• 23 Dicembre 2024 18:45

Azione nonviolenta – Gennaio-Febbraio 2005

DiFabio

Feb 3, 2005

Azione nonviolenta gennaio febbraio 2005

– Trovare un nuovo abbonato: un’occasione di crescita reciproca (di Mao Valpiana)
– Popoli indigeni e lotte di resistenza nonviolenta per affermare la propria identità e il rispetto dei valori delle culture indios (servizio a cura di Giulia Allegrini) Vai
– La nonviolenza è lo strumento a disposizione del popolo. La violenza è l’arma naturale dello Stato. L’azione nonviolenta è politica (intervista a Chaiwat Satha-Anand, Thailandia) Vai
– Siamo indigene, siamo povere, siamo donne. Dobbiamo lottare tre volte. Con la nonviolenza, che è femminile (interviste a cura di Giulia Allegrini) Vai
– Le 10 caratteristiche della personalità nonviolenta. 1: il ripudio della violenza (di Daniele Lugli) Vai
– Il cammino della pace: Premio Nazionale Danilo Dolci

le Rubriche
– A quando un Tavolo programmatico per la Pace? (Gianni Scotto)
– Mi faccia il pieno, grazie. Ma quanto costa veramente? (Paolo Macina)
– La normalità del Male nel Novecento (Giuseppe Borroni)
– Boris Vian, storia di un disertore (Paolo Predieri)
– L’arte di comunicare, per risolvere i conflitti (Sergio Albesano)
– Viaggio all’interno dei conflitti nella relazione educativa (Angela Dogliotti Marasso)
– Caro Direttore, le scrivo per dire che…
– Scelgo la nonviolenza (Piercarlo Racca)

Editoriale
Trovare un nuovo abbonato: un’occasione di crescita reciproca

di Mao Valpiana

Iniziamo con questo numero il quarantaduesimo anno di pubblicazioni di “Azione nonviolenta”.

Nel 1964, con pochi amici e pochi mezzi, Aldo Capitini dava vita alla prima rivista italiana interamente dedicata alla nonviolenza. “Può essere il programma e la tensione di persone isolate, e può diventare il metodo di lotta di grandi moltitudini”, scrisse il fondatore del Movimento Nonviolento. Poteva sembrare un sogno utopico quello di Capitini, e molti ne erano convinti, attratti da altre proposte politiche. Ma il tempo e i fatti hanno dato ragione a Capitini. “Il metodo nonviolento è destinato a rinnovare profondamente la società umana e questa volta veramente in modo universale, perchè il problema è comune a tutti”. E ancor oggi i grandi movimenti che pensano che un altro mondo migliore sia possibile, e le singole coscienze che vogliono convertirsi, devono fare i conti con le sfide che la nonviolenza pone.Azione nonviolenta, con umiltà e costanza, vuole essere uno strumento al servizio di tutti gli amici e le amiche della nonviolenza. Come scrisse Capitini nel primo editoriale: “Con Azione nonviolenta poniamo un centro di questo lavoro”. Per questo, superando tante difficoltà, ma con lo stesso entusiasmo, la rivista del Movimento Nonviolento esce regolarmente, ogni mese.
Per tutto questo ti chiediamo di diventare amico di Azione nonviolenta, sottoscrivendo per il 2005 un abbonamento annuo e trovando un nuovo amico a cui far conoscere questa bella opportunità.

Sono in cantiere alcuni numeri monografici con il duplice obiettivo di approfondire un tema e entrare in contatto con reti di gruppi nuove, così da avere nuovi bacini di utenza per il nostro mensile. Alcuni temi previsti sono: economia nonviolenta, la campagna per il disarmo, la fine della naja e l’avvio del servizio civile volontario, l’orizzonte europeo, il superamento dei conflitti interculturali, ecc. L’intendimento è quello di offrire ai lettori dei seri approfondimenti e dei veri e propri strumenti di lavoro, schede, materiali didattici, anche per entrare in nuovi ambienti ai quali far conoscere le proposte della nonviolenza. Naturalmente la collaborazione attiva dei nostri abbonati sarà decisiva per il successo del progetto.

Anche quest’anno abbiamo voluto portare dei miglioramenti grafici, per rendere più appetibile e più chiara la lettura. Abbiamo inoltre l’idea di migliorare e aumentare le rubriche, aggiungendo uno sguardo specifico su due aspetti decisivi e non eludibili della realtà attuale: la politica e la televisione.

Bisogna far capire sempre di più che Azione nonviolenta è uno strumento utile per chi la legge. L’obiettivo di quest’anno è di raggiungere la quota dei duemila abbonamenti. A che ce ne farà richiesta possiamo inviare delle copie promozionali, da distribuire nel proprio ambiente (scuola, ufficio, associazione, parrocchia, quartiere, ecc.) per farsi poi raccoglitori di nuovi abbonati. E’ un modo concreto, e davvero utile, per fare qualcosa per la nonviolenza, per non sentirsi impotenti.

Dieci buone ragioni per abbonarsi ad Azione nonviolenta

1.… è un modo concreto per far crescere la nonviolenza: da soli i fucili non si spezzano, da sole le idee non camminano. C’è bisogno di strumenti solidi per costruire il movimento della nonviolenza organizzata. Uno di questi è la rivista fondata più di 40 anni fa da Aldo Capitini.…
2.Aiutati ad essere fedele ad un’idea, ad uno stato d’animo, ad una convinzione, ad una scelta di coscienza. Insieme a tanti altri abbonati puoi sentirti parte di un movimento in cammino.
3.Studia la pace: la rivista offre la possibilità di seguire passo passo la crescita della cultura della nonviolenza in Italia e nel mondo. Anche la nonviolenza si impara.
4.Sostieni i movimenti nonviolenti: la rivista è espressione del Movimento Nonviolento, senza il quale non c’è continuità nella politica della nonviolenza.
5.Molti articoli di tanti amici della nonviolenza li trovi solo qui, e non certo sui cosiddetti grandi giornali. Inoltre le rubriche del Cinema, dell’Economia, dell’Azione, dei Libri, delle Alternative, ti aiutano ad interpretare la realtà di oggi con gli occhiali della nonviolenza.
6.Educarsi alla trasformazione nonviolenta dei conflitti: è quanto ti permette di fare la rubrica dell’Educazione.
7.Suonare musica di pace: è quanto ci propone mensilmente la rubrica Musica per veicolare la nonviolenza anche attraverso le canzoni.…
8.I giovani, attraverso questa rivista, hanno la possibilità di rendersi conto che la nonviolenza è fatta soprattutto di azioni e non solo di belle parole.
9.Costruisci immaginari di pace anche dentro di te: dalle montagne di pace, ai musei per la pace, alla letteratura, la fotografia, l’arte, la storia… la rivista ti offre spunti per ampliare i tuoi orizzonti culturali.
10.Se vuoi la pace…diffondi Azione nonviolenta: è la logica conclusione dei punti precedenti: dacci una mano, con generosità e continuità.… In un momento di difficoltà economica per tutti, quelli per Azione nonviolenta sono 29,00 euro ben spesi!

Popoli indigeni e lotte di resistenza nonviolenta, per affermare la propria identità e il rispetto dei valori e delle culture indios

A cura di Giulia Allegrini

Lo scorso Novembre si è tenuta a Rovereto la 12° edizione del corso internazionale organizzato annualmente dall’Università Internazionale dei Popoli per la Pace (UNIP). Articolato in sei seminari svoltisi nell’arco di tre settimane, quest’anno si è rivolto ad esperti attivisti indigeni membri di organizzazioni e movimenti operanti in varie parti del mondo per la promozione dei diritti dei popoli indigeni. I temi trattati sono stati l’internazionalizzazione dei movimenti dei popoli indigeni, la protezione dei popoli e delle loro culture a livello internazionale, sviluppo sostenibile per i popoli indigeni, il diritto all’autodeterminazione in rapporto allo stato e al suo potere, tecniche e strategie di resistenza e lotta nonviolenta.
La nonviolenza oltre ad essere stata contenuto di parte del corso è stata anche il principio base attorno cui è stato organizzato il corso stesso. Questo è stato infatti concepito come momento collettivo di scambio aperto di idee, pratiche, esperienze, pensieri tra relatori e partecipanti appartenenti a contesti culturali, sociali, politici ed anche religiosi e spirituali differenti. Un processo di ricerca maieutico.
L’intendo di fondo dell’UNIP nel lanciare quest’ iniziativa è stato quello di promuovere un percorso educativo orientato all’azione, in grado cioè di sollecitare un “percorso operativo” e di favorire “l’acquisizione di nuove risorse di potere nonviolento quali la stima di sé, coraggio, conoscenze, la capacità di promuovere valori fondamentali condivisi, la creatività, la progettualità, la competenza e il networking”1.
Tutto ciò si traduce anche in canale di partecipazione dal basso, “attraverso processi di empowerment che integrino un apprendimento critico di conoscenze, esperienze di vita e lavoro e azione in modo tale da favorire lo sviluppo integrale dell’individuo umano rafforzando quel senso di responsabilità, solidarietà, fiducia senza cui una società pacifica non può esistere”.
L’UNIP si è fatta anche quindi promotrice di una riflessione, di un dibattito sempre più urgente e purtroppo ancora molto lacunoso rispetto alle istanze relative alla questione indigena e che spesso si concretizza più in un processo dall’alto, portato avanti a livelli istituzionali che non sono in grado di coinvolgere attivamente le comunità indigene.
La questione indigena inizia ad emergere ancora in tempi relativamente recenti, negli anni’80. E’ infatti nel 1982 che nasce il Working Group on Indigenous Population (WGIP)presso le Nazioni Unite di Ginevra, con un doppio mandato: esaminare gli avvenimenti che a scala nazionale, regionale, mondiale sono relazionati con i diritti umani e le libertà fondamentali dei popoli indigeni; elaborare nuove norme internazionali sui diritti dei popoli indigeni. E’ uno dei gruppi di lavoro della Sottocommissione per la prevenzione delle Discriminazioni e Protezione delle Minoranze. Vi possono partecipare osservatori dei governi, agenzie specializzate dell’ONU, le organizzazioni non governative e tutte le organizzazioni, popoli o comunità indigene interessate. Annualmente il Gruppo prepara un documento e lo sottopone alla Sottocommissione che a sua volta propone raccomandazioni e conclusioni alla Commissione. A livello di Sottocommissione partecipano però oltre ai rappresentanti dei governi solo le ONG con status consultivo, cioè quelle che dopo un lungo iter burocratico hanno riconosciuto il diritto ad intervenire come consulenti speciali su alcuni temi. Questo vuol dire che c’è una scarsa rappresentatività delle organizzazioni indigene,cosa che ha fatto reclamare un maggior coinvolgimento a livelli superiori al WGIP.
Si è poi arrivati quindi alla creazione di un Foro Permanente con il mandato di “elevare la coscienza e promuovere l’integrazione e il coordinamento delle attività relazionate con i temi indigeni all’interno del Sistema delle Nazioni Unite”. Al Foro partecipano solo degli esperti eletti in rappresentanza di gruppi indigeni divisi per grandi aree geografiche. Quindi manca un organo che permetta un’ effettiva e diretta partecipazione delle più volte citate comunità indigene. AllO stesso WGIP inoltre le ONG possono presentare denuncie per violazione dei diritti umani, ma l’organo non è abilitato a raccoglierle ed a investigare, né a fare raccomandazioni ai governi.
Nel 1985 il WGIP aveva elaborato un progetto di Dichiarazione dei diritti delle popolazioni indigene, nel 1993 l’Onu aveva proclamato l’Anno Internazionale per le popolazioni indigeni e si era arrivati alla stesura della Dichiarazione, ma questa, a distanza di così tanti anni, e a conclusione della Decade Internazionale dei Popoli Indigeni proclamato nel 1995, non ha ancora nessuna forza giuridica, in quanto approvata solo dalla Sottocommissione, ma non dagli organi superiori, ossia l’ECOSOC, la Terza Commissione dell’Assemblea Generale e l’Assemblea generale in seduta plenaria.
La Dichiarazione sarebbe uno strumento valido per i popoli indigeni per affermare la propria identità e i propri diritti e il rispetto dei propri valori e culture.
In assenza di una più forte risposta a livelli istituzionali internazionali le popolazioni indigene continuano ad attivarsi e resistere e lo fanno soprattutto attraverso pratiche nonviolente. La possibilità datami dall’UNIP di partecipare per tre giorni ad un seminario del corso su “identità e azione nonviolenta” tenuto da Chaiwat Sath-Anand, mi ha permesso di essere osservatrice del prezioso scambio di queste esperienze di lotte nonviolente e quindi poterlo in parte testimoniare attraverso interviste fatte al relatore ad alcuni partecipanti. Dare infatti la voce ai soggetti, agli attori di queste pratiche risponde ad uno se non al più importante obiettivo che Azione nonviolenta si propone di portare avanti.

La nonviolenza è lo strumento a disposizione del popolo. La violenza è l’arma naturale dello Stato. L’azione nonviolenta è politica.

Il seminario “identità ed azione nonviolenta”, tenuto da Chaiwat Sath-Anand si è concentrato sul ruolo dello stato come soggetto che monopolizza la violenza e sulla teoria della nonviolenza come visione contrapposta, in termini di teoria del potere, dove lo stato-potere ha il suo vertice in basso ed è sorretto da pilastri come la società civile.
In termini di azioni nonviolente che possono condurre a concretizzare questa visione o tentare di tradurla in realtà sono state nominate e discusse tre grandi categorie: le proteste e campagne come azioni di impatto simbolico e mobilitativo, la noncooperazione e boicottaggio, economico e non, le azioni dirette come l’accompagnamento nonarmato e le interposizioni nonviolente.
E’ quindi emerso che l’azione nonviolenta può funzionare in due sensi:
1 produce un cambiamento dell’oppositore, del suo comportamento, quindi porta ad un cambiamento profondo, arriva “al cuore” della stessa relazione violenta.
2 L’oppositore è forzato ad un cambiamento da una serie di forze intorno esterne che vengono mobilitate dall’intero processo scatenato dall’azione nonviolenta.
E’ stato poi fatto un esercizio finalizzato all’uso dell’immaginazione come potere creativo per arrivare ad un’analisi del presente finalizzata alla prefigurazione di un futuro in positivo. L’esercizio “Immaginare un mondo nonviolento nel 2030”, si basa sul metodo di Elise Boulding e Warren Ziegler, prevede diverse fasi che vanno dal pensare ad una lista dei desideri e delle speranze per il mondo, alla recupero di un memoria positiva, cercando di ricostruire nei dettagli dei momenti felici vissuti, sensazioni , emozioni, quindi immaginare la struttura concreta del mondo che si vorrebbe, infine la scrittura della storia che parte dal momento in cui questo mondo immaginato esiste nel futuro fino ad arrivare al momento attuale. Questo serve per abbandonare un atteggiamento influenzato dalla paura e dal pessimismo che blocca il pensiero e non permette di pensare ed individuare strategie creative di azione.
Un’ultima parte della lezione si è quindi focalizzata sulle dimensioni della nonviolenza: nonviolenza in termini di modo di vita, nonviolenza come pragmaticità, nonviolenza come tattica, nonviolenza come strategia.
L’intervista che segue affronta diversi temi relativi alla nonviolenza, ai suoi principi, metodi e forme di organizzazione.

Nostra intervista a Chaiwat Satha-Anand

Potrebbe brevemente descrive le sue principali attività?
Io dirigo il Peace Information Centrer che fa parte della Fondazione per la democrazia e gli studi per lo sviluppo. Ho altri impegni con Ong e il forum Asia che si occupa della violazione dei diritti umani. Lavoro però anche in una posizione un po’ particolare, come presidente del Strategic Nonviolence Committee. La cosa strana è che il comitato è membro del consiglio di sicurezza nazionale. E’ un comitato nominato dal primo ministro.

Il fatto che si parli di nonviolenza a livelli così istituzionali è certo molto particolare ed interessante. Potrebbe approfondire il suo punto di vista rispetto alla relazione tra movimento nonviolento e istituzioni?
Il mio pensiero è che, come ho già detto ieri, teoricamente, empiricamente e storicamente lo stato è un’entità che monopolizza la violenza, lo Stato è stato responsabile di molta violenza nel mondo.
Dati tutti questi motivi, credo sia logico che abbiamo bisogno di fare qualcosa rispetto allo Stato, se continuiamo a credere che lo Stato è una componente necessaria per la vita politica. Io continuo a credere che lo Stato sarà sempre una componente importante, anche se non è il mio desiderio, ma la mia comprensione. Il mio desiderio è qualcos’altro. Dobbiamo cercare di confrontarci con i problemi legati alla violenza che si colloca nel quadro dello stato. Empiricamente sappiamo che la violenza è iniziata dallo stato e non da un’altra parte.

Lei ha invitato i partecipanti al seminario a pensare ad un loro desiderio per il futuro; ora accennava ad un suo desiderio. Potrebbe dire qual è?
Il mio desiderio è vedere la violenza fuori dalla politica. Vedere la politica e lo stato usare la nonviolenza, altri mezzi di condotta delle politiche. Il mio desiderio è quello di potere garantire che il processo politico vada avanti, che non termini a causa della violenza. Quindi il mio pensiero non è certo che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, ma che la guerra e la violenza sono la secessione dalla politica e la politica che, come la conosciamo fin dai classici è condotta, si fonda, può lavorare solo attraverso la ragione, la persuasione, il dialogo.

La violenza fuori dalla politica è il desiderio e che cosa pensa quindi del fatto che la nonviolenza è politica?
Sono completamente d’accordo con l’affermazione che nonviolenza è politica. Questo funziona in due modi: in relazione alla realtà della nonviolenza stessa e nella comprensione della politica come realtà della nonviolenza. La gente crede che la nonviolenza sia qualcosa di religioso, moralistico, il problema che ne deriva è che molta gente sente che quando parli di nonviolenza parli un linguaggio morale. Quindi se dici che vuoi abbracciare la nonviolenza e fartene sostenitore, pensano che sei un religioso. Cose come queste tendono a limitare la qualità della nonviolenza.
Credo quindi che ci sia la necessità di spingere oltre l’argomento che è questa nonviolenza ad essere politica, non la violenza, non la guerra.
Questo per quanto riguarda la nonviolenza. Per quanto riguarda la politica, già ho accennato. Ci sono molte teorie.. che cosa è la politica se andiamo in dietro fino ad Aristotele? E’ una “cosa strettamente umana”, quindi potrei affermare che la politica esiste finché gli esseri umani esistono. Quindi se io metto da parte gli esseri umani, cerco di liberarmene, parte della politica stessa scompare. La politica quindi non vuol dire sbarazzarsi degli esseri umani, la politica ha a che fare con il fare conoscere, esplicitare il proprio punto di vista.

Per quanto riguarda invece l’”organizzazione” della nonviolenza, crede che sia possibile creare un movimento nonviolento a livello internazionale, o già esiste, o quali dovrebbero essere le condizioni?
Credo che questa domanda sia molto importante per due ragioni. Una che ci dovrebbe essere proprio qualcosa come un coordinamento all’interno del movimento globale per la nonviolenza, non come il movimento antiglobalizzazione o quello in generale contro la guerra. Dall’altra parte si può guardare ad altri movimenti in giro per il mondo, identificare un network di tutti questi e chiedersi: quali di questi sono nonviolenti? In questo modo si vedrà che c’è un movimento “multy issues”, ossia che porta avanti differenti questioni e che tutti sono di per sé nonviolenti.
Si può usare un’analogia per spiegare questo. Se siamo in un università, che cosa si vuol fare: insegnare un corso specifico sulla nonviolenza o si vuole che l’idea della nonviolenza sia presente in tutte le discipline? Se è la seconda strada che si vuole prendere, allora il nostro compito è quello di identificare vari movimenti come parte di un ampio movimento nonviolento, che si confronta con tutte le varie questioni. Si può quindi guardare alla lotta contro le mine, come a quella per la salute.
Questo è il movimento nonviolento di cui parliamo e questo vuol dire che parliamo della politica in termini molto estesi.
Credo che uno specifico movimento nonviolento verrà come risposta a certe questioni, come la guerra ad esempio.

Veniamo invece ora ai metodi della nonviolenza. Prima lei ha accennato al suo lavoro nel comitato per la nonviolenza strategica e durante il seminario ha parlato delle dimensioni della nonviolenza e dei relativi metodi. Cosa direbbe a questo proposito rispetto al suo paese e a livello internazionale?
Rispondo prima alla seconda parte della domanda.
Credo che ciò che si vede è che la maggior parte della gente nel mondo che adotta la nonviolenza non è perché la nonviolenza è il loro modo di vivere, ma perché credono sia un modo pratico per fare fronte ai loro propri conflitti.
In altri termini credo che l’azione nonviolenta sia l’arma naturale dei poveri, è l’arma naturale della gente ordinaria, non necessariamente povera, come contrasto alla violenza che è l’arma naturale dello stato. Credo quindi che ciò che più si vede nel mondo è il lato più pragmatico, inteso come uso dei metodi della nonviolenza per ottenere dei risultati, piuttosto che la nonviolenza come modo di vita.
Questo non vuol dire che la gente che arriva alla nonviolenza per motivi pratici non lo faccia anche su qualche base religiosa. Non è utile porre la gente dentro rigide classificazioni. Guardo a questo più come un continuum. Se guardiamo in giro per il mondo la maggior parte della gente dirà che non usa la violenza. Se poi si spinge il discorso oltre, ossia a quando sono portati ad usare la violenza, diranno quando si sentono minacciati. Ma tutti i vari casi possono essere classificati come nonviolenti.
Credo che ognuno abbia i suoi propri principi.
Credo poi che la Thailandia non sia un’eccezione. Ci sono tutti i tipi di movimenti di protesta, movimenti a livello grass root che si confrontano con i problemi del sottosviluppo, della povertà. Se tu chiedi loro se accettano la nonviolenza come modo di vita, credo che la risposta non sarebbe positiva. Io direi che la usano.
Ma la cosa più interessante è che molta della gente con cui io ho parlato è che non usa il linguaggio della nonviolenza. E’ importante che le persone interessate alla nonviolenza usino anche il suo linguaggio. Ci sono molti studi sui movimenti di protesta, sui movimenti della società civile, ed un linguaggio che non li definisce come movimenti nonviolenti. L’uso della nonviolenza la chiamano in qualche altro modo, come mobilitazione delle risorse, mobilitazione della società civile. Non usano il termine nonviolenza. E’ come se la nonviolenza fosse diventato un taboo. Hanno paura di usare quel termine perché ne vedono una sola connotazione religiosa, passiva. Noi cerchiamo invece di provare che la nonviolenza è politica.
Si rischia di cadere anche in un altro mito, che la nonviolenza sia qualcosa che deve venire da dentro, frutto solo di un processo interiore. La gente arriva ad usare la nonviolenza sulla base della propria razionalità, è un modo con cui la gente reagisce alla realtà. Credo anche che se diciamo che il sistema rende sempre più la gente senza potere, bisogna trovare il modo di portare ad un empowerment della gente, un modo sicuramente è la nonviolenza.
Tutto questo non vuol dire che la convinzione interiore non sia importante. Anzi tutto questo dice che è molto importante. Quello che dico è che molta gente che ho incontrato non ha iniziato in quel modo, si sono mossi verso quella direzione. Quindi non chiedo e non cerco una precondizione per la nascita di un movimento nonviolento, né come teorico, né come attivista.

Qual è il contributo della nonviolenza alla definizione di difesa e di sicurezza?
Dunque questo è proprio il mio lavoro ora. E’ complicato. Ma mi lasci provare. Quando guardo alla società politica, mi rendo conto che uno dei pilastri della nascita della società politica è la paura. Poi ci sono state altre teorie che hanno visto la nascita della società politica in termini di ragione, compassione, giustizia. Quindi per parlare di sicurezza dal punto di vista di una dimensione o di una prospettiva che accetta la violenza vuol dire andare in dietro nel tempo in cui la paura caratterizzava la società politica. E sembra proprio che il discorso sulla sicurezza nel mondo oggi cerca di impedirci di spostarci da quell’inizio. E’ una regressione come risultato del potere del discorso sulla sicurezza, che cerca sempre di più di dirci che dobbiamo avere paura. Se per esempio guardiamo all’Indice di terrorismo negli Usa, ogni giorno qualcuno è alla televisione per vedere che colore di allarme c’è e poter dire: “ah oggi possiamo stare tranquilli”. Si sta giocano nell’applicare modelli umani fondati sulle emozioni, come la paura. Il risultato è che fa apparire il mondo come privo di fiducia tra le persone, così che è lecito usare qualsiasi mezzo per ottenere ciò che si vuole. Così si arriva ad una intensificazione della violenza dello stato, del suo potere. Non è accidentale che lo stato concettualizzato per esempio da Hobbes, fosse assolutista, perché l’inizio era la paura. La paura permette allo stato di diventare supremo. Quello che si vede nel mondo oggi è una regressione in quella direzione. Ma non voglio dire che è un risultato solo delle stato, sono molte cose. C’è poi un’altra dimensione che è molto più pericolosa. Il sentirsi minacciati dall’altro, il demonizzare l’altro, perché i nemici a volte sono più importanti degli amici. Se non hai un nemico lo crei. Guardare alla sicurezza da una prospettiva della nonviolenza vuol dire andare oltre questo. Criticare questo e fare altro.

L’alternativa a questo sarebbe per esempio la comprensione delle ragioni dall’altro…
Assolutamente importante per noi, per chi si interessa di nonviolenza, provare a comprendere gli altri, le sue ragioni e le sue emozioni.
La nonviolenza non inizia chiedendo chi ha ucciso il mio villaggio, il mio paese. Ci domandiamo che cosa ci ha ucciso? Quali sono le condizioni responsabili per queste uccisioni? La logica della nonviolenza distingue tra attori e struttura. Ci focalizziamo di più sulla struttura, lottiamo contro questa struttura, contro quello che si definisce come discorso sulla sicurezza. Cerchiamo di comprendere quella gente che si trova dentro quella struttura. La nonviolenza si basa sull’idea che non ci dovrebbe essere odio. E’ un imperativo. Perché l’odio e la paura fanno parte di quel pacchetto del discorso sulla sicurezza, di un discorso violento. Questo è un modo in cui la nonviolenza è una comprensione paradigmatica del mondo della politica e della gente allo stesso tempo. Questo è qualcosa di rivoluzionario e non solo semplicemente perché porta a creare una nuova società, una nuova comunità, ma perché mette in discussione molte cose di base che il mondo dà per scontate.

Parte del suo lavoro si focalizza anche sul tema “Nonviolenza e Islam”. Una questione importante oggi che sempre più si creano stereotipi che non fanno altro che alimentare violenza. Vorrebbe spiegare il punto centrale del lavoro, il punto di partenza?
Ho iniziato il mio lavoro sull’Islam e la nonviolenza nel 1996. Quando ho finito il mio p.h.d. ho scritto un lavoro controverso “il principe nonviolento”. Una riscrittura del Principe di Macchiavelli secondo una prospettiva nonviolenta. Alla fine del lavoro il mio docente mi disse “e cosa mi dice dell’Islam? Che cosa succede se sei mussulmano rispetto alla nonviolenza?”
Ho così iniziato a cercare di capire la relazione Islam e violenza. La mia comprensione di questo in modo sintetico è che l’Islam come altre religioni è usato per giustificare la violenza. Quindi rispetto alla relazione religione violenza la domanda non è se la religione causa o no la violenza. La domanda è in che modo la religione può essere usata per giustificare la violenza? Causa e giustificazione sono due cose diverse. Quando ti poni questa domanda ti rendi conto che ogni religione può essere usata. Anche il buddismo può essere usato.
Ho fatto una ricerca su un movimento religioso settarista del sud della Thailandia, che usa violenza giustificandola in nome dell’Islam.
Ciò che ho compreso dalla ricerca è che l’Islam può portare a giustificare l’uso della violenza in quanto è “orientato all’azione”, in confronto ad altre religioni.
Da piccolo, come mussulmano, mia madre mi insegnava: non puoi andare a letto e dormire felice se sai che il tuo vicino è affamato. Ciò che significa può essere usato per formulare il mio pensiero. L’Islam parla di cose diverse:
Mangiare è un problema
La fame è un problema
Non si dice se il vicino è mussulmano o no. Si dice solo vicino.
Si dice che si deve fare qualcosa
Come puoi chiamarti mussulmano se vai a letto e dormi felice.
E’ una questione di fede. Ciò che comprendo è un insegnamento molto semplice: se vedi un problemi fai qualcosa, agisci.
Quel fare qualcosa si traduce spesso in uso della violenza. Perché?

…perché manca la conoscenza che anche la nonviolenza è azione, e che con la nonviolenza si può cambiare in meglio la realtà, per modificare le strutture che creano la violenza….
Esatto.

Per concludere. Credo che la visione della nonviolenza sul perdono e la riconciliazione sia correlata molto a tutto quello che abbiamo fin qui detto. Potrebbe dire qualcosa su questo?
Ci sono molti miti sul perdono. Il primo è che perdono voglia dire dimenticare. Io dico invece che se dimentichi non puoi perdonare. Ricordare è importante. Il ricordo diventa una parte essenziale per la capacità di perdonare.
Un altro mito dice che “noi siamo le vittime quindi dobbiamo perdonare”. Io credo che coloro che sono state vittime dovrebbero perdonare, ma non possono perdonare come vittime. E’ una questione di relazioni di potere. Le vittime sono in una condizione di minor potere, quello di cui hanno bisogno è cambiare la relazione di potere. Questo può avvenire attraverso l’azione. Quell’azione può essere violenta o nonviolenta. Poi ti chiedi cosa vuoi fare ora, se perdoni, vai oltre, anche in termini di relazioni di potere.
Il motivo per cui c’è molta critica verso le Commissioni per la verità e la riconciliazione è che le vittime devono rivivere le violenze subite, testimoniare e ascoltare. Come può cambiare questo la mia situazione, ciò che ho subito, i figli che ho perso…
Quando io ho scritto su questo non ho usato il termine restorative justice che di solito viene usato. Ci sono molte nozioni di giustizia . Ciò che il perdono fa è aprire è uno spazio in cui probabilmente può esserci giustizia nel futuro. Io la chiamo giustizia trasformativa. E’ una giustizia che trasforma l’intera società politica.

Siamo indigene, siamo povere e siamo donne. Dobbiamo lottare tre volte. Con la nonviolenza, che è femminile.

Diviene sempre più urgente la necessità di dare voce ad un punto di vista specifico delle donne, rispetto alla nonviolenza.
Nelle interviste che seguono si sono affrontati diversi aspetti e problematiche relative ai diritti dei popoli indigeni. Quello che è emerso è che la lotta da loro portata avanti, è una lotta che deve saper rispondere allo stesso tempo a tante questioni. Si devono infatti confrontare non solo con l’affermazione di diritti civili, politici ed economici, ma devono anche saper conservare la loro identità, contro tentativi di assimilazione, integrazione o ghettizzazione, per non perdere la loro cultura, le loro tradizioni, per conservare intatta anche la loro memoria storica. Devono lottare contro grandi multinazionali oltre che contro i loro stessi stati, a volte, come per le donne, devono riuscire a confrontarsi con le loro stesse comunità di appartenenza.
La comunità internazionale non ha ancora dato vita ad un sistema di tutela e garanzia efficace dei diritti dei popoli indigeni. Inoltre, si deve constatare che è spesso assente nel dibatto accademico, all’interno delle associazioni e dei movimenti in generale, un approccio alla nonviolenza che sia più attento alle esperienze, vissuti, punti di vista delle donne rispetto alla violenza, in tutte le sue forme e dimensioni, sia essa culturale, fisica e strutturale e quindi anche alle specifiche pratiche di nonviolenza portate avanti.
Ma quello che queste interviste dicono e dimostrano è che comunque e sempre è nella quotidianità, è nelle comunità del mondo che sono lontane troppo spesso dai grandi centri di decisone e di gestione del potere, che soprattutto si possono produrre dei cambiamenti, delle trasformazioni.

Maasai/Kenya

Intervista a Mary Simat, direttrice esecutiva di Maasai Women for Education and Economic Development (MAWEED)

Quali sono le attività e gli ambiti di intervento dell’associazione in cui è attiva?
Sono una donna indigena del Kenya, un’attivista per i diritti umani dei Maasai. Vengo dal sud-ovest del Kenya, da Narok. Sono presidente del comitato di coordinamento dell’AIPAC.
L’associazione fa parte del CBO, un organo di coordinamento di 14 gruppi di donne Maasai del distretto di Narok. Le donne Maasai partecipano alla designazione e implementazione delle attività dei progetti attraverso il nostro approccio partecipativo “Rural Appraisal”, ossia un’indagine condotta nelle zone rurali che viene usata per raccogliere le questioni conflittuali che emergono come risultato della disuguaglianza di genere. Ma a causa della nostra cultura è molto difficile riconciliare le divisioni di genere all’interno della comunità Maasai.
Il principale obiettivo dell’associazione è quindi quello di lottare per i diritti delle donne maasai, in quanto le donne maasai sono le più oppresse dal punto di vista socio-economico e politico. Gli ambiti in cui lavora soprattutto l’associazione sono pertanto quelli della violenza contro le donne, che si manifesta in differenti modi anche in termini di esclusione delle donne alla successione della terra, la presa di coscienza delle donne dei loro diritti. La cultura maasai infatti vede le donne, soprattutto le giovani, come proprietà o risorsa che genera guadagno, pertanto sono spesso escluse dall’educazione. Questo anche a causa della povertà che fa si che non tutti i figli possono andare a scuola e tra questi, a causa della cultura tradizionale, sono sempre maschi. Le figlie che riescono ad iniziare la scuola, non riescono a completarla, sempre a causa della cultura e delle pratiche tradizionali quale il matrimonio concordato in giovane età o l’infibulazione e le mutilazioni genitali.
La sensibilizzazione diviene quindi fondamentale: quando educhi una ragazza educhi tutta la comunità.

L’ultimo premio nobel per la pace è stato dato ad una donna africana del Kenya, che per la sua lotta è stata più volte picchiata o imprigionata, questo fa riflettere come sia spesso molto più difficile per le donne lavorare nell’ambito dei diritti delle donne e della pace. Quali ostacoli ha incontrato la vostra associazione?
Per noi l’ostacolo non è tanto la polizia, quanto la resistenza della comunità. Gli uomini non vogliono che le donne possiedano terra, ricevano educazione. A volte non ci permettono di andare in alcuni villaggi. La comunità maasai è conosciuta per essere molto resistente. Ad esempio una volta mi si è presentata una donna che per adulterio era stata picchiata fortemente, e non dal marito, ma dal fratello, mentre l’uomo non ricevette nessuna punizione, stava in piedi là mentre lei veniva picchiata. Così ho deciso nel 2001 di provare ad ottenere la posizione di Capo all’interno della comunità, per poter garantire maggior giustizia alle donne.
Gli ostacoli derivano poi dal conflitto stesso. Le donne infatti si polarizzano a causa dell’impatto del conflitto ed esitano ad abbracciare la lotta per emancipare se stesse, in un contesto di violazioni gravi dei diritti umani e di povertà endemica tra le donne maasai.
Discriminazioni e violenza contro le donne, come parte del conflitto, conducono ad una mancanza di partecipazione pubblica delle donne indigene. La stessa struttura del governo , la costituzione, le leggi elettorali e le politiche governative causano una generale diminuzione del potere politico.

Ha accennato prima alla difficoltà di accesso all’eredità di terra per le donne. Questo credo sia un punto centrale su cui molte donne in africa nel suo complesso si trovano a lottare.
Credo che in Africa le questioni riguardanti le donne siano più o meno simili. Le donne lavorano duramente nelle farms, sono loro che si ritrovano a portare avanti il più duro lavoro. Le donne Maasai lavorano 18 ore al giorno. Sono nei campi dalle 4 del mattino. Nonostante questo non hanno alcun diritto ad ereditare la terra. Non ci sono leggi che lo prevedeono e la pratiche culturali lo impediscono. Hanno il compito di mantenere una comunità attraverso questo lavoro ma dipendo da altri per potere accedere, possedere terra. Nei casi poi di donne rimaste vedove con figli in assenza di leggi che garantiscono il diritto di accesso alla terra la situazione che si ritrovano a vivere è spesso drammatica. Quindi è proprio la cultura, che sta alla base di una società, con le sue leggi che la regolano, che porta ad una doppia discriminazione delle donne, cioè come indigene e come donne.

Da tempo ormai attraverso numerose convenzioni e conferenze delle donne, penso soprattutto a quella di Nairobi del 1985, si è definito cosa vuol dire pace per le donne. Cosa vuol dire pace e nonviolenza per le donne in Kenya?
Credo che ogni modo di fermare la violenza o usare la nonviolenza dipenda molto dal luogo da cui si proviene. Culture differenti determinano approcci differenti.
Creare pace in una comunità vuol dire riuscire a mettere tutti insieme, donne, bambini, anziani. Agire in modo nonviolento in una comunità vuol dire capire la cultura e quindi vedere come approcciarsi a parlare agli anziani o alle donne.
La pace in una comunità e tutto ciò che ad essa è legato, lo sviluppo, quindi l’educazione, sono tutte cose che devono venire dalla gente indigena, non da fuori. E’ la gente che parla la stessa lingua della comunità, che capisce profondamente il suo funzionamento che deve intervenire. E’ comunque un processo lento. Bisogna avere coscienza dei tempi necessari. Ci vuole pazienza.
Per le donne poi la violenza ha varie forme, si manifeste in diversi tipi di ingiustizia e di discriminazione. Rispetto a questo comunque è importante tenere conto dell’approccio che si usa in base alla diversità culturale.

Pensa che a livello internazionale il movimento delle donne ponga attenzione alla necessità di legare differenti approcci?
I trattati internazionali che riguardano le donne sono fatti ad una alto livello istituzionale, non di base, grassroot. Sappiamo che non significano nulla se non sappiamo come implementarli in concreto. Credo anche che le donne educate che lottano per i diritti non tengano tanto conto di quelle che non lo sono.
Credo anche che le donne africane abbiano bisogno delle loro proprie convenzioni che tengano conto dei propri valori culturali. Bisogna si trovare degli standard condivisi comuni a livello internazionale, ma bisogna anche fare attenzione al rispetto della diversità.

Questo divario tra alti livelli istituzionali e quello di base grass root, che fa sì che le convenzioni per le donne non abbiano anche un “appartenenza” locale, si riproduce per qualsiasi convenzione, soprattutto per gli accordi di pace…non crede?
Sono completamente d’accordo. Anche perché i “diplomatici” che si vanno a sedere ad un tavolo e decidono che cosa è la pace non sanno assolutamente poi come implementare concretamente l’accordo. Non sono per nulla dentro il problema. I diplomatici esistono anche a livello grass root, nelle comunità di tutto il mondo.

Conaie/Ecuador

Il movimento indigeno ecuadoriano: un esempio di resistenza e lotta politica nonviolenta per l’affermazione di diritti collettivi, dell’interculturalità, di uno stato multinazionale e per la preservazione della propria terra.
L’Ecuador, come la maggior parte dei paese Latino Americani, soffre le conseguenze di decenni di colonizzazione. La povertà, la discriminazione, lo sfruttamento della popolazione indigena non sono scomparsi, sono sorretti da un “colonialismo interno” portato avanti da sistemi di stampo dittatoriale, segnati spesso da una forte corruzione. L’esproprio di terre da parte di multinazionali, compagnie petrolifere e minerarie completano il quadro.
Il Presidente Gutierrez eletto nel 2002, dopo avere goduto dell’appoggio del movimento indigeno attraverso un’alleanza tra questo e l’attuale partito di governo, ha poi disconosciuto tale alleanza e ha iniziato una politica economica in sintonia con l’FMI, con Bush, ma soprattutto ha instaurato un regime ed ha iniziato una politica di repressione e di persecuzione nei confronti del movimento indigeno, attraverso minacce alle stazioni radio loro sostenitrici, una pubblicazione di una lista nera di figure pericolose e nemici dello stato che include leaders indigeni, l’assassinio di un membro di Protoecuador che aveva denunciato atti di corruzione, l’imprigionamento del presidente del Movimento Indigeno della regione della Sierra, l’attentato al presidente della Confederazione delle Nazioni Indigene dell’Ecuador.
Tuttavia il movimento indigeno ecuadoriano rimane un esempio, un riferimento nell’intero continente per la sua forza e capacità organizzativa nel portare avanti una lotta politica con mezzi nonviolenti e pacifici a difesa dei propri diritti, della propria cultura e della propria terra.

Intervista a Ninfa Patiño
CONAIE-ECUADOR

Potrebbe parlarmi un po’ del suo lavoro in Ecuador, dell’associazione in cui è attiva?
Sto lavorando nella Confedaraciòn de Nacionalidades Indigenas del Ecuador (CONAIE), l’organizzazione più importante dell’Ecuador, creata nel 1986, con il fine di fare rispettare i diritti indigeni, l’educazione interculturale, l’autonomia, il diritto alla terra e per fare ratificare il convegno OIT1 sui diritti degli indigeni. Attualmente il movimento indigeno è la terza forza politica più importante. Nel congresso ecuadoriano ci sono rappresentanti degli indigeni. E’ un momento decisivo nella storia politica dell’Ecuador.
Si viene a conoscere il movimento indigeno nel 1990, con il primo “levantamento”. Da quel momento si hanno prese di posizione e successi del movimento indigeno, tanto che è riuscito a fare cadere due presidenti.
Nell’anno 2000 il movimento fece cadere il presidente Bucaram prima e Mahuad poi, che con il suo governo portò nel paese una forte crisi bancaria e cambiò la moneta dell’Ecuador in dollaro.

In che momento della storia politica dell’Ecuador è nato il Conaie?
Il CONAIE nacque nel 1986 per fare rispettare i diritti degli indigeni, perché prima di quel momento i governi non tenevano in considerazione alcuna l’identità degli indigeni. Nel 1996 il CONAIE prende posizione come la massima rappresentazione degli indigeni della costa, della terra e della foresta Amazzonica. Nel 1998 si ratifica il convegno 169 per il rispetto dei diritti indigeni e si riforma la costituzione dello Stato e si riconosce l’esistenza del popolo di nazionalità indigena. Si riconosce il territorio , soprattutto l’Amazzonia, le lingue. Quindi a partire da questa data si riconosce che ci sono 27 popoli e nazionalità: 13 nell’Amazzonia e nella zona delle coste e 14 nella terra. Questo è importante perché a partire da questa data cambia la denominazione.
E’ anche un momento importante perché si riconoscono i diritti delle donne indigene e nel contesto della rappresentanza le donne cercano di fare parte di una rete internazionale continentale che si chiama “Enlace continental de las mujeres indigenas” e il coordinamento si concentra nell’Ecuador. Questo significa che il coordinamento delle donne indigene a livello sud americano è rappresentato dall’Ecuador. Io attualmente lavoro nella direzione della rete. Attraverso questa dirigenza si ottengono importanti risultati: c’è più educazione e partecipazione politica delle donne.

Quindi il movimento indigeno in Ecuador è riuscito ad avere anche importanti risultati a livello istituzionale…
Esattamente. La cosa più importante è che gli indigeni riescono ad avere una partecipazione non solo nel congresso, ma riescono anche a raggiungere istituzioni importanti per lo sviluppo dei popoli indigeni. Per esempio c’è un’istituzione che si chiama COREINTE incaricata specificatamente per lo sviluppo dei popoli indigeni,c’è l’istituzione per l’educazione bilingue interculturale, gestita da indigeni, un’altra è la Direzione dell’Educazione Tradizionale, molto importante perché solo così si riconoscono e si rispettano le nostre visoni e la nostra medicina tradizionale, che devono essere gestite e portate avanti dagli indigeni. Quindi le istituzioni per lo sviluppo, l’educazione e la salute sono tre spazi che corrispondono ai risultati che il movimento indigeno ha ottenuto. Inoltre si è riusciti a costituirsi come popoli di nazionalità indigena e si è anche riusciti a recuperare il territorio dei popoli dell’Amazzonia.
Tutto questo è ciò che si è ottenuto in seguito alla creazione del CONAIE, dal 1986, poi con la ratifica del convegno nel 1998 e nel 2000 con una partecipazione politica sempre più forte: più sindaci indigeni, più deputati, più partecipazione nelle istituzioni e organizzazioni internazionali. La partecipazione politica ha infatti avuto importanza non solo a livello nazionale, ma anche internazionale. Il movimento ecuadoriano è considerato il più forte e organizzato politicamente a livello anche continentale.
Dal 1996/98 il movimento indigeno crea un movimento politico che si chiama Pchakuti, che significa nuovo popolo/nuovo potere. Questo ha significato poter partecipare politicamente alle elezioni e quindi avere accesso a spazi importanti nel congresso e nello stato, tanto che nelle elezioni del 2002/3 si costituì un’alleanza tra il partito che sta attualmente al governo che si chiama Sociedad Patriotica, con il partito pachakuti. L’alleanza vince alle elezioni porta al governo l’attuale presidente.
Il presidente però tradisce il movimento, si dichiara dittatore, il movimento pachakuti viene escluso dal governo e ora questo partito e il movimento indigeno si sono convertite nella forza di opposizione più importante. Il governo ha iniziato una politica di repressione contro gli indigeni, sta disconoscendo le istituzioni di cui ho parlato prima, gestite dagli indigeni, quella per la salute, lo sviluppo e l’educazione, sostituendole con sue autorità.
Ora si sta attraversando un momento critico per il movimento indigeno, dato che il presidente a disconosciuto e non ha rispettato l’alleanza.
Tuttavia da poco,18 ottobre, ci sono state le elezioni e il movimento ha ottenuto più sindaci e più posti nel potere che lo stesso partito di governo. In questo momento quindi il governo si trova debilitato, mentre il movimento indigeno si sta rafforzando.

Ma dove trova il suo appoggio il Presidente?
Non ce l’ ha in realtà.
La cosa più importante è che il movimento indigeno non è solo una forza guidata da indigeni, ma trova consenso e appoggio nella società civile, nelle organizzazioni, le donne, gli intellettuali, tutta la società civile, tutti i partiti di sinistra stanno sostenendo il movimento indigeno.

Qual è quindi la forza del movimento indigeno?
Il movimento è molto giovane quindi è difficile dire che cosa accadrà.In questo momento poi si stanno verificando molti cambiamenti e ci sono anche divisioni interne, in quanto da un punto di vista politico è così che normalmente accade: dentro gli indigeni ci sono tendenze politiche.
C’è un elemento importante da prendere in considerazione nell’Ecuador: il regionalismo. Tra indigeni della costa , della terra e dell’Amazzonia, c’è una divisione regionale. Al di la del fatto che sono tutti indigeni ci sono divisioni che si esprimono politicamente a livello regionale. Quindi ci sono tendenze politiche.
Il momento attuale è un momento di crescita, perché in ogni regione si sta crescendo politicamente.
Per dire qual è la forza del movimento potrei dire come vedo io la forza di questo movimento e quale dovrebbe essere la sua forza per continuare e che è poi il mio grande desiderio: che diventi e sia sempre più una forza capace di riconoscersi in un’identità ma che allo stesso tempo rispetti le diversità.
C’è uno slogan nell’Ecuador e nel continente che dice: “Unità nella diversità”. Che sia una forza compatta a livello nazionale, ma che rispetti le specificità che ci sono al suo interno.Che questa stessa forza non li divida, ma li rafforzi e li unifichi perché solo così si può condividere il potere e confrontarsi con l’establishment, che è molto forte.
Io credo che si siano ottenute molte cose, come già ho sottolineato. Una di queste è anche il riconoscimento da parte delle forze di destra tradizionali. Queste non vedono il movimento indigeno come un piccolo ed insignificante movimento sociale ma come una forza politica. Non possono fare politiche che non tengano conto degli indigeni perché non avrebbero alcun risultato. Si è anche riusciti ad eliminare in parte il razzismo contro gli indigeni.
Abbiamo anche avuto una donna indigena dentro il Ministero per gli Affari Esteri.

Ha sottolineato spesso l’importanza della partecipazione politica delle donne indigene. Potrebbe definire il quadro discriminatorio in cui vivono?
Ci sono discriminazioni contro le donne in generale, contro quelle indigene c’è una tripla discriminazione, in quanto donne, in quanto povere e in quanto indigene. Devono quindi lavorare tre volte di più per poter ottenere equità e uguaglianza. Però qualcosa si è ottenuto, una certa partecipazione.
C’è però una forte resistenza culturale. L’educazione non ha raggiunto completamente le donne indigene, ossia la cultura indigena ecuadoriana delle donne è orale e necessitano quindi di una formazione e di una capacitazione. E’ un processo lento. Ci sono donne che stanno ricevendo educazione, ma quelle indigene sono sempre di meno. A livello locale, nelle comunità c’è però una grande partecipazione e accettazione del coinvolgimento delle donne, ma non nella società in generale. Ma la cosa più importante è ottenere risultati a livello locale, che sia riconosciuta la donna, perché è sempre stato l’uomo indigeno quello cha ha dominato, colui cha ha tenuto le riunioni, che prende le decisioni. Però ora è diverso, ora le donne partecipano.
E’ importante che le donne abbiano accesso a spazi di potere, per questo è importante che si riconosca l’educazione interculturale, ossia si riconoscano tutte e tre le lingue che si parlano in Ecuador, così che anche le donne abbiano accesso a questa educazione.

Come si colloca il movimento indigeno all’interno dall’agire nonviolento?
Il movimento indigeno è totalmente pacifista. Qual è lo strumento del movimento? Il “levantamento”2. Così si chiama ed è il simbolo dell’azione nonviolenta degli indigeni. Che cosa significa levantamento: l’occupazione delle strade, degli spazi, ma pacificamente. Significa camminare, andare per il “chakinan” (cammino). Lo strumento sacro e politico del movimento indigeno è il levantamento. Quando si ha un levantmanto vuol dire che tutti e tutte devono uscire per strada. E’ il modo di esprimere la mobilitazione nonviolenta. Ciò significa che non è un gruppo guerrillero, è un movimento pacifico con un progetto politico, con presupposti e fini politici.

Tutto questo ha una relazione con una specifica spiritualità e cosmovisione indigena?
La cosmovisione si ritrova ed è presente in tutto. Ogni volta che c’è un levanta,ento, una riunione, si fanno celebrazione per chiedere permesso alla PACHA MAMA , per chiedere permesso alle montagne, alla natura, perché tutto abbia un buon esito, perché si sia illuminati .e che la mente si apra. C’è una frase politica che ha relazione con la cosmovisione: “AMA KILLA, AMA SHUA, AMA LLULLA (non rubare, non mentire, non essere ozioso). Questi sono i principi del movimento indigeno che fanno parte del progetto politico del movimento e della sua protesta.

Maori/Nuova Zelanda

Colonizzazione, globalizzazione ed azioni nonviolente.

I maori sono una popolazione polinesiana giunta in Nuova Zelanda intorno al 900 d.c. che grazie ad un’intensa attività bellica ed una forte organizzazione militare riuscì a conquistare gran parte dell’arcipelago e costruire villaggi fortificati. Il primo contatto con gli europei risale al 1642 quando l’olandese Abel Tasman tentò il suo primo approdo sulla coste “nuove”. La vera colonizzazione europea iniziò alla fine del XVIII secolo , grazie all’utilizzo delle armi da fuoco. Fu nel 1769 che James Cook avvistò l’isola del Nord della Nuova Zelanda iniziando a rivendicarne subito il possesso della Corona Britannica. Ma fu poi solo nel 1830 che gli inglesi si dichiararono interessati a questa zona del mondo. Nel 1840 con la stipula del trattato di Waintagi gli inglesi sanzionarono definitivamente l’intento di sottomettere i maori. . La politica coloniale si fondò sull’invio di una grossa comunità borghese che voleva investire in fattorie e sfruttare quindi le terre . Il trattato del 1840 viene considerato il momento centrale nella fine della sovranità maori aprendo al strada ad una vera “colonizzazione etnogiuridica e culturale”. Il trattato si fondava su tre principi fondamentali: i capi maori riconoscevano la sovranità inglese; i maori avrebbero goduto degli stessi diritti dei cittadini britannici; si garantiva il totale possesso terriero ai Maori, ma con diritto di prelazione in caso di vendita per la corona inglese, mentre per i maori non era previsto alcun diritto di prelazione. Il trattato è fondamentale nella comprensione del sistema di colonizzazione usato, in quanto basato su un’interpretazione del trattato completamente differente da quella dei maori. Per gli inglesi esso significava controllo e possesso totale delle terre maori, per questi alla base del trattato vi era invece un’ idea di reciprocità e scambio. Lo hau, lo spirito del dono è la forza magica del donatore che potrebbe ritorcersi contro chi viene meno all’obbligo di reciprocità. Lo scambio di doni ha una funzione culturale e non utilitaristica e il concetto di proprietà è inteso non come esclusivo controllo delle risorse o di controllo privato, ma di ampia distribuzione del prodotto. : la terra appartiene agli antenati e quindi non si può possedere alcun diritto di vendita.
I maori si resero ben presto conto che il trattato non garantiva alcuna sovranità come loro avevano inteso. Iniziò infatti un periodo di confische di terre e di vendita forzata ai coloni. La Nuova Zelanda è indipendente dal 1931, ma gli effetti della colonizzazione, intrecciati a quelli della globalizzazione sono una forte minaccia alla conservazione della cultura, della lingua, della terra dei loro antenati.

Intervista a Moana Sinclair, Maori indigenous people.

Potrebbe spiegare a grandi linee il suo lavoro e in che contesto si colloca?
Il mio lavoro come avvocato è quello di rispondere agli errori commessi negli ultimi secoli dal processo di colonizzazione, portato avanti dagli inglesi.
Nel 1931 abbiamo una dichiarazione di indipendenza, riconosciuta anche dagli inglesi. Nel 1840 c’è il trattato di Waitangi, in cui si parla di Sovranità. Nel 1845 già si comprese che era un non senso, un imbroglio.
Quando gli inglesi giunsero ci furono molti processi legali che incominciarono, tra inglesi e maori. Gli inglesi forzarono i maori a vendere ai coloni le terre. Nel 1865 tutta la terra comunale finì all’interno del sistema inglese basato su titolo individuale. Quindi noi consideriamo che per 100 anni il trattato è stato ignorato. Nel 1997 il governo privatizza molti posti pubblici. I maori protestarono dicendo che ne è della nostra terra?Furono messe delle targhe sulle terre che i maori avrebbero potuto reclamare. In seguito furono fatte delle leggi che stabilivano che nessun atto di privatizzazione poteva essere inconsistente con il trattato. Questo è un piccolo ma significativo passo. Di 66 milioni di ettari 3 sono stati lasciati fuori dalla privatizzazione.
Significa anche che abbiamo un argomento legale per il ritorno della terra ai maori, basato sul trattato. Il problema di fondo che ha anche permesso agli inglesi di appropriarsi delle terre e di cambiare il sistema di possesso di queste terre, è che la sovranità di cui si parla nel trattato è intesa in modo differente: secondo gli inglesi questa è concessa ai maori, secondo i maori la sovranità è dei maori, noi la possediamo, come possediamo il diritto alle nostre foreste, al nostro mare, ai pesci, agli alberi, e tutto ciò che la natura rende disponibile per noi.
Attualmente abbiamo ottenuto qualche sucesso.
Il mio lavoro è quello di vedere come gli atti possono essere interpretati. C’è infatti un tribunale, istituito nel 1975 e il mio lavoro è quello di rappresentare i maori nei processi e di portare al tribunale reclami e denunce.

So che lei produce anche documentari. Sono parte di questa “battaglia legale”?
Io ho una laurea in legge e un master in diritto internazionale. Ma quando ero studente facevo anche reportage e lavoravo in televisione. Così ho poi iniziato ad usare le mie conoscenze legali per fare anche dei documentari. Mi divenne infatti sempre più evidente che era necessario ridurre tutto il linguaggio legale in un linguaggio più semplice ordinario per far si che la gente potesse comprendere. Quando lavoravo alla tv new zeland ho lavorato per un programma che mi ha permesso di creare una “clinica legale”, 10 minuti di tempo ogni volta per rendere comprensibili questioni complesse. Era una vera e propria educazione legale che è andata avanti per un po’ di anni.
Continuo a documentare molte questioni che affligono i maori “riscrivendole” e rendendole più comprensibili. Così ho anche fatto un documentario sull’impatto della globalizzazione sui maori e la popolazione indigena.

Parlare di globalizzazione è sempre difficile, è un argomento vasto, ma potrebbe fare qualche esempio concreto dell’impatto che ha avuto sui maori?
Sì è un argomento ampio..
Io ho un amico che è un attivista accanto a Vandana Shiva. Quando venne in Nuova Zelanda l’ho intervistato e sono riuscita a fare un documentario sulla globalizzazione. Abbiamo ormai compreso che i Maori sono completamente coinvolti nel processo di globalizzazione.
A livello nazionale il nostro stato è entrato in numerosi accordi internazionali, multilaterali, ha invitato compagnie internazionali, multinazionali, per essere parte di scambi commerciali. In tutto questo i maori sono sempre la forza più debole.
Il processo di privatizzazione messo in atto, l’apertura delle frontiere per il libero scambio, ha significato che molta della nostra gente ha perso il lavoro. L’impatto della globalizzaizone ha portato a molti svantaggi e discriminazioni verso gruppi e minoranze (noi non usiamo quel termine per definirci, noi siamo indigenous people, ci hanno fatto diventare minoranza nel nostro paese.
L’impatto è stato sostanziale, nella quotidianità, nella comprensione stessa di cosa un legge può significare.
Per esempio io ho una laurea in legge e quando io ho iniziato il mio master hanno cambiato il sistema di pagamento dell’educazione e io ho dovuto abbandonare il mio master, così triste..questa riforma ha colpito tutti gli studenti , ma di più i maori perché noi non abbiamo una “storia” fatta di genitori che possiedono terra o 3 o 4 generazioni di persone alle spalle con una solida educazione a cui guardare, fare riferimento. Abbiamo iniziato a provare da soli ad educarci senza un supporto familiare.
Io sono così triste, i miei genitori sono morti, c’è una statistica che è comune tra i maori, si muore molto giovani. Io non ho possedimenti e se non posso pagare devo tornare a lavorare. E’ come un circolo vizioso, non ho un parente ricco da cui posso andare e dire ehi è molto dura per me potresti darmi un po’ di soldi?

Nella situazione in cui vivi quale spazio per l’azione nonviolenta vedi, in tutte le possibili forme di cui si è discusso in questi giorni?
Noi abbiamo una storia. Uno dei nostri profeti, cresciuto nei tempi della guerre per la terra, portò avanti una lotta pacifista. Non è comunemente conosciuto.
L’idea di nonviolenza tra i maori è un’idea forse un strana, se si guarda a molte danze tradizionali sono molto aggressive, sono danze per la guerra. Ora nel 2004 siamo ormai colonizzati, modernizzati, parliamo un perfetto inglese come me e stiamo cercando di reclamare e ricostruire ciò che noi siamo e in termini di azione nonviolenta ci sono sempre stati gruppi strategici che hanno guardato a come ottenere il diritto alla terra, e molte persone, sono morte, gente molto attiva per portare ad un cambiamento. Oggi nel 2004 abbiamo una situazione che vede un partito maori candidarsi alle elezioni. Gran parte del loro lavoro è stato quello di portare avanti azioni nonviolente, cercano di imprimere un cambiamento, si sono stabiliti all’interno di un parlamento che è sempre stato un luogo vietato ai maori, lavorano all’interno del sistema. Come vedo io l’azione nonviolenta è dentro il sistema, lo è fuori dal sistema, è ogni possibile strada finalizzata a creare un cambiamento.
Un’azione nonviolenta importante è quella di reclamare valori educativi per i nostri figli.
Molta della frustrazione che avevamo l’abbiamo canalizzata nell’insegnare ai nostri figli, ai bambini la lingua. Ci sono anche state numerose marce per la terra, quella più grande del 75, questo ha portato a risultati come il processo di Waitani che ha portato alla creazione del tribunale, presso cui presentare reclami.
Il mio coinvolgimento è stato quello di testimoniare le lotte, le azioni nonviolente.
Noi chiamiamo tutto questo tina- rangatnataga, che vuol dire “sovranità” e non è la sovranità in senso legale delle stato nazione, sovranità è libertà, è parlare la propria lingua. Sappiamo che cosa vuol dire, la reclamiamo, chiamandola sovranità anche se non è il vostro significato internazionale legale, la reclamiamo e la ridefiniamo.
Probabilmente in termini legali internazionali equivale a autodeterminazione interna. Noi di certo non vogliamo la violenza, quei tempi di guerre sono passati, e abbiamo anche perso persone valide. Ci siamo ricompattati e ora siamo un movimento di coscientizzazione, soprattutto per i nostri figli.
Munda/India

Una lotta nonviolenta per affermare il principio di territorialità e nazionalità.

L’India è certo uno dei riferimenti essenziali per le lotte nonviolente che nel mondo vengono portate avanti. Oggi una delle lotte nonviolente più forti in India è quella portata avanti dal movimento contro le dighe, che simboleggia una lotta per una società più giusta ed equa. Una delle dighe più grande che lo stato vuole costruire è quella del fiume Narmada in nome dell’aumento della disponibilità di acqua e ed elettricità per la popolazione della valle. Ciò che il movimento rileva è la profonda ingiustizia che sta alla base del piano di costruzione delle dighe: un ampio numero di povere comunità spogliate del loro mezzi di sussistenza e costrette ad abbandonare le loro abitudini di vita in nome di un dubbio comune beneficio ed interesse nazionale. Molte ricerche hanno dimostrato che la costruzione di una diga molto spesso si traduce solo in un enorme fallimento con una piccola frazione dei benefici previsti ed un impatto devastante sull’ecosistema e quindi su tutte le comunità dell’area, oltre agli spostamenti forzati di molte altre. Lo stato si difende spesso garantendo risarcimenti (resettlement e rehabilitation) che il più delle volte non sono sufficienti. La lotta contro la costruzione di dighe simboleggia anche la lotta contro il modello di sviluppo dominante fondato sull’idea della crescita materiale per mezzo della modernizzazione e che invece produce una distribuzione iniqua delle risorse, un disastro ambientale e sociale.

Intervista a Ratnaker Ghenga

Al seminario si è parlato molto del ruolo dello stato come monopolizzatore di violenza e di come e di quali possibilità di resistenza a questo si possono trovare. Cosa pensa rispetto a questo in base alla sua esperienza?
Nel contesto in cui io vivo, come parte della comunità indigena Munda posso dire che c’è uno stato e una società che replicano un sistema di dominio. Questo è frutto della stessa colonizzazione che abbiamo subito, che aveva prodotto un’estensione delle leggi britanniche, dell’amministrazione, civile, criminale, giudiziaria. Dopo l’indipendenza la situazione è continuata e nell’euforia della libertà dal dominio europeo, la questione indigena non è stata più una preoccupazione della comunità internazionale e del paese stesso. Le questioni relative ai diritti degli indigeni si pensava fossero già tutelate dalla costituzione indiana e dalla legge in un framework paternalistico di protezioni. Furono previste si azioni in positivo3 e furono definite delle aree di demarcazione . Ma queste in retrospettiva si sono manifestate come modo per assorbire la classe di gente ben educata all’interno del governo, un modo per farli stare in silenzio, mentre le stesse aree di demarcazione non hanno impedito ai non indigeni di entrare nelle sfere e territori che non erano di loro competenza. Le istituzioni tradizionali di autogoverno sono state marginalizzate, dall’imposizione di un sistema governativo a livello di villaggio. Relegate a funzioni cerimoniali, sociali e culturali, sono ancora mantenute in piedi dai Mundas, Mankis e Parhas. Sono parte di una coscienza collettiva. Infatti uno dei più grandi “anti dam movment”(movimenti contro le dighe) che hanno avuto successo avevano come leader un capo tradizionale dell’area.
Per cui quello che cerchiamo di fare è di organizzarci a livello di munda, ossia di organizzarci a livello di territorialità e nazionalità, perché sentiamo che per confrontarsi con uno stato e una società dominanti si deve spingere verso una decentralizzazione del potere.

Quindi quali sono in particolare gli ambiti in cui lavora l’organizzazione in cui è attivo e quale spazio realmente trova?
Per rispondere alla seconda parte della domanda..io lavoro nell’organizzazione che è la più forte tra quelle che ci sono e io trovo che sia molto debole..
Quanto agli ambiti in particolare abbiamo progetti relativi alla questione della terra e dell’autogoverno. In relazione a queste questioni abbiamo portato avanti un movimento di opposizione alla costruzione di piccole e grandi dighe, su ispirazione di uno dei più vecchi movimenti non solo indiano ma mondiale, il Carol movment. Attualmente le dighe costruite in area munda hanno portato allo spostamento forzato di cento mila persone. Cerchiamo fondi a sostegno del movimento, vi prendiamo parte, organizziamo conferenze stampa invitando i leaders per dare visibilità al problema.

Lei si definisce prima di tutto come Munda. La questione dell’identità è strettamente connessa con quella della territorialità e della nazionalità e quindi anche con il movimento contro la diga e per i conseguenti forzati spostamenti di persone. Potrebbe spiegare meglio qual è la sua percezione rispetto a tutto questo?
Devo dire che c’è una frammentazione, la colonizzazione ha portato ad una distruzione per certi versi dell’identità, ma la cosa affascinante è che nonostante l’integrazione, i tentativi di assimilazione, abbiamo conservato il nostro senso di appartenenza ad un’identità. Il fattore religioso nella definizione della nostra identità è poi anche da prendere in considerazione. A questo proposito credo che debba esserci una separazione tra stato e religione. Io come consulente legale laico funziono sulla base di valori.
Tutto ciò è poi si sicuramente legato alla questione della terra, quindi ai progetti di costruzione della diga e le conseguenze che questo ha e avrebbe nello spostamento delle persone costrette ad abbandonare la loro terra. Nel mio lavoro come legale questo è evidente. Per esempio abbiamo portato avanti una lotta contro la costruzione di una diga con marce di protesta, ma il governo disse che avrebbe ostruito la diga. Mi fu così chiesto di cercare un caso legale che potesse sostenere la protesta. Solitamente questo viene trovato nel contesto del discorso del reinsediamento e riabilitazione. Ma io ho sostenuto che se chiedi reisediamneto e riabilitazione, quindi risarcimento per i danni derivanti dalla costruzione della diga, vuol dire che credi in partenza che questa verrà costruita. Così ciò che ho sostenuto nel processo contro il governo è che la diga non doveva essere ricostruita perché la mia religione e quella munda dice no. Io anche se cristiano, e come cristiano, difendevo la religione munda. Ho perso il processo e mi sono rivolto alla Corte suprema, ma anch’essa ha rifiutato il mia difesa. Spiego meglio la logica della mia difesa: abbiamo una legge che dice che se il cuore, il nucleo centrale di una religione è diversa lo stato deve pensare in modo differente. Se lo stato deve rispettare le religioni, deve rispettare il cuore delle differenti religioni. Sulla base quindi del cuore della religione munda lo stato non può costruire la diga. La stessa Dichiariazione dei popoli indigeni delle Nazioni Unite afferma il legame speciale degli indigeni alla terra, un legame spirituale con la terra. E’ un legame che le religioni tradizionali indigene hanno e che deve essere rispettato. Tutto questo la Corte e lo stato non lo riconoscono.

Al seminario sulla nonviolenza si è parlato di metodi e pratiche della nonviolenza. L’India in questo è stata un riferimento, lo è ancora oggi? Nella sua esperienza quale spazio trova l’azione nonviolenta?

Stiamo facendo molte azioni nonviolente. In particolare il riferimento più grande è l’anti-dam movment che ancora porta avanti mobilitazioni e proteste nei luoghi in cui ci si sono i piani di costruzione della diga e pratica la noncooperazione.
Si c’è una storia di lotta in India ma anche altrove nel mondo, come ad esempio il Sud Africa che mostra che la nonviolenza funziona.

Laguna Pueblo e Navaho/Stati Uniti d’America

Identità, autodeterminazione e nonviolenza.
Parlare dei nativi americani vuol dire spesso cadere in luoghi comuni e stereotipi. Si conoscono alcuni celebri nomi, come Toro Seduto, si ha un’immagine di loro nella tenda con la pipa, si conosce qualcosa delle loro “leggi” spirituali, che spesso vengono letteralmente vendute come gagets new age. Dietro tutto questo c’è invece una realtà più complessa. I popoli che compongo la grande comunità dei nativi americani sono numerosissime ed ognuna ha una sua lingua, le sue tradizioni, soprattutto una sua storia. E proprio la storia, come il più delle volte accade, è quella ad essere cancellata e con essa la cultura di un intero popolo.
Parte di quella storia è stata drammaticamente segnata dal contatto sanguinoso con i coloni. Un contatto che ha portato ad un vero e proprio sterminio di questi popoli, che si sono visti sottrarre le loro terre e si sono ritrovati inglobati in un sistema politico, giuridico, economico che ha cercato di eliminare le loro abitudini, i loro modi di vita comunitaria, la loro cultura. Un sistema che ha cercato allo stesso tempo di assimilarli, ghettizzarli e discriminarli.
Oggi seppur molti atti legislativi hanno prodotto dei passi in avanti nella garanzia e protezione dei nativi americani, le discriminazioni in termini di diritti civili, politici, di accesso alla terra sono la realtà con cui questi popoli si devono confrontare.
La seguente intervista individua alcuni aspetti di queste discriminazioni, ma si concentra anche su cosa può voler dire nonviolenza in quel contesto.

Intervista a June Lorenzo, nativi americani, Laguna Pueblo e Navaho.

Vorrei iniziare dal suo lavoro e dal percorso che vi è dietro, che l’ha portata qui, oggi.
Al momento potrei dire di essere “affiliata”, ma non di appartenere, ad un’associazione, fondata da una nativa americana, Tania Fictioner, che ha base a New York, che lavora in generale per l’empowerment degli indigeni americani, in particolare offrendo servizi ed assistenza legale ai nativi che vivono a New York o fuori dalle loro comunità di origine. Sono in contatto con loro dal 2002. Questa è la seconda organizzazione con cui lavoro, precedentemente ho lavorato a Washington per quattro anni, e prima ancora anche per il Dipartimento di Giustizia Americano. Nel 2000 ho deciso di ritornare nella mia comunità, perché per me aveva più senso lavorare nella e per la mia comunità. L’esperienza al di fuori, con le organizzazioni non governative, che erano coinvolte anche a livello internazionale nell’ambito delle Nazioni Unite è stato fondamentale, ma poi ho sentito che era arrivato il momento di ritornare.
Il mio desiderio, come quello di Tania, la fondatrice dell’organizzazione, è quello di promuovere consenso tra i nativi rispetto al loro coinvolgimento all’interno delle Nazioni Unite.

Parlava della sua comunità, potrebbe spiegare meglio a quale si riferisce?
Dunque la zona di riferimento è il Sud Ovest degli Stati Uniti. Mia madre è Navaho, mio padre del Laguna Pueblo. Hanno lingue diverse anche culture diverse.
Il popolo di mio padre pratica ancora un modo di vita comunitario ed io sento che mi appartiene molto, molto più di quel sistema individualistico che trovato a Washington. Le due comunità si sono comunque poi mischiate. Io appartengo quindi a questa mescolanza.

L’empowerment degli indigeni americani è al centro delle attività dell’organizzazione con cui è in contatto e lavora. In che termini in particolare?
Per quello che riguarda il lavoro che ho fatto e faccio con loro si tratta soprattutto di empowerment in termini di diritti dei popoli indigeni, quindi nel quadro del lavoro delle Nazioni Unite. Io ho preso parte agli incontri presso le Nazioni Unite e soprattutto in quelli relativi alla Dichiarazione universale dei popoli indigeni. Tutto ciò l’ ho fatto su base volontaria.
Nella mia comunità il lavoro che faccio di empowerment è sempre legato all’ambito giuridico. Sono stata giudice e sono consulente legale per ciò che concerne la stesura di leggi. Vi è infatti sempre più un coinvolgimento economico con i non nativi, questo vuol dire che spesso nasce la necessità di regolare queste relazioni commerciali, che spesso riguardano l’uso della terra stessa. Da qui nasce la necessità di chiarire, rendere comprensibili numerose leggi ai nativi, che all’interno di queste relazioni economiche sono la parte più debole, svantaggiata, che si ritrova a doversi confrontare con un sistema estraneo.

Quali sono le discriminazioni più forti oggi nei confronti dei nativi americani?
Credo che una delle più forte discriminazioni siano a livello di sistema elettorale. Io ho lavorato come procuratore al Dipartimento di Giustizia Americano , nella sua divisione per i Diritti Civili, nella sezione chaiamta “sezione votazione”. Il mio lavoro principale era quello di sostenere e garantire l’applicazione sia del Voting Rights Act, che riguarda l’accesso al voto negli USA, che del Minority Languages Act, passato come emendamento al Voting Rights Act nei primi anni 80. L’atto prevede che dove il censimento del 1980 ha registrato che una certa percentuale della contea parla una lingua minoritaria, le informazioni elettorali devono essere date anche in quella lingua. La zona Sud Ovest dell’America, da dove io provengo, è una delle zone con una più alta concentrazione di indigeni che hanno nel tempo conservato la propria lingua. Io quindi ho lavorato come procuratore al dipartimento per garantire che le informazioni elettorali fossero date in lingua Dine, Tewa e Keres. L’accesso al sistema elettorale per molti popoli indigeni americani è stato considerato un importante diritto civile e diritto umano.
Le discriminazioni si sono poi manifestate negli anni anche nel modo di individuazione dei distretti elettorali, in modo tale da impedire ai nativi di eleggere canditati delle loro comunità, questo viene definito come pratica del gerrymandering.
Tuttavia le difficoltà ancora esistono, se non si controlla che le informazioni elettorali non vengono date nella lingua minoritaria molte persone vengono escluse. Infatti in molte comunità non si parla inglese. C’ è sempre bisogno di monitorare. Vi è poi da dire che i luoghi in cui si vota vengono sempre posti in zone lontane dalle zone in cui vivono le comunità indigene. Tutto questo per fare alcuni esempi soltanto.
In generale potrei dire che la discriminazione si manifesta a livello istituzionale, è una discriminazione sistematica.

All’interno delle Nazioni Unite, per quanto riguarda soprattutto il progetto di stesura della Dichiarazione, il dibattito sul diritto all’autodeterminazione dei popoli indigeni è centrale. Secondo lei per i nativi americani che cosa significa e cosa implica?
Credo che significhi soprattutto self government (autogoverno). Questo vuol dire anche avere proprie corti, proprie scuole, vuole dire soprattutto poter decidere del proprio sviluppo economico, perché questo non si traduca in distruzione della nostra terra.
Io non penso che una Nazione indiana negli USA sia un successo. Non credo sia sensato parlare infatti di autodeterminazione in senso “europeo”, cioè in termini di indipendenza. La lotta per i diritti sulla terra è poi al centro dell’autogoverno. Ancora oggi sono molti i casi di reclami da parte dei nativi contro il governo.
Si pensi poi a quante tribù sono state divise con la nascita di molti stati negli USA, molte anche si sono ritrovate divise tra Canada e USA e per loro viaggiare, passare da uno stato all’altro non è certo facile.

Volevo sapere se e in che termini il processo di globalizzazione ha influenzato le comunità dei nativi, anche in termini di perdita di tradizioni culturali o spirituali?
Sicuramente la globalizzazione ha avuto i suoi effetti e li continua ad avere. Li ha generando ingiustizie e disuguaglianze.
Si è inevitabilmente entrati a fare parte del processo di globalizzazione, ma senza poterne godere i frutti, in questo senso, ad esempio il problema del digital divide è molto forte. Molta gente delle comunità non ha né elettricità nè linea telefonica e il divario tra chi ha accesso alla televisione o altre tecnologie è sempre più grande.
La televisione, che comunque è entrata in molte comunità, influenza poi la cultura, passa messaggi ai nostri figli, soprattutto messaggi di consumismo, e questo influenza il pensiero e il modo di vivere di una comunità intera sua volta. E la storia, la storia degli antenati che è sempre stata fondamentale per noi nativi come parte della nostra identità e cultura ne risente.

Crede la nonviolenza sia uno strumento, uno principio, una filosofia che trova o può trovare spazio tra le popolazioni native americane? O c’è un’idea più vicina alle loro tradizioni e culture che gli corrisponde?
Credo che l’idea di nonviolenza, all’interno del Laguna Pueblo e dei Navaho, si possa tradurre con l’idea di vivere in armonia, in equilibrio. Ci sono forze opposte che regolano il mondo, la vita umana nel suo complesso. La violenza, la guerra sono una manifestazione in questo senso di disequilibrio tra queste forze. Quindi la domanda da porsi sempre è come vivere in modo che le mantenga in equilibrio?

Lei ha scritto un saggio molto interessante che conduce ad un nuovo modo di pensare all’autodeterminazione. Mi riferisco alla decisione presa da parte da alcuni popoli nativi di non partecipare alle elezioni e alla vita politica degli stati Uniti. Questo potrebbe essere vista come una resistenza nonviolenta?
Sì, proprio così! Rimanendo all’interno del “vostro” framework culturale e concettuale posso bene accettare questa definizione. La Dichiarazione dei Diritti dei Popoli Indigeni afferma il diritto a partecipare alla vita politica delle Stato: “ I popoli indigeni hanno il diritto a mantenere e rafforzare le loro caratteristiche economiche, sociali, culturali, politiche, così come il sistema legale, hanno il diritto a partecipare pienamente, se così scelgono, nella vita economica, politica, sociale e culturale dello Stato”. Quel “ se così scelgono”, non aveva avuto mai un senso per me fino a quando, mentre lavoravo per i reclami di terra delle Nazioni Mohawk e Tonawanda Seneca, che fanno parte della Confederazione Haudenosaunee o Confederazione delle Sei Nazioni, contro lo Stato di New York, venni a conoscenza della loro posizione contraria alla partecipazione nella vita politica del governo degli USA. Questa loro posizione si fonda su di un trattato tra la Confederazione Haudenosaunee e gli Stati Uniti. Il trattato fu fatto per rispettare ciò che un profeta aveva ordinato ai popoli Haudenosaunee, ossia che loro e gli USA dovevano vivere parallelamente, con un mutuo rispetto delle loro vite politiche, ma senza mai combinare o partecipare ai rispettivi affari politici.
Per questo motivo questi popoli non hanno partecipato al censimento, non partecipano alle elezione e rifiutano anche fondi per progetti e programmi da parte del governo statunitense. La lotta per ottenere il diritto di voto così come il rifiuto invece di entrare nel sistema politico americano sono entrambi da considerare un esercizio del diritto all’autodeterminazione. Il rifiuto rimanda ad un concetto importante: quello dei diritti collettivi. Il diritto di voto per le minoranze si è affermato negli USA come diritto degli individui non come diritto di un popolo. Questi popoli che hanno deciso di non partecipare alla vita politica degli USA hanno deciso di portare avanti quel patto che i loro antenati avevano fatto.
Voglio anche ricordare altre azioni di resistenza. Molti popoli del Sud Ovest hanno delle cerimonie, parte di queste sono dei pellegrinaggi ai loro luoghi sacri. Molte delle terre sono state però perse e sono diventate dei range, terre da pascolo per bestiame. Negli anni non hanno però mai rinunciato queste loro cerimonie e continuano a fare in questi luoghi i loro pellegrinaggio. Quello che fanno è qualcosa di strettamente religioso, qualcosa di intimo e privato, non vanno lì facendo una manifestazione, una marcia, non chiamano la televisione o la stampa.
Credo che questo sia una forma di azione di resistenza spirituale nonviolenta.

Le 10 caratteristiche della personalità nonviolenta

Da questo numero, ogni mese, svilupperemo una riflessione su una delle 10 caratteristiche della personalità nonviolenta. Abbiamo chiesto ad amici ed amiche della nonviolenza di aiutarci in questa ricerca. Proponiamo a singoli e gruppi di seguire questo percorso, sviluppando iniziative locali (una lettura comunitaria, un giorno di digiuno, un banchetto in piazza, una cartello esposto, un dibattito pubblico, ecc.) che confluiranno poi in una azione nonviolenta comune e nazionale.
Il Congresso del Movimento Nonviolento ha individuato un percorso, che lungo tutto il 2005 utilizzerà i 10 numeri di Azione nonviolenta, seguendo come traccia le “Dieci caratteristiche della personalità nonviolenta” individuate da Giuliano Pontara, rilette nella loro valenza collettiva e politica (il ripudio della violenza; la capacità di identificare la violenza; l’empatia; il rifiuto dell’autorità; la fiducia negli altri; la disposizione al dialogo; la mitezza; il coraggio; l’abnegazione; la pazienza). È stata infatti sottolineata l’esigenza che l’iniziativa, nel suo svolgersi e nella sua conclusione, testimoni dell’aggiunta che la nonviolenza è in grado di dare alla politica.
Per questo si è anche sottolineato trattarsi di una iniziativa che proponiamo a tutti i singoli e a tutte le forze per le quali “il rifiuto della guerra e della sua preparazione è la condizione preliminare per un nuovo orientamento”, e che sono alla ricerca di una valida alternativa. In tal senso le dieci parole possono avere applicazioni concrete nella politica e nel sociale sui temi fondamentali della convivenza civile, individuando azioni che possano essere concretamente sperimentate e che confluiscano in una pubblicazione del MN da far diffondere nel modo più largo.
Il ripudio della violenza

Di Daniele Lugli*

Ripudio è, secondo una diffusa etimologia, respingere col piede (pes, pedis), con particolare vigore e disprezzo quindi. Lo si fa anche derivare da pudere, vergognarsi, far vergognare. Si associano benissimo: qualcosa di cui, finalmente, ci si vergogna e che perciò si allontana con forza, perchè più non torni.
Indica infatti usualmente il rifiuto di un legame già importante, sociale, affettivo e dei comportamenti correlati: ripudio del matrimonio, di un’amicizia. E’ allontanare un elemento che fu costituvo della propria identità, una parte di sè (addirittua la metà). Indica pure l’atto del rinnegare come propria una cosa, per la quale si ha titolo, si presume possesso, impegno, adesione spirituale, o della quale si è addirittura autore: un libro, un’eredità, una tradizione, il debito pubblico, i propri principi, la propria fede. E’ un atto che può essere individuale o collettivo, ma che comporta comunque una forte adesione personale.
E’ un atto grave e solenne, per il quale occorre certamente una ragione valida e sentita. Direi l’intollerabilità della situazione in cui si vive, dell’attribuzione a sè di certi legami, opere, obblighi, convincimenti. Sono circostanze tutte che ricorrono nel caso della violenza, che è oppressione, tormento, distruzione, sia da noi esercitata, sia nei nostri confronti.
Violenza è violare, profanare, contaminare, insozzare, offendere, maltratttare, violentare. Perfettamente distinguibile dalla forza, come il potere dal dominio. Ma per ripudiarla è necessario che la sua intollerabilità sia avvertita, che la sua inevitabilità sia messa in discussione. I percorsi, individuali e collettivi, possono essere diversi.
Per quel che mi riguarda è stato molto importante l’incontro, oltre quaranta anni fa, con Capitini, Pinna, Dolci, L’Abate che quel ripudio operavano e testimoniavano, ma decisivo è stato rintracciare un mio percorso. Si basa molto sulla consapevolezza della mia fallibilità, pur nella ricerca della migliore interpretazione dell’agire umano e del suo senso, sulla considerazione del principio di precauzione, o quanto meno sulla necessità di limitare i danni. Sono sempre all’inizio, anche se sembra ben tracciato e praticabile.
Avverto, come moltissimi se non tutti, la gravità della violenza quando, anche non estrema, colpisce o minaccia me o le persone che mi sono care. Sento e sperimento in vari campi, e anche questo credo sia comune a molti, la precarietà, quando non l’illusorietà, dei risultati conseguiti con il suo uso. Che i fini non giustifichino i mezzi, nella sfera privata come in quella pubblica, ma che siano i mezzi violenti a compromettere gravemente il fine, è quotidianamente dimostrato. Sotto i nostri occhi è la continua estensione della violenza e dei suoi effetti, nello spazio e nel tempo, la sua invasività di ogni ambito pubblico e privato, la sua capacità di compromettere la vita e la speranza, non solo nostra, ma dei nostri figli e nipoti. Possiamo con più chiarezza vedere gli effetti della violenza diretta, magari in tempo reale. Abbiamo maggiori conoscenza della violenza che sta nelle strutture sociali ed economiche, più distruttiva ancora della violenza diretta. Misuriamo il peso della violenza culturale, che si avvale del prestigio di grandi tradizioni religiose e politiche.
Nessuna di queste manifestazioni della violenza sembra attenuarsi. Al più si traveste con aggettivi che la vogliono umanitaria e preventiva di violenze maggiori, obbligata dalla leggi dell’economia, manifestazione di irrinunciabili identità religiose, politiche,etniche. Si traveste, cambia nome, ma la possiamo riconoscere facilmente: è chiusura, impedimento all’esistenza, alla libertà. allo sviluppo nostri e degli “altri”. Ma il ripudio concreto, nell’ azione e nel pensiero, pur maturo, resta difficile, personalmente e come proposta politica. Come se in un mondo che ci appare ostile e incerto la rinuncia alla violenza potesse ulteriormente indebolirci. Continua un fraintendimento che Stanislaw Jerzy Lec ha ben denunciato ” Si è creduto che non uccidere fosse un divieto, invece era una scoperta”.
Qui ritrovo l’indicazione di Capitini “Violenza è un concetto relativo all’oggetto sul quale si esercita una certa azione. Quanto meno io considero quell’oggetto in ciò che esso è per sè stesso, tanto più mi avvio alla violenza verso di esso. La nonviolenza è una presa di contatto col mondo circostante nella sua varietà di cose, di esseri subumani, e di esseri umani, è un destarsi di attenzione alle singole individualità di tutti questi oggetti circostanti per porsi un problema ‘Che cos’è questo singolo oggetto? Qual’è la sua caratteristica, la sua vita, la sua libertà, il suo formarsi dal di dentro?'”. E’ il punto di partenza di un movimento, di una tensione perchè gli oggetti che “chiamo cose” siano intanto adoperate bene in modo appropriato nella prospettiva di “ridurre il campo delle cose, stabilendo con alcune di esse un rapporto di collaborazione meno imperioso e meno antropocentrico”.E’ una prospettiva che si amplia e rafforza su tutta la scala degli esseri non umani, una sorta di addestramento che, portato nel mondo umano, ha “una risonanza grandiosa”: è il punto di tensione più profondo per il sovvertimento di una realtà inadeguata…
Il ripudio della violenza è la condizione che permette, perfino a me quando mi impegno, di intravvedere che ci sono alternative tra l’essere vittima o carnefice o spettatore impotente, spesso complice.

* Segretario del Movimento Nonviolento

Il cammino della pace
Premio Nazionale Danilo Dolci

La comunicazione come legge della vita, come qualcosa di “essenzialmente sincero e nonviolento”, come qualcosa di “intimamente connesso a creatività e a crescere”, in grado di potenziare “l’intimo segreto di ognuno”, un “comunicare vivo, oltre ogni diversità” che fa maturare la pace.
Questo è stato uno dei tanti importanti insegnamenti lasciti da Danilo Dolci. Così il Manifesto scritto per portare avanti una grande campagna contro la comunicazione passiva, si rivolge “a tutti coloro cui non sfuggono gli intimi nessi tra valorizzazione delle intime risorse inesplorate di ognuno, e la pace-o tra sfruttamento e violenza-a chi nei più diversi contesti esercita una pur varia funzione educativa”. Per portare avanti questo appello, per potere fare rimanere vive le parole di Danilo Dolci, perché possano continuare ad avere un senso si è costituita ad Agropoli, dove Danilo Dolci fu attivo portando avanti diverse esperienze educative, un’associazione, “Amici di Danilo Dolci”, che oltre a promuovere iniziative nelle scuole, laboratori maieutici e condurre attività di studio e di ricerca, organizza da due anni un Premio Nazionale sulla figura ed Opera di Danilo Dolci. Quest’anno si è svolta, il 10 e 11 Dicembre, la seconda edizione del premio. “Cammino di pace” è stato il titolo dato all’iniziativa, ad indicare che la pace è qualcosa che si costruisce con l’iniziativa di tanti singoli, comunità e territorialità. Una pace che si costruisce dal basso, con l’attivazione di ciascuno nella propria realtà sociale e culturale.
Il premio quest’anno è stato quindi assegnato a chi è coinvolto in esperienze di vita comunitaria, come il Presidente della Comunità di Nomadelfia (Grosseto), a chi sostiene e conduce percorsi educativi che portano avanti l’eredità di Danilo Dolci, come Enzo di Paola, professore della scuola di Mirto-Partinico (Palermo), a chi non si arrende alla criminalità e alla mafia come il giudice Giancarlo Caselli, a chi si propone di sostenere una comunicazione che dia visibilità e sostegno alla nonviolenza, come Mao Valpiana direttore di Azione Nonviolenta o ad Enzo Marzo di Critica Liberale, al pittore Ernesto Treccani per il suo impegno culturale, al Presidente della Provincia di Salermo e infine a Franco Alasia, stretto collaborare di Danilo Dolci, suo compagno di lotte, che con la sua presenza, accanto ad Amico Dolci, in queste giornate, ha dato un senso ancora più profondo all’evento, soprattutto per chi, come chi scrive, non ha avuto la fortuna di conoscere personalmente Danilo Dolci. A lui, è stata anche assegnata la Medaglia del Presidente della Repubblica.
Le attività sono iniziate nella mattina del 10 Dicembre con la presentazione di esperienze educative, come quelle di Nomadelfia, Mirto, e dell’Ufficio di Pace di Salerno, sono seguite con la presentazione del libro di Giuseppe Barone, la “Forza della nonviolenza”, e del video-documentario di Alberto Castiglione “Danilo Dolci: memoria e utopia”. Il giorno seguente si è svolto un incontro nelle scuole sulle esperienze di cultura e di comunicazione della nonviolenza, vi è stata poi la proiezione del documentario “Il canto sospeso” di Luigi Nono e infine la presentazione de vincitori e l’assegnazione dei premi.
L’importanza di iniziative come queste sta nel connettere persone, pensieri ed esperienze, nel far si che la volontà di essere cittadini attivi che cercano di contrastare quell’”ingegneria del consenso” che rischia di intossicare il mondo, non muoia. Perché, ricordando in conclusione alcuni passi del Manifesto, occorre “trovare i modi per sperimentare, in ogni ambiente e a ogni livello, quali metodologie possono risultare efficaci affinché ciascuno si interroghi: fino qual punto siamo impediti a costruire civiche strutture comunicanti, e fino a quale punto, presi da miopi bisticci, non siamo capaci di concepirle o realizzarle?” e ancora perché “occorre identificare le aree ove già si sperimentano strutture comunicative maieutiche , e inventare opportune strategie per ampliare confronti ed iniziative”. Infine perché “oggi più che mai saper distinguere trasmettere e comunicare è operazione non solo mentalmente essenziale alla crescita democratica del mondo: la creatività di ognuno, se valorizzata comunitariamente, acquista un enorme potere, ora in massima parte sprecato”.

Giulia Allegrini

ALTERNATIVE
A cura di Gianni Scotto
Una domanda al centrosinistra italiano:
A quando un Tavolo programmatico per la Pace?

Si comincia a registrare un certo fermento nella politica “ufficiale”: si fa pressante la necessità di elaborare una proposta politica convincente da contrapporre allo schieramento di destra che vede il suo perno in Berlusconi.

Sul tema della pace, i partiti della “Grande Alleanza Democratica” sembra che non abbiano finora neppure provato a trovare una prospettiva comune. È rimarchevole ad esempio il silenzio sui temi della pace nella proposta lanciata da Rutelli di programma per l’alleanza di centrosinistra (Repubblica del 3 gennaio 2005); mentre almeno Prodi menziona la pace come valore unificante della coalizione (lettera al Manifesto, 15 gennaio 2005).
Il 15 gennaio si è tenuta l’assemblea degli esponenti della cosiddetta “sinistra radicale” al termine della quale naturalmente è emerso il rifiuto generale della guerra e l’indicazione che il ricorso alla violenza armata e l’attuale modello di sviluppo basato sul petrolio sono in molti casi collegati. A giudicare da quanto riportato sulla stampa, però, non sembra che la nuova attenzione per la nonviolenza da parte del Partito della Rifondazione Comunista stia diventando effettivamente parte della proposta politica della sinistra. Esiste però, anche se viene trascurata, anche una dimensione “in positivo”, che consiste nell’indicare quali strumenti l’Italia intende sviluppare per dare un contributo alla pace a livello internazionale – in particolare nel campo della gestione nonviolenta delle crisi e dei conflitti. È su questo versante, sulla definizione di una politica di pace dell’Italia, che il silenzio, tra i “moderati” come tra i “radicali”, sembra totale. Mi sembra che a questo proposito diverse iniziative messe in cantiere dall’area nonviolenta possano prefigurare dei punti qualificanti di una compiuta proposta politica di pace.
Il lavoro per i corpi civili di pace ha prodotto una serie di esperienze a livello di base di qualità elevata. Sul versante statale, non dimentichiamo che presso l’Ufficio Nazionale del Servizio Civile è al lavoro il Comitato Consultivo sulla Difesa Civile non armata e nonviolenta, all’interno del quale si sta promuovendo l’appoggio, specializzazione e l’invio di giovani in Servizio Civile nei paesi dei Balcani a sostegno dei processi di pace attualmente in corso.
Non dimentichiamo poi che oggi, con le Nonviolent Pecaeforce, abbiamo un attore della società civile internazionale che persegue in maniera ambiziosa e su una scala mai fino ad ora tentata il lavoro di intervento nonviolento in situazioni di conflitto e di costruzione della pace.

La proposta di creare un Centro di studi sulla pace e sui conflitti internazionali può costituire un altro punto qualificante di un programma di governo che miri a concretizzare la pace in un programma di azione.
Ma in un programma di governo potrebbe ben figurare l’appoggio dell’Italia a iniziative come la creazione di un Comitato dell’ONU per la prevenzione dei conflitti (la proposta UNCOPAC, già presentata su queste pagine alcuni mesi fa).

Infine, uno scandalo silenzioso a cui occorre porre fine è costituito dall’incultura degli aiuti umanitari: attualmente in tanti – forze armate comprese – si sentono in diritto e in dovere di prestare assistenza umanitaria a popolazioni colpite da catastrofi ambientali o da guerre. Su questo terreno fioriscono le speculazioni politiche (si veda il caso eclatante della Croce rossa italiana, isolata dal movimento internazionale della Croce Rossa per le politiche filogovernative del suo attuale commissario straordinario). Oggi nei documenti del Governo e delle Regioni che si sono incaricate di prestare assistenza alle popolazioni del sudest asiatico colpite dal maremoto non viene menzionato neppure con una parola il fatto che in almeno due zone (il nord dello Sri Lanka e la regione di Aceh in Indonesia) il flusso di aiuti umanitari e di ricostruzione entra in situazioni di conflitto violento molto gravi e per questo, come sappiamo, può fare molto male o molto bene, a seconda di come viene gestito. Una qualificazione del sistema italiano degli aiuti umanitari per renderlo più “sensibile ai conflitti” dovrebbe essere un altro punto qualificante di una politica di pace.
Resta aperto il problema di come arrivare a una discussione sulla politica di pace iniziando a parlare di possibilità complete e superando gli ideologismi del realismo politico e le astrattezze di tante voci tra i pacifisti: in altre parole, si pone la questione di come strutturare un processo nel quale elaborare una proposta condivisa.
È di questi giorni la notizia che un gruppo di rappresentanti dei partiti di opposizione, riunito nel “Tavolo ambiente delle opposizioni”, ha elaborato una proposta di programma in materia di tutela dell’ambiente ed ecologia. Esponenti dei diversi partiti coordinati da Paolo degli Espinosa (ecologista ed esponente dei Ds) dopo un confronto durato diversi mesi e lontano dall’attenzione dei media, hanno raggiunto un consenso sulle principali linee di politica ambientale da seguire se la coalizione di centrosinistra dovesse vincere le elezioni.
Le realtà più significative della nonviolenza italiana potrebbero incaricarsi di promuovere un simile processo, chiedendo ai partiti della coalizione di centrosinistra di organizzare un “tavolo programmatico per la pace”. Potrebbe essere un luogo di dibattito in cui far incontrare esponenti dei movimenti, operatori esperti e politici di professione. Ma occorre iniziare il lavoro al più presto: il tempo inizia a stringere.

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
“Mi faccia il pieno, grazie”
Ma quanto costa veramente?

Qual è il costo reale della benzina? La domanda è tornata d’attualità, dopo anni di prezzi alla pompa accettabili per i consumatori, a causa di una pressione speculativa che ha portato il costo del petrolio sui mercati mondiali a 50 dollari il barile; prezzi che non si vedevano dalla famosa crisi degli anni ’70, il 100% in più del costo registrato a fine 2003.
In realtà, a prezzi attualizzati, nel 1981 il petrolio si pagava 100 dollari al barile (42 dell’epoca), quando la domanda mondiale era decisamente più bassa: ogni giorno vengono consumati infatti 80 milioni di barili, e se l’economia cinese proseguirà nella sua folle corsa, questi consumi sono destinati ad aumentare esponenzialmente. Ci sono quindi i presupposti grazie ai quali può verificarsi la diabolica legge della domanda (alta) e dell’offerta (bassa) che fa schizzare in alto i prezzi.
I costi industriali di estrazione non incidono molto sul prezzo finale dell’oro nero: sono costi fissi (indipendenti dalle speculazioni del momento) e variano da 4 a 6 dollari al barile a seconda delle condizioni climatiche, morfologiche e conflittuali dei luoghi di estrazione; sono scesi dai 21 dollari del 1980, grazie al miglioramento delle tecniche di estrazione, ed equivalgono a circa 15-17 centesimi di euro del prezzo della benzina alla pompa.
Anche i costi di raffinazione per trasformare in benzina la materia prima sono fissi e quasi irrisori: 5-6 cents/litro, mentre distribuzione, gestione e profitto per le compagnie ammontano a 13-15 cents/litro a seconda della loro voracità. Arriviamo quindi ad una cifra totale vicina ai 40 cents/ litro: come mai allora i prezzi sono arrivati nel 2004 fino a 1,15 euro?
Succede che le tasse applicate dallo stato italiano rappresentano il 65% del prezzo (erano il 75% nel 1998), più di quanto accade in Grecia, Austria e Spagna ma meno di quanto guadagna il fisco in Olanda, Germania, Gran Bretagna e Francia. Questo ricarico, unito alla convinzione che le compagnie petrolifere riescano a trarre profitti inverosimili in un mercato così ballerino, fa spesso urlare di disapprovazione i consumatori che a volte si organizzano via e-mail per boicottare qua e là un’azienda o un governo, allo scopo di influire sulla composizione finale dei prezzi.
Ma cosa accadrebbe se il costo della benzina diminuisse drasticamente? Una prima conseguenza la stiamo vivendo, in forma già visibile, nonostante i prezzi sopra descritti: gli investimenti in fonti energetiche alternative latitano. I biocarburanti diventano alla portata di tutti solo con cospicui incentivi governativi (in Italia esistono solo tre distributori), mentre le vetture ibride o a metano, a causa della poca ricerca effettuata in questi campi, hanno costi troppo alti per risultare convenienti; ancora, la vettura ad idrogeno Hy-Wire della General Motors costa un milione di dollari e attrezzare un distributore ad idrogeno costa negli Stati Uniti 400.000 dollari (negli USA ci sono 180.000 distributori). Così, una larga fetta del parco auto statunitense è rappresentata dalle famose SUV, che percorrono a stento 5 km con un litro di super, grazie al fatto che il prezzo del carburante è circa 0,5 dollari/litro.
Anche la riduzione drastica del costo del petrolio avrebbe ripercussioni sulle altre fonti energetiche: la produzione tramite impianti eolici per esempio, diventa economicamente conveniente solo se il prezzo del petrolio supera i 30 dollari al barile. Con un costo inferiore, l’unica fonte energetica in grado di competere è quella nucleare, con le sue note controindicazioni.
Esistono poi dei costi ambientali e sociali che attualmente non sono caricati sul prezzo del carburante che acquistiamo quotidianamente: nel paese che risulta essere il maggior importatore di petrolio al mondo, il 71% dell’energia che viene consumata è prodotta da combustibili fossili (carbone, gas, petrolio) e per evitare di dichiarare bancarotta, esso è obbligato a rendere, a qualunque costo, l’approvvigionamento di petrolio economicamente conveniente. Ma per ripagare quanto vivono le popolazioni nigeriane e cecene, sudanesi e uzbeke, angolane ed irachene (e contemporaneamente ridurre le nostre spese), non basterebbe portare a 5 euro il costo della benzina: occorrerebbe semplicemente usarne di meno.

MUSICA
A cura di Paolo Predieri

Jacques Prévert lo aveva definito “un vero disertore della tristezza”e chi lo ha conosciuto è certo che Boris Vian non aveva a cuore genericamente la felicità di tutti, ma precisamente la felicità di ciascuno. Non era riconducibile ad alcuna ideologia, compresa quella libertaria alla quale era forse più vicino, né tantomeno a una posizione politica specifica. Anche per questo oggi è difficile che ci sia chi, in modo organizzato, si faccia carico della sua memoria e della sua opera. Era antimilitarista, anticolonialista, anti-atomica, anti-perbenisti, anti-imbecilli… Malato di cuore, sapeva che non avrebbe avuto una vita lunga ed essendo ingegnere progettò il primo pace-maker, in anticipo sui tempi come lo era la sua arte… Morto nel 1959 a 39 anni resta una personalità centrale nella cultura francese: autore teatrale, poeta e romanziere (“Sputerò sulle vostre tombe” è in tutte le storie della letteratura), musicista jazz (suonava la tromba, era amico di Duke Ellington e Miles Davis). Ha scritto 480 canzoni, piene di idee, di personaggi, di storie, di poesia, interpretate da personaggi come Juliette Gréco, Brigitte Bardot, Magali Noel, Michel Piccoli, Joan Baez . “Le déserteur” è la sua canzone più conosciuta anche in Italia e si è affermata ormai fra le canzoni contro la guerra più celebri di tutti i tempi.

Il manoscritto è datato 15 febbraio 1954. Scritta forse pensando alla guerra in Indocina, viene lanciata poco dopo in occasione della guerra d’Algeria. Trasmessa il 4 marzo da radio Europe 1 nell’interpretazione di Marcel Mouloudji viene denunciata per vilipendio ai combattenti di tutte le guerre, nel giro di un anno viene censurata scomparendo dalla radiodiffusione, viene impedita la ristampa del disco di Vian e Mouloudji paga la scelta coraggiosa con l’esclusione dalle scene musicali per circa dieci anni.
A tutto questo Vian reagisce con pacata ironia: “La mia canzone non è antimilitarista, ma violentemente pro-civili” e a chi ha condotto la causa contro la canzone risponde che “ex combattente è una parola pericolosa; non ci si dovrebbe vantare di aver fatto la guerra, dovrebbe dispiacere. Un ex combattente è in condizione più di chiunque altro di odiare la guerra. Quasi tutti i veri disertori sono ex combattenti che non hanno avuto la forza di arrivare fino alla fine del combattimento. Se la mia canzone può spiacere non è certo a un ex combattente…”.
A poco valgono versioni successive che ne ammorbidiscono i toni: non più rivolta a Monsieur le Président, ma genericamente ai “Signori chiamati grandi” e privata di inviti a rifiutare di obbedire e di partire per la guerra, sostituiti da vaghi appelli ad “approfittare della vita, allontanare la miseria, siamo tutti fratelli, gente di tutti i paesi”. Eliminata dalla diffusione radiofonica e discografica, “Le Déserteur” cade nel dimenticatoio.
Nel 1966, in pieno sviluppo del folk-rock, della canzone cosiddetta di protesta, dell’opposizione alla guerra nel Vietnam, viene ripresa da Peter Paul & Mary che contribuiscono a riscoprila anche in Europa. A una prima strofa in inglese seguono quelle in francese. Purtroppo è sempre la versione ripulita, che viene riproposta in Francia da Richard Anthony. Questo fatto però suscita l’indignazione degli amici ed estimatori di Boris Vian, in particolare Mouloudji e Jean Ferrat (che gli dedica una bella canzone, “Povero Boris”) che recuperano e ripubblicano la versione originale. Da allora “Le Déserteur” vive nuova vita e gradualmente si impone come uno degli inni pacifisti più conosciuti ed importanti, in particolare dagli anni novanta ad oggi; se ne contano più di trenta versioni in francese e traduzioni nella maggior parte delle lingue esistenti, incluso l’Esperanto. La versione ebraica (“Ha’Arik”, “Primo Ministro”) in Israele è l’inno riconosciuto dei Refuseniks che rifiutano di combattere contro i Palestinesi. Conferma dell’enorme popolarità di questa canzone, sono le numerose parodie nate in diverse occasioni, dall’opposizione alle centrali nucleari nei dipartimenti francesi del Lot del Tarn e Garonne, al ballottaggio fra Le Pen e Chirac alle presidenziali del 2002, fino alla guerra all’Iraq nel 2003 (1).

In Italia viene incisa nella versione francese originale da Margot Galante Garrone nel 1964 e da Adriana Martino nel 1970.
La prima traduzione in italiano è reperibile nell’Archivio Proletario Internazionale di Milano ed è firmata S.Catanuto, è fedele all’originale, ma non se ne conoscono testimonianze registrate. Esiste invece un provino della versione che Luigi Tenco aveva realizzato nel 1966, basandosi sul testo già modificato: anche in questa versione, non si riuscì ad inciderla su disco. Come spiega Enrico de Angelis, la traduzione di Tenco ha i limiti inevitabili del testo censurato, ma è “fedele, onesta, coraggiosa; risente del clima battagliero e ribelle delle generazioni giovani, che poi sarebbe sfociato poco dopo nell’esperienza del Sessantotto e Tenco, come al solito precursore di eventi, vi appare più ‘arrabbiato’ – come si usava dire – di quello che era invece il personaggio originale di Vian, il quale, in pieni anni Cinquanta, invitava a disertare le guerre con atteggiamento molto fermo ma anche umile, sofferente, pudico, quasi scusandosi di incitare a una cosa oggettivamente sconvolgente, ma in cui d’altra parte credeva”. Citando nuovamente Enrico de Angelis, Tenco “traduce bene – meglio dei colleghi che lo seguirono più avanti in questa piccola impresa – i due incisivi e fondamentali versi di Vian: ‘Non lo voglio più fare/ non posso più ammazzare la gente come me’(…); dichiara solidarietà non tanto alla ‘povera gente’ ma alla gente ‘come me’; non gli va di mendicare per le strade, ma preferisce subito mettersi in giro a predicare il suo messaggio pacifista; il suo finale è ancora più diretto e sfrontato di quello di Vian: ’E se mi troverete, con me non porto armi/ coraggio su gendarmi sparate su di me!” (2).
Nel 1967, sull’onda di Peter, Paul & Mary, The Sunlights, gruppo beat francese, riprende “Le Déserteur” sempre in tono moderato e la incidono anche in italiano, tradotta da un certo P.Fantozzi, che confeziona un testo in linea col pacifismo hippy del tempo, con appelli a volersi bene e a offrirsi fiori, dove il protagonista arriva a dire “io non sono un disertore”…
Per una strana coincidenza, fra il 1970 e il ’71 arrivano altre due traduzioni molto importanti. Quella di Giorgio Calabrese, autore di testi e traduttore di canzoni dal francese e dal portoghese, è la versione che nel tempo si afferma nei confronti di tutte le altre: la interpretano prima Serge Reggiani e Ornella Vanoni, vent’anni dopo la riprende Ivano Fossati come contributo all’opposizione alla guerra del Golfo per poi inciderla nell’album Lindbergh del ’92 e, fra gli ultimi viene ripresa Massimo Di Cataldo in versione pop e i Marmaja in versione folk-rock.
L’altro traduttore è il poeta Giorgio Caproni, che la traduce per lo spettacolo “L’amore, la guerra” di Achille Millo. “L’esecuzione più ferma, ironica, veramente dignitosa – secondo de Angelis – è proprio quella di Achille Millo, che pure contrasta con il testo forbito di Caproni”. Infatti “Caproni è molto letterario, ricercato, sottile, forse ironicamente scolastico(…) usa i modi tradizionalmente ‘poetici’, all’opposto di Vian, del quale questo testo fu segnalato invece per il linguaggio familiare e quotidiano: il disertore di Vian non è né il nobile illuminato né l’ideologo intellettuale, ma è proprio il poveraccio magari sprovveduto nei modi, quanto intimamente infiammato e sicuro di sé”.
Due altre versioni più recenti sono firmate da Giangilberto Monti e Renato Dibì e presentano aspetti interessanti. Monti, pure cantautore e ingegnere, ha realizzato un ottimo spettacolo basato su canzoni di Vian riproposte in italiano, registrato in cd nel 1997, che comprende “Egregio Presidente”, traduzione efficace che fa tesoro dei passaggi meglio riusciti nelle traduzioni precedenti e interpretazione che coglie in modo attuale lo spirito voluto da Vian.
Dibì, nel suo album “Canzoni nascoste” del 2002, inserisce “Io disertore”, altra personale traduzione, pure fedele, che rispetto ad altre rende bene il passaggio centrale che fa riferimento alle radici storiche del protagonista: “mio padre non c’è più, appena sono nato/ è andato via soldato non è tornato più/ da quasi un anno già mia madre è sottoterra/ si fotte della guerra e forse anche di lei/ quand’ero in prigionia m’hanno portato via/ la moglie la poesia e la mia gioventù”.

Una curiosità. E’ certo che la conclusione (“e dica pure ai suoi se vengono a cercarmi/ che possono spararmi/ io armi non ne ho”, nella versione di Calabrese) rappresenta uno dei punti di forza della canzone. Il primissimo manoscritto di Vian concludeva diversamente, con un’affermazione di tono opposto: ”dite ai vostri gendarmi che sarò armato e che so sparare”…
Vian era antimilitarista, ma sicuramente non era nonviolento, ma questo finale non lo convinse del tutto, sentendolo in contrasto col tono della canzone e con l’atteggiamento del personaggio che aveva raffigurato; lo modificò quindi nel testo universalmente noto, poco prima dell’incisione dei dischi, il suo e quello di Mouloudji. Qualcuno poi ha tentato di rispolverare e riproporre quel finale, si dice che in Francia ci sia chi continua a cantarla così e, ad esempio, resta in una versione russa e in una portoghese lusitana degli anni settanta. Ma la storia della canzone ed il pubblico hanno dato ragione al disertore disarmato, relegando quella prima idea a una curiosità d’archivio. Ed anche questo è significativo.

1) La maggior parte delle versioni conosciute in svariate lingue, quasi tutte le traduzioni italiane e alcune parodie, si possono trovare, a cura di Riccardo Venturi, sul sito: www.canzonicontrolaguerra.cjb.net

2) E.de Angelis, Traduzioni, inediti e agganci poetici, appendice in “Luigi Tenco – Vita breve di un genio musicale”, di A.Fegatelli Colonna, Oscar Mondatori 2002.

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi

Tutto il bene del mondo (Un mundo menos peor)
Argentina – 2004
regia e sceneggiatura: A. Agresti

Camminando sull’acqua (Walk on water)
Israele – 2004
regia: E. Fox
sceneggiatura: G. Uchovsky

Un ex-desaparecido. Un ex-militare dell’aeronautica argentina. Un agente del Mossad. Un giovane turista tedesco.
Quattro personaggi, due film: “Tutto il bene del mondo” di Alejandro Agresti, “Camminando sull’acqua” di Eytan Fox.
La normalità del male del secolo appena trascorso.
Una famiglia va alla ricerca del padre, desaparecido durante la dittatura militare argentina e lo ritrova “smemorato” che fa il panettiere in un paesino. Ironia della sorte è anche dirimpettaio di un ex militare d’aviazione che aveva prestato servizio durante la guerra delle Falkland-Malvinas ed ora, per sbarcare il lunario fa l’istruttore di volo per velivoli da turismo.
Uno ha rimosso il passato con un blocco psicologico, ha una nuova vita, apparentemente normale, è benvoluto da tutti; l’altro è costretto a convivere col “marchio” (merda si definisce lui) che gli viene dall’aver servito i generali golpisti.
Si può, abbandonando l’enormità del passato (ma anche la grandezza degli ideali) di entrambi e accontentandosi di vivere in “Un mondo meno peggiore” (titolo originale – più corretto – del film), trovare la chiave per elaborare i lutti e trovare la forza di andare avanti?
Un brillante agente del Mossad, al suo ritorno da un “omicidio mirato” scopre che la moglie si è suicidata. Gli viene affidata come missione “facile” la custodia di un giovane turista tedesco, in visita alla sorella. Sono i nipoti di un ex criminale nazista colpevole, tra l’altro, della deportazione di sua madre. Deve capire se sia ancora vivo ed eventualmente se il giovane sappia dove si nasconda. La conoscenza di questo giovane lo mette di fronte ad una serie di novità: il tabù del tedesco come nazista, quindi nemico. Lo “shock”- per un tipo macho come lui – della dichiarata omosessualità dell’altro. La scoperta della Germania società normale ed aperta. Anzi, proprio aver vicino il discendente di un “ex persecutore” di ebrei così libero e attento all’umanità, fa risaltare ancora di più il suo pregiudizio verso i palestinesi, tutti visti come terroristi e nemici dello stato.
Come potrà porsi un uomo abituato ad uccidere per ciò che ritiene giusto, (uno che “fa morire tutto quello che ha vicino”) messo di fronte ad un’ottica diversa dalla sua?
Memoria, oblio e giustizia sembrano le chiavi per poter descrivere questi due film, (il primo presentato al festival di Venezia, il secondo ai festival di Berlino, Toronto e Torino dove ha vinto il premio del pubblico). La memoria è un dovere, un dovere assoluto, un valore da conservare gelosamente. Ma se questo è vero – come è vero – è altrettanto vero che sulle singole vite di chi ha vissuto il male sulla propria pelle, essa può diventare un macigno che schiaccia le esistenze anche ad anni di distanza. Arriva a coinvolgere con le sue conseguenze anche persone incolpevoli come il giovane nipote, nato decine di anni dopo la Shoa o come la sorella che “espia” la colpa della famiglia trasferendosi a vivere in un kibbutz.
Come fare in modo che questa pietra resti monumentale sì, ma accanto, non sopra, ad opprimere le vite delle persone? Affidandosi all’oblio della dimenticanza? Ricostruendosi una vita “nuova” tranquilla ma senza radici? Sperando nell’oblio derivante dalla fuga in paesi compiacenti (guardacaso l’Argentina)? Confidare nella giustizia? Quale? Quella degli uomini? Quella delle Nazioni? Quella di Dio (di cui bisognerebbe “arrivare prima”)?
Entrambi i film non danno risposte universali, non ci fanno la morale. Trovano dei modi per continuare l’esistenza adatti solo a quelle personalissime vicende. In questo sta la loro forza, nel caratterizzare così finemente i personaggi da condurci quasi per mano alla conclusione che i due film non possano naturalmente finire che nel modo in cui finiscono. Non volendo poi raccontare, nonostante i temi, vicende eroiche, ma normali, non c’è da aspettarsi ritmo forsennato nella narrazione (in questo il film di Fox quando accelera diventa meno credibile), ma il giusto soffermarsi sui tempi di cui ciascuno ha bisogno per capire, pensare, agire.
Se c’è stato un male che ha cercato di divenire normalità, la normalità stessa di questi personaggi lo deve superare. Non è affatto facile, certamente non è immediato. Un po’ come riuscire a camminare sull’acqua.

Giuseppe Borroni
Coop. FuoriSchermo – Cinema & Dintorni

EDUCAZIONE
A cura di Angela Dogliotti Marasso
Viaggio all’interno dei conflitti nella relazione educativa

Alla domanda Che cosa evoca in voi la parola “conflitto”? rivolta ad un gruppo di insegnanti delle scuole elementari e medie di Reggio Emilia, con la tecnica del brainstorming, 25 risposte sono costituite da parole con accezione esplicitamente negativa (da disagio a morte, passando per guerra, sangue, violenza ecc.) e solo 13 hanno accezione positiva o, almeno, neutra (1). La disparità quantitativa e qualitativa tra i due gruppi di parole di-mostra da un lato quanto sia connotata a tinte fosche l’idea diffusa di conflitto, anche nei contesti educativi, e dall’altro quanta ansia susciti dal punto di vista emozionale il dover far fronte ad un conflitto reale.
All’origine di questi dati, insieme ad elementi più soggettivi, possiamo individuare due questioni di carattere generale relative al nostro rapporto con il conflitto:
1)l’accezione semantica negativa che la nostra cultura assegna a questo concetto ed alla parola che lo esprime.
Come dimostra il brainstorming, nel linguaggio comune – a cominciare dai mass media – conflitto è infatti “normalmente” considerato sinonimo di guerra, se non sempre guerra armata (almeno nei conflitti in ambito educativo) sicuramente di guerra psicologica. Gli studi sui conflitti definiscono invece quest’ultima una degenerazione patologica dei conflitti, uno dei suoi esiti possibili se non affrontato costruttivamente/creativamente, in una parola nonviolentemente (2).
2) il fatto che esso sia sempre considerato un gioco a somma 0.
Nella teoria dei giochi, infatti, i conflitti hanno diversi esiti possibili di cui quello vincente – perdente (ossia a somma 0, +1 –1 = 0) è solo uno dei tre modelli, pur essendo dominante nel nostro immaginario. Gli altri due sono il perdente – perdente (ossia a somma negativa, -1 –1 = – 2), che caratterizza l’esito della maggior parte dei conflitti degenerati in guerre, e il vincente- vincente (a somma positiva +1 +1 = 2), che dovrebbe caratterizzare almeno l’esito dei conflitti in ambito educativo.

Il conflitto non solo è una componente normale della relazione umana – e dunque anche di quella educativa – ma ne è una componente essenziale e anzi fortemente positiva.
La meta del viaggio è imparare a convivere con i conflitti, valorizzandoli e facendone occasione di crescita per tutti coloro che vi sono coinvolti: ossia cominciare a considerare il conflitto come risorsa, come generatore di energia che va impiegata positivamente.

In questa proposta di viaggio ci pare particolarmente utile:
a)dotarsi di un nuovo alfabeto per dire il conflitto, cominciando per esempio a non parlare più di risoluzione del conflitti – perché la maggior parte di essi difficilmente possono essere veramente ri-solti – ma della loro trasformazione da potenzialmente distruttivi in potenzialmente costruttivi per tutti i soggetti che vi sono coinvolti;
b)appropriarsi (e qui entriamo già in media res ) di una nuova alfabetizzazione teorica e pratica al conflitto in modo da acquisire e – consequenzialmente – far acquisire ai ragazzi la capacità di starci dentro costruttivamente/creativamente, ossia nonviolentemente. Come dice con un felice gioco di parole il Centro Psicopedagogico per la pace, imparare a so-stare nei conflitti (3).

Si tratta, sul piano specificamente pedagogico, di cominciare ad assumere uno stile educativo che metta in conto che non esiste più un ordine da ristabilire dopo la perturbazione, ma che la perturbazione continua è il nuovo ordine. (Un esempio plastico del nuovo e inedito scenario di normale perturbazione a cui gli insegnanti devono fare fronte è dato dall’ingresso continuo nelle classi della scuola dell’obbligo, durante il corso dell’anno, degli studenti stranieri neo-arrivati, principianti assoluti in lingua italiana, che rimettono sempre di nuovo in discussione la programmazione didattica e l’assetto, anche relazionale, del gruppo-classe.). Si tratta insomma di assumere sul serio e fino in fondo la sfida della complessità (4) e, né più né meno, di provare a realizzare un cambiamento di paradigma culturale nell’approccio educativo ai conflitti.

Pasquale Pugliese

Prima parte – Segue –

Note:

1. Ecco l’elenco completo delle parole (esperimenti analoghi condotti in altri luoghi e con altri insegnanti e/o educatori hanno dato risultati simili): disagio, rabbia, lotta, grido, silenzio, scontro, conflitto interiore, incomprensione, contrasto, guerra, tensione, dolore, difficoltà, impotenza, stanchezza, esasperazione, esitamento, rivalità, finzione, battaglia, morte, sangue, violenza, disordine/caos, aggressività; creatività, opposti, diversità, apparenza, necessità, coppia, realtà, crescita, scoperta, confronto, energia , libertà, possibilità
2. Arielli, Scotto G. Conflitti e mediazione Bruno Mondatori, Milano 2003
3. Centro Psicopedagogico per la Pace www.cppp.it Piacenza
4. vedi intervista a Edgard Morin Educazione e globalizzazione in Tracce di educativa territoriale
Reggio Emilia 2003

LETTERE
Scrivere alla Redazione, via Spagna 8 – 37123 Verona

Le faticose conquiste della difesa nonviolenta

Ho letto la lettera di Gloria Gazzeri (A.N. di dicembre 2004) e anche quelle di Sergio Albesano e di Alessio di Florio sul numero precedente. E mi sono detto: da un lato sembra che vogliamo tutto subito o niente (la Nonviolenza in tutti i suoi aspetti, senza contraddizioni e senza passaggi intermedi); dall’altro abbiamo paura dei nostri piccoli grandi passi avanti per i quali ci siamo battuti (l’abolizione della naja, le proposte di intervento alternative alla presenza militare in Iraq).
Nemmeno io sono bene informato sull’attività del “Comitato consultivo dell’Ufficio Nazionale per la Difesa civile non armata e nonviolenta”, ma non condivido lo sgomento di Gloria Gazzeri perché ho fiducia in Tonino Drago (che considero una colonna portante della nonviolenza, anche se non sempre ne ho capito e condiviso le posizioni) e soprattutto perché quell’Ufficio mi sembra un punto di arrivo dei nostri sforzi e di partenza per dimostrare al resto del mondo e dell’opinione pubblica che quando rifiutavamo e contestavamo (e contestiamo) l’esercito, sapevamo che si può e si deve costruire un altro sistema di “difesa”, più efficace, più economico, più giusto nella risoluzione dei conflitti internazionali.
Non siamo noi schizofrenici, anche se non ci mancano le contraddizioni personali, ma è l’Italia fortemente composita: i nonviolenti sono ancora un’esigua minoranza, e lo saranno sempre se non saranno capaci di incunearsi negli spazi faticosamente aperti con le lotte tra le contraddizioni di un Paese composto da tanti militaristi, da tanti democratici che ancora credono nella guerra inevitabile e nella necessità di una difesa armata, ma anche da tanti che cominciano con convinzione a dire un semplice no alla guerra e a cercare alternative. A chi ci chiede cosa proponiamo di fare di diverso di fronte a Saddam, al terrorismo, alla violenza inarrestabile, e se non sia meglio che i militari italiani rimangano a “proteggere” lo svolgimento delle elezioni irachene, possiamo rispondere che abbiamo voluto e ottenuto un apposito Ufficio dello Stato per finanziare, preparare, addestrare e impiegare corpi di intervento di pace, non armati, formati alla nonviolenza; e che se questi ricevessero non solo 400.000 euro ma anche una minima parte delle stratosferiche e vergognose risorse sprecate nella guerra potrebbero intervenire molto più agevolmente ed efficacemente in reali operazioni di pace.
Questo tipo di difesa verrà affiancata all’esercito di mestiere, che intanto il nostro governo ha mandato ad invadere l’Iraq. Ma questo lo sapevamo già: nessuno si illudeva di poter, dall’oggi al domani, cancellare gli eserciti, le lobby degli affari di guerra e il militarismo imperante. Ma non siamo noi che aggrediamo in modo violento, non siamo noi a volere ad ogni costo il petrolio. Noi facciamo invece emergere gradualmente (si può discutere se tale gradualità sia troppo lenta) i problemi della nostra società fondata sul petrolio e sulla proprietà; e infatti, insieme alle lotte per la nonviolenza stiamo già facendo lotte per le fonti energetiche rinnovabili, per un’economia nonviolenta, per modi di vita più sobri. Ma io non me la sentirei di interrompere percorsi già intrapresi per aspettare di risolvere tutte le contraddizioni di un sistema di cui non mi sento certo il principale responsabile.
In questo percorso ci ritroveremo come “nemici”, o come controparte, coloro che non vogliono perdere le ricchezze, gli eserciti di mestiere che ci aggrediranno con violenza; dovremo inventarci forme di resistenza nonviolenta specifiche e definire nuovi obiettivi per fare nuovi passi avanti. Ma intanto difendiamo ed utilizziamo al meglio non solo l’Ufficio, ma l’intero progetto per la difesa nonviolenta.

Piergiorgio Acquistapace
(Castropignano CB)
La mia obiezione
alla riforma Moratti

Signora Ministra,

il Disegno di Legge che porta il Suo nome, concernente il riordino dello stato giuridico e del reclutamento dei professori universitari, ha causato profondi e gravosi disagi nel mondo accademico, tanto fra i docenti quanto fra gli studenti, prima ancora di tradursi in atto. A quasi un anno dall’inizio di palesi manifestazioni di dissenso da parte dei diretti interessati sarebbe il caso di usare – come ripetutamente e da più voci sollecitatoLe – maggiore senso di responsabilità civile piuttosto che ostinazione e trinceramento dietro impopolari e sgradite posizioni.
Alla mia formazione di cittadino italiano, educato ai valori della Costituzione redatta all’indomani della liberazione dalla barbarie fascista, ripugna totalmente il distacco che una nuova (in)cultura di Governo ha finito per creare tra il proprio sacrosanto diritto/dovere di far funzionare il Paese e la volontà del popolo che pure l’ha delegato a questa mansione. Ho imparato che, una volta investito del suo mandato, un governo diventa il governo di tutto il Paese e che l’esercizio della democrazia non si riduce al fatto che una legge venga approvata dalla maggioranza parlamentare, tanto più quando i cittadini che ne sono direttamente coinvolti (docenti e studenti universitari, in questo caso) portano ragionevoli argomentazioni e prove circa i problemi che essa procurerebbe alla collettività. In questa prospettiva è inquietante la strategia della tensione messa in atto da Lei, peraltro in piena sintonia coi Suoi colleghi di Governo, volta ad ignorare la piazza per poi dimostrare la necessità del pugno di ferro nel reprimere inevitabili recrudescenze di violenza.
L’adesione, fino ad oggi registrata e documentata, di almeno il 60% delle università italiane, di Facoltà e Corsi di Laurea, docenti e studenti, alle campagne di agitazione e protesta condotte (a fronte della Sua totale indifferenza) con alto senso di responsabilità e coscienza civica nei confronti di un’istituzione oramai destinata alle regole della privatizzazione e del mercato (che ne faranno sempre più appannaggio di pochi privilegiati) e nei confronti degli studenti e delle loro famiglie (costretti ad affrontare cifre sempre più onerose in cambio di un servizio sempre meno stabile ed efficace) non ha in alcun modo solo l’intento di segnalarLe la preoccupazione legata al rischio dei tagli alla formazione e alla ricerca (che sembra essere, purtroppo, l’unico timore di alcuni rettori) o al futuro della figura professionale del ricercatore, ma intende ricordarLe che:
lo studio, la formazione e la possibilità della ricerca sono un diritto di ogni cittadino, e non solo di quelli più facoltosi o fortunati;
la sensibilità, l’appartenenza e la partecipazione alla vita democratica del Paese aumenta quanto più crescono, in conformità a princìpi di uguaglianza e giustizia sociale, l’educazione, l’istruzione, la formazione di coscienze civiche;
la Sua riforma della Scuola dell’obbligo nonché la rovinosa riforma dell’Università avviata da Suoi predecessori contravvengono, oltre che ai suddetti punti, ai più elementari presupposti della pedagogia contemporanea e della formazione allo studio e al lavoro, puntando quasi esclusivamente, invece, in direzione della “fabbricazione di prodotti umani”, quanto più e meglio spendibili nelle logiche del mercato e dell’alta tecnologia (ci diamo cura e intendiamo darcela anche per altro, vivaddio!).
Alla luce di tutto questo, nel ribadire la mia risoluta astensione dall’insegnamento affidatomi con incentivo (Storia delle origini cristiane) dalla Facoltà, quale vera e propria forma di “obiezione di coscienza” ad un disegno di Legge che lede profondamente e contemporaneamente diritti di lavoratori e studenti, ho deciso di tenere, da oggi, le lezioni del corso di Epistemologia delle scienze umane, per gli studenti di Scienze dell’educazione, affidatomi gratuitamente.
Il tema del corso è Formazione, in-formazione, de-formazione: potenzialità e limiti dell’informazione “pubblica” per l’educazione. Esso servirà a rinforzare e ad incoraggiare la coscienza critica degli studenti nei confronti di quei mezzi e di quelle agenzie di informazione sempre più coinvolti in operazioni di copertura del pessimo stato del mondo nel quale il capitalismo ed il liberismo ci hanno condotti e a denunciare il loro ruolo di vettori di indifferenza al bene della collettività e alla politica a favore della dignità umana. Contestualmente esso prevede, quale parte integrante del corso e senza rinunciare a nessuna delle ore di lezione né al riconoscimento dei crediti maturati dagli studenti: due prime azioni di protesta (l’occupazione dell’aula destinata ai Consigli di Facoltà e sit-in dinanzi alla sede della Rai regionale) e due prime azioni di proposta (incontri-confronto con la comunità di volontari che salva i bambini Rom da un sicuro abbandono scolastico e facilita l’inserimento di quelli extracomunitari; e con la comunità di volontari che si occupa di ragazzi diversamente abili costretti a lasciare la scuola [“pubblica”?] per la carenza di fondi destinati al sostegno), cui altre potrebbero aggiungersi conformemente alla piega che prende l’iter del Suo Disegno di Legge; e inoltre seminari, aperti pure agli studenti di altre Facoltà, tenuti da giornalisti ripetutamente minacciati dalla censura del Governo di cui Lei fa parte nel loro diritto/dovere all’informazione completa ed alla satira politica.
Senonché, quello che Lei ed il Suo Governo buttano via dalla porta, mi batterò, con forme di disobbedienza civile e nonviolente, e giovandomi della mia libertà di insegnamento (prima che me la togliate), a farlo entrare ostinatamente dalla finestra.
In tutto questo, nei modi e nelle forme che le loro discipline gli consentono e conformemente a quanto ritengono di volta in volta opportuno, conto di trovare la solidarietà dei miei colleghi.

Romolo Perrotta
Arcavata – Università della Calabria

LIBRI
A cura di Sergio Albesano

A. COZZO, Conflittualità nonviolenta, Mimesis, Milano 2004, pp. 336, euro 18.

Questo libro di Andrea Cozzo, docente universitario a Palermo, illustre studioso e amico della nonviolenza, è forse il primo lavoro effettivamente sistematico sulla nonviolenza scritto in lingua italiana, dopo l’eccellente saggio introduttivo di Giuliano Pontara premesso all’altrettanto eccellente antologia gandhiana da lui curata (M. GANDHI, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino 1973, nella nuova edizione del 1996 ampliato e con l’opportuno titolo di Il pensiero etico-politico di Gandhi).
Già il titolo e il sottotitolo (Filosofia e pratiche di lotta comunicativa) esprimono l’ampiezza e la concretezza dell’analisi e della proposta che il testo formula, ma il libro è ancora più ricco di quanto la titolazione lasci cogliere. Si articola in quattro parti: 1. Preliminari questioni di vocabolario e prime approssimazioni al concetto di nonviolenza; 2. Teoria della nonviolenza e gestione creativa dei conflitti. Come offrire un satyagraha; 3. La nonviolenza culturale; 4. La nonviolenza diretta e strutturale nelle sue applicazioni. Inoltre è impreziosito da una vasta bibliografia e da un utile indice dei nomi.
Nello svolgimento dell’opera l’autore effettua una ricognizione sistematica delle radici, delle esperienze, dell’impatto e delle proposte della nonviolenza nei vari campi della vita associata e nelle varie branche del sapere, con una chiarezza di esposizione e un rigore di analisi invero cospicui. Nella tuttora scarsa ma fortunatamente crescente letteratura sulla nonviolenza disponibile in lingua italiana questo testo si segnala per il suo straordinario rigore scientifico e filologico, per un’acribia e un’attenzione, un’ampiezza e un nitore di sguardo, una sensibilità e una moralità, per dirla in una parola, tali che ne fanno un’opera squisita, generosa, frugifera, tra le migliori disponibili.
Naturalmente molte sono le vie che alla scelta della nonviolenza possono condurre e il libro di Andrea Cozzo non ha la pretesa di segnalarle tutte, propone un approccio, una modalità, nella coscienza che altri e altre se ne diano. E’ un libro da leggere e da discutere, e non solo dalle persone amiche della nonviolenza. Peppe Sini

Jerome Liss, L’ascolto profondo, La Meridiana, Molfetta 2004, pagg. 109, € 14,00Quando parliamo di nonviolenza nella comunicazione che cosa intendiamo? Le idee di Carl Rogers, uno psicologo statunitense, suggeriscono una direzione: non interpretare, non giudicare, non dare consigli. Queste prescrizioni guidano l’ascoltatore a evitare le trappole fondamentali dell’ascolto negativo, ma resta comunque da affrontare una questione: quali sono le parole dell’ascoltatore? Come può comunicare la sua empatia in modo che la persona che confida la sua esperienza personale si senta sostenuto? Come può ascoltare una persona che si sente bloccata a
emergere dal suo impaccio e vedere la luce alla fine del tunnel?
In questa guida pratica troverete metodi concreti (parole-chiave, identificazione verbale, empatia corporea) e indicazioni per farli funzionare. Il lettore potrebbe chiedersi: “Possiedo sufficiente pazienza e maturità emotiva per metterli in pratica?”. Il libro spiega che non tutti riescono a offrire ascolto positivo con ricettività spontanea al primo tentativo. D’altra parte tutti hanno la possibilità di imparare queste tecniche con un adeguato periodo di formazione. In effetti uno dei principali strumenti dell’ascolto positivo è la metacomunicazione: ”Ho ascoltato con pazienza? O le mie idee sono state invadenti?”.
Metacomunicazione significa discutere del nostro modo di ascoltare per migliorare la nostra capacità. La comunicazione positiva non può essere una costrizione o un’imposizione. Può svilupparsi per mezzo di consapevolezza, pratica e autocorrezione. La stessa cosa accade quando si
cerca di ottenere una pace più stabile con mezzi pacifici. In entrambi i casi viene evitata la violenza. La pace e il rispetto vengono ottenuti con metodi pacifici e rispettosi. La violenza dell’insulto e la minaccia sono sempre controproducenti.

Stefano Cristofori

SCELGO LA NONVIOLENZA
Campagna di obiezione di coscienza alle guerre e di opzione nonviolenta per il disarmo economico e militare

Questa campagna avviata dal Movimento Internazionale della Riconciliazione, dal Movimento Nonviolento e dalla Rete Lilliput si è conclusa il 31 dicembre 2004 con alcuni dati positivi e con altrettanti negativi.
Fra i dati positivi possiamo annoverare il consenso che questa campagna ha trovato in molti gruppi che così stimolati hanno trovato lo spunto per fare incontri, dibattiti, e di conseguenza sostenere alcune iniziative propositive fra quelle indicate nel volantino stesso della campagna.
Altro elemento positivo è stato quello di condensare in un volantino una serie molto lunga di possibili impegni e far emergere così la realtà di un paese che fortunatamente non è completamente omologato alle decisioni del potere, si pensi anche solo alle innumerevoli manifestazioni contro la guerra in Iraq e al significato di esporre la bandiera arcobaleno. La campagna inoltre ha fatto da volano alle molteplici proposte elencate, che andavano dalla semplice indicazione di come scegliere quando si fa la spesa, alla finanza etica e anche a forme di impegno di dissociazione come l’obiezione alle spese militari o la campagna di pressione sulle banche armate.
Fra i dati negativi, o meglio i “limiti” di questa campagna, potrebbe esserci il riscontro numerico di quanti l’hanno fatta propria. A noi sono pervenute per conoscenza 653 copie della dichiarazione sottoscritta, che potrebbero sembrare poche, ma conoscendo come vanno queste cose il riscontro potrebbe essere assolutamente parziale. Sappiamo che in molte parti la campagna è stata fatta con modalità diverse e che a noi non è stato comunicato l’elenco delle adesioni, parliamo di vari pezzetti di iniziative che hanno raccolto ciascuna decine e decine di adesioni. Da un riscontro di incroci di dati di campagne precedenti, ad esempio la campagna di obiezione alle spese militari nel momento della sua massima espansione, si può dedurre che solo una parte (in genere il 15%) delle dichiarazioni sottoscritte è segnalato al centro coordinatore, un po’ per ragioni di pigrizia e un po’ perchè lo si ritiene superfluo. Per cui realisticamente possiamo dedurre che alle autorità istituzionali (Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio) siano pervenute almeno 3500-4000 dichiarazioni di obiezione, una media di 7-8 al giorno. E questo non è poca cosa se pensiamo che ogni lettera viene registrata e catalogata prima di essere archiviata.
Un altro aspetto parzialmente negativo è stato quello di essersi limitati a dare indicazioni di dove rivolgersi per attuare un impegno propositivo e purtroppo non tutti hanno voglia di attivarsi in prima persona per collegarsi a qualche iniziativa, spesso le persone devono essere prese per mano e aiutate … anche solo nella spedizione di un modulo.
Di sicuro, con poca spesa, abbiamo seminato molto e questa è l’essenza positiva e i risultati verranno.
Noi ne siamo fermamente convinti.

Piercarlo Racca
per il Movimento Nonviolento

Di Fabio