• 18 Dicembre 2024 16:11

Azione nonviolenta – Gennaio-Febbraio 2003

DiFabio

Feb 4, 2003

Azione nonviolenta gennaio febbraio 2003

– Abbiamo combattuto nel vietnam e nel golfo ora siamo – obiettori di coscienza per la pace, di Mao Valpiana
– Le 10 parole della nonviolenza, per fare un cammino comune proponiamo digiuno e iniziativa per mercoledì 12 febbraio 2003, di Giuliana Martirani
– Le 10 parole della nonviolenza, in cammino verso il lupo di Gubbio
– Le 10 parole della nonviolenza, per fare un cammino comune proponiamo digiuno e iniziativa per mercoledì 12 marzo 2003, di Lidia Menapace
– Quando l’ulivo è davvero il simbolo della pace, di Franco Perna
– Omaggio a Ivan Illich, modernissimo antimodernista, di Giannozzo Pucci
– Il poeta Danilo Dolci, educatore – maieuta, di Germano Bonora

Rubriche

– l’azione
– lilliput
– alternative
– cinema
– musica
– educazione
– economia
– storia
– libri
– lettere

Abbiamo combattuto in Vietnam e nel Golfo
Ora siamo obiettori di coscienza per la pace

In questi mesi abbiamo registrato un proliferare di appelli contro la guerra; alcuni sinceri, altri meno; alcuni precisi, altri generici; fra i tanti, uno ci è apparso singolarmente incisivo e credibile, sia perché proviene dall’America (e lì l’opinione pubblica può essere veramente decisiva), sia perché è stato scritto da chi ha pagato di persona le proprie scelte.
Lo pubblichiamo, come editoriale di questo numero.

Appello di coscienza da parte dei Veterani alle Truppe effettive ed ai Riservisti

Siamo i Veterani delle Forze Armate Statunitensi. Molti di noi credevano che prestare servizio militare fosse il nostro dovere, e che il nostro lavoro consistesse nel difendere questo paese. Le nostre esperienze nell’esercito ci hanno fatto pensare, ed abbiamo messo in discussione molto di ciò che ci era stato insegnato. Adesso riteniamo che il nostro principale dovere sia quello di incoraggiare voi, membri delle Forze Armate USA, a scoprire quale sia la motivazione reale per la quale vi mandano a combattere e a morire, e quali saranno le conseguenze delle vostre azioni sull’umanità intera. Facciamo appello a voi, militari effettivi e riservisti, affinché obbediate alla vostra coscienza e facciate la cosa giusta.
Nell’ultima guerra del Golfo, come soldati, ci fu ordinato di uccidere da una distanza di sicurezza. Abbiamo distrutto la maggior parte dell’Iraq dal cielo, uccidendo centinaia di migliaia di persone, civili compresi. Ci ricordiamo bene della strada per Basra, l’autostrada della morte, dove ci avevano ordinato di uccidere gli iracheni che scappavano. Abbiamo spianato con i bulldozer le trincee sotterrando persone ancora vive. L’uso delle armi all’uranio impoverito ha reso molti campi di battaglia radioattivi. L’ingente utilizzo di pesticidi, farmaci sperimentali, depositi di armi chimiche, hanno creato un cocktail tossico che ha avvelenato sia il popolo iracheno che i veterani della Guerra del Golfo. Un veterano su quattro della Guerra del Golfo oggi è un disabile.
Durante la guerra del Vietnam ci fu ordinato di distruggere il Vietnam sia dal cielo che a terra. A My Lai abbiamo massacrato più di 500 persone tra vecchi, donne e bambini. E questa non è stata un’azione isolata, ma è come abbiamo combattuto la guerra. Abbiamo usato il diserbante “Agent Orange” sul nemico, e in seguito ne abbiamo sperimentato gli effetti sulla nostra pelle. Sappiamo come si presenta e come ti riduce il Disturbo da Stress Post Traumatico, perché i fantasmi di milioni di donne, uomini e bambini invadono i nostri sogni.
Se decidete di prendere parte all’invasione dell’Iraq voi apparterrete ad un esercito invasore. Vi mandano ad invadere ed occupare territori in cui le persone stanno solo cercando di crescere i loro figli e vivere le loro vite. Ma chi sono gli Stati Uniti per dire al popolo iracheno come deve condurre il proprio paese quando moltissimi statunitensi pensano che il proprio presidente sia stato eletto illegalmente?
Saddam è stato duramente attaccato per aver avvelenato con il gas la sua stessa gente e per cercare di produrre armi di distruzione di massa. Tuttavia quando Saddam ha compiuto i suoi peggiori crimini, gli Stati Uniti lo appoggiavano. Questo sostegno significava anche fornire i mezzi per la produzione di armi chimiche e biologiche. Anche l’embargo e le numerose sanzioni economiche da parte degli Stati Uniti hanno contribuito a decimare il popolo iracheno, uccidendo più di un milione di persone, in maggioranza neonati e bambini. Questa guerra è un omicidio detto in altri termini.
Durante la guerra del Vietnam migliaia di militari in Vietnam e negli Stati Uniti si sono rifiutati di eseguire gli ordini. Molti hanno fatto resistenza e si sono ribellati. Molti sono diventati obiettori di coscienza ed altri sono andati in prigione piuttosto che impugnare le armi di fronte al cosiddetto nemico. Durante l’ultima guerra del Golfo molti soldati semplici hanno portato avanti forme di opposizione in vari modi e per ragioni differenti. Molti di noi sono usciti da questo sistema e si sono aggregati al movimento di opposizione alla guerra.
Quando arriverà l’ordine di partire, la vostra risposta avrà un forte impatto sulle vite di milioni di persone del Medio Oriente e anche del nostro paese. La vostra risposta aiuterà a cambiare il corso del nostro futuro. Avrete altre scelte da fare sul vostro cammino. I vostri comandanti vogliono che voi obbediate. Noi vi spingiamo a riflettere.

VETERANI FIRMATARI DELL’APPELLO (lista iniziata il 6 dicembre 2002)
Nome e Cognome, Arma, Anni di servizio
Anton Black, Navy, 1977-84
Dave Blalock, Army 1968-71
David Wiggins MD, Army, Gulf War
Mike Wong, Army, 1969-75
Howard Zinn, Air Force, 1943-45
(seguono centinaia di firme)
www.calltoconscience.net

Le 10 parole della nonviolenza, per fare un cammino comune.
Proponiamo digiuno e iniziativa per mercoledì 12 febbraio 2003
La parola del mese: “Festa”

Di Giuliana Martirani

“Il cristianesimo è trasformare la tragedia della vita in una festa”, diceva negli anni ’70 Suor Maria Romero, beata salesiana nicaraguense.
Ma cos’è la festa e dov’è la festa in una civiltà così “musona”, cupa e guerrafondaia come la nostra?
La festa è il banchetto del Regno di Dio, il regno di giustizia e di pace, pardon le repubbliche di giustizia e di pace, quelle in cui c’è finalmente la felicità per tutti, quella del Discorso della Montagna: la felicità dei poveri e degli afflitti, di quei milioni, pardon miliardi ormai di impoveriti e di afflitti che non possono dire: “Ma com’è bello vivere… che festa è la vita…!”.
La festa è il banchetto dell’umanità: risorse per tutti, in benefica e pacifica condivisione fraterna. Innanzitutto le risorse del creato, i manufatti di Dio, quelli dei primi sei giorni del creato che con la sua parole fece e disse “è cosa buona”, ottimo ingrediente per il banchetto della vita, la festa della vita. Beni comuni per tutti!

La Festa di Madre Terra bene comune.
Una terra su cui essere inquilini e non proprietari. Una terra bene comune e non come quelle difese da palizzate e paramilitari di latifondisti, oligarchie e multinazionali. Una terra che ritorni con quella cosa così ovvia per noi che è la riforma fondiaria da noi pretesa e per gli altri ignorata, a quelli che sono resi Senza Terra dall’avidità produttiva di alcuni e dal consumismo famelico di altri che ne sprecano smodatamente i prodotti.
Una terra bene comune di tutti senza confini murali e virtuali che dividono il territorio in terre dei ricchi e terre dei poveri, nord e sud, centri e periferie, terre di padroni e riserve di indiani o immigrati, terre paradisi fiscali e terre maledette di senza tetto, senza lavoro, senza dignità.
Una terra bene comune di tutti senza confini murali e virtuali che dividono il territorio in terre di privilegiati (che si difendono, ora, le ingiuste ricchezze fatte sul lavoro di “altri”) e le terre di quegli stessi “altri” cui prima si è fatto un apartheid urbano (ma erano utili alla produzione) e olra si fa un apartheid nazionale, pardon una devolution, separati in casa (“voi fatevi gli affari vostri e noi ci occupiamo di borsa e finanza”).
La festa della terra condivisa, finalmente bene comune di tutti come il primo giorno della casa dell’uomo: il Giardino di Eden, una terra da custodire l’uno per l’altro in benevola efraterna reciprocità. La festa di una terra Adamah da trattare da madre e non matrigna, matrice di Adam fatto di terra e acqua, anch’esso come sua madre, la nostra madre terra che a noi di terra e acqua, come lei formati, ci alimenta e ci sostiene.
Ma nella festa delle vita, la terra non è più bene comune da tempi immemorabili. Non restavano che i popoli nativi a documentare all’umanità immemore i giorni antichi di quando la terra era bene comune. Nel nostro scorcio di secolo anche questa memoria è stata cancellata, cancellando una razza, quella rossa e cancellando i popoli nativi che non volevano possedere la terra (“Ma come potete possedere la terra? Si chiedeva Capriolo Zoppo) e quelli nomadi accompagnati dallo spocchioso disprezzo di noialtri tutti stanziali.

La festa di frate foco bene comune
E’ il fuoco per l’avventura tecnologico-industriale a possedere quegli agi che affrancassero tutti gli uomini (non solo i più furbi e gli altri invece schiavi) dal duro lavoro. Quel fuoco che consentisse di terminare la creazione iniziata da Dio per trasformare “sorella roccia rame” in “fratello filo elettrico”. Ma quel fuoco si è trasformato in atomo e petrolio maledetto che alcuni rende straricchi e potenti ed altri cadaveri o rifugiati, spostati di terra in terra, sfollati ed esiliati perchè nati su “terre sbagliate” troppo strategiche.
Ma nella festa della vita, il fuoco non è più bene comune da tempi immemorabili. Da quando Prometeo lo rubò agli dei, accaparrandosene lui la proprietà e per questo atto infame fu dagli dei condannato ad essere divorato da aquile sui monti della Scizia.
E invece volevamo a ancora vogliamo la festa del fuoco condiviso, un fuoco per stare caldi tutti e non solo alcuni con eccessivi impianti di riscaldamento e altri a batter i denti in infinite marce di sfollati, cacciati dalle loro terre maledette perchè troppo ricche di petrolio.
Fratello foco per fare festa insieme e insieme ballare la danza della vita.

La festa di sorella acqua bene comune.
L’acqua diritto per tutti e bene comune e non bene economico, privatizzato e petrolizzato. L’acqua delle sorgenti e dei fiumi e non quella delle alluvioni e degli straripamenti devastatori per l’avidità dei cementificatori.
L’acqua dei pozzi condivisi e non quella dei pozzi e dei fiumi occupati e dichiarati zona di sicurezza nazionale che rende alcuni legittimi coloni su territori altrui e consumatori di fiumi altrui ed altri invece controllati ospiti del proprio territorio.
Ma nella festa della vita l’acqua dal marzo del 200 non è più bene comune, ma bene economico da privatizzare, vendere e farci degli ottimi idrobusinnes.

La festa di frate aire bene comune.
L’aria da condividere nel continuo atto del respirare senza sosta di miliardi di essere del mondo umano animale e vegetale e minerale. L’aria pulita e non quella dei protocolli non firmati per l’avido calcolo degli inquinatori impuniti nè quella invasa dagli invisibili veleni a Chernobyl o a Marghera. La festa di frate aire, così ovvio nel suo venir fuori dall’albero della vita del Giardino di Eden che ci alimenta con le sue scorie che diventano ossigeno per noi.
Ma nella festa della vita, questo invisibile ma preziosissimo bene è ancora forse per poco bene comune.

La festa allora è davvero il banchetto della vita che cerchiamo di non dimenticare ogni domenica, nel banchetto domenicale, il nostro stare insieme a riposare a ridere e a scherzare raccontandoci gioie che diventano risata comune e dolori che si trasformano in comune soluzione.
La festa è il pane condiviso e il cibo ben curato, non fast ma slow, non contaminato ma casto come l’aveva pensato il Creatore che disse i primi giorni del Creato: “è cosa buona”.
La festa è il bicchiere di vino per brindare e augurarsi reciprocamente cose buone, vita lunga, problemi risolti, e soprattutto amore e affetti felici.
La festa è questo banchettare insieme, è il pane e il vino che stanno lì a garanzia di un patto d’amore che ci stiamo scambiando: il pane della giustizia e della condivisione, perchè cum-panis di cammino, compagni nel pellegrinaggio della vita, e il vino della pace e della pienezza fraterna.
La festa è questo stare insieme micro e macro; la piccola famiglia, gli amici e i compagni di impegno e di cordata e la grande famiglia umana. Che ha già molte anticipazioni nella festa della domenica e in quella di nozze, nel battesimo del figlio e nel compleanno con le candeline, nella preghiera in chiesa e il canto di montagna e nella danza dei ragazzi in discoteca.
La festa è sognare insieme utopie impossibili e futuri improbabili me che invece diventano poi certi a sedersi intorno ad un tavolo risolvendo insieme un difficile lavoro.
La festa è perdersi negli occhi dell’amato oppure fare chilometri solo per incontrare il sorriso di un amico e dirsi ciao.

La festa di M. K. Gandhi

La compagnia dei buoni è cibo per le nostre anime; per questo la cerchiamo.

Non basta che noi impariamo l’arte di leggere, di scrivere, ecc.; è necessario che impariamo l’arte di vivere in amicizia con tutti i nostri vicini.

La gioia e la pace dello spirito derivano da ciò che di giusto e opportuno facciamo, non da ciò che fanno o dicono gli altri.

La festa di M. L. King

La fine della segregazione abbatterà le barriere legali e avvicinerà gli uomini fisicamente, ma qualche cosa deve toccare il cuore e l’anima degli uomini così che essi vogliano stare insieme spiritualmente, perché questo è naturale e giusto.

Quando le catene della paura e i ceppi della frustrazione avevano quasi ridotto all’impotenza i miei sforzi, ho sentito la potenza di Dio che trasformava il travaglio della disperazione nell’allegria della speranza.

C’è una forza creativa in questo universo che lavora per portare gli aspetti sconnessi della realtà in un tutto armonioso.

La festa di Aldo Capitini

La festa, in quanto corroboratrice dell’apertura alla compresenza e all’omnicrazia, è tenacemente rivoluzionaria.

Se il lavoro può unire tra loro pochi o molti esseri, la festa unisce ancor di più tutti, perché, più del lavoro, assomiglia alla compresenza e all’omnicrazia.

La festa diventa il sostegno più profondo del lavoro e del tempo libero, e come impastata con essi, un elemento, e come una luce, che li accompagna e li irrora.

La festa di Francesco d’Assisi

Signore, fa di me uno strumento della tua pace:
dov’è tristezza fa che io porti la gioia

Per approfondire
La festa

Antropologia della festa
P. APOLITO, Il tramonto del totem. Osservazioni per una etnografia delle feste, Milano, Franco Angeli, 1993.
A. ARINO A. – L. M. LOMBARDI SATRIANI (a cura di), L’utopia di Dioniso. Festa tra modernità e tradizione, Roma, Meltemi, 1997.
C. BERTELLI (a cura di), La città gioiosa, Milano, Libri Scheiwiller, 1997.
G. BRAVO, Festa contadina e società complessa, 3a ed., Milano, Franco Angeli, 1992.
F. CARDINI, Il cerchio sacro dell’anno. Il libro delle feste, Rimini, Il Cerchio, 1995.
A. CATTABIANI, Lunario. Dodici mesi di miti, feste, leggende e tradizioni popolari d’Italia, Milano, Mondadori, 2002.
M. DE FERRARI – R. NICCOLI, Il diavolo e l’acquasanta. Tradizioni popolari, feste, riti tra il sacro e il profano, Genova, ERGA, 1998.
F. FERRARA – L. COPPOLA, Le feste e il potere, Roma, Officina, 1983.
F. JESI, La festa. Antropologia, etnologia, folklore, Torino, Rosenberg & Sellier, 1977.
A. VIGGIANO, I sentieri del sacro, Torino, Edizioni del Capricorno, 1991.

La festa cristiana
G. BENEDETTI, Il vangelo della festa, Bologna, EDB, 2001.
R. BERTALOT – F. FRANCESCHETTI (a cura di), Riscoperta della festa, Roma, Borla, 1991.
O. CLÉMENT, Le feste cristiane, Comunità di Bose, Qiqajon , 2000.
G. DELEURY, Le feste di Dio. La fede, la storia, i miti, Milano, San Paolo, 1999.
FRÈRE ROGER DI TAIZÉ, La tua festa non abbia fine, Brescia, Morcelliana, 6a ed., 1984.
N. LOHFINK, Le grandi feste cristiane. Esegesi e liturgia, Casale Monferrato, Piemme, 1998.
C. SINGER, Il libro delle feste, Bologna, EDB, 2001.
L. URBAN PADOAN, Processioni e feste dogali, Vicenza, Neri Pozza,1998.

La festa ebraica
L. CATTANI, Il Sabato nel pensiero e nella vita di Israele, Milano, Gribaudi, 2002.
H. COX, Le feste degli ebrei, Milano, Mondadori, 2003.
J. EISENBERG – A. STEINSALTZ , Il candelabro d’oro dalla creazione del mondo all’anima dell’uomo attraverso le feste ebraiche, Genova, ECIG, 2000.
A. J. HESCHEL, Il Sabato, Milano, Garzanti, 2001.
D. MISAN, Di generazione in generazione. Memoria e feste ebraiche, Firenze, La Giuntina, 2002.
P. STEFANI (a cura di), La festa e la Bibbia, Brescia, Morcelliana, 1998.

Altre feste
AA.VV., Popoli in festa. Percorsi didattici interculturali tra le feste degli altri, Bologna, EMI, 2000.
L. ARTUSI LUCIANO – S. GABBRIELLI, Le feste di Firenze, Roma, Newton Compton, 1992.
C. AUTIERO, Guida alle feste popolari in Italia, 2a ed. ,Roma, Datanews, 1997.
K. BAYATLY, La memoria del corpo sotto i cieli dell’Islam. Tradizione, riti, feste e spettacoli, Milano, Ubulibri, 2001.
M. COLANGELI, Le feste dell’anno. Almanacco delle feste popolari italiane, Milano, Sugarco, 1977.
U. CORDIER, Guida alle sagre e alle feste patronali. Oltre 1000 luoghi e tradizioni, Casale Monferrato, Piemme, 2000.
P. COTTINI, Di festa in festa, Varese, Lativa, 1991.
FORUM TRENTINO PER LA PACE – ISTITUTO COMPRENSIVO DI BRENTONICO (a cura di), Paese che vai…festa che trovi, Trento, Provincia Autonoma di Trento, 2000.
M. GRANET, Feste e canzoni dell’antica Cina, Milano, Adelphi, 1990.
G. MICHIEL RENIER, Origine delle feste veneziane, Venezia, Filippi, s.d.
I. MOSCARDO – S. PARAZZOLI (a cura di), Le feste delle grandi religioni. Cristianesimo, ebraismo, Islam, buddismo, Milano, San Paolo, 1993.
L. NASTO, Le feste civili a Roma nell’Ottocento, Gruppo Editoriale Internazionale, 1994.
S. ROVEDA (a cura di), Italia in festa. Guida alle manifestazioni artistiche, culturali, folcloristiche, eno-gastronomiche di tutta Italia, Milano, Swan, 2001.
L. SQUARZINA (a cura di), Le feste della Rivoluzione francese da Rousseau al 1794, Roma, Bulzoni, 1990.
A.WILKES, Le feste dei bambini, Milano, Mondadori, 1996.
LE DIECI PAROLE DELLA NONVIOLENZA,
IN CAMMINO VERSO IL LUPO DI GUBBIO

Il XX Congresso del Movimento Nonviolento ha promosso, in continuità e sviluppo della Marcia del 2000 Perugia – Assisi “Mai più eserciti e guerre”, un appuntamento per tutti gli amici della nonviolenza: una camminata da Assisi a Gubbio, lungo il “sentiero francescano della pace” (l’antica via di comunicazione medioevale, di 46 chilometri) nei giorni 4, 5 e 6 settembre 2003. Tema centrale sarà il conflitto, nelle sue diverse manifestazioni e modalità di affrontarlo. Approfondire e diffondere la proposta nonviolenta ci è sembrato infatti necessario ed urgente, nella convinzione che “La nonviolenza è il varco attuale della storia”. Come luogo significativo abbiamo indicato Gubbio (la conversione del lupo), dove si concluderà la camminata il sabato 6 settembre con una iniziativa assembleare e corale; la domenica 7 settembre sempre a Gubbio si svolgerà un convegno sulla soluzione nonviolenta dei conflitti.
Nei prossimi numeri di Azione nonviolenta preciseremo i contorni di forma e di sostanza dell’iniziativa.
Ci piace immaginare un cammino laico accessibile a tutti, un momento da vivere insieme per più giorni, e un appuntamento finale, al quale possa intervenire anche il “lupo” per un dialogo davvero aperto.
Abbiamo pensato ad un percorso che ci porti a quell’appuntamento: 10 parole, una al mese (il secondo mercoledì) , che ci accompagnano da ottobre 2002 ad agosto 2003. Nei giorni scelti pratichiamo il digiuno dal cibo e dalla televisione.
Ogni mese proponiamo un tema di riflessione, con articoli, citazioni di autori della nonviolenza, indicazioni bibliografiche, così da fornire adeguato materiale di approfondimento che ognuno potrà utilizzare per una iniziativa specifica, che potrà essere privata o pubblica (una riunione fra amici, una banchetto in piazza, un cartello esposto per strada, un messaggio al finestrino della macchina, ecc.) che abbia come titolo la parola del mese. Ognuno di noi, ogni lettore di Azione nonviolenta, ogni iscritto al Movimento, è chiamato in questa occasione a “farsi centro” e promotore di una iniziativa, di una azione nonviolenta, anche se piccola e personale, o impegnativa e collettiva. Come diceva il titolo di una nostra Marcia: “…A ognuno di fare qualcosa”. Un modo per sentirsi uniti, in movimento, e per far crescere la nonviolenza dentro e fuori di noi.

Mai più eserciti e guerre:
la nonviolenza è il varco attuale della storia

Le “10 parole” si rifanno alla tradizione laica e religiosa della nonviolenza in Gandhi, King, Capitini e Francesco, ed indicano degli ideali di riferimento.

1^ parola: FORZA DELLA VERITA’
mercoledì 13 novembre

2^ parola: COSCIENZA
mercoledì 11 dicembre

3^ parola: AMORE
mercoledì 8 gennaio

4^ parola: FESTA
mercoledì 12 febbraio

5^ parola: SOBRIETA’
mercoledì 12 marzo

6^ parola: GIUSTIZIA
mercoledì 9 aprile

7^ parola: LIBERAZIONE
mercoledì 14 maggio

8^ parola: POTERE DI TUTTI
mercoledì 11 giugno

9^ parola: BELLEZZA
mercoledì 9 luglio

10^ parola: PERSUASIONE
mercoledì 13 agosto

Del santissimo miracolo che fece santo Francesco,
quando convertì il ferocissimo lupo d’Agobbio.

Al tempo che santo Francesco dimorava nella città di Agobbio nel contado di Agobbio appari un lupo grandissimo, terribile e feroce, il quale non solamente divorava gli animali ma eziandio gli uomini, in tanto che tutti i cittadini stavano in gran paura, però che spesse volte s’appressava alla città, e tutti andavano armati quando uscivano della città, come s’eglino andassono a combattere; e con tutto ciò non si poteano difendere da lui, chi in lui si scontrava solo.
Per la qual cosa avendo compassione santo Francesco prese il cammino inverso il luogo dove era il lupo. Ed ecco che, vedendo molti cittadini li quali erano venuti a vedere cotesto miracolo, il detto lupo si fa incontro a santo Francesco, con la bocca aperta; ed appressandosi a lui, santo Francesco gli fa il segno della croce, e chiamollo a sé e disse così: «Vieni qui, frate lupo, io ti comando dalla parte di Cristo che tu non facci male né a me né a persona». Mirabile cosa a dire!
«Frate lupo, tu fai molti danni in queste partì, e hai fatti grandi malifici, guastando e uccidendo le creature di Dio sanza sua licenza; e non solamente hai uccise e divorate le bestie, ma hai avuto ardire d’uccidere uomini fatti alla immagine di Dio; per la qual cosa tu se’ degno delle forche come ladro e omicida pessimo, e ogni gente grida e mormora di te, e tutta questa terra t’è nemica. Ma io voglio, frate lupo, far la pace fra te e costoro, sicché tu non gli offenda più, ed eglino ti perdonino ogni passata offesa, e né li omini né li canti ti perseguitino più». E dette queste parole, il lupo con atti di corpo e di coda e di orecchi e con inchinare il capo mostrava d’accettare ciò che santo Francesco dicea e di volerlo osservare….

(Tratto dai “Fioretti” di San Francesco, capitolo ventunesimo)

Le 10 parole della nonviolenza, per fare un cammino comune.
Proponiamo digiuno e iniziativa per mercoledì 12 marzo 2003
La parola del mese: “Sobrietà”

Di Lidia Menapace

L’impetuoso e felice movimento, che cammina per le strade del mondo da un po’ di anni e proclama essere possibile un altro mondo, mi fa spesso venire voglia di provare a immaginarmi che faccia potrebbe avere quel mondo baldanzosamente sperato. E mi viene sempre in mente qualche verso dantesco (le deformazioni professionali non si perdono facilmente!) che descrive una Firenze sognata, però nostalgicamente, guardando al passato. Dante, esule per le tremende contese politiche della sua città, immagina come potrebbe essere stata una Firenze che non ha mai conosciuto: un “così riposato viver di cittadini”, un “così dolce ostello” e cerca di ricostruire quel sogno pensando alla Firenze del suo trisavolo, che definisce “in pace, sobria e pudica”

Come sempre, essendo molto moralista e alquanto tetro nei giudizi sul presente, Dante di pace non dà nessuna definizione, se non che quando una città è in pace produce un “riposato viver di cittadini” e viene avvertita come “un dolce ostello”. Dato l’affanno spesso inconcludente di molte nostre giornate, davvero non sarebbe male avere un po’ di riposo e un ostello accogliente.

Più specifica è la descrizione di sobrietà e pudore. Non lo seguo nelle sue preferenze –appunto- moralistiche: la sobrietà è il vestire semplice degli uomini del tempo antico e per le donne andare “senza il viso dipinto”, e quanto al pudore è tutta una requisitoria contro i giovani rockettari di allora (“un Lapo Salterello”) e le ragazze con le gambe in mostra dalla mini (“una Cianghella”). Rifaccio invece per conto mio i sogni e avverto sempre che la sobrietà è una componente molto importante di un luogo tranquillo, riposato e accogliente.

Che cosa intendo dunque con “sobrietà”? La parola mi venne in mente quando Berlinguer propose l’austerità come modello di vita e mi trovai subito in disaccordo. Austerità dice un atteggiamento un po’ cupo e triste, esalta il sacrificarsi, atteggia il volto a un cipiglio giudicante, non ha leggerezza.. Capivo che le intenzioni di chi proponeva erano pregevolmente anticonsumistiche e serie, ma, appunto, troppo serie, quasi un po’ piagnone. Allora riflettendo mi dissi che non avrei voluto vivere in un mondo austero, bensì in uno sobrio. E poiché sono golosa a me gli esempi non erano venuti dal vestire o dai divertimenti, ma dai cibi: chi è astemio o anoressica non sa nemmeno che cosa si perde, ma chi è beone o bulimica butta giù anche metanolo o cibi rozzi e non bada mai alla qualità. Chi invece ama la sobrietà, gusta il colore il sapore il bouquet di un buon vino, ammira la forma i colori gli aromi di un piatto ben cucinato, e comunica ad altri commensali la sua comune gioia e piacere: non per nulla chiamiamo convivialità la piacevolezza dello stare insieme. E’ una forma non esasperata né violenta di piacere, ma è un vero piacere complesso, che contiene anche la comunicazione.

Il ragionamento si può estendere dai cibi ad altri temi. Il piacere della lettura, della conversazione, che non è ingurgitamento di pagine ed esibizione di citazioni, che non è pettegolezzo o scambio di notizie futili, ma trasmissione di sentimenti passioni e conoscenze. Insomma a me sobrietà sembra sempre più il nome non accademico di un piacevole moderno epicureismo, comportando una accurata ma non ansiosa scelta di piaceri che non offendono nessuno, rispettano i desideri altrui e tengono anche conto di una certa discrezione del vivere: cantare sì, ma non schiamazzi notturni; parlare, certo, ma non produrre un continuo fastidioso rumore di fondo. La sobrietà si estende anche all’ambiente, che nelle nostre città è divenuto fastidioso per inquinamento acustico (il traffico). visivo (le luci sfacciate degli orribili addobbi natalizi), e naturalmente chimico e magnetico.

Fa parte della sobrietà la misura, scelta come strada della libertà, il piacere atteso come forma di comunicazione e accoglienza e il passo spedito e leggero che non pesi troppo sulla terra. A me dà un po’ fastidio l’idea di un modello di sviluppo “sostenibile”: è come dire che intendiamo (noi che saremmo virtuosi ed ecologici) caricare sulle spalle della madre terra tutto il peso che può portare e non di più: non sarebbe migliore, meno violento uno sviluppo gradevole, ameno, piacevole per la terra e per chi la abita? Fatto cioè di vita serena. di riposo, di ozio, di silenzio, di contemplazione oltre che di produzione e riproduzione, di lavoro e di commerci?

Questo a un di presso intendo quando dico che vorrei un altro mondo possibile sobrio. Lì troverei facile vivere con felicità politica cioè esprimendo una identità non aggressiva, non sospettosa, ma accogliente. curiosa. Un modo di vivere non affannoso, non competitivo, ma capace di gustare il passare del tempo e le dimensioni degli spazi, e assaporare gli scambi: mi sembra che davvero per stare in pace sia giusto essere sobri.

Quanto al pudore mi è più oscuro che cosa significhi. Forse una misura e un certo riserbo di sé. Comunque va bene, purché non sia una prescrizione predicatoria di comportamenti vestiti parole ammesse ed altre vietate. Forse il pudore come la sobrietà non ammettono divieti esteriori e fondano sulla convinzione ragionevole del saper misurare le risorse e controllare le relazioni. Insomma la felicità politica (un dolce ostello) che viene dal poter esprimere la propria identità senza bisogno di mettersi in maschera per apparire “come si deve”. Il diritto a non essere “normali”. come dice una argutissima teologa argentina. Marcella Maria Althaus-Reid rivendica appunto il diritto a “no ser derecha”, che vuol dire anche non essere di destra, oltre che “diritta”, “normale” e che chiama pornografia la teologia la globalizzazione e il capitalismo, perché non rispettano i movimenti le posizioni le relazioni la spontaneità le scelte i volti i corpi i gesti i desideri segnati dal colore voce faccia di ciascuno/ciascuna di noi, ma violenta i corpi e le persone in una gabbia di prescrizioni modi valori attese già programmate. Non sanno dire quali parole sentimenti forme di relazione vanno bene e quali sono per sé cattive: ma comunque vietano di continuo La sobrietà consente di guardare con occhi innocenti tutto quel che esiste al mondo senza pregiudizi. Non sarebbe bello e non è anche fattibile?

Se si sta in pace e si vive in modo nonviolento, certo: altrimenti con la guerra tutto va perso e non torna, il peggiore inquinamento anche mentale, l’ottundimento di ogni sottile giudizio piacere del ragionare attenzione nelle relazioni gioia di vivere: tutto viene distrutto persino nella memoria, sostituito con le truci grida e pianti e distruzioni che poi studiate a scuola vengono chiamate eroismo. Invece è follia da sonno della ragione.

La sobrietà di M. K. Gandhi

Gli oggetti dei sensi vanno e vengono; se siamo loro attaccati, saremo pieni di sofferenza quando ci lasciano; ma se vi rinunciamo spontaneamente, saremo sempre pieni di pace e di gioia.

Restare intrappolato nelle cose materiali e sperare nella propria realizzazione, è cosa vana come lo sforzo per trovare il fiore proverbiale nel cielo.

Ciò che prendiamo per noi lo togliamo dalla bocca degli altri. È veramente necessario, ciò che vogliamo acquistare? Dobbiamo ridurre al minimo le nostre necessità.

La sobrietà di M. L. King

Noi non dobbiamo mai concedere la nostra suprema fedeltà a nessun costume legato al tempo, a nessuna idea legata alla terra, perché al cuore del nostro universo c’è una realtà più alta – Dio e il suo regno d’amore – a cui noi dobbiamo conformarci.

Il danaro senza amore è come il sale senza sapore, buono solo per essere calpestato sotto i piedi degli uomini. Il vero amor di prossimo esige interessamento personale.

Noi dobbiamo riconquistare lo splendore evangelico dei cristiani primitivi, che erano non-conformisti nel più vero senso della parola e rifiutavano di adattare la loro testimonianza agli schemi mondani.

La sobrietà di Aldo Capitini

Più importanti sono gli esseri che gli oggetti, e che nella riduzione dell’affluenza di beni, bisogna cogliere l’occasione per dare maggior rilievo alla compresenza e all’omnicrazia.

Se ci si salda con la prosperità, ci si sente morti quando la prosperità dilegua.

Bisogna distinguere, in ciò che io costruisca come mio, l’uso di esso, perché non è ammissibile che io me ne serva per tenere altri nella condizione di inferiori, di oppressi, di sfruttati.

La sobrietà di Francesco d’Assisi

Signore, fa di me uno strumento della tua pace:
poiché è dando che si riceve

Per approfondire
Sobrietà, stili di vita, economia nonviolenta

Sobrietà
G. BOLOGNA – F. GESUALDI – F. PIAZZA – A. SAROLDI, Invito alla sobrietà felice, 3a ed. Bologna, EMI, 2001.
G. BORMOLINI, I vegetariani nelle tradizioni spirituali, Torino, Il Leone Verde, 2000.
R. DAHLKE, Digiuno e consapevolezza, Milano, Tecniche Nuove, 1999.
G. GAZZERI (a cura di), Il segreto di Igea. Guida pratica al digiuno autogestito, 2a ed., Genova, Manca, 1990.
R. LEJEUNE, Digiunare. Guarigione e festa del corpo e dello spirito, Milano, Ancora, 1990.
A. NICORA, Sobrietà e castità: virtù del cristiano, Casale Monferrato, Piemme, 1997.
J. PIEPER, La temperanza, Brescia, Morcelliana, 2001.
G. SAVONAROLA, La semplicità della vita cristiana, Milano, Ares, 1996.
G. ZANGA, Filosofia del vegetarianesimo, Torino, Bresci, 1987.

Stili di vita
C. BAKER, Ozio lentezza e nostalgia. Decalogo mediterraneo per una vita più conviviale, Bologna, EMI,2001.
G. BATTISTELLA, Nuovi stili di vita. Intuizioni ed esperienze, 3a ed.,Bologna, EMI,1997.
G. MARTIRANI, La civiltà della tenerezza. Nuovi stili di vita per il terzo millennio, 3a ed., Milano, Paoline Editoriale Libri ,1997.
A. NAESS, Ecosofia. Ecologia, società e stili di vita, Como, Red/Studio Redazionale,1994.
W. PASINI, I tempi del cuore. Lentezza e fretta nella vita e nell’amore, Milano, Mondadori, 1996.
P. SANSOT, Passeggiate, Milano, Pratiche, 2001
P. SANSOT, Sul buon uso della lentezza. Il ritmo giusto della vita, Milano, Pratiche, 1999.
P. SANSOT, Vivere semplicemente, Milano, Pratiche, 2000.
A. SAROLDI, Giusto movimento. Piccola guida al paese inesplorato dei nuovi stili di vita, 2a ed.,Bologna, EMI, 1997.
T. TROGLODITA, Uso libero e libero uso. Barattare, regalare, condividere, ospitare: nuove ricchezze per diversi stili di vita, Milano, Stampa Natura Solidarietà, 1997.
B. VALLELY, Stili di vita. Manuale di ecologia quotidiana. 1001 modi per salvare il pianeta, Padova, Muzzio, 2000.

Povertà volontaria, povertà francescana
M. V. BRETON, La povertà, Milano, Biblioteca Francescana, 1982.
L. CRIPPA, Povertà amata povertà beata, Milano, Ancora, 1989.
J. DUPONT – G. AUGUSTIN, La povertà evangelica, Brescia, Queriniana, 1973.
L. FOLEY – J. WEIGEL – P. NORMILE, Vivere come Francesco, Padova, Messaggero, 2002.
A.JACQUARD, Il valore della povertà. Un grande scienziato ateo riscopre l’attualità del messaggio di Francesco di Assisi, Vicenza, Neri Pozza,1996.
A.G. MELANI (a cura di), La povertà, S. Maria degli Angeli (PG), Porziuncola, 1967.
C. SQUARISE (a cura di), La povertà religiosa. Un approccio interdisciplinare, Bologna, EDB, 1991.
D.M. TUROLDO, Profezia della povertà, Sotto il Monte (Bergamo), Servitium, 1998.

Consumo responsabile
CENTRO NUOVO MODELLO DI SVILUPPO, Guida al consumo critico. Informazioni sul comportamento delle imprese per un consumo consapevole, 7a ed., Bologna, EMI, 2001.
G. GARBILLO, Consumo sostenibile. Per consumare solo ciò che è necessario, Milano, Stampa Natura Solidarietà, 1996.
F. GESUALDI, Manuale per un consumo responsabile. Dal boicottaggio al commercio equo e solidale, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2002.
MOVIMENTO GOCCE DI GIUSTIZIA, Miniguida al consumo critico e al boicottaggio, 5a ed. Padova, Coop. S.P.E.S. Editrice, 2001.
A.VALER, Bilanci di giustizia, Bologna, EMI, 1999.

Economia nonviolenta
AA.VV., Denaro e fede cristiana. Testimonianza e fede dei cristiani per un uso consapevole del denaro, Bologna, EMI, 2001.
E. BALDESSONE – M. GHIBERTI – G. VIAGGI, L’Euro solidale. Carta d’intenti per la finanza etica in Italia, 2a ed. Bologna, EMI, 2000.
CENTRO NUOVO MODELLO DI SVILUPPO, Guida al risparmio responsabile, Bologna, Emi, 2002.
M. K. GANDHI, La voce della verità, Roma, Newton Compton, 1991. (Cfr. cap.: “Idee economiche”, pp.200-247).
M. K. GANDHI, Il mio credo il mio pensiero, Roma, Newton Compton, 1992. (Cfr.: pp.201-275).
I. GHIZZONI (a cura di), Manuale del risparmiatore etico e solidale, 2a ed., Piacenza, Berti, 2002.
T. PERNA, Fair Trade, Torino, Bollati-Boringhieri, 1998. (Sul commercio “equo e soldale”).
G. SALIO, Elementi di economia nonviolenta, Quaderni di “Azione Nonviolenta”, n. 16, Verona, Edizioni del Movimento Nonviolento, 2001.
G. STIZ – COOPERATIVA”IL SEME”, Guida alla finanza etica, Bologna EMI, 1999.
WUPPERTAL INSTITUT (a cura di), Futuro sostenibile. Riconversione ecologica, nord-sud, nuovi stili di vita, 3a ed., Bologna, EMI, 1999.

 

Quando l’ulivo è davvero il simbolo della pace

Di Franco Perna

Accogliendo l’appello di famiglie palestinesi a dare una mano per la raccolta delle olive, sono partito con un gruppo di amici svizzeri per 2 settimane (dal 28 ott. al 10 nov. del 2002) sotto gli auspici della YMCA (Associazione cristiana di giovani) e l’ATG (Iniziativa per un turismo alternativo di Beit Sahour/Betlemme).

L’ingresso a Tel Aviv è stato lungo, ma meno difficile di quanto si pensava. Abbiamo raggiunto Betlemme, con breve sosta alla YMCA di Gerusalemme Est, in circa di 2 ore. La prima attenzione si è soffermata sulla presenza di tantissimi insediamenti israeliani (oltre 200 nei territori palestinesi), e i blocchi stradali e militari, causa principale di rallentamenti e spesso umiliazioni, nella loro vita di tutti i giorni. Ci sono poi zone cui i palestinesi non possono accedere senza un permesso speciale o a rischio della propria vita. E’ un po’ la situazione di proprietari di terre nelle vicinanze di insediamenti, ben protetti da recinti di ferro spinato e da giovani soldati israeliani. In tali casi è stata utile la nostra presenza di stranieri tra gli agricoltori palestinesi. Questi infatti si sentono più sicuri e incoraggiati nel portare a termine i loro lavori, soprattutto la raccolta delle olive, che per molti rappresenta la sola fonte di entrata per tutto l’anno.

Noi non abbiamo incontrato troppe difficoltà o pericoli, benchè 2 persone di un gruppo precedente siano state aggredite dai coloni sotto gli occhi di soldati israeliani che non si sono mossi. In un altro caso, accompagnando un contadino che qualche giorno prima era stato messo in fuga dai militati dal proprio oliveto, abbiamo dovuto prendere atto che ormai le olive erano già state raccolte (presumibilmente da coloni israeliani). Il nostro amico contadino faceva gran fatica a nascondere le lacrime, ma almeno questa volta i soldati si sono limitati ad osservarci da lontano… Al dire di altri volontari in altre zone della Palestina, tali episodi sono di routine.

Visto che la raccolta delle olive volgeva alla fine ci è stato suggerito di dare una mano a Daoud Nassar e la sua famiglia che desiderano trasformare un vasto terreno tradizionalmente di loro proprietà, ma che fa gola ad alcuni insediamenti vicini, in un centro di incontri internazionali e multietnici, chiamato: “Tenda delle nazioni”. Il posto si trova nei pressi di Nahalin, a meno di 10 km da Betlemme, ma per raggiungerlo potrebbe occorrere anche un’ora per via dei blocchi stradali, attraversabili solo a piedi, quindi bisogna prendere più mezzi, con inutile spreco di tempo e di soldi che in Palestina sono veramente scarsi, dato l’alto tasso di disoccupazione (60-70 %). Inoltre, chi è fortunato di trovare lavoro non guadagna più dell’equivalente di circa 300-350 Euro mensili, un insegnante, per esempio.

Ritornando al progetto Tenda delle nazioni, dove abbiamo lavorato 4 giorni sotto gli occhi dei coloni che in precedenza avevano già iniziato i lavori per una strada, interrotta da noi perchè su proprietà privata, piantando ulivi e costruendo muri di recinto, desidero dire che si tratta di un luogo bellissimo, con grande potenziale di sviluppo… potrebbe diventare una specie di Neve Shalom in Palestina. Il lavoro da fare, però, è tanto ed occorrono mezzi umani e materiali per portarlo a termine. L’idea è di utilizzare volontari stranieri anche per incoraggiare giovani locali a prendere in mano le loro responsabilità. La presenza straniera servirebbe da ‘empowerment’… e la speranza di Daoud e i suoi fratelli è che un giorno possano venirci a lavorare anche giovani israeliani.

L’iniziativa è già sostenuta da un gruppo di amici svizzeri e tedeschi, ma c’è posto per molti altri. Intanto la nostra presenza è servita anche a stimolare l’interesse di associazioni locali che, in un apposito incontro a Beit Sahour, presso la sede dell’ATG (7 novembre), hanno preso atto del progetto e si sono impegnate a sostenerlo. In questa situazione di difficoltà, soprattutto economiche, la collaborazione per qualcosa che non può dare frutti immediati, non è cosa facile. Coloro che volessero saperne di più possono contattare direttamente Daoud Nassar (e-mail: tnations@p-ol.com ) in arabo, inglese o tedesco, oppure il sottoscritto ( perna.franco@tiscalinet.it , tel. 030 99 07 428).
Omaggio a don Ivan Illich, modernissimo antimodernista

Di Giannozzo Pucci

Ivan Illich è morto a Brema il 2 dicembre scorso. La sua instancabile ricerca e riflessione fino all’ultimo istante di vita è stata motivata da un grande amore per l’essere umano e ispirata dal cristianesimo. Era questo che gli permetteva di riconoscere le più subdole coartazioni della libertà prodotte da quella ideologia burocratico – professional – politico – tecnologica che è la religione modernista, con i suoi sacerdoti (i professionisti e gli scienziati), le sue divinità (il profitto, la scienza, il progresso, lo sviluppo), le sue liturgie (i regolamenti burocratico amministrativi) e la sua lingua (la statistica) in contrasto con la parola, il Verbo. Egli ha smascherato questo neopaganesimo come una degenerazione della chiesa cattolica, sorta di anti-chiesa e anti-cristo che ha trasformato la persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio, in un essere larvale pieno di bisogni definiti e risolti da esecutori di regolamenti e da tecnostrutture.
Il mondo moderno, secondo Illich, non è affatto laico ma inserito completamente dentro la storia della chiesa come “corruptio optimi pessima”, e fa parte di quel “misterium iniquitatis” con cui siamo costretti a convivere consci che “le porte dell’inferno non prevarranno”, ma non per questo giustificati per i nostri tradimenti. Una volta mi confidò che credeva di essere uno dei pochissimi preti di sua conoscenza, se non l’unico, rimasto fedele al giuramento antimodernista, lui che pure affermava categoricamente l’incoerenza del giuramento col vangelo.
Un aspetto straordinario della sua analisi è che pur riducendo in polvere i castelli ideolgici liberali, marxisti e fascisti senza usare nulla della strumentazione marxista e senza quasi nominarli, ma solo analizzandone gli effetti, Illich non elabora una dottrina, ma solo una proposta di temi d’investigazione, perché (di nuovo senza dirlo) la pars construens a cui si riallaccia il suo pensiero esiste già da quasi mille anni nell’opera di San Tommaso d’Aquino, perciò compatibile col vangelo che invita a non farsi chiamare maestri perché uno solo è il nostro Maestro.
L’impegno di Illich nel campo delle idee e dell’amicizia, piuttosto che nell’azione sociale, derivava dalla consapevolezza che lo scontro fondamentale è nel cuore umano, da cui nascono e in cui si riflettono i pensieri che guidano poi le scelte personali e politiche, e poi non si fidava della possibilità di convertire le istituzioni attuali con la politica, senza una profonda deistituzionalizzazione e rivoluzionaria umanizzazione della società. Dalle sue intuizioni sono derivate, per iniziativa di altri, parziali attuazioni istituzionali come la legge Basaglia in Italia, che ha dato buoni frutti ma i cui limiti nascono anche da una società circostante in cui è stata sistematicamente emarginata e perseguitata l’autonomia comunitaria.
Illich, nonostante la sua giovanile ammirazione per La Pira, è rimasto sempre contrario a una concezione neoguelfa della politica. Forse la degenerazione della tecnostruttura sociale la considerava così avanzata da superare quella dell’impero romano nei primi secoli del cristianesimo e quindi era portato a riproporre in chiave moderna l’anatema contro lo stato pagano.
I principali aspetti delle istituzioni che impongono a tutti gli obblighi della civiltà industriale, sono stati da lui studiati con una capacità di passare, mediante la stessa ipotesi di lavoro, da un ambito all’altro di ricerca, che è stata anche uno dei più importanti insegnamenti trasmessi ai suoi studenti in un’epoca dove si tende solo a insegnare la specializzazione.
E’ stato definito in molti modi: sociologo, economista, scienziato della politica, ideologo della tecnica, perché male si adattava alle correnti definizioni, in realtà era un uomo che riflette sulle ragioni ultime di ciò che vede intorno a sé, ma fece cancellare il termine “filosofo” dal passaporto dopo che un arabo gli si era buttato ai piedi folgorato da quella parola. Alla fine si adattò a farsi definire “storico”: non tanto per il dottorato giovanile in storia all’Università di Salisburgo su Toynbee, ma perché ogni suo lavoro è stato basato su profondissime e innovative ricerche storiche, che non hanno concesso nulla a una visione evoluzionista della storia.

Alcune opere di Ivan Illich

Il primo libro di Illich, pubblicato alla fine degli anni ’60, riguarda la Chiesa nel processo di trasformazione della società moderna (The Church, change and development).

Il secondo, del 1970, intitolato Celebration of Awareness (Celebrazione della consapevolezza: un appello alla rivoluzione istituzionale), è contro le certezze delle istituzioni che imprigionano l’immaginazione e rendono insensibile il cuore.

Poi, nel 1971, esce “Descolarizzare la società” che è stato al centro del dibattito pedagogico internazionale con la tesi che la scuola produce la paralisi dell’apprendimento e danneggia i ragazzi, educandoli a diventare meri funzionari della macchina sociale moderna. Convinto che il sistema educativo occidentale fosse al collasso sotto il peso della burocrazia, dei dati e del culto del professionalismo, combatteva i diplomi, i certificati, le lauree, insieme all’istituzionalizzazione dell’imparare. Affermava che un adulto sarebbe in grado di apprendere i contenuti di 12 anni di scuola in uno o due anni.

Del 1973 è La Convivialità, il testo fondamentale dell’ecologia politica, in cui si dimostra che l’origine di ogni inquinamento industriale sta nei divieti e ostacoli alle culture solidaristiche e comunitarie di uso della natura che contengono la chiave per un percorso di liberazione.

Energia ed Equità esce l’anno dopo concentrandosi sull’analisi del sistema dei trasporti e vi si dimostra come elevate quantità di energia degradino le relazioni umane con la stessa ineluttabilità con cui inquinano la natura.

Nemesi Medica, del 1976, esamina i danni alla salute prodotti dalla crescita dell’organizzazione sanitaria, uno degli aspetti della nocività dello sviluppo industriale. Il sistema medico della società moderna non è solo produttore di danni alla salute con terapie spesso menomanti, ma anche con la medicalizzazione della vita come sostituzione dei necessari provvedimenti politici per rendere l’ambiente salubre.

Per una storia dei bisogni è del 1978 e descrive la modernizzazione della miseria, cioè l’organizzazione dell’impotenza del cittadino ad agire autonomamente per la crescente dipendenza da merci e servizi industriali la cui necessità è imposta da una casta di esperti. Ancora del 1978 è Il diritto a una disoccupazione creativa in cui si dimostrano le ambiguità storiche su cui si fonda la moderna identificazione del lavoro col lavoro salariato. Solo distruggendo questo tabù si potranno creare le condizioni per una piena occupazione.

Lavoro Ombra, del 1981, sviluppa ancora il tema della formazione della scarsità attraverso la distruzione delle comunanze, su cui, nel loro aspetto di lavoro domestico femminile, si riposa il lavoro salariato, trasformandole appunto nella propria ombra sfruttata.

In Genere e Sesso, del 1982, la scomparsa del genere maschile e femminile e l’invasione dei rapporti fra uomo e donna da parte del sesso è dimostrata come la decisiva condizione dell’ascesa di un modo di vivere dipendente da merci prodotte industrialmente.

Del 1984 è H2O e le acque dell’oblio, dove si dimostra storicamente come l’acqua, da sostanza inesauribile che alimentava il corpo insieme allo spirito e all’immaginazione, è divenuta una formula inquinata di chimica industriale, dalla cui depurazione dipende la sopravvivenza umana.

Nel 1992 escono altri due libri importanti: Nello specchio del Passato, che svela le radici storiche dei luoghi comuni della modernità dimostrando la loro inconsistenza; e Conversazioni con Ivan Illich a cura di D.Cayley, in cui tutto il suo itinerario si svela con accenti nuovi.

Infine, nel 1993 esce l’ultimo libro Nella vigna del testo il quale sarà particolarmente ricordato anche dai medioevalisti come uno straordinario commento al Didascalicon di Ugone di S.Vittore sul passaggio dalla lettura monastica a quella scolastica.

Non si contano gli articoli, i seminari, gli incarichi in numerose università americane ed europee, i corsi e le conferenze.

 

Il poeta Danilo Dolci, educatore-maieuta

Di Germano Bonora

Avendo avuto la fortuna di collaborare con Danilo dal 1980 alla immatura dipartita, mi piace accennare qui, per sommi capi, come lavorava l’Educatore-Maieuta.

Nel 1980 partecipai per caso a un incontro organizzato alla Scuola Media Statale Matilde Serao di Agropoli. Mi colpì subito l’insolita attenzione e il rispettoso silenzio attorno al gigante Danilo, che poneva domande a ciascuno alla maniera di Socrate, con il sorriso sulle labbra, il tono dolce e suadente, sottovoce, senza microfono, nella grande sala gremita di docenti, tutti interessati e pronti a intervenire.

Pochi minuti per la presentazione dei singoli partecipanti, dei quali memorizzò subito la faccia e il nome, rivolgendosi a ognuno con il tu, come tutti facevano ugualmente con lui in un clima di straordinaria confidenza e familiarità. Nessuna cattedra né pedana, per stare sullo stesso piano degli altri. Sollecitava garbatamente gli interventi e ascoltava con attenzione, valorizzando le opinioni e i punti di vista di ciascuno.

Nel corso di quel seminario nacque tra me e Danilo una straordinaria intesa, che andò gradualmente evolvendo in un vero e proprio rapporto di amicizia e di stima reciproca. Congedandosi alla fine del seminario, con la semplicità istintiva che lo caratterizzava mi disse con un sorriso: “Sono felice che tu esisti&”. Altre volte mi ripeteva con grande gioia: Sei per me più d’un fratello”.

Dal 1980 alla morte l’amicizia tra di noi si andò sempre più consolidando fino a diventare uno stretto e delicato rapporto di collaborazione, che mi ha profondamente arricchito. Ci incontravamo una-due volte all’anno, ma ci sentivamo quasi tutti i giorni, anche più volte nella stessa giornata: mi parlava di tutto, degli incontri, dei progetti nuovi, leggendomi gli appunti del lavoro o inviandomi per fax gli scritti prima di darli alla stampa. Esempio di umiltà veramente unico nel novero dei pensatori e degli artisti.

Dal 1980 ai primi anni novanta Danilo tornò annualmente ad Agropoli per coordinare gli incontri e i seminari di studio su argomenti di attualità e cultura, preparati per tempo da docenti e studenti, con i quali riusciva a stabilire immediatamente un rapporto di totale disponibilità e fiducia, che perdurava anche dopo il diploma. Alcuni contributi e lettere degli studenti agropolesi occupano un posto di rilievo nei libri editi in quegli anni.

La poesia fu il tema del primo seminario svolto al liceo scientifico “Alfonso Gatto” nel 1981. Lo stesso argomento era stato approfondito per due settimane pochi mesi prima all’università di Los Angeles. Vi parteciparono un centinaio di studenti e una ventina di docenti. Un numero del tutto eccezionale, perché non volle deludere le attese. Danilo di solito lavorava con gruppi di quaranta-cinquanta partecipanti. Per tutta la mattinata e alcune ore pomeridiane venivano letti e commentati testi poetici dello stesso Dolci, con il quale imparammo che la Poesia non è soltanto quella scritta dai letterati, ma anche quella fatta di piccoli gesti e attenzioni in famiglia o altrove da persone colte e anche dalla gente più semplice. Si può fare poesia, in ogni occasione, con qualunque mezzo, anche con uno sguardo, con un piccolo gesto di solidarietà, con una semplice carezza o un abbraccio di consolazione, di amore fraterno.

La Poesia è la più alta forma di comunicazione. Comunicare è il nodo centrale del Poeta-Maieuta, che dal 1988 alla morte pubblicò ben sei edizioni della “Bozza di Manifesto dal trasmettere al comunicare”, dedicata “all’educatore che è in ognuno al mondo”. In tre delle sei edizioni ricorre il titolo emblematico “Comunicare, legge della vita”, che possiamo considerare la sintesi del pensiero dolciano.

In tanti anni di attività didattica non ho visto mai così attenti e interessati gli studenti, ai quali amava ripetere: “In voi sento l’anima, la lingua dei Greci. Voi siete gli eredi di Parmenide”. Lo stesso Socrate, come si legge in uno dei Dialoghi di Platone, aveva appreso la maieutica dal filosofo di Elea durante uno dei viaggi in Atene. Il livello di preparazione degli studenti agropolesi, a giudizio di Danilo, non risultava affatto inferiore, a quello degli studenti dei migliori colleges statunitensi.

Riprendere l’attività scolastica dopo gli incontri con Danilo diventava sempre più agevole e gratificante. I ragazzi si aprivano a un rapporto nuovo, improntato al rispetto reciproco sia con i docenti sia tra loro. Si aprivano anche in famiglia, come c’informavano gli stessi genitori con viva emozione e gratitudine. Molti studenti continuavano a scrivere a Danilo anche dopo il diploma per ringraziarlo o chiedergli consigli. In alcune edizioni della “Bozza di Manifesto” compaiono contributi e lettere dei ragazzi di Agropoli accanto a quelli dei Nobel Carlo Rubbia, Rita Levi Montalcini, di altri famosi scienziati, artisti, educatori e anche di gente semplice quanto saggia. Senza alcuna differenza.

Pur non essendo uno specialista, Danilo stava particolarmente attento nella scelta delle parole. Per lui trasmettere non è affatto sinonimo di comunicare; né potere è sinonimo di dominio, come purtroppo si legge anche nei migliori dizionari. L’azione di trasmettere è unidirezionale e può essere anche violenta, come un colpo di pistola o la più subdola pubblicità. Comunicare implica reciprocità, come ad esempio una telefonata fra due persone innamorate. Il potere appartiene a ciascuno, mentre nel dominio c’è la sopraffazione di un individuo o di un gruppo sugli altri. Danilo non amava le parole leader, capo, duce, zar e simili. Non amava neppure la parola pedagogia, alla quale preferiva educazione: la prima presuppone la guida, il conduttore, mentre la seconda evoca il maieuta, che rispetta l’autonomia dell’altro.

Nel corso dei seminari esigeva il massimo raccoglimento e silenzio, per meglio attivare e concentrare le energie intellettuali e creative. La creatura è per sua intrinseca natura destinata a creare.

Sognava la Terra come Creatura di creature, che è anche il titolo profetico di un suo poema.

Ogni seminario si concludeva di solito con una manifestazione pubblica, aperta ai familiari degli studenti e a quanti altri volessero compartecipare alla festa, in cui si vivevano momenti di gioia collettiva e di intensa emozione. Alcune madri abbracciavano Danilo per ringraziarlo di aver aiutato i figli ad aprirsi in famiglia: “Quando ci riuniamo per il pranzo e la cena, non accendiamo più il televisore; parliamo di tutto, guardandoci negli occhi, senza mai alzare la voce”.

Una giovane vedova con gli occhi lucidi, stringendo forte la mano di Danilo, gli confidò: “Mio figlio si era completamente chiuso nel suo dolore da quando era morto il padre, al quale era molto attaccato. Nel corso del seminario ha ritrovato il sorriso, raccontandomi ogni giorno tutto quello che faceva con voi. Ha capito che comunicare è la cosa più importante di tutte. Comunicare dev’essere la legge della vita”.

Soltanto una volta, nel pieno della festa conclusiva dei lavori seminariali, ho visto un ragazzo avvicinarsi impacciato a Danilo per dirgli di essere rimasto deluso, perché si aspettava delle belle conferenze dal “professore Dolci”, che invece si era limitato ad ascoltare dei ragazzi ignoranti e immaturi. Per lui il seminario era stato del tutto inutile.

Danilo lo fissò a lungo negli occhi, scuotendo la testa. Quando ci congedammo alla stazione ferroviaria, mi disse: “State molto vicino a quel ragazzo, perché non è soltanto deluso dell’incontro, ma è soprattutto deluso della vita, perché non ha fiducia in se stesso: è disperato. Come tutti quelli che hanno bisogno di una guida, anzi di un capo, un leader, un duce che li domini”.

Danilo amava ricordare di aver imparato molto dai contadini, dai pescatori, dalla gente semplice, finanche dagli alberi e dai fiori.

Per costruire un rapporto fecondo è fondamentale il rispetto. Dev’essere sempre un rapporto reciproco di dare e avere con delicatezza. Come fa l’ape con il fiore.

“Palpitare di nessi” è il titolo di uno dei suoi libri più belli, che con il corpo poetico dall’emblematico titolo “Creatura di creature” l’editore Armando Armando volle pubblicare nella collana specialistica degli educatori, perché gli autentici educatori sono anche grandi poeti. Nei grandi poeti etica ed estetica coincidono.

L’AZIONE

A cura di Luca Giusti
Contro le guerre del petrolio lasciamo a casa le automobili

“Azione nonviolenta di sensibilizzazione sul nesso causale automobili-petrolio-guerre e su una sua possibile rottura”. Ne parliamo con Pasquale Pugliese del Gruppo di Azione Nonviolenta che la attua ogni due settimane a Reggio Emilia.

Chi è stato? Il Gruppo di Azione Nonviolenta di Reggio Emilia, sin dall’origine del progetto GAN di Rete Lilliput, è un significativo punto di ideazione, sperimentazione e atuazione della “strategia reticolare, lillipuziana e nonviolenta”. Nasce da un percorso formativo di quasi un anno, articolato in conferenze-dibattito, ricerca, training, proiezione e discussione di film. Il modulo finale del corso ha visto un’analisi collettiva dei riflessi locali delle dinamiche globalizzanti, culminata in un training di presa di decisioni consensuali con Nanni Salio. In tale sede il gruppo ha deciso di costruire una campagna locale sulla violenza strutturale, diretta e culturale del sistema di trasporti fondato sull’automobile; una campagna, basata sul metodo e le tecniche della nonviolenza attiva, ancora in pieno sviluppo. Quella qui presentata è la seconda azione del gruppo, dopo un’azione dimostrativa di tipo teatrale realizzata nel giugno scorso per “provarsi” al termine del percorso formativo.

PREPARAZIONE
Proviamo a ripercorrere il percorso che porta a questa azione?
A settembre il GAN comincia a lavorare parallelamente sull’affinamento del metodo di azione e sulla fase di inchiesta preliminare della campagna. La forma di violenza diretta, strutturale e culturale che la nostra campagna mira a trasformare in senso sostenibile e nonviolento, si esplica sia a livello micro, con le morti in città e provincia per incidenti stradali e con le malattie per cause legate all’inquinamento atmosferico, sia a livello macro, con la crisi ambientale e sociale del modello di sviluppo. Di questo modello l’automobile è uno dei perni materiali e simbolici, e con le guerre per il petrolio.
I venti di guerra che, dopo l’Afghanistan, soffiano sull’Iraq per ragioni chiaramente legate all’appropriazione dei pozzi petroliferi, inducono il gruppo a concentrarsi, sul piano dell’azione, proprio su questo tema.

Come avete scelto tra le possibili tecniche di azione nonviolenta?
Si è deciso il tipo di azione da svolgere nella giornata di autoformazione condotta da Caterina Lusuardi e Fabiana Bruschi, reduci dal campo di formazione per formatori di Rete Lilliput a Pruno di Stazzema, Sono state delineate le prime caratteristiche dell’azione, poi definite in maniera più dettagliata via via, negli incontri successivi: esplicitare -anzitutto ai cittadini contrari alla guerra che usano abitualmente l’automobile- il legame diretto tra il bisogno di petrolio delle società occidentali ed il ciclo di guerre imperiali attuali, al fine di indurre alcune modifiche nell’uso abituale dell’auto, proponendo l’alternativa della bicicletta.

AZIONE!
14 dicembre 2002, Ore 9.00: E’ una fredda e nitida giornata di sole dopo settimane di pioggia e nevischio. Circa 10 persone del locale GAN si ritrovano in una delle più frequentate piazze di Reggio Emilia. Sono un po’ in ritardo ma ognuno sa precisamente cosa fare e il lavoro procede spedito: due issano una bandiera sull’asta del cartello “piazza della Vittoria”. Altri due montano un banchetto e vi sistemano sopra libri, dossier e volantini. In sei srotolano tre striscioni con su scritto: “Contro le guerre del petrolio lasciamo a casa le automobili”; col più grande avvolgono il banchetto e fissano gli altri su due telai applicati in verticale sulle biciclette. Hanno appena terminato, che arrivano i primi ciclisti; il vento dispiega la bandiera arcobaleno scoprendo due grandi mani che spezzano un fucile e la scritta “nonviolenza”. Man mano che i ciclisti arrivano vengono accolti al banchetto dove si offrono mascherina antismog, volantino con 10 regole da rispettare e verdissima canna di bambù per imbandierare la bici.
Istruzioni per la biciclettata*: 1) si procede in fila indiana e non a coppie 2) rispettare la posizione di partenza di ognuno 3) seguire il capofila con striscione 4) chiude la fila un’altra bici con striscione 5) si rispettano semafori e precedenze 6) si aspetta chi rimane fermo ai semafori o per altri motivi 7) per qualsiasi situazione in cui occorra fermarsi avvisare il compagno davanti e con passaparola si avvisa il capofila. Usare la parola “stop” per fermarsi e “avanti” per procedere 8) diversamente avvisare il “pompiere” in bicicletta che può muoversi liberamente 9) se siamo in numero superiore a 40 le biciclette con bandiere della nonviolenza e della pace (gruppo GAN) segnano le decine e diventano riferimenti 10) se non si rispettano le suddette istruzioni la biciclettata sarà sospesa
*(volantino distribuito ai partecipanti esterni al GAN)

10.30: il serpentone colorato di 25 bici e circa 200 metri, aperto e chiuso dai due striscioni si mette in movimento; scivola ordinatamente tra i molti pedoni del centro e poi nel traffico del sabato mattina. Si arresta un istante per attraversare l’incrocio principale della città e riparte veloce lungo le principali arterie, rientrando poi verso il centro. La teoria di bandiere arcobaleno, agitate dal vento e baciate dal sole, che fluisce serena nel traffico prenatalizio, è di grande effetto. Da una piazza vicina arrivano le voci di una manifestazione di studenti; si devia leggermente per girargli intorno in segno di amicizia.
11.30: Si ritorna stanchi al banchetto dove, nel frattempo qualcuno (o in molti?) si è avvicinato per avere informazioni. Il riscontro positivo della gente ci induce a ripetere il percorso una seconda volta.
12.00: Ci si saluta, stanchi ma molto soddisfatti; e ci si dà appuntamento alla prossima biciclettata, replicata con periodicità quindicinale, al sabato.

Tecniche: Con riferimento a Gene Sharp “Politiche dell’azione nonviolenta ” vol III (Edizioni Gruppo Abele 1986) si riportano qui tre tecniche d’azione e tre corrispondenti modalità di esprimere il proprio dissenso che si intrecciano in questa esperienza:
Tecniche di protesta e persuasione come il corteo (Cfr. le tecniche n° 38-42) e la sfilata motorizzata in particolare o azioni pubbliche simboliche come l’esposizione di bandiere e colori simbolici (n°18) Opposizione, ossia manifestazione di una massa che dice NO che raggiunge più luoghi e persone di un corteo a piedi, in maniera persuasiva anche senza coperture mediatiche e graduale nel coinvolgimento di persone esterne al conflitto.
Tecniche di noncollaborazione economica e in particolare il boicottaggio da parte di consumatori (n° 71-77). Obiezione individuale ai piccoli SI –consapevoli o meno- che questo sistema strappa ogni giorno agli stessi manifestanti.
Tecniche di intervento nonviolento sul piano economico (n° 181-190) e in forma di sistema di trasporto alternativo (n°191) Opzione, ossia attuazione collettiva di sistemi alternativi che stiano in piedi. Costruttiva e costante enza alti e bassi imposti da altri;

VALUTAZIONE
In che misura la dinamica attivata è stata efficace e cosa non ha funzionato come previsto?
Nell’incontro di valutazione svolto dopo qualche giorno, oltre alla soddisfazione generale per lo svolgimento complessivo dell’azione, abbiamo evidenziato i punti deboli: hanno partecipato meno persone da quello che i segnali dei giorni precedenti lasciavano supporre; la stampa non si è vista o quasi; un associazione ciclo-ecologista, che pure aveva formalmente aderito, era praticamente assente; la piazza del punto base non era molto frequentata al mattino; gli striscioni erano poco leggibili, soprattutto quelli in movimento.
Si sono proposte dunque le opportune modifiche, alcune già operative dalla seconda edizione.
L’efficacia complessiva della progett/azione sarà comunque quantificabile solo su tempi lunghi ed in seguito alla ripetizione del messaggio.

Per un GAN, chiedersi come (e magari quanto) l’azione e’ efficace nel raggiungere lo scopo prefissato e’ un punto caratterizzante di positivita’. Per questo ci proponiamo di sviluppare degli “indicatori” (come in un bilancio sociale) che ci permettano di valutare se riusciamo: a sensibilizzare gli “spettatori” all’azione; a rendere piu’ partecipi e consapevoli del messaggio coloro che (ci auguriamo) si uniranno a noi (a Reggio Emilia e magari altrove) per riuscire a ripetere con efficacia l’azione.

INDICATORI DI EFFICACIA:
Registrazione del numero di partecipanti all’azione nelle sue edizioni ripetute (ogni 15 giorni circa)
Registrazione della diffusione dell’azione in territori limitrofi o dell’attivazione di altri GAN affini
Somministrazione di un questionario ai partecipanti (tutte le volte che l’azione si ripete)
Rassegna stampa locale relativa all’azione

QUESTIONARIO (BOZZA)
Per chi ha partecipato all’azione: 1) Da quanto partecipi a questa azione ? 2) Hai contribuito all’organizzazione dell’azione ? 3) Da quando partecipi all’azione?
Per chi non ha partecipato: 1)Sei a conoscenza dell’azione? 2)Se sai di che si tratta, puoi affermare che…

LILLIPUT
A cura di Massimiliano Pilati
Impressioni da Baghdad: un viaggio della Pace

Riflessioni e pensieri dopo il viaggio a Baghdad con la delegazione di parlamentari ed esponenti della società civile

L’opportunità era certamente stimolante: fare parte della delegazione mista (parlamentari, esponenti di associazioni e giornalisti) in visita per una settimana a Baghdad all’inizio di Dicembre con l’intento di capire un po’ meglio la situazione e portare un messaggio di speranza.
Un cammino, questo, fatto da persone impreparate e non ben coscienti della meta verso cui stavano andando, così come lo sono tutti nella costruzione della Pace, ed in qualche misura complici della condizione di crisi in atto. Ognuno di noi deve considerarsi in parte responsabile dei contrasti e dei conflitti fra i popoli se non mette fino in fondo le sue energie a disposizione della realizzazione di un mondo più giusto. Questo viaggio rimane una metafora di tale percorso conoscitivo anche se le sensazioni provate sono ancora incapaci di generare visioni complessive di cambiamento di rotta.
In pochi giorni, con un serrato programma di lavoro, abbiamo avuto l’opportunità di incontrarci con: il Presidente del Parlamento iracheno; i Presidenti delle Commissioni parlamentari di esteri, sanità e ambiente, lavoro e affari sociali e della religione e del culto; la locale chiesa Caldea, nella persona del Vescovo Ausiliario Salomon Warduni; le agenzie delle Nazioni Unite, i direttori di UNICEF, e UNDP, e il Coordinatore Umanitario; le ONG internazionali e le organizzazioni umanitarie attive in loco; gli Ispettori delle Nazioni Unite, nelle persone del portavoce e del direttore del centro operativo; il rappresentante della nostra “sezione di interessi italiani” a Baghdad. Abbiamo inoltre visitato: l’ospedale pediatrico oncologico, dove abbiamo incontrato il direttore sanitario; la facoltà di scienze politiche dell’Università di Baghdad, ospiti del direttore della facoltà stessa e una scuola elementare di una zona disastrata della città di Baghdad.
Il momento più rilevante lo abbiamo comunque vissuto incontrando la gente di Baghdad: abbiamo finalmente dato un nome ai volti delle persone al di là dell’immagine televisiva, abbiamo sentito le voci di chi non ha possibilità di farsi sentire, di chi per anni ha vissuto tra l’oppressione di un embargo e la “libertà” di un’assurda dittatura. Per una settimana, abbiamo avuto la possibilità di calarci in una realtà sociale ed umana completamente differente dalla nostra quotidianità e, soprattutto, abbiamo potuto sentire sulla nostra pelle l’atmosfera di questo paese martoriato che vive sotto la minaccia costante di un attacco. “I nostri sentimenti sono congelati” ha detto una ragazzina irachena, riverberando negli occhi e nella voce la mancanza di speranza che abita nel profondo della sua anima. Questa consapevolezza mista di impotenza e rassegnazione, aumentata e cementata dal tipico fatalismo arabo, è se possibile ancora peggiore della pur drammatica situazione materiale. Una condizione sempre sull’orlo della catastrofe, in buona parte per colpa della politica e dell’indifferenza di noi “popoli civili”: ci consideriamo i paladini di libertà e giustizia quando invece affamiamo un intero popolo ed arricchiamo, rafforzandoli, i capi che diciamo di voler abbattere. In realtà stiamo uccidendo, oltre a bambini, donne e uomini indifesi, anche i loro sogni e la loro fiducia di una vita serena e felice. Ma anche in questo clima pesante, pur con tutte le difficoltà evidenti e già tratteggiate, la vita riesce sempre a trovare una strada per “uscire alla luce”, grazie al valore profondo di un popolo che ha saputo donare un grande senso di umanità anche a noi, visitatori di passaggio provenienti da un paese straniero e “nemico”.
Più di ogni altra cosa prevale il disagio di non trovare una motivazione che spinga a concepire una guerra come questa, un inganno strano dove la vittima è già morta e il suo assassino continua a non poter fare a meno di ucciderla. Di fronte a ciò sei costretto a fermarti e a domandarti qual è stato il motivo che ti ha spinto ad intraprendere un viaggio del genere. Sei portato a chiederti quale possa essere il contributo vero delle tue buone intenzioni di “diplomazia dal basso” ed “intervento diretto nonviolento”. Certe volte ci si scopre molto meno preziosi di quanto si sia portati a credere normalmente! Ma anche se non abbiamo fatto chissà che cosa, anche se il nostro contributo di dialogo si è perso nella marea di odio e di scontro, quel poco di cammino che abbiamo percorso può essere davvero importante se “moltiplicato nelle molteplicità”.

Riccardo Troisi e Francesco Vignarca
Rete di Lilliput

ALTERNATIVE
A cura di Gianni Scotto
Contro la guerra: cambiare modello di sviluppo

Continuiamo ad augurarci che i governi degli Stati Uniti e dell’Irak, e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite decidano di evitare una nuova guerra del Golfo. Cerchiamo di mantenere la serenità, e nello stesso tempo di trovare strade per un lavoro incisivo e costruttivo di opposizione alla guerra.
Come in altre guerre degli anni novanta, il consenso dell’opinione pubblica all’attacco viene garantito da un misto di retorica, disinformazione e riscrittura del passato. A dicembre, Andreas Zumach, del quotidiano tedesco Tageszeitung, ha rivelato che numerose imprese statunitensi e tedesche, e addirittura agenzie governative USA, hanno aiutato negli ultimi venti anni il regime iracheno a dotarsi di armi di distruzione di massa (in particolare gli agenti chimici usati contro l’Iran e contro i Curdi). Ma del fatto che il dittatore Saddam Hussein sia stato amico dell’occidente per oltre un decennio oggi non si parla.
Per fortuna nel nostro paese abbiamo già visto diverse manifestazioni contro la guerra che si avvicina, e senz’altro la protesta crescerà. Essa potrà diventare incisiva solo se nascerà un movimento capillare genuinamente nonviolento, anzitutto nelle forme di protesta.
L’opposizione nonviolenta non può esaurirsi nelle manifestazioni di piazza. La strada dell’azione diretta nonviolenta potrà forse intralciare il funzionamento della macchina da guerra – e questo sarà un segnale di speranza. A questo proposito è doveroso ricordare, tra le altre, l’iniziativa delle “mongolfiere di pace”, animata da Peppe Sini, che durante la guerra del Kosovo impedì per qualche ora la partenza dei bombardieri. Riusciremo a ostacolare di nuovo – anche solo per poco – la macchina bellica statunitense e i suoi aiutanti italiani?
La cultura della nonviolenza mette in primo piano la realizzazione di un programma costruttivo, come alternativa praticabile alla violenza e alla sopraffazione. Il collegamento tra l’opposizione alla violenza e il programma costruttivo è di grandissima attualità: credo che, alla vigilia della “guerra annunciata”, proprio il programma costruttivo dovrebbe diventare il centro dell’azione politica dei nonviolenti e dei movimenti per la pace.
Non c’è dubbio infatti che la guerra contro l’Iraq verrà combattuta per garantire agli Stati Uniti il controllo della materia prima oggi più preziosa, il petrolio. Per depotenziare il sistema di guerra nel quale siamo immersi la via maestra è quindi costruire con pazienza alternative all’attuale politica energetica e quindi al modello di sviluppo odierno nel suo complesso.
A dimostrazione che un tale programma costruttivo non è roba da utopisti ci sono tanti esperimenti di nuove forme di economia e di vita. Un compendio delle esperienze più interessanti è contenuto nel volume Short circuit, scritto già qualche anno fa dall’economista irlandese Richard Douthwaite (in Germania è uscita un’edizione ampliata con esempi di alternative pratiche nei paesi di lingua tedesca). La tesi dell’autore è che per contrastare gli effetti devastanti della globalizzazione occorre costruire forme di economia solidale a livello locale e regionale: anziché fluire dalla periferia al centro, le risorse possono in questo modo rimanere a disposizione della comunità che le produce.
Douthwaite propone esempi concreti di alternative economiche in diversi campi: dalle banche del tempo allo sfruttamento di risorse energetiche rinnovabili locali. Proprio quest’ultimo punto assume un’importanza centrale per un modello di sviluppo alternativo a quello basato sul petrolio. Douthwaite sostiene che pressoché ogni comunità locale può valorizzare fonti energetiche proprie (ad esempio con piccoli impianti idroelettrici o eolici).
Oggi la liberalizzazione del mercato energetico europeo permette di realizzare questa alternativa con una certa facilità, creando società locali di produzione e consumo dell’energia: in Germania i consumatori possono scegliere la società da cui comprare energia elettrica. L’elettricità necessaria a scrivere queste righe al computer proviene dalla rete di Berlino, la mia bolletta viene versata a una società di Amburgo che vende solo energia rinnovabile.
Prevedibilmente il movimento contro la guerra in Irak caratterizzerà la società italiana nei prossimi mesi. La cultura della nonviolenza può permettere all’opposizione contro la guerra un salto di qualità: l’obiettivo è di saldare insieme l’azione diretta nonviolenta nella società, la prospettiva di un’opposizione politica alla guerra nelle istituzioni, e la costruzione di alternative locali al modello di sviluppo basato sul petrolio.

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
La Memoria sullo schermo

(“Amen”, di Costa Gavras e “Il Pianista” di Polanski)

Il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche penetrano nel campo di concentramento di Auschwitz e liberano gli internati dalla cieca follia nazista; il 27 gennaio del 2003 si celebra in tutta Italia la terza Giornata della Memoria, momento di riflessione e di approfondimento della Shoah, il martirio del popolo ebraico, una ferita ancora aperta nel cuore della vecchia Europa. Il cinema, da sempre, guarda alla Storia e ai suoi protagonisti come ad una sorgente inesauribile di fatti, personaggi e contesti, dai quali trarre materia di narrazione e rappresentazione. Una rappresentazione del reale che, per lo statuto stesso del mezzo cinematografico, è comunque da intendersi non come ri-produzione della realtà ma come produzione di una nuova realtà, la risultante tra una scelta estetica soggettiva (quella dell’uomo dietro la macchina da presa) e le immagini in movimento riprese dalla macchina. Di tutta la Storia (con la esse maiuscola), il cinema mostra da sempre una particolare attenzione nei confronti della Shoah, forse perché rappresenta il massimo archetipo del concetto di colpa individuale e collettiva; e nel 2002 il repertorio cinematografico sull’Olocausto si è arricchito di due ulteriori capitoli – Amen di Costa Gavras e Il pianista di Roman Polanski – e di tre nuove e paradigmatiche icone del dolore: Kurt Gerstein, chimico e ufficiale “pentito” delle SS, Riccardo Fontana, il giovane gesuita, di pura invenzione letteraria, vicino a Pio XII, e Wladyslaw Szpilman, brillante pianista polacco sfuggito alla deportazione. Due film sui quali vale la pena soffermarsi per i notevoli elementi di originalità che presentano.
Dal punto di vista stilistico è interessante da subito rilevare, come caratteristiche portanti, la secchezza (quasi freddezza in Amen) e la natura assolutamente anti-retorica dell’impianto narrativo. I fatti e gli stati d’animo vissuti dai protagonisti sono descritti in maniera asciutta, quasi senza enfasi, per meglio coglierne il senso profondo dell’assurdo: l’assurdo di una crudeltà scomposta, cieca e brutale, che si scatena apparentemente senza una motivazione logica. La brutalità omicida degli aguzzini nazisti, ne Il pianista per esempio, che esplode senza preavviso, senza lasciare dietro di sé strascichi evidenti, magari semplicemente per una domanda mal posta.
Una personale ricostruzione di una pagina di Storia; due parziali “soggettive” sulla tragedia della Shoah, incarnate dallo sguardo “dall’interno” di Wladyslaw, pianista polacco scampato alla deportazione che, costretto a vivere nel ghetto di Varsavia, attraversa tutte le fasi del progetto di sterminio nazista, e dallo sguardo “dall’esterno” di Gerstein e Fontana, incapaci di osservare in silenzio il cinismo sanguinario dei nazisti e l’atteggiamento “silente ma non assente” della diplomazia vaticana, e quindi vittime di un oppressivo senso di colpa che li conduce alla morte.
Dal punto di vista contenutistico si può notare come Polanski e Costa-Gavras evitino con cura di proporre alcuni stereotipi o cliché del cinema dell’Olocausto, che abbondano, invece, in film come La vita è bella di Benigni o La tregua di Rosi. Compiono la precisa scelta di non mostrare alcuna immagine dei campi di concentramento né la desolante condizione dei deportati.
In Amen lo sguardo è pudico e la rappresentazione del dolore non varca la soglia perché non vuole. L’occhio di Kurt, il suo vedere, si congela ed ammutolisce attraverso l’oblò che lascia passare la visione dello strazio delle vittime dello Zyklon B e del quale, invece, fanno largo e vouyeristico uso gli altri ufficiali nazisti. L’unico elemento che, per metonimia, riconduce al lager come luogo della deprivazione della vita è il treno merci con i vagoni vuoti, che ritmicamente scandisce la narrazione filmica con il suo scorrere perpetuo ed incessante.
Ne Il pianista invece, lo sguardo è prigioniero del ghetto di Varsavia, e la rappresentazione del dolore non varca la soglia perché non può. Wladyslaw vaga perduto, randagio ebreo errante, tra le macerie di un’umanità in frantumi, soffocata dal limite delle imposizioni e ingabbiata da pareti di cemento e pertugi; una figura via via più scheletrica e “fantasmatica”, nel progressivo dimagrimento della carne, che scivola ineluttabilmente verso l’abisso.
Anche in questi due lungometraggi il cinema della Shoah illumina un essere umano “azzerato” nella sua condizione primaria; nudo e solo di fronte alla propria coscienza, al proprio dolore e ai propri bisogni più basilari: “…il cibo (vita) è più importante del tempo”, dice Wladyslaw quando cede l’orologio in cambio delle provviste. Una condizione che declina nel martirio quando – è il caso di Kurt e Riccardo – la necessità della denuncia di un tempo, del quale ci si vergogna di fare parte, risulta più urgente e importante della vita stessa.
Gianluca Casadei
Cooperativa FuoriSchermo – Cinema & Dintorni

MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Immagina un cantautore ministro della cultura…

La fantasia e la musica al potere in Brasile dal primo gennaio! Un Paese che balla e vive di musica, che ha eletto presidente Lula, un personaggio che si dice raccomandi la recitazione quotidiana, almeno per tre volte di ”Imagine” e “Happy Xmas (war is over)” di John Lennon, non poteva che avere come Ministro della cultura un cantautore e musicista…
In Italia abbiamo avuto amministratori comunali come Bertoli, Ligabue e Treves, deputati in parlamento come Modugno e Paoli, presidenti di Provincia come Ombretta Colli a Milano. In giro per il mondo c’è stato qualche musicista candidato presidente senza successo come Jello Biafra alle primarie dei Verdi negli Usa e Ruben Blades a Panama.
Ma oggi abbiamo veramente Gilberto Gil Ministro della Cultura nel nuovo governo brasiliano! Il cantautore di Salvador de Bahia ha accettato dopo essersi consultato con altri due grandi della musica carioca, CaetanoVeloso e Chico Buarque de Hollanda. “Cercherò di conciliare la carriera artistica e l’incarico di ministro – ha detto – lavorerò in doppiopetto da lunedì a venerdì e continuerò a tenere i miei spettacoli il sabato e la domenica. Che cosa farò come ministro è decisamente troppo presto per dirlo, quello che so è che nel frullatore di idee del nuovo governo io ci metterò cose nuove”. E ha ricordato, citando la sua canzone “Palco” che “Pure la politica e l’amministrazione sono un’arte”.

Gilberto Gil cantante e chitarrista (ma è passato anche dalla fisarmonica alle percussioni) è un personaggio profondamente legato alla cultura locale, che ha saputo spaziare negli anni nei generi più diversi dal reggae ai ritmi africani, dal country al pop-rock. Nel 1998 ha ottenuto il Grammy award (Oscar della musica pop) come miglior cd di word music per “Quanta live – Ao vivo”.

Negli anni sessanta ha promosso il Movimento Tropicalista insieme ad altri musicisti fra cui Caetano Veloso, portando un fermento rinnovatore nella musica brasiliana, oltre la bossa nova, riprendendo influenze pop anglosassoni, amalgamate con le strutture ritmiche e melodiche latinoamericane. La valenza del Tropicalismo non è stata solo musicale, ma anche culturale e politica. Gil e Veloso hanno ripetutamente denunciato anche in musica il clima di terrore instaurato dalla dittatura militare: “Attenzione! Devi avere occhi forti/ Per questo sole/ Per questa oscurità/ Attenzione/ Tutto è pericoloso/ Tutto è divino meraviglioso/ Attenzione pure al ritornello/ Devi stare all’erta e forte/ non abbiamo tempo per temere la morte” (“Divino Maravilhoso”). Per questo sono stati per un mese in carcere e poi espulsi dal Brasile. Tre anni in Inghilterra hanno dato l’occasione di suonare con gruppi e personaggi quali i Pink Floyd, gli Yes e Rod Stewart. Il ritorno in patria nel 1972 è stato propiziato da una notevole mobilitazione di musicisti.
Nel 1987 ha dato vita a Ondazul, una ong per la salvaguardia della foresta amazzonica, la difesa delle culture indie e il controllo delle risorse idriche. Nel 1991 ha partecipato a un grande concerto a New York, con Jobim, Sting, Elton John, per la difesa delle foreste pluviali. E’ coautore della sigla musicale che, dall’inizio degli anni novanta, accompagna le campagne elettorali di Lula. Fa parte della direzione del movimento dei Verdi. Una sua canzone si intitola “Filhos de Gandhi” (figli di Gandhi).
A qualcuno sarà rimasto impresso il suo smagliante sorriso quando, nel 1990 a Sanremo ha riversato la sua carica di ottimismo in una spumeggiante versione di “Buona giornata”, canzone dei Ricchi e Poveri, purtroppo mai uscita su disco…
Ma in Italia non lo ricorderemo solo per questo o per il duetto (“Mejor de volvere junto a ti”) con Laura Pausini. Di recente (ottobre 2002) ha cantato al Premio Tenco, l’appuntamento annuale più prestigioso per la canzone d’autore, dove è stato premiato come artista straniero.
Decennio ONU per l’educazione alla nonviolenza : a che punto siamo?

Nel numero di Novembre del 2000, in questa rubrica è stata presentata l’iniziativa dei Premi Nobel per la Pace che ha portato l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a proclamare il primo decennio del nuovo millennio “Decennio per l’affermazione di una cultura della nonviolenza”.
Siamo ormai nel 2003. Con l’inizio del nuovo anno è opportuno riepilogare che cosa è successo finora a questo proposito . E’ quanto ci viene proposto da Sergio Bergami, che con il MIR di Padova segue in particolare il lavoro di promozione del Decennio in Italia, e che per noi fa il punto della situazione.

I documenti dell’ONU più interessanti
Ancora nel lontano 1997 L’Assemblea Generale (risoluzione 52/15 del 20 novembre 1997) ha proclamato l’anno 2000 “Anno internazionale della cultura della pace”;
nel 1998 (risoluzione 53/25 del 10 novembre 1998) ha proclamato il periodo 2001-2010 “Decennio Internazionale per una Cultura di Pace e non violenza per i Bambini del Mondo”;
nel 1999 (risoluzione A/53/243 del 13 settembre 1999) ha prodotto una Dichiarazione e un Programma d’azione su una cultura di Pace. L’UNESCO ha prodotto un manifesto per l’anno 2000 che è stato firmato da 65 milioni di persone nel mondo.
Questi documenti sono in realtà molto importanti perché “Gli Stati Membri sono incoraggiati a prendere dei provvedimenti per promuovere una cultura di pace a livello nazionale“(art. 2 del programma d’azione); e ancora “L’applicazione efficace del Programma d’azione richiede la mobilitazione di risorse, ivi comprese le risorse finanziarie, grazie ai governi, alle organizzazioni, e agli individui interessati”(art. 8).
Nell’art. 9 si parla di “Fare in modo che i bambini ricevano, fin dalla più tenera età, una educazione al riguardo dei valori, delle attitudini, dei comportamenti e dei modi di vita che debbano loro permettere di risolvere le controversie in maniera pacifica” […] e di “Far partecipare i bambini ad attività che instilleranno in loro i valori e gli scopi di una cultura di pace”; sempre nello stesso articolo si incoraggia “la revisione dei programmi di insegnamento, ivi compresi i manuali, nello spirito della Dichiarazione […] riguardante l’educazione alla pace”.
Come si vede da questi pochi passi tratti dalle dichiarazioni lo spazio di intervento è veramente molto grande.

Cosa è stato fatto

La rivista francese Nonviolence Actualité ha elaborato un interessante piano (1) con delle azioni cadenzate per ogni biennio. Questo piano di lavoro è stato assunto come base di lavoro dal MIR all’assemblea del 2001 a Roma.
E’ già stato presentato nei due rami del Parlamento Italiano un progetto di legge, firmato da parlamentari di tutti gli schieramenti politici, che prevede la creazione anche in Italia di Istituto di ricerca per la Pace e la Risoluzione dei Conflitti sul modello di quelli prestigiosi già esistenti del Nord Europa.
E’ stata elaborato un modello di delibera da far adottare a livello comunale e provinciale per finanziare l’educazione alla pace nelle scuole presenti nel territorio degli Enti Locali (2).
E’ stata elaborata una traccia di proposta di legge per finanziare l’educazione alla pace a livello nazionale (3). Questa traccia è stata consegnata ad alcuni parlamentari perché, con l’aiuto degli uffici legali del Parlamento, venga stilata in maniera adeguata e poi presentata alle Camere.
E’ stato costituito un Comitato Nazionale per il decennio di educazione alla pace ed alla nonviolenza per i bambini italiani costituito da:

Associazione per la Pace
Beati i Costruttori di Pace
GAVCI (Gruppo Autonomo Volontariato Civile in Italia)
Movimento Internazionale Riconciliazione
Movimento Nonviolento

Che cosa resta da fare

Moltissime azioni possono essere fatte. A breve termine bisognerebbe:
– allargare il Comitato promotore del Decennio ad altre associazioni e gruppi
– far conoscere l’esistenza del Comitato promotore del Decennio
– reperire un sito Web che ospiti i materiali del Comitato promotore
– creare un logo per le iniziative del decennio
– cercare altri parlamentari che firmino la proposta di legge sulla creazione dell’Istituto di Ricerca per la pace
– far adottare dagli Enti Locali delibere che finanzino l’educazione alla pace nelle scuole, questo fintanto che non viene approvata la legge nazionale

Sempre a breve termine bisogna continuare a preparare progetti concreti di educazione alla pace ed alla nonviolenza da portare nelle scuole.
Chi volesse segnalare iniziative e disponibilità di collaborazione può scrivere a questa rubrica oppure a: mirsezpd@libero.it  (MIR- sezione di Padova, via Cornaro 1/A 35128 Padova). In attesa della creazione di un sito specifico, tutti i materiali relativi al decennio si posso o trovare sul sito
digilander.iol.it/mir/main.htm
I documenti (1), (2) e (3) sono consultabili sul sito, oppure posono essere richiesti direttamente al MIR di Padova.

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Traffico d’armi e mercenari nelle guerre dimenticate

Chi non conosce il nome di Bob Denard si perde alcune delle pagine più cruente ma anche più istruttive che compongono la storia dell’Indocina e del Marocco, del Katanga e dello Yemen, dello Zaïre, del Biafra, del Kurdistan, del Ciad e dell’Angola, del Bénin, e delle Comore; quelle che di solito i libri di storia non riportano mai completamente.
I suoi famosi “cani da guerra”, composti da avventurieri, disertori e avanzi di galera reclutati nei bassifondi di Amburgo e Marsiglia, ispirarono la trama del libro “I mastini della guerra” di Frederick Forsyth, con le loro operazioni nelle giungle africane al soldo dei dittatori di turno o per conto dei servizi segreti occidentali.
Nato 72 anni fa nella banlieue di Tolone, Bob impara giovane le tecniche della guerra a Saigon, durante la dominazione francese. E nel 1952 decide di mettersi in proprio uscendo dall’Armée francese per prestare i propri servigi nell’Africa Nera che man mano sta raggiungendo l’indipendenza dal colonialismo. Fervente anticomunista, viene notato per la sua audacia da Jacques Foccart, consigliere per l’Africa della V Repubblica Francese, che gli commissiona diversi sporchi affari nel Continente, compreso quello nel Bénin, ex-Dahomey, del 1977, per il quale, nonostante un omicidio, venne condannato ad una pena irrisoria. Al servizio dell’armata di Mobutu in Congo, implicato nella guerra del Biafra, lo ritroviamo capo della guardia presidenziale di Omar Bongo in Gabon. Specialità: reclutare uomini senza scrupoli per sovvertire stati o governi invisi ai suoi amici o a lui stesso.
Con il crollo del Muro di Berlino e la fine della guerra fredda le occasioni di intervento si moltiplicano. Il 1990 segna infatti per le compagnie di ventura l’anno della consacrazione: spuntano tra le pagine gialle e in quelle di internet nomi come Sandline, Mpri, Dyncorp che tuttora trovano posto nelle riviste specializzate come Soldier of Fortune. Un anno prima il sudafricano Luther Eeben Barlow, un ex-ufficiale del famigerato 32° battaglione Buffalo impegnato in Angola a fianco dei ribelli dell’Unita di Jonas Savimbi e successivamente inserito nel servizio di sicurezza del governo razzista di Pretoria, fonda Executive Outcomes (EO), anonima società privata di diritto inglese che recluta 3 mila dipendenti tra i veterani della rhodesiana Sas, dell’ex Armata Rossa, dei reparti speciali sudafricani. Con un impressionante arsenale militare composto da mezzi anfibi e blindati, missili, contraerea, artiglieria ed elicotteri d’assalto raccattati chissà dove, i mercenari si rendono famosi nella difesa delle miniere di diamanti della De Beers e dei giacimenti petroliferi della Gulf Chevron ma soprattutto nella conquista di intere regioni africane in Angola, Sierra Leone, Zaire al servizio del potente di turno.
“Have guns, will travel”: se sai usare le armi, ti faremo viaggiare era il motto di EO, che deve avere fatto breccia nei cuori di alcuni baldi giovani italiani. Il colonnello Denard perde infatti il pelo ma non il vizio: dopo aver organizzato alcuni dei 25 tentativi di golpe che hanno insanguinato in 25 anni le isole Comore al largo del Madagascar (l’ultimo suo coinvolgimento ufficiale risale al 1995), un arcipelago che lo seduce al punto di adottarne la nazionalità, di convertirsi all’islam e di prendere moglie, torna in Italia nel 2002 per reclutare personale adatto a rovesciare l’attuale presidente eletto.
Dopo aver incassato il rifiuto degli ambienti militari avvicinati dai suoi emissari, passa ad esplorare il sottobosco dell’estremismo di destra, particolarmente attivo nel Nord Italia. E a Verona, secondo le accuse del pm Papalia, si ricorda del giornalista quarantenne Franco Nerozzi, l’unico ad averlo intervistato in 50 anni di carriera da mercenario, proprio alle Comore, circa dieci anni fa dopo un colpo di stato organizzato da lui stesso. Con quell’intervista Nerozzi “ancora ci campa” come dicono a Verona, essendo riuscito a venderla al TgUno. E del suo orientamento politico, che comprende anche la presidenza di una “associazione umanitaria” oggetto di inchiesta da parte della magistratura, non fa mistero. I due intraprendono un viaggio a Parigi il 4 gennaio 2002 per incontrare Emmanuel Pochet, alias “colonnello Charles”, allo scopo di organizzare l’ennesimo golpe. Si uniscono poi alla brigata un ex legionario triestino ora pensionato dell’Ente Porto e due trentini con passato da paracadutisti del reggimento Col Moschin. Il tutto per una paga, se così si può chiamare, che oscilla tra i 6.000 e i 18.000 euro mensili, o ad incarico, se la durata è inferiore.
Il resto è cronaca: Nerozzi e i suoi amici vengono arrestati il 5 dicembre scorso mentre si imbarcano all’aeroporto di Verona, con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al terrorismo. Per una volta, sembra che la magistratura sia riuscita ad intervenire in tempo.

STORIA
A cura di Sergio Albesano
Obiettori totali e obiettori riabilitati

Dall’inizio del 1994 fino al mese di ottobre furono incarcerati Pietro Bonadonna e Daniele Porto per il loro rifiuto di svolgere sia il servizio militare che quello civile sostitutivo. Al mese di ottobre gli obiettori totali per motivi politici in Italia ammontavano a trentaquattro. Essi non richiedevano una revisione della legge n° 772, ma rivendicavano la loro indisponibilità ad accettare l’imposizione statale del servizio di leva. “Convinti che il servizio civile risulti alla fine dei conti (e indipendentemente dalle buone intenzioni di chi lo sceglie) complementare e non antitetico al servizio militare proprio perché ne perpetua i meccanismi e i sistemi fon­danti, ribadiscono che l’obiettivo non può che essere la di­struzione degli eserciti, di ogni imposizione e di ogni au­torità” ().
Il 9 novembre Marco Maiorano si rifiutò di pre­stare il servizio militare presso la caserma Macerata di Fano. In un primo tempo chiese di svolgere il servizio civile alternativo, ma poi decise di rifiutare totalmente il servizio di leva, dichiarandosi anarchico, antimilitarista e antiautoritario ().
Il 10 novembre la Commissione difesa del Senato approvò in sede referente, con il voto favorevole dell’opposizione e della Lega Nord, la riforma della legge sull’obiezione di coscienza. Il testo ricalcava quello ap­provato dalla Camera nella precedente legislatura. Tra le maggiori modifiche, la durata del servizio civile veniva equiparata a quella del servizio militare; tra le cause ostative era inserita la condanna in primo grado, anziché definitiva; era eliminato l’automatismo della sospensiva dalla chiamata alle armi in caso di ricorso al T.A.R. per coloro ai quali fosse stata respinta la domanda.
Il 27 novembre fu fondata l’Associazione Obiettori Nonviolenti (A.O.N.), che, come si legge nell’art. 1 dello statuto, persegue “il fine della costruzione di una società nonviolenta, basata cioè sui principi del rispetto dei diritti umani fondamentali, della solidarietà, di un mo­dello di sviluppo sostenibile e della soddisfazione di biso­gni umani compatibili con il rispetto dell’ambiente e delle risorse naturali” e lavora per “il superamento del modello e dell’organizzazione militare al fine di giungere a forme di regolazione dei conflitti basata sulla nonviolenza”.
Nell’autunno del 1994 Alberto Trevisan, a venti­cinque anni dalla prima di tre condanne ricevute per essersi rifiutato di svolgere il servizio militare, ottenne la ria­bilitazione penale. “In altre parole la magistratura compe­tente ha riconosciuto che, nonostante le condanne subite (…), Alberto è e rimane una persona onesta. Non solo, ma Alberto ha anche ottenuto di non pagare le spese di giusti­zia e di mantenimento in carcere” ().
Nel mese di dicembre di ogni anno la War Resi­sters’ International compila una lista dei prigionieri dete­nuti nel mondo per motivi di coscienza, che comprende anche obiettori imprigionati e attivisti nonviolenti che si sono opposti alla preparazione della guerra. Nel 1994 l’Italia era citata per il migliaio circa di testimoni di Geova che secondo stime non ufficiali ogni anno erano imprigio­nati per il rifiuto sia del servizio militare che di quello civile alternativo ().
Il 6 dicembre il Tribunale militare di Roma emise una sentenza di assoluzione nei confronti di Nicola Imazio Agabio. Era almeno la sesta volta che un giudice per le in­dagini preliminari disponeva di assolvere un obiettore di coscienza che aveva rifiutato il servizio militare dopo che la domanda per svolgere il servizio civile era stata re­spinta, perché presentata oltre la scadenza prevista dai termini di legge. In queste sentenza fu accolta la tesi che il termine previsto dalla legge deve essere inteso come “ordinario” e non come “perentorio”. Nella motivazione di assoluzione era riportato chiaramente che “trattandosi di situazioni di coscienza, queste possono sorgere pure al di là del termine di legge, non potendosi costringere le mani­festazioni del foro interno entro schemi cronologici defi­niti”; e ancora che “la maturazione del convincimento di obiettare può avvenire in qualsiasi momento e quindi pur dopo i termini” ().

(5 – continua)

LIBRI
A cura di Sergio Albesano

ROBERTO MOROZZO DELLA ROCCA, Mozambico Una pace per l’Africa, Leonardo International, Milano 2002, pagg. 244, € 15,00.

Quando si dice che la pace vera nasce dalla volontà degli uomini di buona volontà! Il Mozambico era un Paese in cui la guerra civile in sedici anni aveva mietuto un milione di morti e che ancora avrebbe richiesto il suo tributo di sangue se alcune persone, mediatori dilettanti, non si fossero messi di buona volontà per far cessare questo delitto. Mentre ancora oggi si continua a perpetuare la logica perversa della guerra, giustificandola con teorie che tentano invano di renderla plausibile, mentre si assegna il premio Nobel per la pace a uomini che considerano la violenza una possibilità pragmatica, altri uomini si sono impegnati per far incontrare le parti avversarie del conflitto mozambicano. Oltre ai morti, non dobbiamo dimenticare le sofferenze causate dalla guerra a quattro milioni di profughi e a duecentomila bambini rimasti orfani: il Mozambico era il laboratorio degli orrori dell’Africa. Oggi è in pace. Il libro di Morozzo della Rocca racconta la storia di quello che sembra un miracolo e che invece è la dimostrazione di quanto può fare la volontà positiva degli uomini.
L’insolita mediazione della comunità di sant’Egidio portò i nemici ad abbracciarsi, ma in quel momento la realizzazione della pace era ancora un punto interrogativo. Quante tregue si sono rivelate dopo poco tempo una triste delusione! In Africa, in particolar modo, gli esempi negativi sono a bizzeffe. Invece il ramoscello gracile della pace è diventato un albero robusto: a Maputo si svolgono regolari elezioni e gli ex nemici siedono accanto in parlamento, contestandosi vivacemente ma sempre accettando il principio democratico della maggioranza. Il Paese è poverissimo, ma finalmente la pace può dare una speranza di rinascita economica. L’esercito non è stato abolito e rappresenta quindi sempre una minaccia, ma molti passi avanti sono stati fatti, da una guerra combattuta a una pace vissuta.
E’ ormai dal 4 ottobre 1992 che il Mozambico è uscito dalla violenza del conflitto, grazie alla firma degli accordi di Roma. Dopo oltre dieci anni questo libro ricostruisce il percorso che, con grandi difficoltà, ha portato a questo successo. Un successo che non è stato realizzato dai diplomatici dell’ONU o dai plenipotenziari delle grandi potenze. Accompagnati dai vescovi mozambicani e da alcuni diplomatici italiani, gli uomini di buona volontà della comunità di sant’Egidio, pur non conoscendo il mestiere, sono riusciti a realizzare ciò che sembrava impossibile. Hanno capito che anzitutto era necessario portare i nemici a riconoscersi reciprocamente come interlocutori e poi a capirsi. Sono state necessarie pazienza infinita, fantasia, capacità di cogliere le sfumature dei personaggi che si scontravano. La prima volta che gli uomini del Frelimo, il partito marxista al potere, e quelli della Renamo, i ribelli appoggiati dal Sud Africa dell’apartheid, si trovarono di fronte nel convento romano si definirono reciprocamente “banditi” e consideravano la guerra l’unica realtà possibile. Il libro racconta gli infiniti passaggi che furono necessari per cancellare questi pregiudizi. La pace è “un atto di fede, da parte di chi lo provoca e di chi lo compie”. Non un miracolo, dunque, ma un gesto concreto, realizzato da uomini e che si può ripetere.

RICEVIAMO

Valentini Ruggero, Non si darà pace, Editore Monti, Saronno 1999, pp. 92
Centro Studi Sereno Regis, Gregory Bateson e l’enigma dell’Uomo, Supplemento alla rivista .eco n.9, pp.62
Viola Carmelo R., La democrazia dei diritti, Centro Studi Biologia Sociale, Acireale 2002, pp. 190
Montonati Angelo. Il sapore dell’utopia, Editore Monti, Saronno 1999, pp. 209
Piccillo Giuseppina, Caino, mio fratello, Agrigento 2002, pp. 257
Martello Maria, Oltre il conflitto, Mc-Graw-Hill, Milano 2002, pp. 261
Moraccini Marco, Scritti su Lorenzo Milani, Jaka Book, Milano 2002, pp. 272
Panikkar Raimon, Pace e Interculturalità, Jaka Book, Milano 2002, pp. 183
Sandri Luigi, Città santa e lacerata, Editore Monti, Saronno 2001, pp. 415
Toschi Massimo, L’angelo della pace, Quaderni di Missione Oggi, Brescia 2002, pp. 128
Tardio Motulese Gabriele, Il diaconato e la diaconia della pace, Edizioni SMiL,Foggia 2001, pp. 148
Servizio Studi, Partecipazione dell’Italia alle missioni militari internazionali, Camera dei Deputati, Roma 2002, pp. 167
AA. VV., Bibbia e omosessualità, Casa Editrice Claudiana, Torino 2002, pp. 222
Calvino Fortunato, I Cravattari, Alfredo Guida Editore, Napoli 1998, pp. 48
Buccoliero Elena e Toso Federico, Educare alla pace, ai diritti umani, all’intercultura, nelle scuole medie inferiori e superiori, Comune di Ferrara, Ferrara 2002, pp. 70
Bendana Alejandro, Villa-Vicencio Charles, La riconciliazione difficile, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2001 pp. 175
Finardi Sergio, Tombola Carlo, Le strade delle armi, Jaka Book, Milano 2002, pp. 243
Légeret Jacques, Amish, Casa Editrice Claudiana, Torino 2002, pp.221
Assessorato Cittadinanza delle donne, Reti di sostegno e relazioni di cura, Comune di Venezia, Venezia 2002, pp.113
Assessorato Cittadinanza delle donne, Ripensare il tempo. Le politiche dei tempi della città, Comune di Venezia, Venezia 2002, pp.116
Botte Maria-France, Lemaitre Pascal, Mimì Fiore di Cactus, Giunti Editore, Firenze 1998, pp. 40
Assessorato Cittadinanza delle donne, “Le altre”, donne migranti a Venezia, Comune di Venezia, Venezia 2002, pp. 137
Assessorato alla Cultura, Il cammino della pace, Regione Campania, Napoli 2002, pp. 104
Assessorato alla Cultura, Che disastri, manuale di protezione civile, Regione Campania, Napoli 2001, pp. 65
Assessorato Cittadinanza delle donne. Pupe e bulli, la violenza percepita in alcune scuole medie della città, Comune di Venezia, Venezia 2002, pp. 96
Assessorato Cittadinanza delle donne. Rete Antiviolenza 1999 – 2001, Comune di Venezia, Venezia 2002, pp.291

LETTERE

Quelle donne cecene che non hanno voluto la strage

Della strage del Teatro di Mosca, ha colpito certamente la malvagità dell’atto di terrorismo, ma anche il venir meno, nel governo di una comunità, della regola fondamentale della salvaguardia della vita dei cittadini! Non si può dar per buono, come prezzo di una operazione del genere, la perdita del 20% degli ostaggi che si dovevano proteggere e salvare. Ma tant’è per un paese guidato da un ex capo della polizia segreta che di democrazia parla solo quando è all’estero, per avere denari, e accreditamenti e che tiene il proprio paese sotto un regime poliziesco, (da contrappasso ala malavita imperante!) con torture ed abusi di ogni genere, tanto da far intervenire Amnesty International con gravi e puntuali denunce.
Ma il problema della Cecenia rimane, per la Russia, un serio problema politico e non lo si può trasferire, senza gravi colpe e luttuose conseguenze, solo sul piano del terrorismo. Certo , a Putin conviene questa strada, per avere solidarietà ed utili dalle grandi potenze coinvolte in problemi di terrorismo.
Ma quello che mi ha più colpito nella tragedia del teatro moscovita, sono le donne cecene: vedere quelle foto di donne, velate, con occhi bellissimi ed intensi, “adagiate” sulle poltrone del teatro, con quelle mani affusolate, curate ed eleganti, con una tenuta come fosse un accessorio del loro vestire, ha sconvolto, noi occidentali e, personalmente, mi ha profondamente colpito.
Possibile che la bellezza, il portamento, il fascino di una donna debba ridursi a ciò! Abbiamo avuto tante donne combattenti, soldatesse o partigiane e, da ultimo, anche terroriste, ma sempre con ruoli maschili a cui si conformavano. Le cecene, di Mosca, no; sono rimaste, anche nel loro “attentato”, donne, squisitamente donne!
Ed un dubbio mi assale: non hanno potuto o non hanno voluto, far esplodere l’esplosivo che avevano addosso, cadere l’arma che avevano in mano? Forse, e ne ho quasi la certezza, non hanno voluto. Estremo e sublime massaggio al femminile, di donne che tali sono rimaste, con la loro sofferenza fisica e morale, per la perdita dei loro cari e per il sacrificio dei loro ideali, ma che hanno voluto lanciare un messaggio forte, che andasse al di là del terrorismo e della repressione poliziesca: la dignità umana, il rispetto dei deboli, delle minoranze, del valore della vita contro quello del petrolio e delle armi.
Un messaggio veramente laico da parte di queste donne (nel senso più profondo e bello della parola) che solo la veste, per caso musulmana, avevano del fanatismo religioso, ma non l’animo e lo spirito. Utopia! Sì, se utopia è l’obiettivo per cui lottiamo e che altri ritengono irraggiungibile.
Quel che grave è che i media hanno sorvolato su questo messaggio; non hanno evidenziato il significato pregnante di questa presenza di donne, considerate solo come terroriste. Penso che, invece, la gente comune si sia commossa vedendo quelle foto e si sia posto questo problema. E’ il primo passo per far nascere dei dubbi su un certo ordine del mondo e su quanto possa esserci utile, per capire le cose e scegliere il futuro, il cedere al femminile, con gli occhi e lo spirito del più debole, di chi è usato e subisce violenza, la guerra, i soprusi!

Avv. Giuseppe Ramadori
Roma

Non pago il Canone Rai per la scarsa qualità dei programmi

Il 31 dicembre 2002 ho disdetto l’abbonamento Tv per tre ordini di motivi:
1) la scarsa qualità dei programmi, la parzialità dell’informazione, la svolta filo-Mediaset della Rai mirante a farne una fedele voce del padrone per la propaganda di regime; mi dispiace per il sempre più sparuto gruppo di gente che cerca di fare del suo meglio, ma penso che la radiotelevisione pubblica si possa salvare solo con uno sciopero del canone.
2) lo scandalo del condono fiscale: chi ha evaso il canone può pagare solo 10 euro per ogni anno non pagato. Ciò mi pone in grave sperequazione, insieme a tutti coloro che si sono messi in regola. Lo scorso anno (già titubante per motivi di coscienza e quindi ritardatario) ho pagato 106 euro; con gli anni precedenti, in media, da 6 a 10 volte di più degli evasori condonati (ammesso che si decidano a pagare).
3) l’abbonamento TV viene passato come canone Rai, ma formalmente è una tassa di possesso di apparecchi televisivi, e anche questo mi sembra un grave sopruso: dobbiamo pagare questa tassa anche per vedere filmati personali, ad esempio un festa familiare, una gita, una marcia della pace, oppure film in videocassette. Ciò è profondamente ingiusto e lesivo, a mio parere, delle libertà individuali ed espressive.
Ho comunicato all’Agenzia delle Entrate di Torino (ex URAR) di aver consegnato al servizio rifiuti speciali del mio Comune un vecchio televisore e ho prestato l’altro a chi ne aveva bisogno.

Piergiorgio Acquistapace
Castropignano CB

Di Fabio