenzione sulle figure dei cappellani militari, dopo l’istituzione dell’esercito professionale.

Approvata (2 astenuti)

3. Commissione L’omnicrazia, crisi delle democrazie

Anche nei paesi che si pretendono democratici si avverte una profonda crisi della democrazia e della partecipazione.
Di fronte a questa situazione sono importanti le indicazioni di Capitini che invita a trasformare la democrazia in omnicrazia facendo leva sull’assemblea e l’opinione pubblica per rendere tutti partecipi alle scelte politiche.
Il rifiuto della guerra è la condizione preliminare per un nuovo orientamento.
Indichiamo come impegni per gli aderenti al MN e a tutti gli amici della nonviolenza:
1.contribuire alla formazione di una opinione pubblica, la cui carenza è particolarmente avvertita, attraverso l’esercizio di una partecipazione critica nelle occasioni che le istituzioni, partiti. Sindacati e altri ci propongono;
2.promuovendo nelle situazioni in cui ci troviamo a operare forme attente di partecipazione rispondenti alle finalità di liberazione e sviluppo della nonviolenza;
3.intervenire in quei comitati e azioni spontanee di lotta in cui la popolazione si è mossa per affrontare problemi immediati (inceneritori, depositi di scorie nucleari, fabbriche inquinanti e di armi, basi militari, ecc…) per portare ispirazione e forme di lotta nonviolente.

Nella convinzione che la partecipazione popolare sarà tanto più estesa e profonda quanto più concreti poteri decisionali le verranno affidati, indichiamo e proponiamo alle persone impegnate in incarichi politici (amministratori, parlamentari ecc…) e che hanno dichiarato interesse alla nonviolenza di seguire alcune indicazioni sia per una maggior partecipazione democratica, ad esempio il bilancio partecipato, sia in proposte innovative come spostare risorse dalle spese militari (ad esempio 5% annuo) a iniziative di costruzione di pace, investire risorse in progetti di energie rinnovabili accessibili a tutti, orientare ed educare con responsabilità in direzione di una economia sobria e solidale.
Perseguire obiettivi di “sicurezza” con l’impiego dei mezzi alternativi che utilizzano tecniche nonviolente piuttosto che aumentare l’impiego di mezzi repressivi.
Il MN è impegnato a sostenere quegli amministratori che vorranno iniziare questo cammino.

Approvata (1 astenuto)

4. Commissione Educare alla nonviolenza

Il valore dell’educazione per la costruzione di una società nonviolenta è fondamentale in tutti gli ambiti di vita (il sé, la famiglia, la scuola, l’extrascuola, il territorio…).
Il senso e le modalità dell’educazione alla nonviolenza non sono di tipo trasmissivo ma di tipo dialogo-maieutico.
In questo ambito, particolare attenzione va prestata all’utilizzo del linguaggio e alla violenza che esso spesso nasconde e veicola.
Dal lavoro di gruppo della commissione “educare alla nonviolenza”, che ha visto una partecipazione attiva e vivace, è emersa una ricchezza di idee e proposte, alcune di queste sono volte a impegnare il lavoro del comitato di coordinamento del Movimento Nonviolento.
Si propone di costituire un gruppo di lavoro tematico all’interno del Movimento Nonviolento sull’educazione alla nonviolenza per promuovere:
1.Percorsi di formazione permanente sul conflitto e la sua gestione creativa, sulla violenza, sulla nonviolenza rivolti a: docenti, educatori, studenti, personale non docente, attivisti, gruppi impegnati socialmente e politicamente ecc…
2.La partecipazione ad una rete di scambio e conoscenza reciproca sui temi di educazione alla nonviolenza tra i diversi soggetti, associazioni, riviste che operano in questo ambito.
3.La conoscenza e la diffusione del metodo del consenso verso l’omnicrazia che si aggiunge alla democrazia e la logica autoritaria presente all’interno di alcune scienze.
4.Oltre all’utilizzo della rivista “Azione nonviolenta” per conoscere le esperienze di educazione alla nonviolenza, prestare attenzione all’educazione delle nuove tecnologie (uso di internet, TV, video alternativi, costruzione di un canale tv alternativo).
5.Il coinvolgimento delle istituzioni locali più sensibili ai temi dell’educazione alla nonviolenza.

Approvata (1 astenuto)

5. Commissione Rete Lilliput e l’impegno del Movimento Nonviolento

Il MN è in Rete Lilliput dai suoi primi passi. Ci abbiamo creduto fortemente perchè dall’inizio ne abbiamo intuito le enormi potenzialità vedendola, prima Rete nel confuso calderone del movimento dei movimenti, agire i contesti seguendo un metodo e abbracciando (non solo formalmente) la nonviolenza. Come MN in questi anni abbiamo cercato di dare la nostra aggiunta portando in rete le nostre specificità e contemporaneamente arricchendoci dall’apporto dato dalle altre associazioni.
Rete Lilliput, nata come rete che agisce tramite campagne, da qualche tempo sta chiedendo troppo a se stessa, alle sue associazioni e ai suoi nodi rischiando la dispersione in mille contesti e perdendo così di lucidità e di capacità di incidere.
E’ giusto, in occasione del nostro Congresso, fare il punto della situazione dell’impegno del MN in Rete Lilliput.
A fronte di quanto emerso la commissione impegna il MN a:

1.continuare a dare il suo apporto nella Rete ma, soppesando bene le energie interne a disposizione, scegliendo di lavorare in rete esclusivamente tramite le campagne;
2.impegnarsi attivamente nelle campagne che intenderà seguire agendo, dove necessario, su tutti i livelli della graduazione gandhiana del confronto con il conflitto, senza aver paura di contaminarsi e quindi (facendo autocritica) non limitandosi, come succede a volte, a criticare le modalità dell’agire di altri;
3.richiamare Rete Lilliput alla semplicità, in primis senza disperdere energie nel discutere di strutture organizzative, ma cercando, finalmente, di utilizzare le strutture già esistenti lavorando su campagne ben programmate e condivise.

Approvata (4 astenuti)

6. Commissione Media, Informazione, Televisione

La commissione ha discusso molto sul ruolo della televisione, con valutazioni diverse, da un netto rifiuto, in quanto strumento di per sé violento (unidirezionale, non partecipativo, manipolazione delle coscienze, in mano a potentati economici) , ad un atteggiamento di non demonizzazione (utilizzare gli spazi possibili, realizzare televisioni “di quartiere”, utilizzazione senza paura di contaminazione). La televisione oggi è finalizzata alla pubblicità e l’informazione tende ad un appiattimento generale, anche con la semplificazione e riduzione del linguaggio, che corrisponde alla riduzione del pensiero.
L’accento è stato posto sull’esigenza di uscire da una logica di contro-informzione, per sviluppare al contrario una informazione positiva dove ognuno è chiamato ad essere protagonista, sapendo selezionare tra le notizie e producendo informazione diretta. Per noi informazione è strettamente legata a formazione.
Non dobbiamo mai dimenticare che la produzione fisica, materiale, di molti strumenti di comunicazione e informazione (cellulari, monitor, computer, ecc.) richiedono l’uso di materie prime per procurarsi le quali sono in corso le guerre dimenticate dell’Africa.
Azione nonviolenta sta preparando un convegno sul tema “Informazione e nonviolenza”, nel quale affrontare, insieme ad altre riviste, alcuni nodi decisivi: la difesa della libertà di stampa; il ruolo delle riviste cartacee nell’epoca di internet; il problema della distribuzione e della pubblicità.
Ogni singola persona può fare molto, sia per creare reti locali informative alternative, sia per diffondere materiale informative, per far conoscere Azione nonviolenta nella propria realtà.

Indica al Comitato di Coordinamento l’esigenza di:
1.realizzare il manale di “uso e consumo critico della televisione” recuperando la ricchezza delle esperienze fatte in questo campo;
2.creazione di una lista di “giornalisti per la pace” da individuare nei diversi mass media e da contattare per campagne informative;
3.utilizzare le “Agenzia di informazione” da potenziare in rete con altri soggetti del più vasto movimento per la pace;
4.proporre ad altre riviste amiche (Mosaico di Pace, Nigrizia, Gaia, Missione Oggi, Qualevita, Officina dei sogni, ecc.) l’uscita comune di un numero 0 come esempio di lavoro informativo di rete.

Suggerimenti per i singoli amici della nonviolenza:
1.insistere a scrivere lettere ai giornali con notizie nonviolente;
2.utilizzare come una nuova possibilità i giornalini gratuiti;
3.farsi diffusori attivi di fogli di informazione (fotocopiati e distribuiti capillarmente) scaricando fonti informative alternative reperibili in molti siti internet;
4.privilegiare il lavoro di informazione dal basso, le relazioni personali con gli operatori dell’informazione.

Per quanto riguarda in particolare “Azione nonviolenta”:
1.avviare una nuova rubrica come “osservatorio sulla TV”
2.fare campagne locali di diffusione nelle Biblioteche
3.avviare un coordinamento con altre riviste per affrontare insieme i problemi editoriali come la distribuzione e la spedizione postale
4.essere presenti ad appuntamenti importanti come il Salone Editoria per la Pace e Terre Future
5.concretizzare la distribuzione della rivista tramite la rete delle Botteghe del commercio equo e solidale

Approvata all’unanimità

7. Commissione Servizio Civile Volontario e Obiezione di Coscienza

Il MN ribadisce l’opportunità di operare negli spazi aperti dalla legge sul servizio civile volontario affinchè lo stesso non sia una semplice copertura alle carenze assistenzialistiche del nostro sistema statale.
Si riafferma pertanto la necessità di concretizzare e favorire progetti di servizio civile legati alla nonviolenza e alla DPN delineandone alcune caratteristiche:
1.nel tempo “servizio” ci sia anche lo spazio formativo per approfondire i temi legati alla difesa e alla nonviolenza;
2.che il servizio sia funzionale all’ampliamento della qualità e dell’innovazione, evitando di ricoprire posti di lavoro.

Per quanto riguarda il servizio civile al MN venga comunque richiesta una dichiarazione di obiezione all’istituzione delle forze armate (Obiezione di Coscienza).

Nelle collaborazioni che vede il MN impegnato a lavorare con l’IPRI e la rete nazionale dei corpi civili di pace, il MN sosterrà il progetto per una “formazione omogenea” sui temi della DPN, della nonviolenza e dell’Obiezione di Coscienza (elaborato dal Corso di laurea Operatori di Pace dell’Università di Firenze in collaborazione con altre Università per la pace italiane e presentato all’Ufficio Nazionale Servizio Civile dall’IPRI) e favorirà una sua diffusione territoriale.

Il MN si impegna a promuovere una proposta legislativa di collegamento fra servizio civile volontario e corpi civili di pace.

Il MN si impegna ad attuare azioni affinchè venga attuata la raccomandazione, votata nella scorsa legislatura, che estenda il diritto di Obiezione di Coscienza anche alle spese militari.

Approvata all’unanimità

8. Commissione Centro studi per la nonviolenza/case e centri per la pace

La commissione ha svolto un approfondito dibattito generale, articolato per problemi, temi, programmi ed iniziative. Ha fatto propria la relazione di introduzione quale documento di avvio per la costruzione del Centro Studi.
La commissione ha assunto la seguente deliberazione:
1.il Congresso impegna il Comitato di Coordinamento a procedere per la costituzione del Centro Studi e Documentazione per la Nonviolenza, sulla base della bozza di statuto così come predisposto;
2.di aprire una campagna “un libro e una rivista per la biblioteca del Centro Studi”;
3.di organizzare il Secondo Convegno Nazionale delle Case e dei Centri per la Pace e la Nonviolenza (per il materiale del 1° convegno si veda AN del gennaio 1999).

Nota alla mozione:
Nel corso dl dibattito la commissione ha esaminato le osservazioni critiche espresse da Nanni Salio (Centro Sereno Regis) così riassumibili:
1.ha illustrato la valenza, la capacità di ricerca e studi del Sereno Regis;
2.ha sottolineato l’opportunità che il MN invece, e in sostituzione di un nuovo centro studi, si avvalga del Centro Studi Sereno Regis;
3.ha evidenziato i forti rischi e le difficoltà che incontrerebbe il nuovo istituto;
4.ha dichiarato la disponibilità del Sereno Regis a stipulare convenzioni con il MN per progetti; disponibilità che permane anche nei confronti del nuovo Centro.

Approvata (4 astenuti)

9. Commissione Un’iniziativa per gli amici della nonviolenza

La commissione ripropone l’impianto dell’esperienza compiuta con le Dieci parole della nonviolenza e conclusa con la camminata Assisi-Gubbio, nel senso di un percorso articolato in una scansione di temi, uno al mese, e si concluda con un appuntamento comune. Il tema sarà ogni volta trattato su Azione Nonviolenta e proposto nelle varie realtà locali, con le capacità e le differenze che si manifestano.
È stata apprezzata la proposta iniziale di usare come traccia le Dieci caratteristiche della personalità nonviolenta individuate da Giuliano Pontara, rilette nella loro valenza collettiva e politica (il ripudio della violenza; la capacità di identificare la violenza; l’empatia; il rifiuto dell’autorità; la fiducia negli altri; la disposizione al dialogo; la mitezza; il coraggio; l’abnegazione; la pazienza). È stata infatti sottolineata l’esigenza che l’iniziativa, nel suo svolgersi e nella sua conclusione, testimoni dell’aggiunta che la nonviolenza è in grado di dare alla politica. Sono state usate espressioni come “chiamata dei nonviolenti alla politica” e, appunto, “aggiunta nonviolenta alla politica”.
Per questo si è anche sottolineato trattarsi di una iniziativa che gli amici della nonviolenza propongono non solo alle formazioni più vicine, a cominciare dal MIR, ma a tutte le forze per le quali “il rifiuto della guerra è la condizione preliminare per un nuovo orientamento”, e che sono alla ricerca di una valida alternativa. In tal senso le dieci parole possono avere applicazioni concrete nella politica e nel sociale sui temi fondamentali della convivenza civile, individuando azioni che possano essere concretamente sperimentate e che confluiscano in una pubblicazione del MN da far diffondere nel modo più largo.
Durante il percorso si cercherà di affinare il collegamento tra le diverse realtà coinvolte, a partire da quelle che fanno più diretto riferimento al movimento, sia utilizzando la rivista e il sito di Azione Nonviolenta, sia con un possibile seminario intermedio di confronto.
Stante il periodo di svolgimento del percorso, è stata prevista la possibilità di interventi più aperti rivolti alle forze politiche che hanno mostrato o mostreranno una seria volontà di interlocuzione, presentando le possibilità individuate dagli amici della nonviolenza.
Infine, si è pensato che un luogo dove ben concludere un anno di iniziative, magari al termine di un camminare che sia anche un andare in bicicletta, potrebbe essere Firenze, anche per il legame che evoca tra politica e nonviolenza sia per fatti recenti, sia per le figure rappresentative che lì hanno operato, mostrando la possibilità di incontro tra nonviolenza e politica. Ricordiamo, tra gli altri, Giorgio La Pira e Enriquez Agnoletti.
Al comitato di coordinamento il compito di affinare questa proposta.

Approvata all’unanimità

10. Commissione Ambiente e stili di vita

Le difficoltà di politica e istituzioni nell’approntare risposte alle sempre più urgenti emergenze ambientali sollecitano movimenti e singoli cittadini ad attivarsi in prima persona per attuare cambiamenti degli stili di vita e costruire concrete esperienze di economie alternative e solidali.

La revisione degli stili di vita personali rappresenta una grande opportunità soprattutto per chi crede che la corenza tra mezzi e fini, tra pratiche personali e obiettivi collettivi, sia un ingrediente essenziale di un cambiamento sociale che sia profondo e duraturo.

L’occasione rappresentata dal diffondersi di queste pratiche di cambiamento “dal basso” non deve però fare perdere la consapevolezza della gravità delle emergenze che ci troviamo davanti e della necessità di trovare modalità collettive e politiche per affrontarle.

Occorre perseguire i due piani congiuntamente: la ricerca di obiettivi comuni rafforza la potenzialità dei piccoli cambiamenti individuali.
La dimensione locale, dei territori e dei piccoli gruppi sembra quella privilegiata per “uscire dalla solitudine” e trasformare le opzioni individuali e dei piccoli gruppi in concreto agire politico.
In tale sfida sembra essenziale la condivisione quotidiana di pratiche e obiettivi offerta da modelli come i Centri di Orientamento Sociale proposti da Aldo Capitini o esperienze più recenti come Gruppi di Acquisto Solidale e Bilanci di giustizia.
Agire localmente pensando globalmente: la dimensione di “assemblea di quartiere” deve essere sempre allargata collegandosi ad altre esperienze consimili, in Reti di economia solidale e in collegamento con esperienze affini, anche se distanti territorialmente.
La concreta volontà di collaborazione offerta da istituzioni locali, l’opportunità di affrontare localmente inafferrabili dinamiche globali, rappresenta un’occasione da non perdere. Occorre al contempo rafforzare la capacità di perseguire eventuali conflitti con interlocutori locali, attraverso campagne di Azione Diretta Nonviolenta, in collegamento con altri soggetti locali.
La mozione impegna il Movimento a:
1.Rilanciare la campagna Biciclettate nonviolente contro le guerre del petrolio, rafforzando la riflessione su modelli di mobilità, produzione e distribuzione di prodotti alimentari e privatizzazione dei trasporti. In tale contesto trovare forme di collaborazione con soggetti che promuovano tali tematiche, come la Federazione Italiana Amici della Bicicletta.
2.Approfondire la questione OGM nel contesto della difesa della sovranità alimentare dei popoli e promuovere e/o sostenere campagne che pongano l’accento sul controllo e la privatizzazione delle risorse per produrre il cibo. Sollecitare le amministrazioni locali ad assumere ruoli propositivi in questo contesto.
3.Promuovere informazioni e concrete campagne locali sulle implicazioni ecologiche e sanitarie dell’alimentazione, in particolare quella basata sulla carne, invitando a scelte di consumo responsabile con particolare attenzione alla scelta del vegetarianesimo.

Approvata all’unanimità

MOZIONI PARTICOLARI:

Mozione sostenuta dal “Centro Gandhi di Pisa” e associazione “Cantiere San Bernardo” e presentata da Marco Campori
Il Congresso del MN sostiene la campagna internazionale contro il muro di Israele con l’indicazione ai propri attivisti e conoscenti dell’esposizione ai propri balconi, nella modalità della campagna delle bandiere della pace, di drappi bianchi (cm 100×85) autoprodotti, contenenti anche opinioni specifiche e non obbligatoriamente monotematiche, che andranno poi cuciti e spediti in Palestina entro la fine dell’anno (inviare a Centro Gandhi, via San Zeno, Pisa). L’azione anticipatoria dell’esposizione dei drappi, nella sua prima e innovativa collocazione presuppone a successivi sviluppi per future campagne.
Approvata (5 astenuti)

Mozione proposta da Tiziano Cardosi e Michele Meomartino: mailing list del Movimento Nonviolento
Proponiamo l’apertura di una mailing list del Movimento Nonviolento come agevole e capillare strumento di comunicazione, riservata solo agli iscritti interessati. I proponenti si impegnano a realizzarla.
Approvata (3 contrari, 4 astenuti)

Mozione proposta da Pasquale Pugliese e Luciano Capitini
Il Congresso impegna il CdC del MN ad individuare ed eventualmente lanciare e sostenere una campagna specifica dei nonviolenti che contempli la possibilità di praticare tutti i livelli della graduazione gandhiana e come passo successivo rispetto alla Campagna “Scelgo la nonviolenza”.
Approvata (5 contrari, 5 astenuti)

Mozione presentata da Adriano Moratto sul 4 novembre.
Il Congresso stigmatizza il ritorno di campagne di revisione nostalgicche e patriottistiche, in particolare il prossimo 4 novembre. Sollecita gli iscritti ad iniziative di protesta e contr-informazione. 4 Novembre, non festa, ma lutto!
Approvata all’unanimità

RACCOMANDAZIONI

Raccomandazione di Anna e Luciano Capitini
Il Congresso raccomanda agli amici della nonviolenza di organizzare soggiorni a tema sulla nonviolenza, a carattere locale. Anna e Luciano Capitini sono disponibili a confrontarsi sulla formulazione del progetto. Il CdC del MN sarà disponibile a coordinare e dare notizia di tali iniziative che saranno sotto la responsabilità dei singoli proponenti.
Approvata (2 astenuti)

Raccomandazione di Raffaello Soffioti
Il Movimento Nonviolento deve molto al rapporto di collaborazione e amicizia fra Danilo Dolci e Aldo Capitini. Dolci ha speso gli ultimi anni della sua vita a lavorare su una Bozza di Manifesto. Quest’opera, con il titolo definitivo di “Comunicare, legge della vita”, forse può essere letta come il suo testamento spirituale. Per diffondere il suo pensiero e la sua opera, propongo che tra il “Materiale Disponibile” sulla quarta di copertina di “Azione nonviolenta”, compaiano anche gli scritti di Danilo Dolci.
Approvata all’unanimità

Organi eletti

Segretario: Daniele Lugli

Direttore: Mao Valpiana

Comitato di Coordinamento:

Giulia Allegrini
Marco Baleani
Elena Buccoliero
Luciano Capitini
Luca Giusti
Raffaella Mendolìa
Adriano Moratto
Franca Niccolini
Claudia Pallottino
Annarita Pasqualetto
Massimiliano Pilati
Rocco Pompeo
Pasquale Pugliese
Piercarlo Racca
Flavia Rizzi
Matteo Soccio
Alberto Trevisan

(Approvata per acclamazione)
Il comunicato di Marco Pannella

“In quel convegno, di quella parte di nonviolenti che forma il Movimento Nonviolento, con la M e la N maiuscola, da decenni non ero più invitato, come tutti gli altri radicali, colpevole forse di nonviolenza gandhiana politica, manifesta, esposta tutti i giorni ad attacchi. Un mese fa ho ricevuto un invito con questo testo: ‘Parleranno Pannella Bertinotti e Pecoraro Scanio quali leaders di movimenti o di soggetti politici apertisi alla nonviolenza’. Il testo e il contesto sono stati tali da indurmi subito a dire agli organizzatori – a Mao Valpiana – ed a reiterarlo in altre occasioni – che non sarei andato”.
Marco Pannella chiarisce dai microfoni di Radio Radicale che non parteciperà al convegno sulla nonviolenza promosso dal Movimento Nonviolento il prossimo fine settimana. “Non tanto per la coincidenza del congresso dei Radicali Italiani”, spiega.
“Mi dolgo della scorrettezza grave per cui ancora oggi vedo agenzie di stampa nelle quali si continua a millantare un dibattito che in realtà non c’è. E non c’è perché non accetto che il Movimento Nonviolento, fatto da compagni e compagne stimabilissimi ma nei quali sicuramente – per venti anni – la nonviolenza radicale non ha avuto modo di riconoscersi, mi consideri parte di questo dibattito. Semmai avremo nel congresso radicale un momento dedicato alla riflessione sul punto nel quale si trova la lotta della nonviolenza politicamente organizzata nel mondo e in italia attrraverso il Partito Radicale Transnazionale e gli altri soggetti radicali”, conclude Pannella.

Roma, 23 ottobre 2004

Il comunicato del Movimento Nonviolento
I nonviolenti cercano il dialogo, Pannella risponde col monologo.

Marco Pannella ha affidato ad un comunicato stampa la motivazione del suo rifiuto a partecipare ad una tavola rotonda sui temi della nonviolenza con Bertinotti e Pecoraro Scanio, promossa dal Movimento Nonviolento in occasione del XXI Congresso che si sta svolgendo a Gubbio dal 29 ottobre al 1 novembre.
In una nota del 23 scorso risulta questa dichiarazione di Pannella: “In quel convegno, di quella parte di nonviolenti che forma il Movimento Nonviolento, con la M e la N maiuscola, da decenni non ero più invitato, come tutti gli altri radicali, colpevole forse di nonviolenza gandhiana politica, manifesta, esposta tutti i giorni ad attacchi. Un mese fa ho ricevuto un invito con questo testo: ‘Parleranno Pannella, Bertinotti e Pecoraro Scanio quali leader di movimenti o di soggetti politici apertisi alla nonviolenza’. Il testo e il contesto sono stati tali da indurmi subito a dire agli organizzatori – a Mao Valpiana – ed a reiterarlo in altre occasioni – che non sarei andato”. Torto nostro evidentemente, da ciò i reiterati rifiuti, è stata l’insistenza affinché riflettesse su quel rifiuto e sulla sua motivazione.
Che Pannella sia stato discriminato, “come tutti gli altri radicali, colpevole forse di nonviolenza gandhiana politica, manifesta, esposta tutti i giorni ad attacchi” è cosa che non sta né in cielo né in terra. Marco Pannella, inoltre, chiarisce dai microfoni di Radio Radicale che non parteciperà al convegno sulla nonviolenza promosso dal Movimento Nonviolento “Non tanto per la coincidenza del congresso dei Radicali Italiani… ma perché non accetto che il Movimento Nonviolento mi consideri parte di questo dibattito. Semmai avremo nel congresso radicale un momento dedicato alla riflessione sul punto nel quale si trova la lotta della nonviolenza politicamente organizzata nel mondo e in Italia attraverso il Partito Radicale Transnazionale e gli altri soggetti radicali”.
Riteniamo anche noi che ci sia davvero da riflettere su una nonviolenza che ha portato i radicali da posizioni antimilitariste fino a giustificare anche recenti interventi armati dell’amministrazione americana, ad invocare le operazioni militari croate, a sostenere la politica del governo Sharon. Tuttavia un passato di collaborazione forte su vari temi ed obiettivi, alcune attenzioni e campagne che condividiamo, il costante richiamo dell’effige di Gandhi, ci avevano indotto ad invitare Pannella, nonostante profonde differenze di valutazione che nei nostri Congressi, documenti, dibattiti, non abbiamo mai nascosto, tanto da chiedere, ed ottenere, nel 1999, l’espulsione del Partito Radicale dalla War Resisters International (l’internazionale dei resistenti alla guerra, che raggruppa organizzazioni nonviolente di tutto il mondo).
Auguriamo la miglior riflessione e capacità di proposta al Partito Radicale, con la P e con la R maiuscola, sul tema fondamentale del “punto nel quale si trova la lotta della nonviolenza politicamente organizzata nel mondo e in Italia”. È quello che ci sforziamo di fare anche nel nostro Congresso, consapevoli dei nostri limiti, delle responsabilità che ci assumiamo, del fatto che non siamo né i migliori né i soli, ma che qualcosa si fa, e molto può essere fatto, dalla nonviolenza e per la nonviolenza, se i soggetti che a questa si richiamano hanno una seria attitudine di confronto e scelgono, almeno tra loro, la strada della “persuasione” e non della “retorica”.
Noi, che non ci diciamo nonviolenti, e tantomeno nonviolenti radicali, ma al più, come suggeriva Aldo Capitini, amici della nonviolenza, rivolgiamo il nostro augurio al Congresso del Partito di Pannella. Se possiamo permetterci di dare un consiglio, riflettano i radicali sulla china discendente che è iniziata con l’abbandono della politica di movimento, aperta, e l’assunzione dell’esclusivo fronte istituzionale, da partito personalizzato, chiuso.
Cercavamo e cerchiamo un dialogo, ma evidentemente Pannella preferisce il monologo.

Nel febbraio di quest’anno si è tenuto a Venezia un Seminario del Partito della Rifondazione Comunista, intitolato “Agire la nonviolenza”, nel quale largo spazio si è dato al confronto con le elaborazioni del nostro Movimento. In quell’occasione Bertinotti è stato invitato a partecipare, in forme che si sarebbero poi definite, ad un’iniziativa per il nostro Congresso, per il quale data e luogo già erano fissati, Bertinotti aveva prontamente aderito. L’anno prima, a Livorno, si era svolto un incontro nazionale, I Verdi ascoltano, di approfondimento, sempre sui temi della nonviolenza , al quale avevamo partecipato con impegno. Da ciò l’idea di un confronto al quale fosse invitato anche Pecoraro Scanio. Le adesioni di Bertinotti e Pecoraro Scanio erano venute personalmente, ma poi sono state ritirate, e sostituite da altre presenze, Patrizia Sentinelli di Rifondazione e Angelo Bonelli dei Verdi, che ringraziamo.
Ribadiamo la nostra volontà di dialogo e di confronto anche con i partiti che guardano con interesse all’esperienza nonviolenta..
L’esito della tavola rotonda che, in questo spirito abbiamo promossa. ci dice almeno quanto lungo è il cammino. In questo senso non ha mancato il suo compito di introduzione al Congresso.

Il saluto di Marco Revelli *

Cari amici,
con grandissimo dispiacere non posso essere a Gubbio con Voi, come invece vorrei, e debbo affidarmi a questo messaggio scritto.
Cercherò dunque di sintetizzare, in poche righe, quello che avrei voluto dire a voce, dunque con il calore proprio di una comunicazione orale, e tra persone che possono guardarsi direttamente l’una con l’altra.
Prima di tutto, permettetemi un accenno di carattere personale. Io non sono “nato” nonviolento, per così dire. La nonviolenza non sta nel mio Dna. Sono nato in una famiglia che aveva nel suo orizzonte valoriale la Resistenza e la guerra partigiana. Mio padre, a cui debbo buona parte della mia formazione etico-politica, aveva incominciato il suo percorso esistenziale come ufficiale di carriera. Aveva creduto nell’esercito. Era partito per la guerra, per quella guerra tremenda che fu la spedizione di Russia – come ripeté più volte -, “per vincerla”. E quando si accorse del terribile inganno che il fascismo aveva imposto a lui, e a centinaia di migliaia di poveri cristi meno privilegiati di lui, contadini delle nostre vallate, ragazzi strappati ai campi e gettati nell’orrore di una guerra spaventosamente ingiusta, aveva cercato il riscatto in un’altra guerra, salendo in montagna. Guadagnandosi il rispetto di sé con un fucile in mano, come la migliore gioventù del suo tempo fece. Non l’ho mai sentito fare non dico l’apologia, ma neppure la difesa della guerra, di qualunque guerra, anche di quella che aveva combattuto con convinzione. Era uno strano “guerriero”: un guerriero che aveva imparato a odiare la guerra per averla conosciuta fino in fondo, nei suoi orrori. Per come – ripeteva spesso – trasforma gli uomini, anche i migliori, in bestie. E tuttavia – ripeteva anche questo, senza esitazioni – non ripudiava nulla di quella scelta liberamente fatta. L’avrebbe ripetuta senza esitazioni, anche se – e questo è un altro tratto tipico di quella generazione – aveva combattuto nella convinzione che quella che stava facendo sarebbe stata l’ultima guerra. Che si combatteva una guerra per mettere fine a tutte le guerre.
Dunque, come dire?, un disgusto morale, antropologico, vorrei dire, per la violenza, ma non ancora l’assunzione senza se e senza ma della nonviolenza. Un estremo rispetto e una stima incondizionata per uomini come Aldo Capitini – che conobbi dalle parole di mio padre come riferimento etico e modello politico -, ma nello stesso tempo un’accettazione condizionata della non violenza, come opzione da praticare fintanto che ciò fosse possibile. Come alternativa virtuosa, ma parziale, non universalizzabile.
Né la mia iniziazione alla politica, consumata come per quasi tutti quelli della mia generazione, nel Sessantotto, avvenne all’insegna della nonviolenza attiva e assoluta. Tutt’altro. Il primo volantino che scrissi era intitolato “Guerra alla guerra” (un ossimoro, per molti versi). Marciavamo nelle strade contro la guerra del Viet-nam, ma gridando (oggi ci accorgiamo quanto superficialmente) “vietcong vince perché spara”. Eravamo confusi: pacifismo politico, bellicismo esistenziale. O viceversa, non saprei. Certo allora la contraddizione tra le parole d’ordine radicalmente pacifiste che pronunciavamo e i mezzi con cui ritenevano necessario affermare principi indiscutibili di giustizia non ci preoccupava. Anzi, in qualche misura ci esaltava, quasi che la durezza delle forme di lotta fosse garanzia di radicalità delle soluzioni proposte, o comunque l’unico atteggiamento possibile di fronte alla portata estrema e mortale dei problemi. Leggevamo Gunther Anders e Franz Fanon senza porci il problema della compatibilità delle tesi dell’uno o dell’altro. Ammiravamo Gandhi e Malcom X, come qualche anno prima ci eravamo affidati al mito incrociato di Kennedy e di papa Giovanni, senza interrogarci troppo a fondo sulle differenze etiche e di comportamento tra loro. Vivevamo un tempo di mezzo, il compimento del Novecento e la sua imminente fine, spaccati tra due universi di valori diversi anche se non necessariamente contrapposti, relativamente inconsapevoli di tale natura.
L’approdo alla nonviolenza, dunque, è stato per uno come me – ma potrei dire: come molti di “noi”, generazionalmente segnati – una conquista complessa, persino tormentata. L’esito di un percorso a zig zag, di una serie di confronti con eventi e rotture storiche non facili da decifrare. Il prodotto di emotività e di ragionamento, non sempre felicemente coordinati tra loro. L’emotività prodotta dalla catena di eventi che hanno definitivamente chiuso il “secolo breve”. Il ragionamento, faticoso – perché pochi dei maestri di ieri ci aiutano in questa delicata traversata -, sulla portata della cesura storica consumatasi. Sul carattere per molti versi inedito del tempo che stiamo vivendo, e sul sistema di “mezzi” adeguati ai fini e ai problemi che questo tempo nuovo ci pone di fronte con perentorietà. Per dirla con una frase: alle ragioni universali che militano da sempre per la nonviolenza e che hanno fino a ieri prodotto la scelta in questa direzione da parte di un piccolo gruppo di “persuasi” (per usare un termine di Aldo Capitini), determinati da una ragione che assomiglia assai alla Fede; a questo tipo di ragioni, dicevo, che potremmo definire “assolute”, si aggiungono ora altre – e clamorose – ragioni, più relative, forse, più datate storicamente, ma non meno forti, che dovrebbero muovere in questa direzione anche “gli altri”, i “perplessi” (per ricorrere ancora a Capitini), quelli come me, in sostanza, che ci arrivano tardi, e fanno fatica a utilizzare il codice non-violento per giudicare tutte le esperienze storiche. Che stentano ad assegnare, per così dire, valore retroattivo alle sue norme fino a determinare, alla sua luce, il giudizio storico ed etico su eventi come la seconda guerra mondiale, o la Resistenza armata, o le lotte di liberazione di molti popoli nella seconda metà del secolo scorso. Ma che, nel contempo, sono giunti alla convenzione che oggi la riproposizione della violenza come mezzo di sostegno alle ragioni degli oppressi, dei deboli e dei poveri, dei traditi nel bisogno di giustizia e dei vinti di sempre, è del tutto improponibile. Quale che sia la grandezza della causa con cui la si giustifica. Quale che sia la grandezza dell’ingiustizia contro cui ci si batte.
Alla base di questa convinzione – devo confessare: “nuova” per me -, metterei, per essere sintetico all’estremo, una categoria, o meglio una serie di categorie e una linea di ragionamento, di Ernesto Balducci. Quel passaggio d’epoca che egli definisce attraverso la transizione dall’ “uomo delle tribù” all’ “uomo planetario”. E che trova il proprio fondamento essenziale (ontologico, direbbero i filosofi) nella scoperta della fragilità estrema del nostro mondo. Del carattere totalmente “esposto”, precario, incerto, della specie umana. La nostra “fragilità creaturale”, come la chiamava, nell’epoca in cui la tecnica ha messo a disposizione dell’umanità mezzi di distruzione tanto potenti ed estremi, da rendere concepibile e possibile, per la prima volta nella storia universale, la distruzione radicale dell’umanità per opera dell’umanità stessa. Questo è il primo frutto avvelenato – ma anche portatore di possibilità inedite – che il Novecento ci ha donato. Che il secolo scorso ha prodotto (Hiroshima, Nagasaki, la minaccia concreta dell’olocausto atomico), e che ha anche segnato, in buona misura la sua fine. Il necessario superamento delle categorie portanti della sua morale e della sua politica. Il necessario rovesciamento, o ridefinizione, di tutti i valori.
Il Pianeta, nel XX secolo, si è unificato all’insegna del rischio planetario. E’ un dato, che la nostra coscienza non ha metabolizzato a sufficienza. Né il percorso di è arrestato lì: all’equilibrio del terrore che quell’innovazione mortale aveva prodotto si è aggiunto, pochi decenni più tardi, la disseminazione possibile; pratica del terrore, che l’apertura del vaso di Pandora della distruttività, e l’accessibilità a strumenti di distruzione di massa non più solo da parte di poche (tendenzialmente due) “grandi potenze”, ma da parte di una folla crescente di “soggetti”, statali e no, pubblici e privati, politici o criminali. E’ entrata in crisi allora l’idea stessa di politica che aveva dominato quasi quattro secoli di modernità: il paradigma politico fondato sulla forza. Sull’idea che il monopolio della forza (o meglio della violenza) potesse produrre l’ordine e la pace sociale tra gli uomini. Che dal male, monopolizzato dai grandi Leviatani, potesse scaturire un bene per i sudditi: la fine della paura, la tutela della vita, la fine del disordine.
Nel nuovo mondo in cui siamo da poco entrati, il male, anche se monopolizzato, non fa che riprodurre su scala allargata il male stesso. La violenza, maneggiata dai vecchi leviatani, non fa che moltiplicare la paura, l’incertezza, il disordine e lo stato permanente di guerra. E’ il primo passo, del percorso mentale di molti “perplessi” di ieri verso la persuasione nelle ragioni strategiche della non violenza. A cui se ne aggiunge un secondo: la constatazione del carattere asimmetrico delle grandi contrapposizioni che dividono e spezzano lo spazio unificato globale – il nostro nuovo “spazio sociale” -: l’accumulo di potenza estrema e distruttiva a un polo, la disseminazione di debolezza e povertà all’altro. Una condizione che rende impossibile, oggi, il confronto tra i due universi, fondato sul mezzo arcaico della forza. Immaginare oggi il confronto globale come un “rapporto di forza” (non voglio neppure dire un confronto militare, o bellico) significa ipotizzare che la parte più debole di esso impieghi, nel conflitto, mezzi estremi, come il terrorismo, la tecnica kamikaze, la rappresentazione simbolica estrema del sacrificio proprio e altrui, assimilandosi all’immagine stessa del proprio “nemico”. Facendosi simile e talvolta peggiore di esso. Soprattutto perdendo se stesso. La propria identità. La possibilità di candidarsi alla definizione dei criteri e delle regole fondamentali dei una società davvero “planetaria”.
Approdare alla nonviolenza, oggi, vuol dire, per uno come me, il riconoscere la necessità di un salto estremo – culturale, politico, addirittura, oserei dire, antropologico, relativo cioè alle forme elementari del comportamento umano – per adeguarci alle caratteristiche del mondo che – anche attraverso la violenza estrema del secolo scorso – abbiamo contribuito a creare. E’ in qualche misura, l’unica forma di agire collettivo capace di permetterci di superare le contraddizioni in cui ci siamo avvolte, ma anche per cogliere appieno le potenzialità che la situazione storica attuale pure contiene. Sta a noi scegliere se, prolungando la logica distruttiva dell'”uomo delle tribù”, prepareremo la nostra futura invivibilità e barbarie, o se, assumendo il profilo alto dell'”uomo planetario” vorremo lavorare a quell’altro mondo possibile che già, nella nebbia, intravvediamo. E la scelta passa, non c’è dubbio, per la porta stretta, ma inevitabile, dell’opzione nonviolenta.
Per questo, cari amici, vi auguro di cuore buon lavoro. Perché dal vostro lavoro dipende molta parte del nostro domani.

* Saggista e storico

Il saluto del M.I.R.

Carissimi amici del Movimento Nonviolento,
non potendo essere fisicamente con voi al Congresso , desidero farvi avere i miei saluti e auguri di buon lavoro, sia come singolo iscritto al movimento da ormai 22 anni, sia a nome di tutto il MIR, di cui ricopro indegnamente la carica di Presidente.
La fratellanza, e la comunanza di intenti dei nostri movimenti è testimoniata, oltre che dai molti iscritti con doppia tessera, come il sottoscritto, da una storia di azioni comuni, campagne, attività che ci hanno visto sempre insieme, talvolta in rapporto dialettico, ma sempre accomunati dall’immane sforzo di portare la nonviolenza nella cultura, nella politica, fin nella vita di tutti i giorni della gente.
Sforzo quasi impossibile, vista la sproporzione tra la difficoltà dell’obbiettivo e la piccolezza dei nostri movimenti.
Eppure quanto cammino è stato compiuto!
Ricordo ancora la commiserazione con cui da giovane studente sessantottino guardavo uno sparuto gruppetto di studenti che si definivano ‘nonviolenti’: già! Negli anni ’60 i nonviolenti erano considerati dei folli, del tutto al di fuori del mondo!
Oggi grazie all’azione di Capitini, di Vinay, di Sereno Regis, di don Milani, di don Sirio, e di tanti altri noti o meno noti, e grazie anche alla presenza dei nostri pur piccoli movimenti la nonviolenza è uno dei temi del dibattito politico culturale; vi è una ricerca, soprattutto da parte dei movimenti ‘alternativi’, verso di essa, è considerata metodo d’azione di molti movimenti; insomma non siamo più i soli a parlare di nonviolenza, il cerchio, forse non tanto dei persuasi, ma certamente dei cercatori di essa si è allargato parecchio.
Se comunque questo è un risultato notevole raggiunto, non tutto certamente merito nostro, ora si aprono prospettive ulteriori ma anche problematiche nuove: se infatti negli anni ’70 e ’80 i nostri 2 movimenti erano pressochè gli unici a definirsi e a praticare la nonviolenza (c’era anche il partito radicale, ma ha considerato sempre la non violenza come tattica politica, mai come stile di vita, e comunque dopo ha preso una strada del tutto diversa dalla nostra), oggi ci troviamo un’area abbastanza vasta , in parte al di fuori dei nostri movimenti, che pur tuttavia fa una ricerca seria e sincera per la nonviolenza: si va dalla rete Lilliput (area a noi contigua e in cui siamo comunque immersi), a gruppi e associazioni cattoliche, movimenti alternativi, partiti politici
Ecco che a noi si presenta il difficile compito di mettere al servizio di quest’area la nostra esperienza , la nostra storia la nostra cultura senza però far pesare la nostra primogenitura; dovremmo stare attenti ad evitare di cadere in quello che chiamerei il complesso del ‘popolo eletto’; dobbiamo interagire con tutta quest’area puntando ad offrire un punto di riferimento, valorizzando tutto ciò che c’è di buono attorno a noi, cercando di metterci in rete con tutte queste esperienze, pungolando anche ad una sempre maggiore coerenza, mentre dobbiamo evitare di chiuderci in noi stessi, ritenendoci gli unici depositari della ‘ortodossia’ nonviolenta, limitandoci ad impartir lezioni agli altri. Non è un compito facile!
Questo compito dobbiamo condurlo insieme, cercando di rafforzare i legami tra di noi; mi sembra di notare che ultimamente si sia allentata l’abitudine a trovarsi insieme; un po’ per pigrizia un po’ perché le occasioni di incontro in altri ambiti: vuoi la rete Lilliput o la rete Corpi Civili di Pace, sono aumentate, fatto sta che Mir e MN rischiano di proseguire su strade parallele, che vanno nella stessa direzione, ma non si incontrano tra di loro. Sarebbe opportuno avere anche dei momenti di dibattito nostri, dei 2 movimenti storici della nonviolenza organizzata. Forse l’ipotesi fatta alcuni anni fa di una federazione dei nonviolenti è un po’ superata, ma andrebbe focalizzato tra di noi un impegno comune su 2 o 3 obiettivi su cui concentrare gli sforzi insieme.
Io oggi vedo una grossa opportunità nella triade Corpi Civili– commissione Difesa Popolare Nonviolenta- Servizio Civile Volontario; le tre cose sono legate e possono costituire la vera alternativa all’esercito comune europeo. Lavorando ad un progetto che veda nei corpi civili di pace la prima forma di realizzazione della dpn, usando il servizio civile volontario a suo sostegno potremmo fare dei grossi passi avanti; e questo è un lavoro in cui non saremmo soli.
Un altro campo di impegno è la ripresa della costruzione di una rete di Gruppi di Azione Nonviolenta, o comunque li si voglia chiamare; dovrebbe esserci un gruppo di azione nonviolenta dovunque ci sia un gruppo Mir o MN (non è così purtroppo) oltre che dove c’è un nodo lilliput; questa dovrebbe essere la nostra proposta pratica di resistenza nonviolenta, alternativa alle forme di lotta più o meno violente; certo occorrerebbe che questi gruppi non si limitassero a costituirsi o a fare formazione, pur importante, ma facessero, anzi stimolassero, azioni dirette nonviolente.
Un terzo campo di impegno è quello delle reti di economia solidale: già ne stanno nascendo in varie parti d’Italia; io vedo in queste, oltre alla messa in pratica dei nostri discorsi sull’economia nonviolenta, anche il salto qualitativo dai gruppi di acquisto e dai produttori alternativi, al distretto economico solidale, gli embrioni di una alternativa economica che esca dalla nicchia di testimonianza. L’ho sparata troppo grossa? Può darsi, ma solo chi è capace di sognare può cambiare il mondo.
Esistono tante altre attività che facciamo e che bisogna continuare a fare, ma queste le trovo emblematiche: l’alternativa alla guerra e alla politica estera della forza, la partecipazione diretta alla politica che è anche resistenza ai tentativi di svuotare del tutto la democrazia (oggi secondo me siamo in piena emergenza democratica: dobbiamo pur offrire una alternativa ai movimenti sviluppatisi in questi anni, che non sia la rassegnazione o la disperazione), l’alternativa ad una economia sempre più in crisi.
Penso che il compito principale dei nonviolenti oggi sia di far vedere che l’alternativa è possibile, e questo lo si può fare solo costruendola e facendola toccare con mano
Come vedete si tratta di compiti ancora una volta al di là delle nostre forze; ma ciò che sembra impossibile a volte diventa realizzabile, occorre crederci!
Un caro saluto di pace e un augurio di buon lavoro, sperando di poter avere l’occasione di incontrarci presto.

Paolo Candelari

Il potere sta sulla canna della bici

Intervento congressuale di Nanni Salio

Il rapporto tra nonviolenza e politica è mediato dal potere. Ma ci sono molti modi di intendere sia la politica sia il potere. Nella tradizione dominante della teoria del cosiddetto realismo politico (che in realtà è ben poco realista) vale quanto sostiene C.Wrights Mill: “tutta la politica è una lotta per il potere; la forma estrema del potere è la violenza” (citato da Ekkehart Krippendorff, a pag. 69 del suo importantissimo saggio, Critica della politica estera, Fazi, Roma 2004, al quale farò ampiamente riferimento). E la politica, a sua volta, è intesa sia come politica estera sia come politica interna. In entrambi i casi, la nascita dello stato moderno avviene attraverso la centralizzazione, il monopolio, del potere inteso come dominio e uso della violenza attraverso lo strumento militare (eserciti all’esterno, forze di polizia all’interno, ma quando occorre sono strumenti intercambiabili).
Una visione politica della nonviolenza non può quindi fare a meno di confrontarsi criticamente con le varie forme e concezioni di potere. Già Kant distingueva tra la falsa politica, quella che secondo Machiavelli si propone come “scienza del dominio” per acquisire e mantenere il potere, ma che inevitabilmente si deve confrontare anche con la perdita del potere, e la “vera politica”, che “non può fare alcun passo senza aver prima reso omaggio alla morale” (vedi Krippendorff, pag. 68).
Possiamo analizzare le strutture di potere mediante il seguente schema.

potere dall’alto (dominio)

leader autoritari eserciti

dittatori multinazionali

presidenzialismo complesso militare-industriale

potere individuale potere collettivo

empowerment individuale people’power

testimonianza nonviolenta difesa popolare nonviolenta

azione diretta nonviolenta potere di tutti (Capitini)

potere dal basso (nonviolento, di liberazione

Come abbiamo già detto, il potere dall’alto è un potere di dominio e la guerra altro non è, parafrasando Clausewitz, che “la prosecuzione della politica estera con altri mezzi”, ovvero mediante gli eserciti (Krippendorff, p.31). Ma l’intreccio tra la politica, così come è comunemente intesa dai realisti, e la guerra è talmente perverso che si può anche ribaltare la massima clausewitziana sostenendo, con Foucault, che “la politica è la prosecuzione della guerra con altri mezzi”. Oggi più che mai vediamo come le quattro forme classiche di potere (politico, economico, militare e culturale) siano così intrecciate e centralizzate nelle mani di ristrette elite che la formula più corretta è quella usata sin dagli anni ’60 nientemeno che da un generale nonché presidente degli Stati Uniti, Eisenhower, che denunciò il pericolo del nascente “complesso militare-industriale” cresciuto ai giorni nostri sino a diventare complesso militare-industriale-scientifico-mediatico.
Il potere dal basso, esercitato mediante la lotta nonviolenta, può assumere la forma individuale di testimonianza e di azione diretta oppure quella collettiva di people’power che si è manifestata più volte nel corso della storia, come è ampiamente documentabile. In entrambi i casi si deve attivare un processo di empoewrment, riacquisizione di potere personale e collettivo, che permetta di avviare un circolo virtuoso di fiducia e di lotta (vedi John Friedman, Empowerment. Verso il potere di tutti, Edizioni Qualevita, Torre dei Nolfi 2004). Ma il potere dal basso può basarsi anch’esso sulla violenza e l’imposizione, secondo la formula maoista che “il potere sta sulla canna del fucile”. Ma questa massima può essere resa in forma nonviolenta sostenendo che “il potere sta sulla canna della bici”, ovvero su un modello di sviluppo e uno stile di vita autenticamente sostenibili, su tecnologie appropriate (di cui la bici è il prototipo per eccellenza) e sulla capacità di trasformazione nonviolenta dei conflitti, dal micro al macro (DPN, difesa popolare nonviolenta).
Il potere centralizzato è oggi reso ancora più temibile dalla tecnoscienza, piegata agli interessi di pochi (armi nucleari e di distruzione di massa; tecnologie di condizionamento, propaganda e manipolazione mediatica; fonti energetiche ad alta potenza; biotecnologie utilizzate per espropriare saperi millenari e creare dipendenza). Ma al tempo stesso non dimentichiamo che la formula machiavellica del potere prevede anche che prima o poi i potenti cadano e tramontino. Così come è avvenuto nel 1989, quando il people’power dimostrò in pieno la capacità di sconfiggere senza colpo ferire quello che la propaganda statunitense considerava l’”impero del male”, anche il falso “impero del bene”, quello degli USA, non gode di buona salute. L’analisi svolta da Galtung è quanto mai illuminante e ne prevede la fine entro i prossimi quindici anni, accelerata dalla rielezione di Bush (vedi: The Fall of the US Empire, www.transcend.org ). Compito della nonviolenza politica è di sostenere, contro ogni propaganda e falsa evidenza, che “esistono alternative”, che “il re è nudo” e che la nonviolenza è la strada più efficace per costruire i tanto agognati nuovi mondi possibili.
Ma questo comporta l’assunzione in pieno di responsabilità, di capacità progettuali, di grande lungimiranza, continuità di azione e di elaborazione, superamento creativo dei conflitti interni ai movimenti e della loro deleteria frammentazione, dei particolarismi, delle idiosincrasie personali e delle beghe da cortile.
Proviamo a immaginare, a mo’ di esercizio, ma senza alcuna pretesa di esaustività, quale potrebbe essere un programma politico che si richiami alla nonviolenza, quello che Gandhi chiamava il “programma costruttivo” e chiediamoci anche qual è il soggetto, o i soggetti, che possono proporlo, sostenerlo e realizzarlo e con quali modalità.
Secondo l’analisi di Luigi Bonanate (La politica internazionale tra terrorismo e guerra, Laterza, Bari 2004) nell’ultimo decennio la politica estera è sempre più diventata “politica interna del mondo” ed è difficile distinguere tra interno ed esterno. Comunque sia, in politica estera, intesa in senso tradizionale, possiamo ravvisare due principali priorità. La prima è la riforma delle Nazioni Unite in senso popolare, assembleare, democratico, come proposto da vario tempo nelle sedi e dagli autori più autorevoli. La seconda è la progettazione della transizione dall’attuale modello di difesa, aggressivo, offensivo, funzionale alla guerra e che produce insicurezza, alla DPN. La fase intermedia di questa transizione (transarmo) vedrà convivere forme di difesa difensiva (ancora militare) con la nascente DPN e con la costituzione dei Corpi Civili di Pace (CCP), di cui già oggi esistono molteplici esempi spontanei, dal basso, coordinati dalla Rete dei CCP (www.reteccp.org ). Ma politicamente, questo significa riduzione programmata delle spese militari, riconversione dell’industria bellica e degli eserciti. E’ la tanto auspicata politica minima del “5%”. Ogni anno, per un’intera legislatura, e poi per quelle a venire, occorre programmare in termini quantitativi e non solo con l’aria fritta della retorica della pace un diverso uso delle risorse economiche. Oggi stiamo andando esattamente in senso opposto. E questo vale tanto per l’Italia quanto per l’UE, che dovrebbe scegliere la strada del transarmo e della neutralità.
Sul piano della politica interna, individuiamo almeno tre principali priorità. Primo, progettare la transizione dall’attuale modello di sviluppo ad alta intensità energetica e di potenza, con un impatto ambientale insostenibile, a un modello a bassa potenza, centrato sull’uso di fonti energetiche rinnovabili, sul risparmio e l’efficienza energetica e su uno stile di vita ispirato alla semplicità volontaria e alla gioia di vivere e alla felicità che ne deriverebbero. Anche in questo caso, uscire dall’aria fritta significa programmare di anno in anno la riduzione del 5% dei consumi di combustibili fossili e l’incremento di fonti alternative. Il recente lavoro di Hermann Scheer (Il solare e l’economia globale, Edizioni Ambiente, Milano 2004) è l’esempio più concreto di tale possibilità e dovrebbe diventare un manuale di studio per ognuno di noi.
Il secondo punto riguarda la promozione e diffusione della cultura della nonviolenza in ogni campo: da quello mediatico a quello educativo, da quello accademico (con la rottura dei paradigmi dominanti) a quello dell’immaginario collettivo (artistico, musicale, progettuale, urbanistico). Questa è un’azione capillare che abbiamo cominciato anni fa e continua in un leggero crescendo, ma occorre farne una priorità soprattutto nei confronti di quella stragrande quantità di cittadine e cittadini che attendono un messaggio chiaro per uscire dall’apatia.
Terzo, la qualità delle relazioni interpersonali, di genere, intergenerazionali. Il vecchio slogan femminista “il personale è politico” è quanto mai attuale: senza “l’altra metà del cielo” non si fa nessuna rivoluzione nonviolenta. In questo campo siamo di fronte al “potere senza volto” del maschilismo, delle strutture violente ereditate dal passato. Sono forme di potere, come quello della mafia e del capitalismo (non a caso intrecciate al maschilismo) contro le quali è più difficile lottare rispetto alle situazioni in cui il potere ha un volto ed è concentrato in gruppi più facilmente identificabili.
Infine, bisogna passare all’azione con maggiore incisività: moltiplicare la presenza attiva dei GAN (gruppi di azione diretta nonviolenta), investendo quanto basta nell’addestramento all’azione diretta nonviolenta; rilanciare e sostenere ogni forma di obiezione di coscienza (alle spese militari e per la dpn, alla ricerca militare, al lavoro nell’industria bellica, al servizio militare trasformando i soldati in refusnik); appoggiare le campagne di boicottaggio come forme di autentica disobbedienza civile (e non solo sociale e/o incivile) all’insegna di parole come: diserta i supermercati; diserta le autostrade; diserta la TV. Tempo fa mi fu posta una domanda imbarazzante e intelligente: “Da quanto tempo non andate in carcere?”. L’efficacia dell’azione nonviolenta si misura anche dal grado di fastidio che si riesce a dare al potere costitutito. La vera disobbedienza civile, di Gandhi e Martin Luther King, si svolgeva all’insegna della parola d’ordine “riempire le carceri”. Chi prende l’iniziativa guida il gioco, e se non la prendiamo noi la prenderanno altri, prima o poi. Ed è probabile che se non si vedono o non si conoscono le tecniche e i metodi dell’azione nonviolenta si ricorra tout court alle scorciatoie dell’azione diretta violenta.
E il soggetto? Siamo noi nel senso più ampio, con una grande responsabilità dei movimenti, formali e informali, dell’area nonviolenta a trasformare i lillipuziani in una forza resistente organizzata e non in una generica armata brancaleone.
Ma su tutti questi punti occorrerà ritornare e meditare a lungo in quelli che proporrei di chiamare “laboratori creativi di nonviolenza politica”, simili ai COS di caspitiniana memoria, ma aggiornati ai tempi nostri, affamati di partecipazione, ricchi di esperienze, ma ancora poveri di capacità operativa.

L’AZIONE
A cura di Luca Giusti
Un monumento al disertore come valore di umanità

“Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi” Bertold Brecht

A due giorni dalla Festa delle Forze Armate, istituita dal fascismo per trasformare le vittime della prima guerra mondiale in eroi coraggiosi che si immolavano per la Patria, il GAN -Gruppo di Azione Nonviolenta di Rovereto, associato al Comitato per la Pace e i Diritti Umani- ha voluto ricordare con un monumento le gesta di quei 470.000 uomini che nella prima guerra mondiale non obbedirono alla chiamata alle armi. Alla presenza dell’avvocato ed ex-partigiano Sandro Canestrini è stata tolta la grande bandiera arcobaleno posata ai piedi del monumento marmoreo costruito dal GAN. Il momento dell’inaugurazione è stato accompagnato dalle note della canzone di B. Vian “Il disertore” cantata da Ivano Fossati. Presenti al momento più di cento persone che si sono avvicinate ad ammirare la bellezza di un’opera dal valore altamente umano. Sandro Canestrini , presidente del Movimento Nonviolento, ha ricordato i testimoni di Geova, “che per religione non fanno il servizio militare”, e i ventimila soldati tedeschi “che hanno abbandonato la guerra per non obbedire agli ordini assassini di Hitler”. L’avvocato ha invocato “una benedizione della diserzione di chi non vuole combattere per fare altri morti”.

Sulla facciata principale rimangono incise le impronte lasciate dal disertore che togliendosi la divisa, scarponi ed elmetto è sceso per diventare un uomo libero. Tra le scritte scolpite sulle facciate rimangono di forte richiamo “Quando lo Stato ti insegna ad uccidere si fa chiamare patria” e “L’eroe non è chi è forte con i deboli ma il debole che diserta i forti”. Il messaggio è forte, originale e deciso come pure l´invito all´obiezione di coscienza e a quella fiscale alle spese militari. Per un paio d´ore la gente si è fermata ad ascoltare, ha curiosato quello strano monumento ad una categoria che nella storia è sempre stata bollata come traditrice. Nonostante i molti apprezzamenti arrivati al Gan, il monumento rimarrà a Rovereto ma senza una collocazione fissa in quanto nella “città della pace” sembra non esserci cittadinanza per la figura del disertore. All’azione sono seguite alcune polemiche da parte del direttore del Museo Storico di Rovereto, che ha voluto fare dei distinguo tra chi si prende la responsabilità di disertare e chi diserta per semplice codardia. A rispondere è Marco Zandonai del GAN di Rovereto secondo cui “per certe persone a volte è difficile spogliarsi della divisa dello storico e per deformazione professionale si vedono solo le impronte e le si analizzano per poterle catalogare: orme di uomo a passo fiero con ideali nobili, orme di uomo a passo fuggitivo codardo e opportunista, orme di uomo…”.

L’iniziativa ha riscosso un buon successo grazie anche al seguito mediatico locale e nazionale con un intervista a “Radio Due” nella trasmissione “Caterpillar”. Durante il pomeriggio si sono raccolte centinaia di firme per la Campagna “Sbilanciamoci” che chiede tra le altre cose la riduzione alle spese militari di ‘almeno il 10% delle spese militari nel 2005’, per arrivare ad una riduzione del ‘50% nel 2010”. Questo in un momento in cui per il 2005 si prevede un incremento del 6,5% rispetto all’anno precedente, dove solo il capitolo sul personale in ferma prefissata è passato da 807 milioni di euro a 994 milioni di euro, con un salto in avanti del 23,1%. Un impegno quello del Gruppo roveretano che continuerà coinvolgendo la città sui percorsi di riflessione e ed azione verso una difesa popolare nonviolenta. Il monumento rimane disponibile per i gruppi nonviolenti che vogliono ricordare il valore di un gesto compiuto da uomini che hanno abbandonato le armi per diventare uomini liberi. Informazioni sulle prossime “tappe del disertore” saranno pubblicate sul sito www.ostinatiperlapace.org e su www.retegan.net che seguono le gesta dei vari Gruppi di Azione Nonviolenta che si sono costituiti in numerose città d’Italia.

ULTIMA NOTIZIA: Alleanza Nazionale di Rovereto ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica nei confronti di Andrea Trentini del Gan, l’avvocato Sandro Canestrini, il poeta Alberto Sighele e l’assessore Corrado Corradini per “istigazione di militari a disobbedire alle leggi” in base all’articolo 266 del codice penale. Il Movimento Nonviolento ha espresso piena solidarietà ai denunciati.

Andrea Trentini
gantrentino@unimondo.org

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Pecunia non olet ! Il denaro degli immigrati

In Italia vivono ormai, secondo le stime più recenti, circa 2,5 milioni di immigrati, l’equivalente di una città come Milano ed il suo hinterland; il 4% della popolazione. Erano un milione in meno solo tre anni fa. Se dal punto di vista dei doveri ai quali essi devono rispondere, la cosiddetta legge Bossi-Fini fa un quadro abbastanza chiaro, non così è dal lato dei loro bisogni, specialmente quelli economici.
I problemi che gli immigrati si trovano a dover affrontare nella vita quotidiana sono sorprendentemente semplici: telefonare nel proprio Paese d’origine, spedire dei pacchi, trovare tariffe convenienti per una visita, stipulare polizze assicurative (perché l’immigrato vuol essere sicuro, se muore qui, d’essere riportato nel suo paese). Molti di loro hanno invece la necessità di mandare denaro a casa, per provvedere alle necessità dei familiari lasciati in patria.
Nel 2003 gli immigrati “bancarizzati”, cioè quelli che utilizzano regolarmente i canali formali erano uno su tre. Gli altri si sono affidati, per le operazioni di trasferimento del denaro nei paesi di provenienza, alle reti informali (le “hawala”) e a quelle del money transfer. Lo scorso aprile l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti confessò il proprio stupore segnalando, al vertice del G7 a Washington, che le rimesse degli immigrati in Italia ammontavano a 3,8 miliardi di euro, su un totale di 17 miliardi di euro a livello europeo. Il nostro paese si situava quindi al primo posto in Europa per dimensione economica, ed al secondo posto al mondo dopo gli Stati Uniti.
L’ultima indagine, condotta da un operatore del settore, aggiorna a 4,08 miliardi di euro la cifra. Si stima inoltre in 25,8 miliardi di euro il reddito 2003 prodotto dagli immigrati in Italia: questo significa che essi spediscono nei loro paesi circa il 16% di quanto guadagnano, ma spendono l’84% nel paese che li ospita, contribuendo così a produrre una provvidenziale, italica ricchezza.
Significa anche che i 2,5 milioni di immigrati guadagnano mediamente circa 10.300 euro l’anno; un guadagno che li situa al disotto di quanto mediamente guadagnato dagli italiani, ma decisamente superiore a quanto potrebbero aspirare di guadagnare nella loro patria.
I risultati prodotti dal fenomeno delle rimesse sono degni di ogni attenzione da parte degli operatori etici della finanza. Prendiamo l’esempio della Bulgaria: secondo i dati dell’Osservatorio sui Balcani, il paese conta all’estero circa un terzo dell’attuale popolazione e i trasferimenti di denaro degli emigranti verso casa hanno oramai superato gli investimenti esteri in Bulgaria, arrivando al 3% del PIL. Gli esperti della Banca centrale della Bulgaria ritengono che questi trasferimenti di denaro vengono in gran parte utilizzati per spese di prima necessità e per garantire la sopravvivenza del proprio nucleo familiare. Si tratta di una vera assistenza sociale che i gastarbeiter garantiscono alle proprie famiglie.
Analoghe situazioni troviamo in Albania, dove secondo la Banca Mondiale le rimesse raggiungono il 17% del PIL, come in Ecuador, dove raggiungono il 7,9% del PIL e costituiscono la seconda voce di reddito dopo la produzione di petrolio. In alcuni casi, come per Tonga, si arriva a rimesse pari al 32% del PIL.
Il leader del Money Transfer è senz’altro il gruppo Western Union, il cui fatturato mondiale ammonta a circa sette miliardi di euro, tramite la raccolta effettuata in circa 125.000 punti convenzionati (500 solo a Lima) in 200 paesi del mondo. Quasi 200 milioni di euro di fatturato Western Union li realizza in Italia, dove sono presenti 1.400 centri di raccolta (uno su dieci è gestito direttamente da extracomunitari), circa il 75% del totale; questo significa che ogni anno l’operatore maneggia circa 3 miliardi di euro di rimesse.
Le commissioni praticate per i trasferimenti (dal 4% all’8% a seconda dell’importo) ed il notevole grado di risparmio raggiunto dagli immigrati (Western Union lo stima nel 22% del totale, superiore a quanto spedito nei paesi e paragonabile a quello ottenuto dagli italiani durante gli anni dello sviluppo), ha scatenato l’appetito delle banche tradizionali, alcune delle quali hanno aperto sportelli multietnici in quartieri ad alta presenza di immigrati, come il San Paolo a Torino (Porta Palazzo) e Carige a Genova (Via Gramsci). Con buona pace per chi vede in essi solo un pericolo per la nostra società.

LILLIPUT
A cura di Massimiliano Pilati
Con le armi “leggere” si fanno guerre pesanti

Lo scorso 13 novembre, in Campidoglio, alcuni premi Nobel per la pace presenti a Roma per il Summit organizzato dalla Fondazione Gorbachev e del Comune di Roma, hanno presentato in conferenza stampa il trattato internazionale sui trasferimenti di armi leggere. L’incontro, organizzato dalla Rete ControllArmi, nasce proprio da uno spunto dei nobel. Infatti, nel Maggio del 1997, Oscar Arias lanciò, in collaborazione con un gruppo di Premi Nobel per la Pace, il “Codice Internazionale di Condotta sul trasferimento delle Armi a cura dei Premi Nobel per la Pace”, nel quale essi affermavano: “Oggi parliamo tutti insieme per dar voce alla nostra comune preoccupazione riguardo i rovinosi effetti di un commercio delle armi non regolamentato. Insieme, abbiamo scritto un “Codice Internazionale di Condotta sul Trasferimento delle Armi” che, una volta adottato da tutte le nazioni esportatrici di armi, porterà beneficio a tutta l’umanità, agli stati, alle etnie e alle religioni”.
Riccardo Troisi ha moderato la conferenza che ha visto gli interventi di Marian Pink (Amnesty International) a riguardo dell’iniziativa del Trattato, del bisogno di una regolazione sui trasferimenti di armi e del futuro dell’iniziativa stessa. Infatti, attraverso il sito www.controlarms.org si sta portando avanti una petizione chiamata Million face petition. Neil Arya della International Physicians for the Prevention of Nuclear War IPPNW e Hume dell’American Friends Service Committee AFSC hanno ricordato invece i dati attuali relativi alla violenza armata nel mondo e le iniziative in corso in tutto il mondo in supporto dell’ATT. Infine Nicoletta Dentico (Presidente Campagna Mine Sezione Italiana ICBL) ha riportato all’attenzione il cammino simile del Trattato di Ottawa sulle mine anti-persona, sottolineando le sfide future in questo campo. E’ seguito un video di Monsignor Desmond Tutu sulla necessità di un controllo del commercio di armamenti.
La necessità di agire sul mercato del commercio delle armi leggere è uno degli obiettivi principali dell’iniziativa. Nasce dalla constatazione che questo tipo di armamenti costituiscono in questo momento la vera arma di distruzione di massa, oltre che il principale mezzo attraverso cui sono attuate le violazioni dei diritti umani in un largo numero di paesi. Ma nonostante tutto ciò la proliferazione di questo genere di armamenti sembra essere fuori da ogni controllo: si calcola che più di 500.000 civili muoiano ogni anno in media in conseguenza di uso improprio di armi convenzionali, il che significa una persona ogni minuto. Il giro d’affari delle esportazioni mondiali autorizzate si aggira sui 21 miliardi di dollari all’anno. Ci sono nel mondo 689 milioni di armi leggere, una ogni dieci persone, prodotte da almeno 1000 compagnie in 98 Paesi e ogni anno vengono prodotte 8 milioni di armi leggere.
L’Italia in questo commercio ha un ruolo di primo piano. Infatti è stata negli ultimi anni il settimo esportatore mondiale di armi. I rapporti del Centro Studi Archivio Disarmo, mostrano inoltre una crescita costante delle esportazioni, che nel solo 2003 ha quasi toccato il 40%.
Nello scorso marzo in Italia è nata “Controllarmi – Rete Italiana per il Disarmo”, una rete di organizzazioni che hanno portato avanti la Campagna in difesa della legge 185/90 e che, tra le varie tematiche sul disarmo, include anche il controllo delle armi. Molti sono i temi che spaziano dall’utilizzo degli armamenti nel mondo, all’incidenza nelle guerre, nei conflitti e nei violazione dei diritti umani, al rapporto con lo sviluppo.
A livello internazionale l’obiettivo consiste nel contribuire alla promulgazione di un Trattato Internazionale sul Commercio degli armamenti (ATT). A livello europeo si cercherà, insieme a tutti gli altri componenti della rete di spingere per una revisione radicale del Codice di Condotta Europeo sull’export di armamenti. L’attuale Codice, infatti, non ha carattere vincolante per gli stati membri ed è debole sotto molti aspetti. In questo contesto l’Italia potrà avere un grande peso, potendo contare sull’esperienza maturata grazie alle campagne sulla legge 185/90, tuttora uno degli standard legislativi più avanzati in Europa. Va ricordato però che la legge 185/90 non riguarda le armi di piccolo calibro. Ed è per questo che oltre al livello mondiale ed europeo, la campagna avrà una notevole importanza anche sul piano interno.
Per quanto riguarda l’Italia, innanzitutto l’obiettivo della campagna sarà quello di operare una sensibilizzazione sul tema delle armi, incentrandosi particolarmente sulle armi leggere. Vale la pena ricordare che l’Italia è uno dei principali produttori mondiali di armi leggere.

Fabio Affinito, Emilio Emmolo
Coordinamento Armi Amnesty International

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
Carnivori ed erbivori insieme nell’Arca

La profezia delle ranocchie
Film di animazione
Regia di Jacques Remy-Girerd, Francia 2004

Per riempire di immagini, o meglio di disegni, lo spazio temporale di 40 giorni e 40 notti, la durata del diluvio profetizzato dalle ranocchie, più i giorni in cui i protagonisti lottano per la sopravvivenza in attesa della “decrescita” delle acque, Jacques Remy-Girerd insieme a duecento suoi collaboratori/trici hanno impiegato sei anni di lavoro.
Dice il regista della sua opera: è una favola sociale tragicomica che tratta questioni quali la tolleranza, l’ecologia, la difficoltà del convivere, il tormento della dittatura, la nonviolenza.
E’ un film bellissimo ed uno strumento potente di educazione alla pace, che non sta ottenendo, nelle sale, il successo che merita.
Il protagonista principale è Ferdinand, che Tom, il piccolo figlio adottivo, chiama nonno e non papà a causa della sua avanzata età. Forse non basta adottare un orfano di guerra per meritarsi il titolo di padre, ma bisogna conquistarselo con le buone azioni. Il vecchio e allegro marinaio in pensione, che in una delle sue canzoni canta il sogno di avere un figlio suo, nato dall’amore, alla fine dell’avventura sarà premiato perché Tom , piccolo poeta intraprendente e curioso, lo chiamerà papà.
Juliette, la moglie di Ferdinand, è una donna di colore africana, che gioca con la magia portando nelle difficoltà del mondo reale un’atmosfera fatta di tenerezza e di cura. Juliette è mamma di tutti e agisce da collegamento con la natura, i miti, il soprannaturale.
Il film riprende la storia biblica dell’arca di Noè ma è molto laico; raccontando la creazione del mondo Ferdinand, guardando le stelle, dice: “…è come se il cielo avesse fatto l’amore con la terra, e noi siamo i bis bis bisnipoti delle stelle cadenti”. La morte fa parte del ciclo della natura e non necessita di consolazioni religiose per essere accettata.
Il quarto personaggio è Lilì, figlia dei vicini di casa che partono per catturare dei coccodrilli per arricchire lo zoo di famiglia, lasciandola in custodia a Ferdinand.
Lilì è una bambina di 10 anni educata ad essere libera, grande amante degli animali, come loro è un po’ selvatica e pestifera ma in fondo è di buona indole.
Il diluvio prevede un’arca e degli animali ed il film riprende la mitologia antica, ma non sono gli uomini ad essere castigati per i loro peccati, bensì sono gli animali ad impersonare i conflitti che comporta il vivere insieme fra diversi.
La diversità che fatica a convivere non è quella fra domestici e selvatici, ma l’appartenere alla specie dei carnivori o degli erbivori. In un coretto canteranno tutti questa canzone: “mica facile la vita insieme, su questa barca ci camperà chi sol patate si mangerà”.
Le metafore suggerite sono tante, a me piace leggere quella del nord ricco del mondo, crudele, ingordo e miope, rappresentato nel film dai carnivori predatori che vorrebbero continuare a soddisfare la propria fame, sfruttando i più deboli.
“Dove andremo a finire” ripete spesso Ferdinand, “se non ci accontentiamo di quel che abbiamo” . Se infatti dovesse prevalere la ferocia, aizzata dalla tartaruga, animale infido (che scopriremo essere maschio), salvato dalle acque, che ripaga l’amore ricevuto covando sete di potere e vendetta, riusciamo ad immaginare tutti quale sarebbe la fine della storia. Le conclusioni a cui ci porta la nostra immaginazione sono un’ovvietà che anche un bambino può leggere ma che, nella vita reale, il nostro mondo di adulti rifiuta di considerare.
Viviamo infatti in una società basata sul consumo, sullo sfruttamento delle risorse ed il mito della “crescita continua”. Siamo incapaci di darci dei limiti: il ribellarsi delle forze della natura, di cui il diluvio è la rappresentazione, non basta ad insegnarci che non c’è futuro se non cambiamo la nostra cultura di onnipotenza. Questo film ha fiducia nella comprensione dei bambini/e.
I colori della tavolozza e dei suoni, sono parte della poesia del film, pennellate di gialli e azzurri e timbri di oboi e fagotti , acquarelli di luce e macchie di buio e melodie di archi, sitar e ghironde, un melting-pot di cultura asiatica ed occidentale, da Miyazaky a Matisse, dall’orchestra sinfonica classica alla musica balcanica. La danza finale attorno al fuoco è un omaggio a questi popoli dell’est, che hanno vissuto molte guerre fratricide ma che, nel canto e nel ballo, esprimono le loro passioni migliori che stanno contaminando il mondo veicolate dagli zingari Rom e Sinti da sempre nomadi in un mondo in tempesta.
Nelle librerie si trova l’album illustrato di Iouri Tcherenkov pubblicato da Emme Edizioni ed il romanzo omonimo edito da Einaudi Ragazzi.

Paolo Rizzi

MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Con la voce e la chitarra canto l’Amore per la vita

Agnese Ginocchio, cantautrice pop-rock melodica con influssi blues, soul e funky, è ormai molto conosciuta dal movimento per la pace: le sue canzoni sono spesso la colonna sonora di manifestazioni e iniziative, soprattutto nel centro-sud. Ha iniziato giovanissima partecipando a concorsi musicali, mossa dall’emozione liberante ricevuta nel vedere un ragazzo con la chitarra di mattina in una chiesa e dall’esempio di impegno femminile per la pace di Joan Baez. La sua esperienza musicale è ampia, dal pianobar alla canzone religiosa, a manifestazioni importanti come il Festival di Napoli e il Girofestival. Nei numerosi concorsi cui ha partecipato ha ottenuto riconoscimenti importanti, come la vittoria nella sezione cantautori al “Gran Premio Città di Roma” del 2000. Collabora attivamente con numerose associazioni impegnate per la pace e nel sociale, fra cui Rete Lilliput e Pax Christi. Il suo sito è: www.agneseginocchio.it

Ormai da tempo si moltiplicano le tue presenze in manifestazioni e iniziative per la pace. C’è chi ti definisce la Joan Baez italiana. Come è nato questo tuo impegno per la pace ?
E’ una cosa che ho portato e sentito da sempre dentro di me. Nasce da un’esigenza interiore, andare alla ricerca della Verità, del significato delle cose, della Vita, degli avvenimenti e della Storia che mi circonda. In un mondo travolto sempre più dal vortice del sistema che giustifica la guerra e l’uso delle armi, diventa più urgente alzare forte la voce, uscire fuori dalle case, dare uno scossone e risvegliare la coscienza dell’uomo. Discorsi, convegni …a volte anche le troppe parole stancano…si disperdono nel vuoto se non sono accompagnate dalle azioni e dall’esempio in prima persona. Il cambiamento dipende da noi, dalla società civile che acquista capacità di creare rete e comunione d’intenti. Personalmente, cerco di esprimerlo attraverso i versi e le musiche che nascono ogni qualvolta compongo una canzone…

Cos’è per te la nonviolenza?
Consiste anche nel mettere in pratica il comandamento dell’Amore che ci hanno lasciato Gesù, profeta e Uomo di Pace, e i suoi seguaci (Gandhi, Francesco d’Assisi, don Tonino Bello, don Primo Mazzolari, Aldo Capitini, don Giuseppe Diana..):”Ama il prossimo tuo come te stesso”. Le guerre, l’indifferenza nel sociale, che genera divisioni, odi e lotte fratricide…che rovinano l’equilibrio del Cosmo umano e planetario, sono la conseguenza di una grave mancanza e ferita mortale all’Amore. Quando due persone si amano, l’uno desidera il bene dell’altro…il contrario se si odiano.. Nel mettere in pratica questo Valore, tutto si rinnova e si rigenera a nuova vita. La nonviolenza è innanzitutto Amore!

Fra le tue canzoni quali scegli in particolare per esprimere e sostenere la nonviolenza ?
Me ne vengono in mente diverse, perché ognuna racchiude un messaggio e una frase venuta fuori in momenti e circostanze diverse, ma che fanno pensare alla prospettiva finale di Pace e Nonviolenza: “C’è un bisogno di cambiare” (l’attentato dell’11settembre); “No nel nome Pace” (dedicata a Rachel Corrie); “Liberate la Pace” (dedicata alle Simone di Un ponte per e agli ostaggi…le stragi e la morte di Enzo Baldoni…); ”Pappagalli verdi” (alias le mine antiuomo dedicata ad Emergency)….

Ci sono canzoni non tue che, in questa prospettiva, ritieni molto significative e, magari, riproponi tu stessa nei concerti dal vivo ?
Qualche volta, raramente, perché canto sempre le mie. Alcune però significative per me sono: Lucio Battisti (“Il mio canto libero”), John Lennon (“Imagine”), Bob Dylan (“Blowin in the wind” …”Knocking on heaven’s door”), Guccini (“Auschwitz”), De Andrè, Gaber…

Un messaggio e un augurio ai lettori per il 2005…
Per questo Natale e l’anno nuovo che verrà alcuni versi “Pace sì…mai più guerra…mai più male sulla terra…/ Illumina la mente dei Grandi… degli Uomini …/ E fa che si incontrino nell’unico linguaggio del Cuore..!”.
L’Arte e la Musica a servizio del bene comune sono fra i mezzi che salveranno il mondo dall’autodistruzione…perché inducono alla sensibilità dell’animo, risorsa unica che ci rende esseri umani liberi e veri, senza pregiudizi nel vero senso della parola. Questi mezzi (chitarra, voce, canzoni), che io chiamo la mia arma nonviolenta contro tutte le guerre…. ci danno forza di reagire e di vincere il male col bene…di cambiare il dolore in danza, la tristezza in gioia. Non dimentichiamo cosa facevano per sopravvivere gli schiavi negri specie quando venivano maltrattati dai bianchi padroni: inventarono il canto, la musica, per reagire al dolore. Questo elemento fu per loro come una liberazione e veramente riuscirono in questo modo nonviolento a lottare per la Libertà. L’augurio che rivolgo a tutti gli amici della pace e della nonviolenza è quello di essere sempre e ovunque costruttori e strumenti di sorella Pace.

STORIA
A cura di Sergio Albesano
Il declino degli indiani e di un loro grande amico

Tornato a New York, George Catlin inaugurò la Indian Gallery, una mostra con i suoi quadri. Ogni sera egli teneva una conferenza, cercando di spiegare al pubblico che gli indiani non erano né nobili guerrieri, né selvaggi assetati di sangue, ma solo persone la cui cultura era differente da quella degli euro-americani. Con l’andar del tempo i visitatori divennero così numerosi, che Catlin, sfruttando la notorietà acquisita, sostenne la causa degli indiani d’America, criticando apertamente quegli euro-americani che, come i mercanti delle società di pellami, tenevano in poco conto la cultura indigena e approfittavano dei nativi. Raccontava che trattati falsi e disonorevoli stavano strappando gli indiani dalle loro terre e che alla fine l’inevitabile conseguenza sarebbe stata un conflitto tra indiani e bianchi. Catlin chiuse la mostra a dicembre, quando seppe che il capo seminole Osceola era stato imprigionato a Fort Moultrie. Guida della resistenza dei Seminole contro l’invasione bianca, Osceola non era mai stato sconfitto sul campo e venne catturato in seguito a un tradimento. Gli statunitensi, infatti, gli avevano chiesto di parlamentare sotto l’egida della bandiera bianca; ma quando Osceola si era presentato al luogo dell’incontro disarmato era stato fatto prigioniero. Catlin andò a dipingere il suo ritratto e questo quadro non solo rivela il rispetto che Catlin nutriva per Osceola, ma il titolo stesso, “Un guerriero di grande valore”, rafforza il punto di vista dell’artista. Il capotribù morì il giorno seguente, alcuni dicono di crepacuore per la perdita della sua patria e per il trasferimento a ovest del suo popolo, altri sostengono per avvelenamento.
Catlin aveva raggiunto una fama di portata nazionale e ora si presentava come portavoce del popolo indiano d’America. Per cercare di conservare intatta la collezione di dipinti e di oggetti indiani, propose al Congresso degli Stati Uniti di acquistarla, ma subì ripetuti rifiuti. Partì allora per l’Inghilterra, dove espose le otto tonnellate di dipinti e oggetti che aveva raccolto, riscuotendo un grande successo. Dopo alterne fortune, si spostò a Parigi e inizialmente ebbe anche lì un nuovo grande successo. Improvvisamente però la moglie morì di polmonite, lasciandogli quattro bambini. Alcuni indiani che partecipavano al suo spettacolo di danze si ammalarono di vaiolo e due di loro morirono. La morte di indiani innocenti in seguito a malattie tipicamente europee convinse Catlin a porre termine ai suoi tentativi di mettere in scena gli spettacoli del selvaggio Ovest. Infine gli morì di tifo il figlio minore. L’artista vivacchiò eseguendo ritratti commissionatigli da Luigi Filippo, ma quando le opere erano quasi terminate, scoppiò la rivoluzione del 1848. Il re e la regina fuggirono e Catlin, che non fu mai pagato, riuscì a malapena a fuggire dalla Francia con le tre figlie e la collezione.
Tornò a Londra e pubblicò un libro, che non ebbe successo. Tentò di nuovo, ma inutilmente, di vendere la sua collezione al Congresso degli Stati Uniti. Nel 1852, incapace di restituire i debiti che aveva contratto, finì in prigione. Tornato a Parigi, stava per vendere e disperdere la sua collezione, quando un industriale statunitense di passaggio apprese la sua penosa situazione e saldò i suoi debiti in cambio della collezione stessa, che inviò a Philadelphia.
Nel 1853 Catlin andò nell’America del sud per dipingere gli indiani anche di quella parte del continente. Rientrato in Europa, si stabilì a Bruxelles, dove, ormai sordo, visse come un recluso per dieci anni, realizzando centinaia di quadri basati sui suoi ricordi. Ritornato a Washington nel 1872, Catlin era dimenticato da tutti. Gli indiani ormai non interessavano più: anzi, la maggior parte degli statunitensi voleva solo spingerli lontano, man mano che, in seguito alla Guerra Civile, sempre più territori si aprivano all’insediamento bianco. Gli statunitensi interessati al “manifesto destino” del Paese, l’idea cioè che gli Stati Uniti sarebbero presto stati un’unica nazione estesa da un oceano all’altro, consideravano gli indiani una seccatura: dovevano assimilarsi ai modi euro-americani o finire per sempre negletti. Vennero create le riserve e nel tentativo di riunire i nativi e di sistemarli nelle zone di minor valore, l’esercito intraprese l’ultima guerra contro di loro.
Catlin si ammalò gravemente e morì il 23 dicembre 1872, all’età di settantasei anni, accudito dalle figlie. Anche se spesso ebbe la sensazione che la sua vita fosse un fallimento, il suo tentativo di documentare lo stile di vita originario di una civiltà in via d’estinzione ebbe pieno successo.

(4- fine)

LIBRI
A cura di Sergio Albesano

Achille Croce, I mezzi della pace, Venezia, Editoria Universitaria 2004, pp. 124, euro 12,00

«Una dottrina può confutare un’altra dottrina, ma una vita, chi può confutarla?». Con queste parole Beppe Marasso introduce il libretto di Achille Croce, I mezzi della pace. L’Autore (1935-2003) è stato un animatore della nonviolenza un Val di Susa e nel torinese, fino dagli anni ’60, con l’azione, con la riflessione e soprattutto con la profonda mitezza e dolcezza della sua personalità. In Achille abbiamo visto che nonviolenza e umiltà serena, spirito religioso aperto, non sono affatto una debolezza, ma una forza interiore che produce attività costruttiva e assertività esemplare.
In queste pagine riascoltiamo la sua voce e rivediamo il suo volto. In 25 brevi capitoli Achille risponde alla frequente domanda «Che cosa posso fare io per la pace?». Tutti possiamo fare molto, perché la pace «comincia dal cuore di ogni uomo» e «sono gli atti e i pensieri individuali che, secondo la loro natura e sommandosi gli uni agli altri, sviluppano una forza determinante nel bene e nel male». Ciascuno può riformare e rigenerare la propria vita, cuore e azioni nel concreto quotidiano, nella pulizia interiore, nel lavoro solidale e manuale, nella semplicità di vita, nella collaborazione sociale, nell’apertura a religioni e civiltà, nel negare collaborazione ad ogni forma di violenza, nella veridicità, pazienza, perdono, e continua ricerca della verità. Ogni punto è presentato in forma semplice e chiara, con tante citazioni sagge, sul fondamento trasparente dell’esperienza personale.
Certo, si potrebbe obiettare che le grandi violenze sono prodotte anche da strutture violente, grandi mali solidificati, che vanno smontati con azioni strutturali e politiche. Ma non si può dubitare che anche l’azione politica è compiuta da persone, la cui qualità interiore diventa la qualità della loro azione. Non ne dubita l’Autore, che dell’azione per la pace vuole sottolineare la radice interiore, la cui fecondità ha dimostrato con la propria vita.

Enrico Peyretti

Luigi Bettazzi, Giovani per la pace, la meridiana, Molfetta BA 2004, pagg. 47, € 8,00.

“Affido questa lettera a voi, giovani (per anagrafe o nello spirito, disponibili cioè a rimettersi costantemente in discussione), con molta fiducia e con molta speranza. La pace del mondo, soprattutto la pace di domani, dipende da voi. (…) Credo che la responsabilità di farsi operatori di pace attraverso strade nonviolente sia un dovere particolare di noi uomini e donne del 2000, a cominciare da noi occidentali, chiamati dalla nostra cultura e dalla nostra storia ad analizzare e organizzare il mondo materiale per metterlo al servizio dell’umanità, senza chiuderci nella ricerca e nella difesa dei nostri interessi e delle nostre supremazie ma ponendoci realmente al servizio di una crescita organica dell’umanità.”
A scrivere queste parole e questa lettera sulla pace che indirizza ai giovani è mons. Luigi Bettazzi, il vescovo che nella Chiesa del nostro Paese ha autenticamente espresso lo slancio rinnovatore del Concilio, nella continua ricerca e nell’aperto dialogo con le altre culture.
In queste pagine il suo accorato e coinvolgente invito è rivolto a tutti i giovani, affinché sentano di essere i veri protagonisti della sfida della pace in un mondo che non va affatto per il verso giusto. Bisogna immaginarne uno diverso ma possibile. E bisogna farlo preso. I giovani sono gli unici che possono riuscirci.
Sergio Albesano

RICEVIAMO

De Santis Sergio, Mohandas K. Gandhi, Newton&Compton, Roma 2004, pp. 157
Martin Morillas Josè Manuel, Los sentidos de la violencia, Universidad de Granada, Granada 2003, pp.328
Perez Beltran Carmelo, Munoz Francisco A. (EDS), Experiencias de paz en el Mediterraneo, Universidad de Granada, Granada 2003, pp.432
Zangarini Maurizio, Il movimento sindacale a Verona, Cierre, Verona 1997, pp. 327
Gordon Thomas, Genitori efficaci, educare figli responsabili, La Meridiana, Molfetta 1997, pp.175
Gordon Thomas, Leader efficaci, essere una guida responsabile favorendo la partecipazione, La Meridiana, Molfetta 1999, pp. 145
Novara Daniele, La scuola dei genitori, come aiutare i figli a diventare grandi, Berti, Piacenza 2004, pp. 130
Martirani Giuliana, La danza della pace, dalla competizione alla cooperazione, Ed. Paoline, Milano 2004, pp. 214
Giacomelli Renzo, La scommessa di Lula, Presidente operaio: Brasile al bivio, Ed. Paoline, Milano 2004, pp. 193
Saponaro Laura, Manes Luca, Tricarico Antonio, E noi italiani? Le responsabilità italiane nella costruzione e nel finanziamento dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan nella regione del Caspio, Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, Roma 2003, pp. 245
Hilal Jamil, Pappe Ilan, Parlare con il nemico, narrazioni palestinesi israeliane a confronto, Bollati Boringheri, Torino 2004, pp.299
Khalidi Rashid, La ressurrezione dell’impero, l’America e l’avventura occidentale in Medioriente, Bollati Boringheri, Torino 2004, pp.200
Iannicelli Giuseppe, Cinema e Handicap, schermi di solidarietà, Cinecircoli Giovanili Socioculturali, Roma 2002, pp. 139
Iannicelli Giuseppe, Venti di guerra, profeti di pace, Cinecircoli Giovanili Socioculturali, Roma 2003, pp.170
Croce Achille, I mezzi della pace, Editoria Universitaria, Venezia 2004, pp. 126
A.R.C. Agenzia Regionale Comunista, Contro il muro dell’apartheid, un ponte per la Palestina, pp. 23
Rossi Ivo, Giaretta Paolo, La città è uno stato d’animo, riflessioni su Padova, Rinoceronte, 2004, pp.230
MAG, RETE LILLIPUT, Pagine Arcobaleno: guida al consumo critico e agli stili di vita sostenibili, Ed. MAG, Chievo (VR), pp.128
Comune di Verbania, Provveditorato del Verbano Cusio Ossola, Mappamondo, interventi del volontariato nelle scuole di Verbania a. scol. 2004/05, Comune di Verbania, Verbania, pp. 40
Coelho Paulo, Manuale del guerriero della luce, Bompiani, Milano 2002, pp. 156
AA.VV., Treffpunkt niemandsland (punto d’incontro terra di nessuno), progetto artistico al Brennero di P.T.T.RED, pp. 127
Cozzo Andrea, Conflittualità nonviolenta, filosofia e pratiche di lotta nonviolenta, Mimesis, Milano 2004, pp.335
Jean Marie Muller, Il principio della nonviolenza, una filosofia per la pace (Traduzione di Enrico Peyretti) Edizioni Plus, Pisa 2004, pp. 335
Aldo Capitini, Le ragioni della nonviolenza. Antologia degli scritti, a cura di Mario Martini. Edizioni ETS, Pisa 2004, pp. 195

LETTERE
Redazione, via Spagna 8, 37123 Verona

Cosa difendere con la difesa nonviolenta?

Cari Amici, leggo con non poco sgomento nel bollettino del MIR l’annuncio con tono altamente soddisfatto ( si parla di “nuove frontiere” e di “grandi opportunità che si aprono”) della costituzione a cura e col finanziamento ( € 400.000) del Ministero della Difesa del “Comitato consultivo dell’Ufficio Nazionale per la Difesa civile non armata e nonviolenta” detta poi Difesa Popolare Nonviolenta (DPN) sotto la presidenza di Tonino Drago.
A parte un primo equivoco nella denominazione (si tratta di una difesa “civile” da abbinare a quella militare, o di una vera difesa nonviolenta da sostituire a quella militare?) non possono non scorgere almeno due o tre inquietanti domande.
1) Dai padri della nonviolenza è sempre stato affermato che si possono difendere in modo nonviolento solo cause giuste. Scriveva Tolstoj in una lettera ai Duchoborj del Canada: “Senza violenza e senza assassinio la proprietà non può esser difesa. Non avrebbe senso rifiutare il servizio militare e di polizia e poi ammettere la proprietà (e che proprietà, diciamo noi) che non si conserva che per mezzo del servizio militare e di polizia”.
Ora come possiamo noi Italiani, cittadini di uno dei paesi più arricchiti del mondo, difendere le nostre ricchezze, il nostro sfruttamento delle materie prime e mano d’opera altrui in modo nonviolento?
2) Come possiamo prepararci a difendere in modo nonviolento il nostro territorio, mentre nell’immediato presente aggrediamo o ci prepariamo ad aggredire in modo altamente violento con spedizioni militari o la costruzione di enormi portaerei a lungo raggio di azione, i paesi altrui soprattutto se possiedono petrolio? Si tratta di una situazione schizofrenica al limite del ridicolo!
3) E come porsi il problema della DPN oggi, mentre non ci poniamo quello della attuale preoccupante costituzione di un esercito di “volontari” cioè mercenari ben pagati, soldati di mestiere, addestrati esclusivamente alla guerra? (cosa contrari oltretutto alla nostra Costituzione).
Forse che i persuasi della nonviolenza, delusi dalla difficile realtà odierna, si stanno rifugiando in un mondo di sogni?
No, cari amici, torniamo alla realtà, per quanto dura essa sia.

Gloria Gazzeri
Roma

La guerra dei morti per incidenti stradali

Vorrei sottoporre alla Vostra attenzione un punto di vista su quella che per me è una cosa inaccettabile e contro la quale la mia coscienza si ribella senza permettermi mediazioni di sorta: le morti sulle strade. La domanda che pongo è: come si può accettare che in Italia ci siano 7/8.000 vittime ogni anno per incidenti stradali? E’ una strage indicibile! Secondo me, la questione viene affrontata al rovescio, se vista nell’ottica di una società che si definisce evoluta e civile. Infatti, evidentemente tutti quei morti sono considerati, nell’immaginario collettivo, una specie di tributo, di sacrificio, che la comunità deve all’attuale modello di sviluppo e, quindi, si accettano come inevitabili e si interviene a valle del problema nel tentativo di limitare i danni. Se fosse vero che la vita, per la nostra civiltà, è un valore assoluto da tutelare senza cedimenti, il discorso dovrebbe completamente ribaltarsi e diventare: i morti sulle strade non ci devono essere. Da questo semplice principio consegue che mezzi e strade devono essere costruiti in modo che anche nella situazione più sfavorevole di incidente la vita sia sempre salvaguardata.
Oggi non è così, evidentemente. Al contrario noi accettiamo di fatto che, utilizzando normalmente automezzi e strade, mettiamo la nostra vita nelle mani di “altri” e ne minimizziamo il rischio quasi come se non ci riguardasse: è incredibile. Ribaltiamo allora il discorso! Che la sicurezza invece di dipendere, com’è attualmente, dalla condizione utopica di “tutti gli utenti sempre perfetti”, sia demandata ai costruttori di automezzi e ai costruttori di strade e sia piuttosto “a prova di imbecille”, questa è la soluzione.
Naturalmente questo significa pensare ad un altro modo di muoversi, a cambiamenti profondi nel modo di produrre e forse di concepire la vita stessa col tutt’altro che trascurabile risultato che 7/8.000 persone ogni anno continuerebbero a stare con noi. Certo ci vuole coraggio a immaginare cambiamenti di tale portata, ma pensandoci bene gli investimenti necessari per adeguare strade e mezzi a nuove regole di sicurezza totale, riguardando le due industrie trainanti dell’economia italiana: l’auto e l’edilizia, potrebbero dare l’avvio ad una nuova rinascita economica del nostro paese, forse addirittura estendibile a tutto l’occidente.
Sarebbe una bella scommessa per le attuali generazioni.

Danilo Di Mambro

Di Fabio