• 30 Dicembre 2024 18:37

Azione nonviolenta – Gennaio-Febbraio 2007

DiFabio

Feb 2, 2007

Azione nonviolenta gennaio febbraio 2007

– 1907-2007. Un secolo fa, il futuro, a cura di Luca Giusti
– La politica della nonviolenza alla prova della guerra; sintesi del Seminario del Movimento Nonviolento svoltosi a Verona nei giorni 21 e 22 ottobre 2006
– Azione diretta nonviolenta per distruggere gli OGM, e poi i falciatori volontari regalano sementi biologiche, intervista ad Anna Massina, a cura di Angela e Beppe Marasso
– Jean Van Lierde, pioniere europeo dell’obiezione di coscienza, ha dedicato la propria vita alle cause di giustizia e libertà, di Sam Biesemans
– I destini della Palestina e di Israele sono comuni. Il processo di pace cresce sul terreno della democrazia, di Lorenzo Porta
– La profezia di una federazione mediorientale, di Franco Perna
– La giornata del servizio civile volontario, di Alberto Trevisan

LE RUBRICHE

– Economia. Finanza etica e finanza ebraica, a cura di Paolo Macina
– Educazione. Le Scuole e i Centri di educazione alla pace in Italia, a cura di Pasquale Pugliese
– Servizio Civile. Cos’è e come lo vogliamo il servizio civile volontario? a cura di Claudia Pallottino
– Per esempio. Rita, che unisce indiani e pakistani per rompere le politiche dell’odio, a cura di Maria G. Di Rienzo
– Musica. Ma io sono il messaggio o il messaggero?, a cura di Paolo Predieri
– Cinema. Dentro il carcere di Rebibbia per ritrovare amore e umanità, a cura di Flavia Rizzi
– Giovani. La sfortuna di nascere da due genitori nonviolenti…, a cura di Elisabetta Albesano e Agnese Manera
– Libri. Dialoghi e conflitti, fra donne e poeti, a cura di Sergio Albesano
– Lettere. Famiglie, persone e degrado della politica, a cura della Redazione

1907 – 2007. Un secolo fa, il futuro.

Il termine “satyagraha” (la forza della verità) venne coniato da Gandhi per definire il suo movimento nonviolento e fu pubblicato per la prima volta sul giornale Indian Opinion, di cui egli era direttore, il 10 gennaio 1908. Fra un anno, dunque, sarà il centenario della nascita della nonviolenza gandhiana.
Vogliamo prepararci bene a questo anniversario, pubblicando ogni mese un riquadro con la rassegna stampa degli articoli usciti sui giornali del tempo che raccontano l’avvio della campagna nonviolenta di Gandhi in Sudafrica, la prima della storia. Pensiamo che Aldo Capitini quando fondò “Azione nonviolenta” avesse ben presente quale importanza affidava Gandhi alla stampa nella preparazione e sviluppo delle proprie campagne, perché ciò segna la sfida anche di questa nostra rivista oggi: creare parole nuove, sintesi di pensiero e azione.
Ogni mese vedremo cosa accadeva esattamente un secolo fa. La data riportata a sinistra di ogni passo è quella della pubblicazione.

Un secolo fa, il futuro: gennaio-febbraio 1907
A cura di Luca Giusti
3/1 su Indian Opinion (da ora IO) il primo dei discorsi alle comunità di Gandhi (indù) e Haji Ojer Ally (mussulmano) al rientro dall’Inghilterra: “Otterremo i nostri legittimi diritti se rimaniamo uniti e li chiediamo gentilmente ma con fermezza”. (…) “esso amerebbe vederci divisi perché crede che solo così il governo britannico in India potrà essere mantenuto”
5/1 “E’ stato molto gentile con gli Indiani”; IO saluta Mr. Alexander, soprintendente di polizia che lascia. Difese Gandhi (da ora G) dal linciaggio del ‘96
19e26/1 “richieste di licenza di commercianti [indiani] sono state rifiutate” (…) “offrire resistenza per legittimare mezzi costituzionali; ma anche riflettere sui nostri sbagli (…) 1) scarsa igiene; 2) libri contabili tenuti male 3) casa e negozio negli stessi locali”; G su IO invita a una resistenza autocritica
26/1e2/2 (su IO) : “Euforica per il rigetto dell’ordinanza la gente sembra addormentata ” (…) ”Sir Richard [Solomon] dice che l’Asiatic Ordinance verrà reintrodotta nel nuovo parlamento, e che il Governo Imperiale non respingerà”; a G è già chiaro che il veto è un pro forma, svuotato dall’autogoverno al Transvaal
2/2 “Durante il pasto l’Indiano cominciò a ruttare. Una signora Inglese al tavolo quasi svenne e non potè mangiare altro per tutto il giorno (…) necessario per noi mostrare considerazione per il modo di sentire degli altri”; per non offrire pretesti di “Nausea” -così titola G su IO
5/1-23/2 ogni venerdì su IO lo scritto di G “Religione Etica”

La politica della nonviolenza, alla prova della guerra

Sintesi del Seminario del Movimento Nonviolento, svoltosi a Verona nei giorni 21 e 22 ottobre.

Riportiamo una sintesi, certamente parziale ed incompleta, del dibattito aperto che si è svolto durante i due giorni del Seminario sulla politica della nonviolenza. Non c’era nessuna pretesa di giungere a conclusioni definite, ma solamente la volontà di proseguire un confronto fra amici della nonviolenza che abbiamo iniziato con la nostra Marcia Perugia-Assisi “Mai più eserciti e guerre” del 2000 e proseguito con la camminata Assisi-Gubbio del 2003, il convegno eugubino sulla difesa nonviolenta, la manifestazione del 2004 sul Ponte Europa per un’Europa neutrale e disarmata, il Congresso del Movimento del 2004 su “Nonviolenza è politica”, il convegno di Firenze del 2006 su “Nonviolenza e politica”. Una lunga riflessione corale, fatta di teoria e di azione, che troverà un momento di sintesi nel prossimo Congresso del Movimento, che si terrà a Verona nel mese di novembre 2007.
Quelli che seguono sono solo alcuni dei tanti interventi che si sono susseguiti nei due giorni veronesi (vedi An n. 11/2006 pag. 3). Non vogliamo fare un resoconto completo, che sarebbe troppo ampio, ma solamente dare l’idea della profondità e vastità del confronto di idee e proposte. Nessuno deve aversene a male se non vede pubblicato il proprio intervento: quel che conta non è la posizione personale, ma il sentire comune che abbiamo raggiunto grazie al Seminario. Il cammino è ancora lungo, ma i passi fatti sono nella giusta direzione.

La teoria della nonviolenza, sulla guerra
di Daniele Lugli, Ferrara

Se c’è un tema sul quale gli amici della nonviolenza non dovrebbero avere perplessità è quello della guerra. Contro la guerra duri come la pietra, ci dice Capitini. E aggiunge: il rifiuto della guerra è la condizione preliminare per un nuovo orientamento. È questa l’esplicita ispirazione dell’attività e della proposta del nostro Movimento, rivolta in primo luogo a organizzazioni e persone che si dicono impegnate per la nonviolenza.
In questo orientamento ci è parso, in qualche momento, essere in ampia e non cattiva compagnia. Grandi manifestazioni e un’opinione popolare diffusa si esprimevano contro la guerra. La stessa riflessione politica sembrava poter abbandonare l’idea della guerra motore della storia per vedere in essa, pur nelle differenti analisi delle cause, un flagello dell’umanità. La scienza e la pratica del diritto sembravano superare le vetuste teorie del bellum justum per porre il jus contra bellum: non c’è guerra giusta, la guerra è contro il diritto, il diritto contro la guerra. Questa stagione appare passata. Nostro compito è anche raccogliere le bandiere lasciate cadere, riprendere il filo di una politica e di un diritto che si sanno costituire contro e oltre la guerra.
Inevitabile è allora fare i conti con l’istituzione militare: con il portare le armi, prepararsi alla guerra, eseguirla nelle sue varie forme. Secondo un’inchiesta del 2000 (poco prima dell’attacco alle torri gemelle) sono le forze armate l’istituzione che più riscuote la fiducia degli europei, seguite dalla polizia e man mano dalle altre istituzioni fino a giungere ai partiti politici, sfiduciatissimi. In questo periodo di crescente insicurezza non credo che si avrebbero risultati differenti. Non basta dunque ribadire e motivare la nostra opposizione a carneficine di massa compiute dai paesi più ricchi, potenti e democratici nei confronti dei paesi più poveri, deboli e autoritari. Occorre entrare in modo più competente nel merito del funzionamento del complesso militare industriale (come si diceva un tempo), del professionismo militare, del ruolo della NATO, dell’ONU, della latitanza dell’Unione Europea, del significato di ogni singola missione all’estero. È necessario analizzare, distinguere. Distingue frequenter, numquam errabis, non sbaglierai mai, o almeno sbaglierai un po’ meno. Iraq, Afghanistan, Libano non sono la stessa cosa. La presenza del nostro esercito non ha sempre lo stesso significato. Anche se non la condividiamo, per indicarne all’opinione pubblica errori, limiti e pericoli, per costruire alternative, abbiamo il dovere di entrare nel merito, di dare il nostro giudizio politico.
Anche questo ci dovrebbe riuscire abbastanza naturale. La nonviolenza, come praticata e insegnata da Gandhi e Capitini, per limitarci a due nomi, è profondamente politica ed è critica assieme della politica comunemente intesa. Suo fine non è la conquista di un potere, da esercitare in modo più o meno democratico e rispettoso dei diritti umani (che già sarebbe gran cosa), ma la costruzione del potere di tutti. Ha il suo fondamento nella capacità di singoli e gruppi di assumere le proprie responsabilità, di rendersi capaci di teoria e prassi concrete contro le cause che producono insicurezza e paura. O si produce questa capacitazione oppure la sicurezza, che è vitale bisogno, continuerà ad essere cercata nelle forze dell’ordine all’interno e nelle forze armate all’esterno, magari nel loro rimescolamento (funzioni di polizia nelle missioni all’estero, uso dell’esercito contro terrorismo e criminalità all’interno), certamente nel loro potenziamento.
Antidoto alla voglia d’impero, all’essere dominati purché convinti di essere ben protetti, è la politica, che sa andare al di là di rituali sempre meno credibili, trovare altri protagonisti rispetto a un ceto inadeguato e screditato. Si rifonda nelle assemblee dei cittadini, nei consigli dei lavoratori, verso la formazione di un’opinione pubblica non fabbricata dalla televisione. È di sinistra, cioè dal basso, perchè da lì muove e non si dà positivo mutamento se questo non riguarda chi patisce maggiormente la violenza (diretta, strutturale, culturale). È sapiente: sa combinare l’azione fuori e dentro le istituzioni. Di questa politica, di questa critica della politica, gli amici della nonviolenza sentono la necessità e vogliono essere partecipi. Quanto si sia lontani da questa prospettiva, anche negli ambienti che si dicono pacifisti e addirittura vicini alla nonviolenza, si è bene visto in occasione del voto sul finanziamento della missione in Afghanistan. Amiche e amici impegnati nelle istituzioni, nel governo, in parlamento, hanno avuto differenti valutazioni e comportamenti, pubblicamente motivati. Analoga frattura, accompagnata da anatemi e volgarità, si è prodotta nel cosiddetto movimento pacifista. E gli amici della nonviolenza, nonostante il generoso impegno di alcuni, non hanno saputo dare un incisivo contributo.
Il senso di impotenza si è sfogato nel giudizio sul comportamento di governo e parlamento. Non vi sono governo, coalizione, partiti che coerentemente lavorino per una prospettiva di pace, difficilissima, ma possibile solo assumendo l’orientamento della nonviolenza. Ma questo lo sapevamo già. Nostro compito è favorire una riflessione e maturazione che portino alla cessazione dell’occupazione militare e a interventi che aiutino la conquista e riconquista di dignità e libertà da parte di quelle popolazioni, e segnatamente delle donne (la loro condizione è sicura misura della civiltà raggiunta, ci diceva Capitini in tempi in cui questa considerazione non era certo diffusa). Qui si misura anche la nostra capacità di interlocuzione con le forze politiche, con le donne e gli uomini più sensibili che vi operano e il cui impegno conosciamo e riconosciamo. E questo seminario, in cui la discussione si è svolta con la familiarità e la tensione alle quali tanto teniamo, ci ha mostrato i limiti di una nostra elaborazione comune.
Strategia e nonviolenza non stanno bene insieme, ci ricorda Lidia Menapace. Le parole che si usano indicano quanto non ci si sia, nel pensiero e nei fatti, liberati da rappresentazioni e modelli bellicosi e militari. Ma, ammesso che l’uso abbia fatto perdere l’originario significato, parlare di strategia appare improprio per la sua presunzione. Abbondano iniziative che si richiamano alla nonviolenza, caratterizzate come proprio quella che ci mancava oppure come capace di unificare tutte quelle in corso. Vengono solo proposte o anche avviate, per essere poi abbandonate, tramutate, riprese… Rarissima è la valutazione del loro impatto, del raggiungimento o avvicinamento dell’obiettivo prefissato, del contributo dato al maturare di un pensiero e di una pratica della nonviolenza. Sono spesso occasione di accuse, tra gruppi e persone, pure amici della nonviolenza, sulla mancata comprensione, il mancato appoggio a quella iniziativa, a quella campagna. Testimoniano della forte autoreferenzialità, della profonda frammentazione, della scarsa propensione ad approfondire e confrontarsi; di un disegno complessivo condiviso, di un pensiero strategico, neppure l’ombra.
Non manca solo la strategia, manca anche la tattica: il mettere in ordine e usare appropriatamente ogni risorsa, ogni iniziativa. Metodo e tecniche le ripetiamo, sulla scorta di Gandhi, Sharp, Galtung, Patfoort… Sono litanie che accompagnano azioni ben lontane da quegli indirizzi ovvero motivano la nostra non partecipazione a iniziative che non ci convincono. È una carenza che emerge sia nella partecipazione/non partecipazione a manifestazioni che si dicono per la pace, sia nell’impostazione di iniziative per obiettivi dibattuti e apparentemente condivisi dagli amici della nonviolenza.
Per dirla tutta, e per restare nel lessico militare, ci manca anche la logistica: la valutazione della nostra capacità di rifornire e mantenere le campagne, che spesso lanciamo, come se poi dovessero attecchire e proseguire per forza propria. C’è un problema di organizzazione, che garantisca operazioni e servizi a supporto delle iniziative, che faticosamente mettiamo in campo. Se agiamo da piccole organizzazioni isolate sentiamo ben presto i limiti della nostra capacità. Se cerchiamo attività condivise, emergono con forza le difficoltà del cooperare e del reciproco affidamento.
Noi pensiamo che questo sforzo, che assomiglia tanto a quello di Sisifo, sia tuttavia necessario. È per questo che mettiamo a disposizione di tutti gli interessati alla proposta della nonviolenza i nostri poveri, faticati, strumenti (dalla rivista, ai congressi, ai convegni, ai seminari). Ragionare assieme, sperimentare assieme crea conoscenza, fiducia, riconoscimento di diversi approcci, esperienze, capacità operative e possibilità, quindi, di azioni efficaci e comuni. Pensiamo che se anche altre organizzazioni, che alla nonviolenza si richiamano, fanno lo stesso, non mancheranno gli effetti positivi.

La pace si conquista con il sacrificio
di Adriano Moratto, Brescia

Certamente le azioni di chi è nei movimenti e lavora con iniziative dal basso sono diverse da quelle di chi governa nelle realtà istituzionali. Come ironicamente diceva don Milani, chi va al potere deve saper parlare i molti linguaggi della prudenza, a seconda delle circostanze.
Quel che conta sono i fatti. Perciò giudicherò chi governa distinguendo il mio ruolo dal suo. Distinguerò le ragioni della missione in Afghanistan da quelle in Libano. Pur essendo contrario all’uso degli eserciti (e alla portaerei garibaldina) per missioni di pace, valuterò tutti gli aspetti di novità nella missione libanese. È con questo atteggiamento che osserverò positivamente ogni iniziativa che possa ridurre la violenza nel vicino Medio Oriente. Senza illusioni e senza preclusioni. Ognuno impegnato con le sue capacità e differenze, senza pretendere e presumere di avere noi l’unica soluzione ai problemi posti dagli interventi armati.
È pacifico che c’è una palese contraddizione tra esercito e pace (o intervento umanitario, che dir si voglia). L’esercito italiano non è da meno degli altri: ricordiamo le torture in Somalia, con l’operazione Restore Hope, i bombardamenti in Kossovo, gli “annichilimenti” in Iraq e le “visite” a Guantanamo.
È nell’ambito del riconoscimento delle nostre specificità e differenze che – penso – dobbiamo muoverci. Sul piano legislativo varrebbe la pena di riprendere in mano l’articolo 11 della Costituzione.
Lidia Menapace diceva che può essere rischioso proporre con legge ordinaria norme interpretative per l’attuazione dell’articolo 11: un’altra maggioranza, un altro governo, potrebbero ri-modificarla. Può essere vero, tant’è che anche il perentorio articolo 11 è stato stravolto, ma almeno avremo avviato una discussione e stabilito alcuni punti fermi. Cominciamo ribadendo che non ci possono essere missioni all’estero con armi ed esercito a fare da paceri e da ricostruttori dopo aver distrutto e seminato terrore. È una proposta “vecchia” di tre anni e va sicuramente arricchita rilanciando le proposte positive: corpi civili di pace e difesa popolare nonviolenta; netta separazione tra interventi armati e quelli nonviolenti.
Nell’ambito delle iniziative per chiedere una legge di attuazione dell’articolo 11 ci possono stare tutte le azioni attualmente sul tappeto. Penso alla proposta di denuncia contro le basi militari nucleari, al controllo della produzione e della vendita delle armi, all’Accademia della Nonviolenza – per preparare i futuri corpi civili di pace e sperimentare modelli di difesa popolare nonviolenta – e alla campagna per l’OSM, che deve riuscire a darsi un obiettivo più efficace, oltre all’attuale seppur positivo significato simbolico. Si potrebbe studiare un meccanismo per finanziare “la pace” in modo da far diminuire realmente e proporzionalmente le spese militari. Quello che non si è riusciti a fare con il Servizio Civile per “indebolire” l’esercito ed il militarismo potrebbe essere studiato per il finanziamento delle attività per le interposizioni nonviolente nei conflitti.
Non ci sono state conquiste nonviolente senza il sacrificio personale. Negli anni ’60 la campagna anti-segregazionista in Alabama con il boicottaggio degli autobus durò 381 giorni e c’era gente che si faceva 20 chilometri al giorno per affermare il proprio convincimento. Se ci diamo – con poca modestia e molta ambizione – l’obiettivo della pace, dobbiamo anche darci un carico di riflessione, di ascolto, di sacrificio e di notti insonni proporzionato alla nostra meta, perché niente viene mai regalato.

Non dobbiamo cambiare i partiti ma noi stessi
Claudio Pozzi, Napoli

Nel 1972 feci obiezione di coscienza al servizio militare affrontando il carcere. E, se allora mi rifiutai di indossare la divisa, oggi non posso che dire un NO deciso alla guerra.
Le truppe italiane in Libano certamente stanno svolgendo un compito importante, sono truppe di interposizione armata e stanno mantenendo una tregua, ma dobbiamo avere chiara una cosa: non stanno costruendo la pace, non lavorano per la pace. La pace non si costruisce con le armi.
Noi nonviolenti abbiamo il dovere di indicare strade diverse per la risoluzione dei conflitti con forme di intervento non armato e nonviolento, ad esempio i Corpi Civili di Pace.
Condivido però anche l’affermazione che dobbiamo prima di ogni altra cosa togliere la violenza che è in noi. Nel carcere militare di Gaeta, dove ero l’unico obiettore, c’erano pregiudicati comuni, quelli che avevano già commesso altri reati prima di arruolarsi. C’era quindi una situazione di forte tensione tra gli stessi detenuti.
Ovviamente ci avevano tolto le armi, come posate non avevamo coltello e forchetta ma solo un cucchiaio, ma pur di tenere un’arma alcuni detenuti lo affilavano sfregandolo sulla pietra del pavimento e ne ricavavano un’arma da taglio.
Ciò vuol dire che è vero… la violenza l’abbiamo dentro di noi. Possono anche toglierci le armi ma, se vogliamo fare del male a qualcuno, ce le inventiamo.
Non credo sia possibile un partito della nonviolenza. Ho fatta esperienza nei partiti, ne sono dovuto scappare. Ho assistito a lotte di potere tra gruppi dirigenti. Si è capaci di calpestare anche il migliore amico, il proprio compagno di strada, pur di raggiungere il potere o semplicemente maggiore visibilità. Basta avere una posizione leggermente critica verso il gruppo dirigente per essere bruciato.
Allora avevo deciso: basta con i partiti. Ho contribuito in maniera determinante alla costituzione di una lista civica di giovani, costruita dal basso, con assemblee nei quartieri, tra la gente. Lista trasparente, codice di comportamento, trasparenza del bilancio della campagna elettorale, rotazione degli eletti. Dicevamo agli elettori: “Non c’è bisogno di dare la preferenza, basta il voto di lista, siamo un gruppo compatto, poi faremo la rotazione di tutti i candidati”. Ottenemmo il risultato di prendere 5 consiglieri su 16 ma, quando venne il momento, ci furono problemi nella rotazione… e nessuno si dimise. Il gruppo fallì, si sciolse. Ciò vuol dire che siamo noi quelli sbagliati.
Poi sono tornato nel movimento pacifista e ho trovato difetti simili a quelli che avevo lasciato nei partiti: divisioni, gelosie. Ognuno crede di avere la verità in tasca e gli altri sbagliano sempre. Ma vogliamo renderci conto che c’è un poco di verità in ciascuno di noi?
Non ci credo ai partiti, neanche ad un eventuale Partito della Nonviolenza. Ci lasceremmo stritolare dagli stessi meccanismi. È la società che dobbiamo trasformare, noi stessi innanzitutto. Comportiamoci differentemente, mostriamoci forti ed uniti, con una sola voce, e faremo molto di più. Con un partito della nonviolenza quanti deputati potremmo prendere? Forse di meno di quanti ne abbiamo oggi sparsi qua e là. La forza ce la può dare un movimento dal basso veramente unito e questo dipende da noi! Al massimo possiamo pensare di inserire nostri rappresentanti in maniera trasversale nelle formazioni politiche già esistenti.
Ma quando diciamo “NO al partito dei nonviolenti” non intendiamo certamente “NO a fare politica” Qualunque nostra azione individuale o collettiva che si propone di modificare la società è fare politica!
Sul fatto se l’azione diretta nonviolenta sia del singolo o di tutti, faccio riferimento alla campagna che portò all’approvazione della legge sull’obiezione di coscienza.
Fino ad allora vi erano stati casi singoli di obiezione (prima Pietro Pinna nel 1948, poi negli anni successivi Giuseppe Gozzini e Fabrizio Fabbrini). Con le loro azioni individuali avevano senz’altro espresso un gesto di coerenza ed avevano contribuito a sensibilizzare delle coscienze, ma non avevano ottenuto risultati politici. Quando negli anni ’71 – ’72 i casi di obiezione furono qualche decina, supportati da dichiarazioni collettive e da forti movimenti di opinione pubblica, allora si ottenne l’approvazione della legge.
I casi di obiezione cominciavano a fare paura, il mio, in quanto cattolico, era temuto in modo particolare. Si aveva paura che passasse l’idea che i cattolici dovevano fare obiezione in quanto tali, perché Gesù aveva detto “porgi l’altra guancia” o “ama il tuo nemico”. Mentre ero dentro gli amici della mia comunità andavano a passare la visita di leva e venivano esonerati. Io stesso fui visitato in carcere e, per una malattia epidermica che precedentemente non mi avevano riconosciuto come motivo di esonero, mi dettero il congedo. Avrei anche affrontato la seconda e la terza obiezione, ma, vi assicuro, il carcere era duro e fui contento di uscire con il congedo in tasca. Uscii nell’ottobre del 1972 e nel dicembre fu approvata la legge.
In conclusione: servono le azioni individuali ma i risultati politici si ottengono con le azioni politiche collettive. Quindi il mio è un caloroso invito a metterci insieme. È importante che ciascun movimento abbia una propria specificità e continui con le proprie esperienze, le proprie azioni. Queste differenze costituiscono una ricchezza perché vuol dire che ogni gruppo è calato nei quartieri, tra la gente. Ma per alcuni importanti obiettivi comuni è necessario unirsi.

Promuovere l’obiezione alle spese militari
di Lorenzo Scaramellini, Chiavenna

Faccio parte di due realtà, l’Agenzia per la Pace della provincia di Sondrio, una piccola associazione locale, e la Campagna OSM/DPN (Obiezione alle Spese Militari per la Difesa Popolare Nonviolenta) dove sono membro del Coordinamento Politico.
Come qualcuno di voi ricorderà, le nostre strade si sono incrociate spesso, in passato. Alla fine degli anni ‘70/primi anni ’80 col nostro gruppetto a Chiavenna eravamo stati “sezione del Movimento Nonviolento”, condividendone le iniziative, dalla Campagna di restituzione dei congedi militari a quella che allora si chiamava “obiezione fiscale”.
A beneficio di chi non è aggiornato, dirò che oggi la Campagna è decisamente cambiata rispetto ai primi anni: in particolare si è scelto di perseguire modalità più semplici, pur mantenendo la disobbedienza civile come possibilità tuttora praticabile. La filosofia di fondo è spostare il peso della Campagna, le sue possibilità di incidere politicamente, da pochi gesti forti a molti gesti, individualmente meno impegnativi che traessero però la loro forza dal numero significativamente elevato dei partecipanti.
Così, oggi, per aderire alla Campagna sono sufficienti 3 piccoli gesti:
1)sottoscrivere la dichiarazione di obiezione di coscienza alle spese militari, assumendo una presa di posizione tutta “politica”: affermare la propria contrarietà assoluta, radicale, per motivi di coscienza, alla guerra;
2)affermare di condividere gli obiettivi politici della Campagna OSM/DPN: una legge di opzione fiscale che riconosca a tutti i cittadini, in sede di dichiarazione dei redditi, la possibilità di scegliere tra il finanziamento della difesa armata e quello della difesa popolare nonviolenta, e l’istituzione di un Ministero per la Pace (un obiettivo che anche il Movimento Nonviolento aveva inserito nella sua lettera aperta ai candidati alle ultime elezioni politiche) su cui far convergere tutte le attività in materia di pace, servizio civile, risoluzione nonviolenta dei conflitti ecc.;
3)allegare la ricevuta di un versamento a scopi di pace, effettuato nel corso dell’anno a favore di progetti, iniziative, associazioni diversamente impegnate a promuovere gli obiettivi politici della Campagna OSM/DPN, diversamente attive a favore della difesa popolare nonviolenta.

Da un paio d’anni, anche su mia iniziativa personale, il Movimento Nonviolento e il MIR stanno osservando, dall’esterno, la Campagna OSM/DPN. Ecco, la mia proposta oggi è proprio quella di passare dall’osservazione al coinvolgimento, magari occupandosi proprio di trovare i modi possibili per ridare centralità alla disobbedienza civile dentro la Campagna OSM/DPN, di elaborare proposte mirate in questo senso.
Augurandomi che altri vogliano riprendere, coi loro interventi, il tema dell’OSM concludo allora con tre inviti:
a ciascuno di voi, visto che stiamo ragionando su un’obiezione di coscienza, su una scelta che in primo luogo coinvolge il piano personale, perché individualmente valutiate l’opportunità di cominciare/riprendere a fare obiezione di coscienza alle spese militari;
al Movimento Nonviolento, perché passi dall’osservazione ad un nuovo coinvolgimento diretto nella Campagna OSM/DPN;
a Mao e alla redazione di Azione Nonviolenta, perché apra un dibattito tra i lettori sulla Campagna OSM/DPN favorendo il confronto e la ripresa di attenzione su questa iniziativa.

Tre urgenze: Medio Oriente, Corpi Civili, Nucleare
di Renato Solmi, Torino

Anzitutto vorrei dire che il Movimento Nonviolento, che dovrebbe accogliere nel suo seno, come associazioni aderenti, tutte quelle forze organizzate che condividono i suoi principî e le sue prospettive ultime, dovrebbe costituirsi come un interlocutore continuo del governo di centro-sinistra. Grazie a questo allargamento quantitativo (ma non solo), dovrebbe essere in grado di influire sulle scelte governative e potrebbe anche, a certe condizioni, entrare a far parte di esso con alcuni suoi rappresentanti. Non dico domani, che sarebbe certamente impossibile, ma, per così dire, nelle intenzioni perché, in definitiva, l’importanza delle questioni su cui esso è competente e delle linee d’azione che dovrebbe promuovere è tale, che solo una partecipazione diretta al governo in posizioni decisive potrebbe consentirgli di soddisfare, almeno in parte, le esigenze imprescindibili di cui si è fatto sostenitore e la cui realizzazione comincia a presentare un carattere di assoluta necessità e di estrema urgenza.
Questa evoluzione del Movimento, oltre ad essere indispensabile ai fini della soluzione di problemi fondamentali della società italiana (ma anche della società europea e internazionale, che è accomunata ormai da uno stesso destino), mi sembra necessaria anche dal punto di vista della sua maturità o della sua maturazione, perché è chiaro che solo l’esercizio di responsabilità di direzione e di governo della cosa pubblica può sottrarlo a una condizione di dualità, starei per dire, stratosferica fra la dimensione delle idee e degli esperimenti più o meno simbolici e quella della trasformazione e del contatto diretto con la realtà.
Che questo momento sia giunto, è stato illustrato, in modo estremamente persuasivo, dal dilemma in cui il movimento si è venuto a trovare al momento della scelta se partecipare o meno alla missione di pace e di interposizione nel Libano, in cui le posizioni estremistiche o “puristiche” sono state, in definitiva, sconfitte dalla necessità di fare qualcosa, coi mezzi attualmente disponibili, per porre termine, sia pure transitoriamente, ai massacri in corso nel Vicino Oriente (o, per dir meglio, in una parte limitata di esso), anche a costo di andare incontro a gravissimi rischi, e nella consapevolezza della fragilità delle basi e dei supporti su cui tutta l’operazione avrebbe dovuto poggiare in seguito.
A questo punto, però, è giocoforza partire dalla situazione che si è venuta a creare e in cui siamo inestricabilmente inseriti, ma da cui dobbiamo cercare di uscire nel migliore dei modi e cioè modificandola gradualmente, se necessario, ma tenendo sempre d’occhio la direzione in cui ci si muove e gli obbiettivi che ci si propone di raggiungere. Mi sembra che questa impostazione possa e debba conferire ai nostri sforzi una concretezza che ci verrebbe completamente a mancare se ci rifiutassimo di prendere atto della realtà, e ci illudessimo di poterci rifugiare in una posizione puramente negativa di adesione fermissima a principî oggettivamente inapplicabili. Potrebbe essere il caso di richiamarsi alle Mains sales di Jean-Paul Sartre, e alla sua consapevolezza del fatto che siamo sempre “in situazione”, e che non possiamo prescindere dalle circostanze di essa se vogliamo realmente affrontare e possibilmente risolvere i nostri problemi.
Se adottiamo questo punto di vista, ci rendiamo subito conto del fatto che
nel Medio Oriente si è venuta a determinare una situazione irreversibile che non possiamo pensare di risolvere con un’occupazione definitiva del Libano meridionale, e cioè con un’interposizione permanente fra le due parti contrapposte in conflitto. È quindi necessario procedere subito alla convocazione di una conferenza internazionale, a cui dovrebbero prendere parte tutte le nazioni direttamente interessate (Israele, Palestina, Libano, Siria, Giordania ed Egitto), mentre le nazioni che partecipano alla forza di interposizione dovrebbero svolgere un ruolo di consulenza e di aiuto. Quelle che non partecipano direttamente ad essa farebbero meglio a restare in disparte e ad allontanarsi, se possibile, dalla scena. La limitazione del problema a quest’area apparentemente troppo limitata potrebbe essere indispensabile per avviare a soluzione il problema israeliano-palestinese, lasciando momentaneamente da parte la questione irachena, nonostante l’estrema gravità della situazione che si è venuta a creare in quel paese e, a maggior ragione, la questione del nucleare iraniano, che appartiene ad un’agenda diversa, e che rientrerebbe piuttosto nella trattazione del punto 3.
Il secondo problema, che presenta però anch’esso un’urgenza molto elevata, è quello della costituzione di corpi civili di pace nel nostro paese, che potrebbero essere indispensabili allo scopo di rendere più tollerabile, per non dire addirittura più desiderabile, la presenza di forze di occupazione straniere nel Libano, e domani, magari, in altre regioni dilaniate dalla guerra esterna (e cioè dall’aggressione di una potenza straniera) o da quella civile. Questa iniziativa naturalmente potrebbe (e dovrebbe) essere fatta propria anche da altri; ma cominciamo noi a metterla in atto, sotto la spinta della necessità immediata e di un sentimento di responsabilità che ci farebbe onore. E diciamo pure che per noi il fallimento della missione nel Libano, che si tratta di prevenire anche con questo mezzo, avrebbe conseguenze particolarmente disastrose perché determinerebbe, con ogni probabilità, la caduta del governo Prodi e l’avvento di una situazione tutt’altro che propizia all’esercizio di qualsiasi attività in favore della pace nel Medio Oriente e in tutto il resto del mondo.
Il terzo punto è un problema della massima importanza, e che è venuto ad acquistare, negli ultimi tempi, un’urgenza sempre maggiore, ma la cui responsabilità deve essere imputata, piuttosto che ai “cattivi” di turno – il governo iraniano e quello paleocomunista della Corea settentrionale – alle grandi potenze nucleari che, a cominciare dagli Stati Uniti, si sono guardate bene dall’ottemperare agli obblighi imposti dal trattato di nonproliferazione nucleare del 1984. Secondo il trattato le potenze nucleari avrebbero dovuto procedere a un disarmo graduale, nella prospettiva di un’abolizione totale di questo genere di armi. L’importanza di questo problema è dovuta al fatto che esso rappresenta un vero e proprio bivio (o nodo cruciale) della storia, che ci pone di fronte a una scelta decisiva. Guai a noi se cercassimo, come stiamo facendo, di eluderla, nella speranza o nell’illusione di poter perpetuare indefinitamente una situazione di predominio (del 20% della popolazione mondiale) sul resto del mondo, garantita e quasi simboleggiata dalla partecipazione al monopolio nucleare, e se non leggessimo il “mane tekel fares” che sta scritto a chiarissime lettere sulle pareti delle nostre stanze. Come ha scritto Alex Zanotelli, che ha avuto il merito di imprimere un fortissimo impulso all’avviamento di questa campagna: “Ritengo questo mio impegno contro le bombe un impegno profondamente missionario ed in questo mi sento in sintonia con le parole dell’allora arcivescovo di Seattle Hunthausen: ‘Abbandonare queste armi nucleari significherebbe qualcosa di più che abbandonare i nostri strumenti di terrore globale; significherebbe abbandonare le ragioni di tale terrore: il nostro posto privilegiato in questo mondo!’ La pace e la giustizia procedono insieme”, mostrando di avere perfettamente presente la connessione fra l’egoismo dei ricchi e dei potenti, che hanno bisogno delle armi, sia all’interno delle nazioni che nei rapporti che intercorrono fra di esse, per salvaguardare le proprie posizioni di privilegio, e lo spettro incombente di una guerra che potrebbe condurre alla distruzione della specie umana e all’estinzione di gran parte delle forme di vita nel nostro pianeta.

Deporre le armi dentro di noi
di Elisabetta Pavani, Ferrara

Le mie considerazioni partono da alcuni dialoghi con Pietro Pinna, non molto tempo fa. Non conosco Pietro da molto tempo, ma ho avuto occasione di scambiare con lui alcune riflessioni e pensieri sinceri.
Ci confrontavamo a proposito del mio lavoro: sono operatrice presso un’associazione di volontariato che si occupa di fornire accoglienza, consulenza psicologica, legale e sopratutto ospitalità a donne italiane e straniere con figli che sono vittime di violenza e abusi domestici. Vi è per questo una casa di protezione. Oltre a questo, accogliamo donne straniere che escono dalla prostituzione di strada e che sono state oggetto di tratta e sfruttamento.
Figlia e forse un po’ sorella minore del femminismo, ma comunque attivista odierna all’interno degli attuali movimenti delle donne che hanno portato le stesse a riunirsi e a creare le case di accoglienza, mi rivolgevo a Pietro Pinna con un linguaggio che evocava più separazione e separatismi, piuttosto che un dialogo sereno sulla differenza di genere.
Pietro mi interruppe e disse: “Attenta, non occorre parlare di separazione, ma di distinzione”.
Ci riflettei sopra con fatica, perchè ho dovuto lottare tanto per autodeterminarmi, prima all’interno di una famiglia, poi nella società non sempre accogliente, però aveva ragione.
Durante un laboratorio tenutosi a Ferrara nel mese di ottobre 2006, dal titolo, “Nonviolenza e politica in Hanna Arrendt”, Pietro ci invitò a mettere da parte quelle che erano le considerazioni sulla violenza “globale e mediatica”, per interrogarci nel profondo e capire come noi, presenti quella sera, percepissimo la violenza che abbiamo dentro. Come la affrontavamo e cosa intendevamo per trasformazione nonviolenta.
Credo davvero che la prima azione da fare sia quella di deporre le armi dentro di noi, di incominciare a pensare da nonviolenti e da nonviolente.
Le guerre che noi conosciamo arrivano anche sui nostri opulenti marciapiedi che le ragazze nigeriane e le donne dell’Est Europa percorrono ogni notte, governate da invisibili e potenti organizzazioni violente e criminose.
Credo sia doveroso preoccuparsi di dare un fondamento giuridico alle istituzioni che si occupano di corpi di mediazione civili, organizzare e avvallare lo scenario delle polizie internazionali come osservatorio sui luoghi di conflitto bellico, ma è anche vero che, ogni volta che un uomo osserverà frammentando e parcellizzando nelle nostre città una prostituta coatta, non ha solo violentato simbolicamente il corpo di una donna o di una ragazza, ma ha spezzato dentro di sé il ponte che lo poteva accompagnare alla nonviolenza.

Spiritualità e purificazione interiore
di Federico Fioretto, Varese

L’incidentale mancanza dei colori viola e arancione sui cartelli in sala mi fa pensare alla necessità di recuperare più strettamente il senso della spiritualità e la dimensione della disponibilità alla rinuncia nella nonviolenza, del resto fondanti negli insegnamenti dei maestri della nonviolenza, da Gandhi a Capitini.
Ci si è chiesti chi sono i “criminali” che vogliono la guerra. Penso che siamo tutti noi, nel senso che ogni nostra violenza residua, sia quella che Gandhi definiva diretta, sia quella indiretta (dunque dall’insulto al pettegolezzo, allo spreco, alla discriminazione e così via – diversa è solo la scala della violenza compiuta), si somma al “monte” di violenza dell’Umanità e, dunque, contribuisce a ogni guerra.
Possiamo lavorare per esempio sui consumi, sugli stili di vita più sobri e solidali e, nel frattempo, ben vengano tutte le vie intermedie che possono interrompere le carneficine.
Quanto alla possibilità di comporre un partito della nonviolenza, come uno schieramento da una sola parte, io credo sarebbe un ostacolo. La nonviolenza è un valore troppo universale per mutilarlo al fine di contenerlo in una sola parte politica. Bisogna avere un orizzonte ben preciso ma, seguendo l’insegnamento di Gandhi (“noi siamo signori del mondo dello sforzo, Dio è il solo Re del mondo del risultato”), concentrarci su un continuo perfezionamento dei mezzi e su una purificazione di noi stessi. A questo, non importa quanto lontano nel tempo, seguirà automaticamente la realizzazione di un mondo privo di violenza.

Lottare contro le nostre vere oppressioni
di Luca Giusti, Genova

“Quanto è essenziale che una campagna sia intrapresa da posizione di “oppressi”?”.
Come un grande tacchino che saltella e sbatte le ali provando un impossibile volo, il sistema militare-industriale simula una sua improbabile sostenibilità sollevando punti di oppressione che genera su noi benestanti. Abolendo la leva obbligatoria ha rimosso un’oppressione che stava spostando verso l’obiezione terze parti che forse sarebbero rimaste a guardarsi “in pace” la guerra in tv. Riducendo gli spazi di obiettabilità alle spese militari, ha sottratto altri punti di attivazione di dinamiche di liberazione attraverso il ritiro della collaborazione e l’obiezione a costrizioni.
Pietro Pinna su AN 7/04 rispondeva così a una domanda sul perchè i primi GAN scelsero di impegnarsi sull’obiezione di coscienza: “Il punto di forza della nostra dedizione all’azione, era che non si trattava di un ideale astratto o di una realtà lontana da noi, ma che riguardava la nostra stessa vita…”. In effetti da simili punti di forza veniamo sempre più allontanati in direzione di un’azione che è rappresentazione simbolica, irrimediabilmente “teatrale”; oppure “diretta” ma nel ambiguo senso di reazione antagonista a grandi eventi mediatici o a muri che si innalzano.
Sappiamo che è interesse dell’oppressore spostare la sfida dalla realtà del terriccio del pollaio all’etere di pochi:
perché sul piano materiale non ha le carte in regola;
perché controlla i media;
perché poi ci si involve in schemi simmetrico-antagonisti, opposti alla trasformazione nonviolenta;
perché al salire del livello di conflitto il simbolico perde di forza.
Confidando nel fatto che il tacchino non imparerà mai a volare (impronte appesantite dall’opera di simular sostenibilità) occorre sfuggire tale contesto che condiziona il movimento, non fino a renderlo morto, ma certo poco fertile.
Qualcuno potrebbe far notare che questo ritorno alla concretezza si è già manifestato almeno in due sensi:
1) azioni convincenti sono ripartite su emersioni “locali” in risposta a danni concreti per la salute. E’ comprensibile a tutti che a Scanzano Ionico padri e madri preoccupati saltassero le deleghe.
2) conflitti negati si riaffacciano amplificati: a) benestanti viviamo negazioni dei diritti civili fondamentali nel nome della “sicurezza” nella guerra permanente; b) benpensanti laureati, sepolti nel precariato; c) customer senza più care, rivenduta come optional nel modello premium; d) cittadini senza fondamentali beni comuni, anche qui prontamente rivenduti come servizi: e) sicuristi ossessionati dalle catastrofi in televisione, le sentono bussare alla finestra.
Non penso però che queste novità ci evitino di rispondere alle domande:
il buon localismo frammenta la massa critica necessaria per grandi cambiamenti;
la pedagogia delle catastrofi non convince, e non solo perché arriva tardi.
Occorre il salto di consapevolezza che ci siamo proposti al congresso di Gubbio in forma di percorso verso una campagna nazionale.
Mi sembra ad esempio importante articolare meglio la scelta del tema della campagna, almeno su tre piani:
Passione: da che cosa hanno urgenza di liberarsi le persone del movimento? Necessaria ma non più sufficiente premessa per la costruzione della dedizione all’azione.
Evidenza: offriamo alle terze parti un senso di proporzione tra la necessità di liberarsi per chi agisce e il peso degli strumenti che adotta? Consideriamo che i media spesso trasformano l’”uomo planetario” costruttivo e empatico in “no-global”distruttivo e antipatico, che si apre al mondo col passamontagna per chiuderlo a suon di mazzate.
Perseguibilità: quanto vasto o difficile è l’obiettivo da raggiungere? Le terze parti, per innato “buon”senso, non aderiscono a obiettivi che appaiono irrealizzabili (cfr. profezia autoadempiente).
Occorrerebbe forse lavorare anche sul fatto che non riusciamo a riconoscere le nostre vere oppressioni perché sono di tipo nuovo, centrate su beni secondari divenuti primari, ma soprattutto perché in parte ad esse aderiamo.
Non rinunciamo quindi alla sfida di puntare verso il baratro che abbiamo davanti in modi più “diretti”, ma diamo al termine piuttosto un senso di aumento dell’intensità di adesione, messa in gioco della dimensione corporea “più profonda, più lenta, più soave” e non scattante marionetta lanciata sull’ennesimo palcoscenico, nell’ulteriore sua separazione dallo spirito. “Diretti” verso il baratro, ma in bicicletta, con mezzi faticosi ma di cui possiamo fare un uso consapevole (obiezione e opzione anzitutto) per avvicinarsi alla dimensione degli esclusi. E’ il campo d’azione del programma costruttivo: ribadire e rafforzare il limite tra noi e un modello di sviluppo che lusingandoci ci trasforma in agenti di autodistruzione. Praticare il limite per rafforzarsi dentro e contemporaneamente per allargarlo e renderlo accogliente e riconoscibile per altre minoranze di questa Babele, sulla strada della minima maggioranza costruttiva.

Accettare la fatica del dubbio e della fallibilità
di Enrico Peyretti, Torino

La guerra è il meno: le violenze strutturali e quelle private (su donne, bambini) sono enormemente più micidiali in numero di vittime e di lunghi dolori.
La guerra è il più: perché è violenza istituita, giustificata, calcolata a freddo.
Non basta assolutamente il NO popolare alla guerra. La nonviolenza va più a fondo e più avanti del pacifismo: essenzialmente contrasta la violenza culturale e costruisce metodi nonviolenti per gestire i conflitti.
La nonviolenza – insegna Gandhi – non è un assolutismo: è l’azione per ridurre quanto più possibile la violenza, inevitabile anche nel vivere più semplice.
La nonviolenza non è un volo ma un cammino, una gradualità ben orientata. Oggi non si tratta di non fare la guerra, che c’è, dilagante; si tratta di farne sempre meno, se possibile; dalla guerra piena all’interposizione, sebbene militare, c’è un cammino verso la nonviolenza. Sì alla polizia internazionale, da costituire come tale (v. Carta Onu), proseguendo verso i corpi civili di pace.
Non ammettere la gradualità ben orientata è astrattezza, è appagarsi dell’affermazione ideale, è meritare l’immagine corrente dei nonviolenti come “anime belle”.
La politica è fatta di valori, idee, numeri.
I valori sono gli ideali (positivi o negativi), gli obiettivi.
Le idee sono i programmi concreti, i percorsi, nel possibile e necessario, mediante compromessi dinamici.
I numeri sono i consensi necessari in democrazia per attuare i programmi verso gli obiettivi.
Le proposte della cultura politica nonviolenta, presentate all’Unione nel dicembre 2005, sono cadute quasi totalmente nel vuoto: qualcosa (corpi civili di pace europei) compare nel programma scritto, ma la cultura e volontà della quasi totalità della classe politica è ignara, lontana o estranea alla nonviolenza.
La nonviolenza ha 1, forse può elaborare 2, non ha assolutamente 3 in misura da poter contare nella politica di fatto. Perciò, prima di tutto, deve continuare a fare cultura, educazione, propaganda ideale, esperienze, pur premendo quanto può sulla politica operativa.
Fare politica nonviolenta è assolutamente necessario, ma è ancora impossibile. Il divorzio (ripudio) tra politica e violenza è ancora da fare. Altra cosa è la forza, che non si può identificare con la violenza.
Propongo di pensare e cercare di costruire una Federazione Politica Nonviolenta, in cui i vari movimenti e associazioni nonviolente si aiutino a vicenda nel convergere a costruire una concreta cultura politica nonviolenta.
La nonviolenza alla prova della guerra deve accettare la fatica del dubbio, delle perplessità, del “fallibilismo” gandhiano: fare “esperimenti con la verità” vuol dire lasciarsi provare dalla verità.
Custodendo alcune essenziali dubbiose ma irrinunciabili chiarezze (non sempre certezze), dobbiamo evitare fideismi, ortodossie, dogmatismi, che portano a scomuniche (il nonviolento più puro scomunica e condanna quello meno “puro”). Dobbiamo dibattere tra noi in spirito di ricerca. La nonviolenza non è una ricetta, ma una ricerca.
La lezione del realismo non spegne l’ideale persuaso e intimo. La regola dell’azione non è il risultato prossimo, ma la fecondità profonda.

I piedi per terra e la testa tra le nuvole
di Sergio Albesano, Torino

I militari si preparano alla guerra e ciò è ovvio, visto che quello è il loro compito. Gli amici della nonviolenza devono invece prepararsi alla pace. Lo facciamo? Oppure ci limitiamo a rincorrere i militari e le loro guerre, cercando di opporci a esse? Dobbiamo fare in modo che siano invece loro a rincorrere noi e le nostre iniziative.
“Far uscire la guerra dalla storia” è una meta che, almeno parzialmente, dobbiamo raggiungere adesso, per questa generazione, e non fra mille anni, per il semplice motivo che fra mille anni noi, oggi viventi, saremo tutti morti.
Durante il seminario è stata citata una frase di Aldo Capitini del 1968. Bella, ma il tempo non si è fermato quarant’anni fa! Se Capitini fosse ancora vivo, oggi scriverebbe cose diverse.
Noi dobbiamo dare ai giovani il diritto di continuare a sognare. Dobbiamo avere un comportamento per cui i giovani possano avere fiducia in noi. Dobbiamo dare testimonianza, mettendoci in gioco. Che cosa siamo disposti a rischiare, a fare, a dare e anche a perdere? Dobbiamo offrire la nostra vita, che non significa la nostra morte, ma il nostro tempo e le nostre energie. Prima di noi qualcuno ha incominciato ed era solo perché credeva nella giustezza di quello che faceva. Dobbiamo credere nel nostro impegno al di là dei risultati, perché certi gesti hanno un valore in sé, al di là dei risultati concreti che producono. Ciò non significa non essere concreti. Con uno slogan possiamo dire che dobbiamo avere i piedi per terra e la testa fra le nuvole.
Quanti ragazzi sono stati presenti al seminario? Un’esigua minoranza. E quanti di loro sono andati al tavolo dei relatori per fare un intervento? Credo nessuno. Dunque, a chi vogliamo lasciare la nostra eredità e come vogliamo farlo?
Un primo passo è stato realizzato con l’organizzazione di campi estivi per i giovani e per le loro famiglie. Inoltre è in fase di creazione il gruppo giovani del Movimento Nonviolento, che, oltre a tenere un’apposita rubrica su “Azione nonviolenta”, sta cercando di organizzare incontri di formazione per i giovani con lo scopo di fornir loro le nozioni base sulla nonviolenza. Infine si potrebbero organizzare, in accordo con alcuni insegnanti, momenti di formazione sulla nonviolenza nelle scuole, con interventi di persone preparate sull’argomento, con la proiezione di filmati storici sulle lotte nonviolente, cineforum, momenti di lettura e di studio di testi fondamentali, ecc.

La nonviolenza è azione culturale e politica
di Pasquale Pugliese, Reggio Emilia

Sgombriamo subito il campo da una ipotesi o, forse, una tentazione: le ragioni che spinsero Aldo Capitini a non aderire al Partito d’Azione quando in esso confluirono la maggior parte dei suoi amici e compagni antifascisti, con i quali aveva costituito il movimento liberalsocialista, sono sempre attuali, anzi oggi più di allora. Scriveva Capitini nel 1949: “i partiti esistono per il <<potere>>, per acquistarlo o sostenerlo. Da ciò la loro ragion d’essere, e tutti i loro limiti, il macchiavellismo, la disciplina interna, le gelosie, il settarismo, il patriottismo di partito. La conquista del potere è l’assoluto per il partito. Il partito è il mezzo e il potere è il fine”.
Nonostante l’elevata moralità che sorreggeva il personale politico dei partiti antifascisti, buona parte del quale veniva direttamente dalla Resistenza o dall’esilio, Capitini individuava nella struttura-partito un’organizzazione che ha in sé un elemento degenerativo.
Oggi vediamo dispiegati tutti gli effetti di quella analisi profetica che isolò Capitini dal resto della sinistra: sempre di più i partiti sono ostaggio di gruppi di potere che agiscono per bande in una lotta senza quartiere ed esclusione di colpi. Naturalmente ciò non significa che nei contesti istituzionali locali, quelli più vicini ai cittadini e, se ci fossero le condizioni, anche in una dimensione più ampia, agli amici della nonviolenza sia precluso di partecipare alla vita di partito o di candidarsi alle elezioni, ma ciò non può impegnare, a mio parere, in alcun modo, il Movimento Nonviolento nel suo insieme.
Così come la forma organizzativa tradizionale del partito è inadeguata a con-tenere il progetto politico nonviolento, anche alcune delle categorie politiche elaborate nel corso del ‘900 per descrivere e collocare le organizzazioni e la loro prassi operativa, come “riformista” o “rivoluzionaria”, “radicale” o “moderata”, credo siano insufficienti a con-tenere, o anche solo a descrivere, la proposta culturale e politica della nonviolenza. Essa introduce nell’agire politico altri e nuovi paradigmi, che si rivelano di gran lunga più adeguati a leggere i grandi sommovimenti in atto nella realtà e ad agire nei conflitti con pratiche dotate di senso, contribuendo a costituire quella che Marco Revelli definisce “la politica del futuro”. Tra i molti, ne segnaliamo brevemente quattro:
il paradigma della trasformazione: la nonviolenza sa che i conflitti fanno parte in maniera naturale dell’umano stare-al-mondo e ha imparato che molti di loro sono irriducibili, perciò non aspira ad un irrealistico mondo pacificato, ma alla trasformazione possibile dei conflitti da distruttivi a costruttivi. Questo primo paradigma definisce anche la differenza sostanziale tra nonviolenza e pacifismo;
il paradigma della profondità: la nonviolenza ricerca le cause profonde dei conflitti (tutti i conflitti: da quelli interpersonali a quelli internazionali, da quelli sociali a quelli internazionali), anche quelle meno evidenti e più nascoste, e ne cerca la trasformazione a quel livello, perché sa che ogni pacificazione superficiale, che non tenga conto dei fondamenti e dei bisogni dei confliggenti, non è – se va bene – che una instabile tregua;
il paradigma della complessità: la nonviolenza è consapevole che in tutti i conflitti la verità non sta mai da una parte sola, che i soggetti coinvolti nei conflitti sono sempre più di due, che la “soluzione” possibile non è mai unica, insomma che bisogna agire in maniera complessa tenendo conto, contemporaneamente, di una pluralità di soggetti, piani e dimensioni;
il quarto paradigma è di derivazione specificamente gandhiana ed è definito il programma costruttivo: tra l’inerzia riformistica, l’attesa palingenetica della rivoluzione e la speranza che altri riprendano ed attuino le nostre proposte, il programma costruttivo propone di cominciare e costruire qui-ed-ora con i nostri mezzi, per quanto limitati, i progetti che riteniamo fondamentali.
Facendosi portatori di queste categorie i gruppi di ispirazione nonviolenta si muovono nei conflitti prevalentemente all’interno di due ambiti di azione: la mediazione/interposizione come terze parti tra quelle in conflitto, e la lotta come parte in causa diretta in una situazione di oppressione, o in sostegno ad una parte oppressa. Sia in un senso che nell’altro la nonviolenza elabora e mette in campo un propria azione politica, che esercita con i propri mezzi specifici, elaborati nella storia delle pratiche di lotta nonviolenta nel mondo.
Negli ultimi anni i movimenti nonviolenti hanno fatto un grande investimento sul piano culturale con la realizzazione di importanti “prodotti”: lo sviluppo dell’editoria e della pubblicistica multimediale nonviolenta, la realizzazione di alcuni Centri Studi, la collaborazione all’avvio di Corsi di laurea e di insegnamenti universitari, la nascita di nuove importanti riviste e la tenuta del “miracolo” di Azione nonviolenta che si pubblica, ininterrottamente e mensilmente, da oltre quarant’anni.
È un investimento importante e centrale per almeno due ordini di ragioni, tra le altre:
la necessità di attrezzarsi per contrastare la devastante violenza culturale che dilaga a tutti i livelli: basti pensare, per un verso, alle campagne di odio alle quali sono sottoposti i cittadini stranieri in Italia, diventati capro espiatorio di tutti i mali della società (qualcuno sa, per esempio, che i reati di violenza sessuale sulle donne sono dovuti solo nel 3,4% dei casi a persone estranee o sconosciute alle vittime?); o per altro verso, alle mistificazioni e menzogne dell’amministrazione statunitense che stanno venendo a galla sui fatti dell’11 settembre 2001: se solo un terzo di quanto emerso dalle inchieste indipendenti fosse vero si aprirebbe uno scenario sconvolgente;
l’urgenza di fornire un patrimonio culturale, formativo e informativo a insegnanti, educatori, formatori in genere che operano nelle scuole, nelle Scuole di pace che si stanno diffondendo man mano in Italia, nei corsi di formazione per i volontari in servizio civile ecc., per consentire loro di attingere ad una elaborazione approfondita e collettiva di alto livello.
Poiché le forze complessive sulle quali possiamo contare sono ridotte, il giusto investimento sul piano dell’azione culturale mi pare che abbia comportato, per il Movimento Nonviolento in particolare, il curare meno il piano dell’azione più propriamente politica. Non rispetto alla politica istituzionale, nei cui confronti la nostra attenzione non mi sembra mai venuta meno, anche se scarsamente ricambiata, ma proprio nel senso dello specifico modo nonviolento di agire politicamente, ossia attraverso le proprie campagne di lotta.
Con ciò non si vuol dire che dove sono presenti amici della nonviolenza questi non abbiano lavorato, o non lavorino, sul piano del territorio locale, tanto a livello culturale che su quello delle lotte (No-TAV, No-Ponte, Scanzano jonico, per citare solo le più note), o che non si stiano seguendo importanti processi di crescita come quello dei Corpi Civili di Pace. Piuttosto, si vuol dire che si avverte da troppo tempo l’assenza di una campagna nazionale “esemplare”, specifica, propria o adottata dal Movimento Nonviolento, che possa prevedere lo svolgersi progressivo dei diversi livelli della lotta nonviolenta. Una campagna che coinvolga il Movimento Nonviolento nel suo insieme, a livello centrale e periferico, e che abbia la capacità di riunire intorno ad essa altre forze e movimenti nonviolenti; una campagna di lotta che potrebbe avere anche l’effetto di aggregare al nostro Movimento, man mano, gruppi e persone che si avvicinerebbero ad esso attraverso l’adesione alla campagna stessa. Oggi, infatti, l’adesione al Movimento Nonviolento non riesce ad avere uno slancio significativo in avanti perché l’aggregazione politica non avviene più rispetto ad un patrimonio ideale o ad un bisogno di appartenenza definitivo, ma attraverso la condivisione delle cose concrete che si fanno insieme, in vista di un obiettivo comune.
Sono certo che l’azione politica diretta riveste anche un ruolo formativo per le nuove generazioni che potrebbero imparare non più solo dai filmati in bianco e nero delle lotte del passato, ma anche partecipando direttamente alle nuove lotte del presente, condotte con la serietà e la cura che il Movimento Nonviolento può garantire.

Azione diretta nonviolenta per distruggere gli OGM
e poi i falciatori volontari regalano sementi biologiche

Intervista ad Anna Massina

A differenza della sonnacchiosa Italia, dove la questione degli organismi geneticamente modificati (OGM) è poco dibattuta, in Francia si è sviluppato un forte movimento di opposizione nonviolenta che ha sollevato la questione di fronte all’opinione pubblica, anche attraverso clamorose azioni di disobbedienza civile e di azione diretta nonviolenta. Tra i principali animatori di queste campagne ci sono la Confederation Paysanne, sindacato agricolo che ha in Josè Bovè la persona di maggior notorietà anche internazionale, e l’Arche fondata da Lanza del Vasto. L’Arca ha una struttura specifica per l’azione civica, cioè per l’intervento politico-sociale, che si chiama CANVA (Coordination action Nonviolente de l’Arche), di cui è presidente Anna Massina e che ha tra i suoi ispiratori Jean Baptiste Libouban, già responsabile generale dell’Arca. Anna vive presso la Comunità dell’Arca di St. Antoine.
Raccontaci qualcosa della tua esperienza nella campagna contro gli OGM in Francia, nella quale l’Arche di Lanza del Vasto è in prima fila.
L’evento personale di maggior impatto è avvenuto per me esattamente un anno fa, quando, l’11 gennaio 2006, sono stata arrestata per associazione a delinquere in seguito alle azioni nonviolente di distruzione dei campi sperimentali di colture OGM. Questi campi vengono messi a disposizione da agricoltori e proprietari terrieri, e vengono gestiti da grandi industrie agro-alimentari tipo LIMAGRAIN e BIOGEMMA, a loro volta espressioni francesi di multinazionali tipo la MONSANTO.
Avevamo eseguito delle distruzioni pubbliche alla fine del 2004 e nel luglio del 2005 e in seguito a queste le ditte citate hanno fatto denuncia e si sono costituite parte civile contro CANVA, di cui sono presidente, Costruire un monde solidarie, una associazione locale di Millau2, più due persone della CONFEDERATION PAYSANNE del Puy de Dôme (regione del centro-Francia).
Raccontaci come è avvenuto questo arresto
Sono arrivati in 14 agenti qui all’Abazia di St. Antoine, alle 6 del mattino, hanno perquisito la mia stanza, requisito documenti e computer e poi mi hanno portata alla vicina stazione di polizia, dove sono rimasta, in “garde à vue” (fermo di polizia) fino alla sera. Il giudice istruttore, dopo aver istruito il dossier, mi ha poi convocata il 20 ottobre scorso, a Riom, dove sono stata interrogata per due ore e mezzo. In seguito a quell’interrogatorio il giudice ha deciso il rinvio a giudizio. Sarò processata con altre 34 persones, tra cui José Bové, il 27 e 28 marzo a Toulouse.
Quali sono i rischi che corri?
Teoricamente posso essere condannata fino a cinque anni di carcere. Però il momento politico francese attuale è ad una svolta, perché in aprile avremo le elezioni presidenziali e il potere può decidere di far passare gli OGM attraverso un processo duro, tentando di metterci a tacere, oppiure può decidere di lasciare la patata bollente al prossimo governo. Quale impatto hanno avuto le vostre azioni sull’opinione pubblica?
Da quando abbiamo iniziato l’attività come falciatori volontari (la distruzione dei campi dove si coltivano OGM) è considerevolmente aumentata la percentuale dei francesi contrari. Gli ultimi sondaggi danno l’80% dei contrari agli OGM, sia nei campi che nei propri piatti. La componemte di opinione favorevole è soprattutto legata agli interessi dei grandi produttori agricoli, che sono in effetti la nostra controparte più decisa. Nel frattempo è scattata infatti un’altra denuncia, sempre per associazione a delinquere, in seguito ad azioni svolte in Haute Garonne. Per queste ho ricevuto una convocazione telefonica per un interrogatorio fissato il 21 dicembre 2006, poche settimane fa, e resto in attesa della convocazione del giudice di Toulouse.
Qual è stato l’impatto delle azioni giudiziarie sul vostro movimento?
Ci hanno incoraggiato ad estenderlo! Ora abbiamo deciso e attuato, a partire dal luglio 2006, azioni dirette di distruzione di campi commerciali, non più solo sperimentali. La differenza è la seguente. Mentre i campi sperimentali sono quelli usati dalle grandi aziende agro-alimentari appunto per sperimentare la produzione di OGM, che non è però commercializzata, i campi commerciali sono quelli la cui produzione viene messa sul mercato , senza che vi sia ancora una legge che la regolamenta.
Ci sono dei processi che sono già arrivati ad una sentenza ?
Sì, abbiamo avuto delle sentenze di condanna, con condizionale, contro Jean Baptiste Libouban, leader dell’Arche e, senza condizionale, contro Josè Bovè, leader della Confederationne Paysanne su processi del 2004, per i quali c’è tuttora un ricorso in Corte di Cassazione. Viceversa, due processi svolti a Orleans e a Versaille, in cui sono state coinvolte complessivamente 60 persone, si sono concluse con delle assoluzioni perché il tribunale ha riconosciuto che l’azione svolta è avvenuta in “stato di necessità”. In questo caso è la controparte che è ricorsa in appello.
Quali sono i rapporti con gli agricoltori proprietari dei campi OGM che distruggete?
Le modalità di rapporto sono diverse. Noi riteniamo importante tenere aperti canali di comunicazione e di dialogo. A questo fine, ad esempio, il 30 luglio 2006, abbiamo portato due sacchi di sementi biologiche, consegnate al proprietario del terreno di cui avevamo distrutto le coltivazioni OGM. Più recentemente, ho scritto una lettera aperta ai contadini che avevamo danneggiato, lettera che è stata inviata singolarmente alle persone coinvolte e ripresa e pubblicata in controcopertina dalla rivista della Confederationne Paysanne..
Quante sono le persone che hanno partecipato alle azioni dirette nonviolente?
Impegnati nella CANVA siamo circa un centinaio, ma le manifestazioni hanno raccolto anche qualche migliaio di persone.
Intervista a cura di Angela e Beppe Marasso

Lettera aperta agli agricoltori cui ho falciato il mais transgenico

Cari amici/amiche,

disapprovo il fatto che voi coltiviate sulle vostre terre degli organismi geneticamente modificati, senza per questo condannare il vostro lavoro, i vostri sforzi quotidiani, l’amore che portate alla vostra terra, le vostre preoccupazioni economiche e familiari.
Non mi sento di giudicare le ragioni per le quali avete scelto di mettere al servizio di una multinazionale agrochimica i vostri campi, le vostre forze e la vostra intelligenza.
Io non sono contro di voi, vi rispetto. Voi avete fatto la vostra scelta seminando e coltivando OGM e io ho fatto le mie. Questa estate sono venuta da voi senza essere stata invitata, lo riconosco, sono penetrata con altri nei vostri campi, ho calpestato i vostri terreni, ho strappato il vostro mais, che era già ben alto e avanzato.
Quali sentimenti avevate verso di noi in quel momento? Siamo stati, ai vostri occhi, un’orda di selvaggi assetati di vendetta? degli irresponsabili? Avete sentito l’ingiustizia di un atto gratuito di vandalismo, di violazione della vostra terra? Sono stata male per voi e mi sono chiesta se potrete un giorno perdonarci.
Ma le ragioni che mi hanno spinta a sradicare il vostro mais OGM sono state più forti di queste mie considerazioni. In questo conflitto che mi oppone a voi, la coltivazione di piante OGM in campo aperto, di questo si tratta, c’è qualcosa che tocca la vita e la morte, che attiene cioè alla vita e alla morte delle coltura tradizionali e biologiche, la biodiversità, la vita e la morte del nostro nutrimento e della nostra salute, la vita e la morte di migliaia di contadini, soprattutto i più poveri, dipendenti dalle sementi e dalle ditte che le producono, la vita e la morte per l’appropriazione del vivente a mezzo di brevetti da parte di gruppi commerciali che diventerebbero i “padroni delle sementi e della vita organica”. La vita e la morte nelle mani di un solo potere.
So di aver violato la legge e me ne assumo la responsabilità, così come mi assumo la responsabilità di essere venuta da voi come una ladra. Ma se dovessi rifarlo, lo rifarei.
Nonostante tutto, da lungo tempo pensavo di scrivervi queste parole, per lanciare un ponte tra voi e me. Vogliate credere alla mia sincerità.
Anna Massina
del Collettivo “Faucheurs Volontaires”
St. Antoine l’Abbaye

Jean Van Lierde, pioniere europeo dell’obiezione di coscienza, ha dedicato la propria vita alle cause di giustizia e libertà

di Sam Besemans *

Ho incontrato Jean Van Lierde (JVL) quando avevo 16-17 anni nella sua casa in rue du Loriot a Watermael-Boitsfort, una via parallela a quella dove abitavo io.
Fu mio padre, commissario di polizia ed ex combattente della seconda guerra mondiale, a consigliarmi, quando gli comunicai il mio desiderio di diventare obiettore di coscienza, di contattare JVL, il principale protagonista della lunga lotta politica per il riconoscimento in Belgio del diritto all’obiezione di coscienza (OC) al servizio militare, che arriverà nel 1964 alla promulgazione della legge.
Grazie, Jean, per questa lunga battaglia che ha richiesto molti sacrifici personali, poiché non hai arretrato dinanzi alle dure prove dei processi militari, la prigione ed il lavoro come obiettore di coscienza nella miniera di carbone tristemente celebre di Marcinelle. Queste prove hanno permesso di mobilitare l’opinione pubblica ed il mondo politico, ed hanno iniziato il lungo dibattito parlamentare dal 1949 al 1964. Ciò dimostra che è stato necessario molto tempo per cambiare lo spirito dell’epoca del dopo-guerra che era ancora molto patriota nel senso deteriore di “patria armata„; era anche l’epoca della guerra fredda e della crisi della Corea durante la quale il servizio militare in Belgio durava circa due anni.
Fin dai miei 17 anni, mi nutro di libri e riviste pacifisti che compero alla libreria “la sterlina africana„. Questa libreria, specializzata su tematiche africane, aveva stranamente un settore di libri sull’antimilitarismo, il pacifismo e l’obiezione di coscienza oltre alle riviste del MIR (movimento internazionale della riconciliazione) ed il bollettino IRG (internazionale resistenti alla guerra), . Questa libreria aveva come proprietario un certo Jean Van Lierde…
Per ritornare alla casa di rue du Loriot a Watermael-Boitsfort, non c’era soltanto JVL che vi incontravo ma anche i suoi quattro bambini (Véronique, Etienne, Geneviève e Pierre) e Claire Audenarde, la moglie di Jean e la sua compagna fedele di strada. È Claire che ha sostenuto Jean nella sua decisione di affrontare i tribunali militari e la prigione, e che ha contribuito a condurre la campagna di sostegno agli obiettori di coscienza durante la sua detenzione.
Il nome di JVL è anche associato alla Casa per la Pace di rue Van Elewyck a Bruxelles di cui lui si è assunto la gestione fino ad oggi.
Questa grande casa, comprendente un bel giardino sul retro, è stata acquistata nel 1969. Mi ricordo di averla visitata proprio al momento dell’acquisto con Jean, il barone Antoine Allard e l’abate Paul Carette, il trio che ha permesso l’acquisto, essendo Jean il responsabile dell’operazione e gli altri due mecenati pacifisti provenienti da famiglie ben agiate.
È con JVL che parteciperò a riunioni internazionali del IRG, l’internazionale dei resistenti alla guerra, di cui Jean era all’epoca tesoriere internazionale (la corretta e precisa gestione finanziaria è sempre stata un punto fondamentale per Jean); siamo così partiti insieme nel 1974 al Consiglio della WRI che si teneva in Italia, a Rivoli, nei pressi di Torino, (per la cronaca è in occasione di questo viaggio in Italia che ho incontrato Carla che sposerò più tardi), o anche in Germania o alla triennale del IRG a Noordwijkerhout nei Paesi Bassi ed a Sonderborg in Danimarca.
Attraverso questi contatti internazionali è nata all’inizio degli anni `80 l’idea di creare l’Ufficio europeo dell’obiezione di coscienza, in sigla BEOC, uno strumento pluralistico di pressione politica specializzata nelle istituzioni europee, come il Consiglio d’Europa (in particolare l’assemblea parlamentare, il Comitato dei ministri ed il centro europeo della gioventù), l’Unione europea (all’epoca ancora “Comunità europee„), in particolare il Parlamento europeo, e la tribuna europea della gioventù.
Fra i fondatori del BEOC appaiono: Jean Van Lierde, che sarà il primo presidente; i parlamentari europei Maria-Antonietta Macciocchi e Ernest Glinne; giuristi tali Hein Van Wijck, senatore onorario dei Paesi Bassi, il prof Claudio Zanghi (esperto presso il Consiglio d’Europa); Gerd Greune, presidente del movimento pacifista tedesco DFG-VK (attuale presidente del BEOC), Mao Valpiana del Movimento Nonviolento (Italia), Maurizio Montet dell’Unione pacifista (Francia), ed infine il sottoscritto servo umile che diventerà il primo segretario generale del BEOC.
Grazie al BEOC, abbiamo potuto organizzare anno dopo anno nel centro europeo della gioventù del Consiglio d’Europa a Strasburgo ed a Budapest delle riunioni di obiettori di coscienza di tutta Europa, anche quelli di Europa centrale dopo la caduta del muro di Berlino. Il primo simposio sulla OC organizzato al Consiglio d’Europa del 22 al 27 ottobre 1984 è stato del resto aperto da Jean Van Lierde che vi ha fatto una relazione magistrale che illustra le radici storiche e culturali del OC in tutta l’Europa, passando da Tolstoj ai quaccheri, ricordando i 25.000 obiettori austro-tedeschi eliminati dai nazisti o ricordando la repressione staliniana senza dimenticare di dire che Lenin aveva firmato un decreto in favore dell’obezione in Unione sovietica.
Il BEOC ha fatto progredire il diritto all’obiezione, ottenendo molte risoluzioni del Parlamento europeo e del Consiglio d’Europa oltre al progetto di costituzione dell’UE che evoca il diritto alla OC.
Un’altra campagna significativa del BEOC è stata quella negli anni 80 e 1990 a favore degli obiettori greci. Il lavoro del BEOC ha contribuito a fare riconoscere in molti paesi dell’Europa centrale ed anche in Russia il diritto alla OC, sia nei testi delle leggi, o anche nella costituzione.
E voglio concludere con una citazione del pensiero di Jean che dice: “la coscienza è l’ultimo rifugio contro tutti i totalitarismi„.

* Vicepresidente dell’Ufficio europeo dell’obiezione di coscienza
Intervento al convegno Mundaneum, 11 marzo 2005.

La morte di un obiettore

Jean Van Lierde è morto venerdì 15 dicembre 2006 all’età di 80 anni.
Resistente contro il fascismo, militante pacifista, combattente contro il colonialismo e per la libertà popoli oppressi, oppositore del capitalismo e dello stalinismo: Jean Van Lierde era un vero OBIETTORE che ha sposato tutte le principali battaglie di civiltà del XX° secolo.
La sua testimonianza pionieristica e tre detenzioni in carcere imposero la prima legge belga per l’obiezione di coscienza. Obiettore contro tutti i poteri stabiliti, Jean Van Lierde era un cristiano impregnato delle idee anarchiche; cattolico praticante era realmente aperto agli appartenenti ad altre correnti di pensiero: protestanti, liberi-pensatori, buddisti, musulmani.
Passatore di frontiere per i disertori francesi ed i militanti del Fronte di Liberazione Nazionale durante la guerra dell’Algeria, accompagnatore di tutti i dirigenti congolesi alla ricerca della loro indipendenza, collaboratore di Patrice Lumumba, senza dimenticare il Vietnam, la Palestina e mille altre giuste cause, Van Lierde non si è mai risparmiato.
Abbatteva le frontiere ideologiche e filosofiche, riuniva credenti ed atei, associava ebrei, musulmani e cristiani, aveva amici socialisti, democristiani, liberali, regionalisti valloni e nazionalisti fiamminghi e faceva collaborare moderati e rivoluzionari per salvare un dissidente o un profugo politico.
Il suo attivismo accanito non gli impedirà di pensare con rigore intelletuale ed obiettività riconosciuta e per questo diventerà rapidamente un’autorità incontestata nel mondo socio-politico del Belgio: per 25 anni sarà il Segretario Generale del CRISP (centro di ricerca e d’informazione socio-politica).
Fino agli ultimi giorni, Jean Van Lierde, fedele ai suoi valori, resterà attento alle sorti dell’uomo e dei popoli in lotta per la libertà e per la loro liberazione. Intellettuale dalle forti convinzioni, fu anche uomo del dialogo, aperto sempre ad ogni confronto e discussione.

Il futuro della Palestina e di Israele sono comuni.
Il processo di pace cresce sul terreno della democrazia.

Di Lorenzo Porta

Nel corso dell’estate 2006 i nonviolenti si sono confrontati a proposito della redazione dell’appello contro il riarmo nucleare promosso da padre Alex Zanotelli. Giustamente state accolte modifiche sul nesso democrazia–nucleare che volevano sottolineare l’obiettivo della messa al bando di quegli armamenti per tutti gli stati, ma al contempo denunciare il fatto che questi armamenti diventano una minaccia ancora più incombente quando a dotarsene sono paesi che non hanno un’opposizione interna in grado di controllare, agire e denunciare. Questo non significa sottovalutare la pericolosità della dottrina sviluppata dal Pentagono in questi anni sulla questione nucleare che va sotto il nome di Doctrine for Joint Nuclear Operations del 15 marzo 2005, una specificazione del documento Nuclear Posture Review (Revisione dell’impostazione in materia di armamento nucleare) denunciata da un gruppo di Fisici di S. Diego già da più di un anno. Ma al contempo queste scelte trovano voci che si oppongono, le notizie circolano e le elezioni di mid-term costituiscono un forte ostacolo alla politica bellicista dell’attuale amministrazione americana e alle disastrose scelte di intervento militare in Iraq. Questo purtroppo non accade in paesi dittatoriali dove l’opposizione interna si trova isolata, perseguitata, dove i diritti umani non sono rispettati. Ciò avviene in Iran, in Siria e anche in Arabia saudita per limitarci al Medio Oriente. Affermare ciò non significa mostrare il fianco al teorema neo-con e teo-con di esportazione della democrazia “vera”, ma sviluppare una politica di sostegno reale a quelle formazioni aperte, laiche esistono in quei paesi e in esilio, ma che non possono operare perché schiacciate dall’eterna emergenza della lotta all’altrettanto “eterno nemico sionista”.
Ritorno all’appello antinucleare e dico che mi sono associato alle osservazioni di Giuliano Pontara e Mao Valpiana che chiedevano una chiara denuncia delle posizioni del Presidente iraniano sulla cancellazione dello Stato sionista e sul reiterato insulto della memoria storica di un popolo attraverso il negazionismo, cioè la messa in discussione dello sterminio ebraico. Se non si è tempestivi su questi punti, non possiamo nemmeno lontanamente realizzare qualsiasi intervento di mediazione credibile. Intanto in Iran le organizzazioni delle donne sono messe a tacere, così come oggi le forze della primavera libanese sono continuamente minacciate dal partito fondamentalista sciita Hezbollah, tradizionalmente finanziato dall’Iran, paese non arabo a maggioranza sciita e sostenuto dalla Siria a maggioranza sunnita (c’è chi non vuole, a partire dal presidente libanese, che si costituisca un tribunale internazionale dell’Onu che giudichi le violenze e gli attentati del periodo 2004-2005. (vedi Asia News, novembre 2006).
Dico questo perché quell’appello è stato colto nella fase della sua ultimazione da una guerra che nessuno di noi aveva previsto di questa virulenza. Dopo sei anni dal ritiro di Israele dal Libano, nel periodo Barak, Hezbollah aveva guadagnato posizioni importanti, aveva allestito i bunker nel sud del paese sotto gli occhi delle poche unità dell’UNIFIL, da cui sono stati lanciati 4000 missili, molti dei quali modificati a grappolo, come ha denunciato Amnesty International nel suo report. E già questo può costituire materia di riflessione anche sulle capacità ancora scarse di monitoraggio preventivo delle organizzazioni nongovernative in supplenza ai vuoti delle istituzioni. Anche Israele ha fatto uso di bombe a grappolo e di mine letali come Human Right Watch aveva denunciato e Kofi Annan ribadito. Affermare che Nasrallah ha intenzionalmente scatenato la guerra con i rapimenti, il lancio di missili e l’uccisione di 8 persone non significa essere filoisraeliani, così come denunciare con forza i bombardamenti massicci di Israele sul territorio libanese che hanno colpito civili non significa essere dalla parte di Hezbollah, che come è noto da sempre ha condotto un tipo di guerra che si fa scudo dei civili per le sue azioni militari. Non si tratta di praticare una fredda equidistanza, ma di accogliere le sofferenze delle parti, compresa la popolazione del nord della Galilea ( con la più alta presenza di palestinesi con cittadinanza israeliana) in Israele colpita e minacciata dai missili di Hezbollah.
Le vicende della guerra si sono abbattute come un macigno sulla condizione palestinese. In quel periodo i palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane avevano prodotto un documento importante sul riconoscimento dell’esistenza di Israele che il presidente Abu Mazen caparbiamente stava sottoponendo ai ministri di Hamas. Mentre l’ala politica della formazione fondamentalista discuteva, la sua compagine militare decideva di intensificare il lancio di missili Kassam sul territorio israeliano e di attuare il rapimento di un soldato. I morti palestinesi sono stati più di trecento da giugno ad ora fino all’ultima terribile strage compiuta dai militari israeliani a Beit Hanun. Il problema che pongo è quello di vedere questo tragico conflitto collocato in un contesto tremendamente a rischio, dove la guerra sbagliata in Iraq ha fortemente aumentato il livello di violenza, non più con le categorie dicotomiche che separano i paesi imperialisti da una parte e quelli anti-imperialisti dall’altra. Credo che le leadership iraniane, il partito Hezbollah con la sua politica assistenziale foraggiata dai petrodollari non sia un’alternativa alla politica statunitense, ma costituisca un esempio di rivalità mimetica (per usare un’espressione di René Girard) sia pure su scala ridotta, con la superpotenza americana.
L’appello sulla guerra in Libano che quest’estate è stato diffuso da alcuni dei promotori dell’appello antinucleare risente di questa impostazione dicotomica: denuncia le violenze di una sola parte. Così anche l’altro appello sulla missione in Libano, cui partecipa attivamente l’Italia, con tutti quei distinguo che contiene, in qualche modo vuol fare intendere che la missione è sbilanciata a favore di Israele. Mentre mi sembra che la questione centrale sia che per la prima volta l’Italia e l’Europa in qualche modo si muovono, anche se in ritardo, per bloccare un conflitto che prosegue da anni e sarebbe continuato senza alcun intervento.
Il problema che pongo con forza è questo: tutti coloro che in questi anni si sono impegnati nel mantenere contatti con associazioni, organizzazioni, persone e personalità che in quell’area si battono per un reale riconoscimento reciproco, che conoscono i potenti mezzi dei sabotatori di tutti quegli sforzi importanti per giungere ad accordi possibili, hanno o non hanno sostenuto l’efficacia politica e non solo educativa e culturale di contatti trasversali, di rafforzamento di quelle espressioni della società civile che si battono per una reale democratizzazione dei paesi medio-orientali e per denunciare le violazioni dei diritti umani della democrazia israeliana? Hanno svolto una notevole mole di lavoro e duratura solo, così, per sollevarsi il peso della coscienza o credono che una politica credibile passi attraverso il riconoscimento dell’esistenza dello Stato israeliano in confini sicuri (ricordo che Israele è un quattordicesimo dell’Italia come superficie con il cono sud del deserto del Neghev poco abitato) e la realizzazione di uno Stato palestinese che possa reggersi autonomamente su un’economia reale e non su finanziamenti che condizionano pesantemente le sue scelte (vedi i finanziamenti dell’Arabia saudita ad Hamas con i quali svolge un’attività assistenziale, che non punta all’autonomia economica dei soggetti attraverso la craezione di professionalità diffuse).
Organizzazioni come Betselem, che opera nel campo dei diritti umani, Nevè Shalom/Wahat al salam, il villaggio che negli anni ha lavorato con gruppi ufficialmente nemici per praticare strade di duraturo contatto e che offre una scuola interculturale bilingue. Con loro a Firenze abbiamo svolto numerose iniziative cittadine coinvolgendo diversi gruppi, il Centro di Documentazione Sociale e il Corso di Operazioni di Pace dell’Università di Firenze.
Mi riferisco anche al lavoro che Angela Marasso conduce con metodi interattivi sulla comprensione di quel conflitto. Si tratta solo di lavoro educativo che non osa esprimere una valenza politica? Non credo. Ma ancora in Israele vi è una rete di scuole con programmi interculturali Hands in Hands e Open House che promuovono in forme diverse contatti tra le parti a partire dalla formazione culturale dei bambini e dei giovani. Il Parent circle forum che coinvolge parenti delle vittime di questo conflitto di tutte le parti il cui Presidente Hitzhak Frankenthal ha svolto iniziative che hanno prodotto e tuttora producono forti pressioni a livello istituzionale per dirimere questioni conflittuali come per esempio la presenza dei coloni ad Hebron. Ma purtroppo uomini e ragazzi –bomba fanno più notizia di tutte queste iniziative! Nel 2002 Il sindaco Veltroni aveva cominciato a mappare le organizzazioni dell’area che si muovono nella direzione del contatto in un periodo fosco della seconda Intifada. Mi sembra che il lavoro sia stato un po’ abbandonato. Come è noto l’amico Mubarak Awad, incontrato a Berkeley recentemente ad un incontro organizzato dal rabbino Michael Lerner di Berkeley, si è sempre mosso nella direzione bilaterale e fu espulso agli inizi dei ’90 da premier israeliano Shamir. Dall’anno scorso il Mouvement pour une alternative nonviolente, coordinatore J.M. Muller, ha lanciato un progetto che va in questa direzione. Mi rivolgo ai gruppi che hanno svolto azioni di interposizione come i berretti bianchi e altri come Operazione Colomba: uniamo le forze nel programmare le azioni e gli interventi, costruiamo corsi di addestrarmento in cui ci sia spazio anche per chi ha accumulato un’esperienza sul campo, non solo alla luce del conflitto, ma perché è andato in quei luoghi per imparare, per capire le radici ebraiche del messaggio cristiano, per vedere quanta storia di intrecci, sovrapposizioni e tensioni esprime la bellezza del Muro Occidentale, sovrastato dalla spianata delle Moschee della Roccia e di Al Aqsa. Gli interventi sacrosanti per difendere i diritti dei palestinesi acquistano più forza se l’intervento nel suo complesso esprime comprensione e sostegno alle due parti. Un approccio come quello di Michael Lerner, espresso nel suo appello di quest’estate, che con Bruno Segre (pres. Amici di Neve shalom/Was –Italia e direttore della rivista Keshet) e gli amici di Peace Reporter abbiamo diffuso ha raccolto l’interesse di Mao Valpiana, Candelari, Giannini, di Angela Marasso, ma ha lasciato freddi altri attivisti tra cui gli amici Baracca e Navarra e altri dei movimenti nonviolenti.
Questo conflitto diventa la palestra per lanciare giudizi pesanti che non fanno che accrescerlo ed è scoraggiante che ciò provenga dalle cosidette terze parti. Definire guerra partigiana, la guerra di Hezbollah, un giudizio espresso da Lidia Menapace, persona che stimo molto e di grande aiuto alla causa della pace, nel periodo della guerra tra Libano e Israele è un esempio di questa impostazione dicotomica che fa fare passi indietro ad un autentico processo di pace che su basi nonviolente vuole affrontare le sfide attuali. Come anche paragonare Hezbollah ai viet-cong, come ha fatto Galtung in un suo intervento. Senza nulla togliere alla sua figura di indispensabile studioso della mediazione, da cui tutti abbiamo imparato e continuiamo ad imparare qualcosa. Quando si va poi sul campo a costruire le relazioni paghiamo prezzi di unilateralismo, che depotenziano il nostro lavoro.
Concludo questo punto segnalandovi un dibattito di ben 39 anni fa che è stato documentato da Gabriella Mecucci sulla rivista Nuova storia contemporanea, del 2002, n° 3, maggio-giugno.
Ci riporta la storia di un appello che nel 1967 all’epoca della guerra dei sei giorni Lucio Lombardo Radice diffuse dalle colonne dell’Unità. Era il periodo in cui il Pci, influenzato dalle scelte dell’Unione sovietica, cominciava, non senza contrasti interni, ad adottare la linea di considerare antimperialista la politica dei paesi arabi e imperialista quella di Israele. Lombardo Radice costruisce un appello che afferma apertamente il riconoscimento dell’esistenza di Israele, ma definisce “espansionismo strategico” la condotta dello stato di Israele. Diffonde il testo a molti intellettuali di area comunista e cattolica e anche ad Aldo Capitini. Quest’ultimo non firmerà l’appello e come sempre argomenterà la sua posizione. Non si può definire espansionismo quello israeliano: “ mi sembra alquanto irreale, pensando ad un popolo di poco più di due milioni e mezzo di abitanti in mezzo a 50 milioni di avversari”. Come poco si ricorda i territori occupati allora erano sotto il comando Giordano compresa Gerusalemme est ( dal 1949 al 1967) e poi furono conquistati da Israele con la guerra dei sei giorni. Esprime un giudizio molto netto sulle “forsennate hitleriane minacce di Nasser”, che non ritiene un anti-imperialista. Capitini tentava di introdurre un approccio allora che si smarcasse dalla visione bipolare del mondo. Lui era profetico, noi oggi con molto meno sforzo lo possiamo fare.
Le reti di solidarietà sociale

Gli effetti della polverizzazione e della divisione dei lavoratori attraverso la deregolamentazione e le forme contrattuali più precarie ha prodotto una gestione del tempo difficile e ha reso quanto mai rare le esperienze di solidarietà sociale per il miglioramento collettivo, che costituiscono un cemento per la società. Prevalgono gli egoismi sociali e chi fa la voce grossa anche con mezzi violenti (taxisti in particolare, farmacisti, professionisti) rischia di ottenere risultati. Il dibattito sulla finanziaria lo ha dimostrato. I luoghi di elaborazione dell’alienazione in una società che vuole basarsi sul consenso, le assemblee sindacali o dei lavoratori per esempio, sono spesso luoghi di contrattazione di interessi corporativi e manca il confronto continuo con un progetto di società aperta, che discute di un modello sviluppo non dipendente dalle energie non rinnovabili, che si apre alle soluzioni tecniche che già ci sono ( fonti energetiche di transizione, gas e poi solare, idrogeno) ma che incontrano gli ostacoli più grossi nelle corporazioni petrolifere e nel drenaggio di tasse per lo stato che ne consegue. Nella bilancia commerciale italiana la fornitura di greggio iraniana è una voce fondamentale. Ecco un aspetto della crisi medio-orientale che merita approfondimento anche ai fini di una soluzione dei conflitti. Cosa centra questo con la pratica della nonviolenza? Molto! Quando nel mondo del lavoro ti trovi con più di quaranta contratti diversi e le sale assembleari si presentano visualmente composte da una serie di capannelli che corrispondono ai diversi contratti applicati, la forza che si può dispiegare risulta indebolita.
Si può invitare dall’esterno ad obiettare alla produzione militare, si possono invitare i tecnici e gli ingegneri a fare obiezione di coscienza, ma i risultati saranno magri. Alberto Castagnola, ottimo animatore della campagna “control arms” sulla riduzione del commercio delle armi leggere ci conferma che lotte in corso per processi di riconversione dell’industria bellica non ce ne sono. Ritengo che la questione sociale e la costruzione dei tessuti di solidarietà per una società autenticamente democratica ovunque , negli uffici, nelle scuole, nelle università sia una questione centrale. Altrimenti l’aggiunta nonviolenta dei Corpi civili di pace, della riduzione e controllo forte del commercio delle armi e anche la stessa campagna antinucleare rischia di non incardinarsi nelle pratiche di vita quotidiana delle persone. Non è un arretramento o un discorso economicista, ma vuole essere un richiamo a coniugare i nostri grandi obiettivi con la concreta che viviamo. In questo senso noto che senza una difesa delle regole e della legalità non ci può essere aggiunta nonviolenta. Ritengo che la tensione etica che esprime una progettualità nonviolenta non posso essere racchiusa in un partito. Ritengo che il rafforzamento di una rete delle realtà nonviolente in tutto il tessuto sociale non solo di denuncia di ciò che avviene sul territorio, ma anche sul terreno che ritengo centrale del lavoro e della creazione di capacità lavorative che reggano le sfide attuali sia importante. Mohamad Yunus ha avuto il Nobel per la pace, egli ha cercato di praticare progetti costruttivi che sottraggono manodopera schiava ai rakets attraverso un’accorta politica del credito all’interno dei sitemi capitalistici. I microprogetti che hanno finanziato nel mondo non sono certo nel settore degli armamenti. Questa attitudine pragmatica a smarcarsi dalle corporazioni, dagli apparati disciplinari per una società progettuale decentrata è quanto mai importante. Rete, progetto costruttivo e controllo sono elementi fondamentali di una politica che si ispira alla nonviolenza.
Penso che questo presidio all’interno della società civile che ci eviti di fare i nonviolenti della domenica, che fanno grandi affermazioni negli week end, ma poi il lunedì mattina non sanno come affrontare le contraddizioni nella realtà del lavoro, sia quanto mai salutare. Ma ci vuole una rete di sostegno che raccolga ed amplifichi queste resistenze: oggi il sindacato fatica a farcela e anche i nonviolenti stentano ad incidere su queste forme autoritarie di gestione.
Concludo: senza queste reti di solidarietà, lo facevo notare a Tonino Drago a commento del suo interessante libro sulla difesa popolare nonviolenta, è difficile riuscire a realizzare i corpi civili di pace, un obiettivo che si fonda su un notevole allenamento alla solidarietà sociale per una società dialogica, rispettosa dei diritti umani e dell’ambiente. * Università di Firenze
Sociologia dell’educazione alla pace

ANCORA IL MEDIO ORIENTE

Sono recentemente rientrato da un ennesimo viaggio in Medio Oriente dove la situazione peggiora di settimana in settimana, pur tra evidenti segni di speranza. Questa volta, ho voluto includere brevi visite anche in Giordania, Siria e Libano. In quest’ultimo paese, nonostante la guerra imposta da Israele e la conseguente distruzione, chiaramente visibile per chi proviene dalla Siria via terra, la gente è intenta a sgomberare le macerie e ricostruire le proprie case. Anche alcune strutture pubbliche, come ponti e strade, sono in via di rifacimento. Interiormente, però, molti (compresi i pochi quaccheri – di solito ottimisti – e la loro scuola a Brummana, con circa 1000 alunni, sulle alture di Beirut) incominciano a sentire una certa stanchezza, mentre il delicato e complicato equilibrio politico libanese sembra indebolirsi oltre misura.
Attraversando Israele dal nord fino a Gerusalemme, non si può non sentire anche lì uno stato di malessere o imbarazzo che spesso si trasforma in una chiusura mentale poco edificante. Neanche gli ultra-conservatori ebrei osano più parlare pubblicamente della loro visione profetica della ‘grande terra promessa’.
Qualche spiraglio di speranza è risultato dalla sesta conferenza internazionale di Sabeel (Centro ecumenico della teologia di liberazione a Gerusalemme), cui ho partecipato, dedicata, questa volta, alle dimenticate minoranze cristiane in Palestina. I quaccheri palestinesi e le loro strutture scolastiche di Ramallah sostengono l’impegno per la pace e i diritti umani di Sabeel (in arabo: la Via).
Circa 200 persone provenienti da una trentina di paesi (purtroppo però uno solo dall’Italia!) affiancati da altri 300 residenti locali, compresi una cinquantina di organizzatori/referenti ecc. di tutte le chiese cristiane presenti in Palestina, hanno trascorso insieme una settimana visitando e ascoltando molte comunità, ad iniziare da Gerusalemme e spostandosi mano mano in altre zone, tra cui Betlemme, Jerico, Ramallah, Galilea e Nazaret. Organizzare una serie d’incontri in tutti questi posti, spostando centinaia di persone quasi tutti i giorni, con tantissimi ostacoli, check-points, alloggi diversi ecc., ha procurato serie difficoltà logistiche ai responsabili, anche perchè durante quello stesso periodo ci sono stati circa 80 morti e i militari israeliani erano presenti ovunque, perfino a Betlemme. Secondo me, però, gli organizzatori se la sono cavata brillantemente!
Tra i punti salienti desidero sottolineare gli studi biblici del noto scolaro coranico, Kenneth Cragg, su tre parabole spiegate alla luce del contesto culturale palestinese attuale e le danze del famoso gruppo teatrale Bara’em El Funoun. Il gruppo (composto esclusivamente da giovani volontari) alla fine della sua rappresentazione nel maestoso Palazzo culturale di Ramallah, ha anche lanciato un vigoroso appello per il boycott di prodotti israeliani (sostenuto ormai da oltre 200 organizzazioni in Palestina e altrove). I giovani del gruppo sono convinti che una tale azione nonviolenta di massa potrà avere successo, come avvenne per il Sud Africa, contro l’apartheid.
Durante l’intera settimana si nutriva un forte sentimento che se tutti sognano la fine dell’occupazione israeliana come condizione essenziale per l’indipendenza della Palestina, le misure attuali di repressione (soffocamento economico, confisca delle terre, il muro di annessione e la risultante frammentazione del West Bank, con la costruzione/espansione di nuovi insediamenti) stanno erodendo qualsiasi possibilità di soluzione al conflitto, sulla base di due popoli, due stati. Attualmente molti osservatori indipendenti, palestinesi e israeliani compresi, collocano la questione Palestina-Israele in un contesto più ampio, secondo l’idea espressa anche da Jahan Galtung: una specie di federazione medio orientale. Questo sembra essere certamente il punto di vista dei pochi, ormai, cristiani rimasti in Palestina (meno del 2%), ma decisi a non mollare e collaborare con elementi moderati musulmani per costituire una voce profetica nuova verso una giustizia sociale accettabile, una pace garantita e una riconciliazione possibile.
Per chi vuol saperne di più: www.sabeel.org .
L’ultima settimana del mio soggiorno l’ho passata insieme ad altri volontari alla Tenda delle nazioni, Nahalin/Betlemme, dando una mano a raccogliere olive, potare e piantare alberi da frutta. Questo progetto, abilmente diretto da Daoud Nassar, sostenuto dalla sua famiglia, altri piccoli proprietari confinanti e tanti amici in molti paesi, porta avanti dal 1991 una campagna per legittimare il diritto di proprietà che i coloni israeliani non vogliono riconoscere. Essi, infatti, hanno cercato a più riprese di confiscare la terra (in totale circa 120 ettari), intervenendo con potenti bulldozers per tracciare strade ed eventualmente costruirvi un nuovo insediamento (ce ne sono già 4 intorno!). Da quando, però la terra è coltivata, gli israeliani non sono più intervenuti, almeno non con macchinari. Ecco, dunque la necessità della presenza continua di attività sul posto, cosa possibile grazie anche a volontari internazionali, i quali sono sempre benvenuti.
Alcuni giovani europei hanno scelto questo progetto per svolgere il loro servizio civile. Finchè la Corte suprema israeliana non si pronunci definitivamente, non si possono, purtroppo, costruire strutture permanenti per evitare l’ordine di demolizione da parte del comando militare locale che protegge i coloni. Diverse attività vengono organizzate, soprattutto d’estate, per bambini, giovani; laboratori artistici, campi studio-lavoro, corsi di formazione per le donne, ecc.
Ulteriori informazioni: tnations@p-ol.com, www.tendofnations.org .
Franco Perna
25080 Padenghe sul Garda
E-mail: pernafran@tiscali.it

La giornata nazionale del Servizio civile volontario

di Alberto Trevisan

Ho partecipato a Roma alla Giornata nazionale del Servizio Civile: la data volutamente è stata fatta coincidere con il 15 dicembre: lo stesso giorno del 1972 quando venne approvata la prima legge sul riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza. Nel 1970 a Roma mi ci portarono ammanettato, quando entrai per la prima volta in un carcere militare; ora ci sono andato con mia moglie Claudia e con in tasca un invito personale del Ministro Ferrero e del Direttore del Servizio Civile nazionale, Diego Cipriani, entrambi vecchi obiettori. Mi è stato chiesto di portare la mia testimonianza e l’appuntamento era impegnativo anche per la presenza del Presidente della Repubblica. La efficiente organizzazione della giornata ma soprattutto il clima gioioso di questa festa, hanno stemperato i miei timori e sulle note della musica dell’Orchestra interetnica di Piazza Vittorio, la presenza dei comici e l’intervista della simpaticissima Victoria Cabello, mi è parso di essere riuscito a comunicare alla nuova generazione del servizio civile una grande unità d’intenti. L’ho colto quando, prendendo a prestito le parole di Pietro Pinna, primo obiettore di coscienza in Italia, ho lanciato la sfida della nonviolenza per la continuità di impegno tra diverse generazioni che può e deve realizzarsi su nuovi obiettivi ma su basi forti e condivise. In apertura il Ministro Ferrero aveva presentato al Presidente Napolitano lo scenario di 45000 giovani tra ragazze e ragazzi che hanno scelto l’opportunità di svolgere un anno di volontariato, sottolineando con forza l’idea di concepire il volontariato per la società non certo come un “costo“ ma piuttosto come un “dono“. Giovani che hanno la possibilità di essere “costruttori di comunità“. Con queste premesse mi è parso più facile trasmettere la convinzione che il servizio civile volontario può e deve rinsaldare le radici della lotta degli obiettori di coscienza e del movimento nonviolento più in generale. Quale la differenza tra continuare i nostri obiettivi di difendere la Patria con mezzi non militari, favorire la solidarietà nazionale e internazionale con particolare riguardo alla tutela dei diritti sociali, ai servizi alla persona e all’educazione alla pace tra i popoli? Nessuna: questo è quanto recita l’articolo 1 della nuova legge sul servizio civile volontario del 2001. Mi è stato più volte chiesto che cosa si è perso o guadagnato dal passaggio dall’obiezione di coscienza all’attuale servizio civile. Poco o nulla, o forse ci abbiamo addirittura guadagnato qualcosa perché ora i mezzi sono più efficienti. Un solo esempio: siamo ora la prima generazione al mondo che, se vuole, ha la possibilità di bandire dalla storia la povertà nel mondo. E’ vero: abbiamo “spezzato molti fucili“ ma quanti ancora ne dobbiamo spezzare ? Ancora molti a cominciare dalle piccole armi che sempre di più costruiamo nelle nostre fabbriche e che poi i bambini-soldato sono costretti ad impugnare nelle guerre dimenticate del continente africano. Ma la cosa più significativa, anzi il “dono” più bello che si è voluto annunciare al Presidente della Repubblica è stata una scelta che riguarda la sua amata città di Napoli. La Sottosegretaria al Ministero della Solidarietà Sociale, Cristina De Luca, ha esposto il progetto di inviare entro pochi mesi duemila ragazze e ragazzi napoletani in alcune realtà più critiche della città per favorire la solidarietà, il senso della legalità e il diritto ad una cittadinanza attiva. Una splendida idea di “riconversione civile” che troverà impegnati giovani per vincere i pericoli della violenza, dell’intolleranza e affermare con forza lo spirito di solidarietà e di una migliore qualità della vita. Un vero “dono” che il nuovo servizio civile saprà moltiplicare come l’obiettivo della costituzione di veri corpi civili di pace e di interposizione nonviolenta anche nelle zone di conflitto secondo l’articolo 11 della nostra Costituzione che “ripudia” la guerra.

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Finanza etica e finanza ebraica

Da sempre indicati nell’opinione comune come i migliori interpreti del settore, i finanzieri di origine ebraica hanno riempito la letteratura di leggende ed aneddoti. Ma sono numerosi i passaggi sia biblici che rabbinici che insistono sull’elemento etico che deve governare il mondo del denaro e dell’economia in generale: “La carità, l’assistenza verso i bisognosi, condizioni di armonia e di giustizia sono fattori fondamentali per un corretto e giusto funzionamento della società”, afferma il rabbino Alberto Piattelli, invitato ad esporre la posizione dell’Ebraismo sul tema della finanza etica, il quale però aggiunge che “l’esercizio delle attività economico-bancarie costituisce un importante elemento della società moderna che, tuttavia, non trova un riscontro completo e soddisfacente in quelle che sono le pratiche religiose dell’ebraismo”.
Nel Qelet la frase “il denaro risponde a tutto” può anche essere tradotta in “il denaro umilia tutto”. Da questa duplice lettura gli ebrei evincono che la sperequazione economica esistente serve per mettere alla prova il ricco, che può comportarsi in modo virtuoso oppure spregevole a seconda che utilizzi il denaro come mezzo o come fine (Rabbino Someck). Moni Ovadia aggiunge che “nell’ebraismo il problema dell’uguaglianza è posto nei termini di pari dignità, non è un problema di uguaglianza economica… Per la Torah, ciò che non è eticamente riprovevole è permesso, ma compito dell’ebreo è praticare la giustizia. Nel quadro di questa prospettiva – centralità della vita, centralità dell’uomo, santità del comportamento, uguaglianza di tutti gli esseri umani, intesa come pari dignità – il danaro non è di per sé criminoso e criminale; se no bisognerebbe attribuire al danaro un potere divino o demoniaco che sia, e questo per l’ebraismo è inaccettabile.”
Più che sull’etica nella finanza, la religione ebraica insiste sulla beneficenza (zedaqà), che è cosa diversa anche se comunque orientata al bene per il prossimo: un uomo che non dà la decima del suo danaro ai poveri è detto “malvagio”; ma altrettanto importante dovrebbe essere la garanzia che la moneta prestatagli non sia usata per fini “malvagi”. In questo campo sono numerosi gli esempi, anche personali, di destinazione etica della beneficenza: basti pensare alla gestione dell’otto per mille, per la quale la Comunità Ebraica italiana ha ricevuto, nel 2004, 4,5 milioni di euro (contro i 1000 destinati alla chiesa cattolica). Circa il 10% è speso in pubblicità, il 28% direttamente nell’UCEI (Unione comunità ebraiche italiane), il 43% in attività culturali ed educative, il 12% va in attività sociali tra le quali troviamo gli aiuti per il terremoto di San Giuliano e per lo Tsunami.
La piccola comunità ebraica italiana (25/30.000 persone) trova poi nella fondazione Rodolfo De Benedetti (www.frdb.org) uno strumento che ha lo scopo di promuovere la ricerca applicata, finalizzata alle scelte di politica economica nella riforma dei sistemi pensionistici, nelle cause della disoccupazione europea e nella dinamica della povertà e delle disuguaglianze. Ma l’enorme massa di danaro gestita da finanzieri di origine ebraica (anche se non necessariamente religiosi, pensiamo ai banchieri George Soros, Rockfeller, Edmond Safra, Michel David Weill, oppure agli Oppenheimer dei diamanti De Beers) non ha trovato enti creditizi disposti a convogliare il risparmio verso attività eticamente orientate come accade per esempio nei fondi islamici o protestanti.
Anche il coinvolgimento nella guerra israelo-palestinese, che pure ha dato origine al fenomeno dei refusnik (coloro cioè che rifiutano il servizio militare per non prendere parte al conflitto), non ha prodotto un movimento che si occupasse di evitare il finanziamento di aziende coinvolte nel traffico o nella produzione di armi, come è invece avvenuto in Italia con l’obiezione alle spese militari e la nascita delle Mag. Lo stato ebraico è uno dei maggiori produttori di armi, e le aziende coinvolte sono diverse, ma probabilmente il significato difensivo che viene loro attribuito (“la nostra è una guerra di difesa”) è più forte, nell’opinione dei risparmiatori, di quanto le stesse armi possono combinare in giro per il mondo a causa delle triangolazioni.
Esiste infine un fenomeno internazionale, governato soprattutto dall’American Israel Pubblic Affaire Committee (www.aipac.org), che raccoglie e convoglia annualmente imponenti masse di danaro destinate al consolidamento del sionismo, l’obiettivo cioè di allargare i confini di Israele e permettere il ritorno in patria degli ebrei della diaspora sparsi per il mondo. La gestione del fondo (si parla di un budget annuo di 20 milioni di dollari) è assolutamente top secret, anche se è noto che parte del denaro viene utilizzato per attività di lobby all’interno dell’ONU, del governo e del parlamento statunitense.

EDUCAZIONE
A cura di Pasquale Pugliese
Le Scuole ed i Centri di educazione alla pace in Italia

Il campo di indagine sul tema dell’educazione alla nonviolenza è molto vasto. Per questo anno abbiamo pensato di restringerlo ad un ambito specifico, quello delle Scuole di Pace e dei Centri di educazione alla Nonviolenza, che – accanto ad alcune realtà ormai storiche – sta vedendo un incremento di nuove esperienze in diverse città italiane. Le realtà che adottano denominazioni simili sono molte, perciò abbiamo usato un ulteriore criterio di selezione, ossia quello del riferimento esplicito alla pedagogia della nonviolenza.
Per troppo tempo l’educazione alla pace è stata intesa come educazione ai buoni sentimenti e ad una visione irenica della realtà, alla meglio condita con notizie informative sulle principali guerre storiche e contemporanee. L’approccio nonviolento all’educazione alla pace si basa invece su una visione generativa del conflitto, in quanto moltiplicatore di energie, su una analisi delle dinamiche conflittuali che si sviluppano ai diversi livelli dalle relazioni interpersonali (micro), intergruppali (meso) e internazionali (macro) e sull’apprendimento di modalità di trasformazione dei conflitti, da eventi potenzialmente distruttivi dei soggetti coinvolti in occasione di incontro più profondo con l’altro/gli altri, a tutti i livelli. L’intervento educativo che tende a connettere la dimensione personale dei conflitti vissuti, per esempio, dai ragazzi e le modalità di trasformazione nonviolenta da loro sperimentate, con dimensioni più ampie come i conflitti tra popoli o stati apre prospettive nuove nella loro capacità di lettura della realtà globale e nella immaginazione di soluzioni alternative a quelle regressive (o patologiche) della guerra e della violenza. Infatti, la sperimentazione diretta di relazioni improntate alla nonviolenza nel proprio quotidiano, e specialmente nei momenti di crisi quali sono i conflitti a scuola, in famiglia, tra amici, aiuta i ragazzi a rileggere oggi e, si spera, domani – quando saranno diventati cittadini con dirette responsabilità civili, politiche e sociali – i conflitti nei quali saranno chiamati ad intervenire o, almeno, ad esprimersi individuando altre cornici di senso e ipotizzando, proponendo e appoggiando, interventi creativi.
All’interno di questo orizzonte abbiamo chiesto a nove, tra scuole, centri e gruppi di educazione alla pace ed alla nonviolenza, di auto-presentarsi attraverso un pezzo che contenga, in breve, la storia della scuola, la struttura organizzativa, la proposta educativa e il proprio riferimento alla nonviolenza. Auspichiamo che ne derivi un quadro significativo di come nel sistema formativo del nostro paese vada crescendo e strutturandosi una cultura dal basso dell’educazione alla pace che, affiancandosi ai corsi di laurea già attivi in un certo numero di facoltà universitarie, è in grado di interloquire con le scuole e le altre agenzie formative locali. Non a caso in molte di queste esperienze gli Enti Locali, nelle loro diverse articolazioni, svolgono un ruolo non secondario.
Sappiamo naturalmente che ciò non è sufficiente. In Italia manca una legge sull’Educazione alla Pace, come quella, per esempio, che il governo Zapatero ha promulgato in Spagna tra i suoi primi atti, insieme al ritiro delle truppe dall’Iraq. In Italia non c’è un Centro studi e ricerche nazionale sui temi della pace e della nonviolenza, come richiesto al governo dai movimenti nonviolenti insieme al “Comitato italiano per il Decennio per una cultura di pace e nonviolenza per i bambini del mondo”. Non è previsto un albo nazionale dei formatori della formazione generale dei volontari del Servizio Civile Nazionale, la cui legge istitutiva, al primo articolo, chiede di sperimentare forme di difesa “non armata e nonviolenta”, né si investe in finanziaria su questo capitolo mentre aumentano smisuratamente le spese militari…
Sappiamo tutto ciò e sappiamo che la strada per una diffusione capillare dell’educazione alla pace è ancora lunga ed in salita, ma sappiamo anche che all’interno di una campagna nonviolenta accanto alle lotte è necessario lavorare al “programma costruttivo” per la realizzazione, qui ed ora, di ciò per cui ci si mobilita, contando sulle proprie forze ed energie. Le Scuole, i Centri e i Gruppi che si presenteranno in questa pagina si sono dati questo compito: realizzare, qui ed ora, il programma costruttivo dell’educazione alla pace ed alla nonviolenza nel nostro paese.

SERVIZIO CIVILE
A cura di Claudia Pallottino
Cos’è e come lo vogliamo il Servizio Civile volontario?

Questo spazio vuole essere un’occasione di confronto tra le diverse idee di Servizio Civile e sulle proposte concrete per il futuro, con l’intento di poter contribuire da subito alla realizzaione di un Servizio Civile inteso come strumento di pace.
Guardando indietro
Già nel passato il Servizio Civile ha assunto valenze e identità differenti, a seconda dal tempo e dei soggetti a cui ci si riferisce. Propongo di non guardarlo facendone una sintesi, ma domandandoci se e come ciascuna espressione può essere contenuta nel nuovo Servizio Civile.
Chi è stato obiettore negli anni 70 può descrivere il Servizio Civile come uno strumento di lotta, nella migliore delle ipotesi il programma costruttivo di un’azione nonviolenta;
Chi ha offerto contesti operativi in cui “ospitare” obiettori può dire che è stato uno strumento efficace per dare risposta a bisogni sociali per cui lo stato sociale non ha investito a sufficienza;
Chi ha lavorato per creare cultura intorno all’impegno civile e all’attivazione di cittadini, lo ha spesso usato come parte di politiche giovanili;
Per chi lo ha fatto come Anno di Volontariato Sociale è stato un modo per dare espressione concreta ai propri valori di solidarietà e di impegno civile in prima persona;
Per molti obiettori degli ultimi decenni è stato assolvere al dovere di mettersi al servizio della collettività;
Per molti altri ancora, soprattutto nell’ultimo decennio dell’obiezione di coscienza, un modo per essere dispensati da questo dovere;
Per molti degli operatori che hanno gestito gli “obiettori dell’ultima generazione”, ovvero dal 98’ in poi, il servizio civile è stata un’esperienza fallita, spesso inutile, che ha lasciato dietro di sé un’immagine dei giovani molto triste.
Qualcuno ogni tanto si sofferma a riflettere sulle dinamiche che hanno portato allo svuotamento finale indotto dell’esperienza dell’obiezione di coscienza, e quindi del servizio ad essa legato, anche se a talune voci non è così agevole alzare il volume, spesso si tratta di un passa parola sommesso, ci sono ancora tanti tabù legati alle vicende dell’Obiezione di Coscienza e ai nomi e i fatti legati alle istituzioni che hanno tentato di intralciare la via della crescita di una Difesa Popolare Nonviolenta.
Guardando il presente
Tra gli addetti ai lavori, e tanto meno nell’opinione pubblica, non esiste un’unica idea di Servizio Civile: è un’istituzione ancora senza un’identità precisa, e da questo ne consegue la difficoltà nell’individuare la via futura per il consolidamento di questa esperienza.
La normativa in sé apre delle potenziali vie di sviluppo del Servizio Civile molto interessanti, ma bisogna fare i conti con la precarietà di coloro che vi lavorano, si pensi agli Operatori Locali, ai Formatori, ai Progettisti stessi.
Ad oggi abbiamo alcune centinaia di migliaia di giovani che hanno scelto questa esperienza dal 2001, il dato è sempre più in crescita, è difficile stargli dietro. Si sa poco, però, di coloro che hanno scelto un progetto e non sono stati selezionati, ancora di meno si sa dei giovani che abbandonano o rinunciano, magari delusi dalla confusione e disorganizzazione trovata, e poco anche sappiamo di cosa succede a chi lo ha portato a termine felicemente.
Ad oggi abbiamo la normativa, i numeri, ma sappiamo dove stiamo andando?
E’ questo lavoro di rielaborazione e studio di fattibilità che siamo chiamati ad affrontare nel presente, oltre alla continua sperimentazione di progetti ed alla stimolazione del confronto tra i soggetti pubblici e privati del sistema attuale di servizio civile.
Guardando al futuro
E’ dalla sperimentazione di questi primi anni del nuovo sistema di Servizio Civile Nazionale che bisogna elaborare i prossimi passi di vita di questa esperienza.
Diventa importante dunque chiedersi cosa sarà il Servizio Civile domani, per poter capire se sarà stata solo una istituzione di prova, o può essere una realtà organizzata e stabile nel tempo, che si consolida e che sposta risorse e strumenti della collettività nella ricerca e costruzione della pace.
Per il Movimento Nonviolento e per chi lavora per la pace è impossibile non collegare in una visione futura il dibattito sul Servizio Civile a quello del modello di difesa di una democrazia che nella sua Carta Costituzionale ha l’Articolo 11, e che ha al suo interno una estesa varietà di organizzazioni sociali per la costruzione della pace, tanto creative ed efficaci, quanto scollegate tra loro. Il Servizio Civile Nazionale potrebbe essere un luogo per “allenarsi” a collaborare e confrontarsi su temi comuni, almeno per capire se una istituzione di pace è possibile, o se sono altre le istituzioni nazionali che necessitano di cure e risorse.

PER ESEMPIO
A cura di Maria G. Di Rienzo
Rita, che unisce indiani e pakistani per rompere le politiche dell’odio

Il Forum indiano/pakistano per la pace e la democrazia ha compiuto 13 anni ed il suo “credo” è: “Noi siamo convinti che la pace non sia semplicemente assenza di guerra o saper maneggiare le crisi, ma la condizione fondamentale per assicurarsi che le persone abbiano cibo, rifugio, salute, e vite decenti in ordinamenti regionali in cui si pratichi una democrazia non egemonica.”.
Per capire il valore dell’esistenza del Forum, bisogna pensare che l’India ed il Pakistan hanno una storia cinquantennale di tensioni e conflitti, marcata da tre guerre su vasta scala (1947, 1965 e 1971) e da pesanti situazioni di scontro violento (Siachin, Kashmir, Kargil). Questa relazione ostile ha alimentato in entrambe le nazioni una sorta di “complesso” riguardante la sicurezza nazionale, che legittima la corsa alle armi, alla cosiddetta “deterrenza nucleare” ed alla militarizzazione dei fondi per lo sviluppo. “Inoltre,” aggiunge Rita Manchanda, “ha alimentato la crescita della destra religiosa ultranazionalista in ambo i paesi, il che ha diffuso l’intolleranza religiosa e l’odio per le minoranze. A livello di base, questo ha creato divisioni fra le comunità che prima non c’erano, ferite che sono pronte ad essere sfruttate a livello politico. La demonizzazione dell’ “altro”, accoppiata a discriminazione ed esclusione (come per i musulmani in India e gli hindu in Pakistan) ha predisposto il terreno perfetto su cui far crescere la violenza. Maneggiare le istanze fra hindu e musulmani dipende largamente dal come sapremo trasformare la relazione ostile fra India e Pakistan.”
Rita Manchanda, giornalista ed attivista per i diritti umani, è una delle madri del Forum. Mentre come giornalista testimoniava le violenze correlate all’insorgenza in Kashmir ed al conflitto in Kargil, il nascere delle politiche fondamentaliste e gli scontri ormai di routine fra hindu e musulmani, Rita maturò la convinzione che qualcuno dovesse rompere il silenzio che circondava la negazione dei diritti di partecipazione democratica ed il sistematico abuso dei diritti umani, ovvero quelle che lei chiama efficacemente “le politiche dell’odio”. Attorno alle domande di Rita Manchanda, contenute dapprima nei suoi articoli, e poi dette a voce alta nei raduni pubblici, si coagulò un gruppo di attivisti per la pace, pakistani ed indiani, e questo dette inizio a un movimento pacifista non molto esteso ma assai visibile che oggi costituisce l’ossatura del Forum.
Nel luglio 2001 Rita contribuì ad organizzare un incontro a Katmandu fra le costruttrici di pace dell’Asia del sud, allo scopo di discutere della partecipazione delle donne nei processi democratici, delle attività legate alle ricostruzione ed alla riabilitazione dopo i conflitti, e della salvaguardia dei miglioramenti ottenuti nei rapporti fra i generi durante le crisi violente. Il meeting durò quattro giorni, e aprendolo Rita portò all’attenzione delle partecipanti un proprio innovativo concetto, che chiamò: “la mappatura a partire dai margini”. Nelle sessioni che seguirono, le partecipanti disegnarono la mappa dei conflitti violenti di cui erano testimoni a partire da una prospettiva di genere, creando rappresentazione visive che riflettevano la loro esperienza.
Rita Manchanda descrive la mappatura come un veicolo per contrastare la visione “stato-centrica” dei conflitti: “E’ un elemento che funge da catalizzatore per il dialogo e offre nuove prospettive sulle diverse situazioni. Come le donne hanno iniziato a disegnarle, un incredibile flusso di energia e proposte è scorso fra loro. Ogni mappa inizia inevitabilmente con il dolore, ma si muove rapida verso la creazione del futuro. Le attiviste che hanno appreso questo metodo lo hanno portato nelle loro comunità per insegnarlo ad altre ed altri. Si è rivelato efficace nel portare alla luce come il conflitto viene vissuto a livello personale, e cosa ogni persona può fare per contribuire alla sua risoluzione nonviolenta. Persone che si sentivano non ascoltate, e in qualche modo tradite e silenziate per questo, hanno finalmente preso parola per la pace. Dovete pensare che ogni iniziativa per la pace che costruiamo come Forum riceve un’intensa pressione contraria, dove alternativamente “tutti” gli indiani o “tutti” i pakistani vengono descritti come sabotatori o agenti nemici. Demistificare le politiche dell’odio è il lavoro quotidiano del Forum.”

MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Ma io sono il messaggio o solo il messaggero?

Bruno Lauzi, un uomo libero in cammino verso il centro dell’uomo

“Non ho mai rappresentato un momento storico della gioventù italiana, non sono mai diventato il simbolo di un movimento o di un’epoca. Le ho attraversate queste epoche, con il passo abbastanza sicuro di quello che cammina, pensa agli affari suoi e non sta molto a riflettere su ciò che gli succede attorno…” Ad esempio, l’unico avvenimento del ’68 che Bruno Lauzi diceva di ricordare era il suo matrimonio…
Non aveva nascosto le sue simpatie liberal-repubblicane, come alla vigilia di una tornata elettorale mi pare del 1978, in un interessante botta e risposta sulla collocazione politica dei cantautori con Roberto Vecchioni sulle pagine del Giornale di Montanelli.
Non mi risultano canzoni sue contro la guerra o per la nonviolenza…
Ha scritto pagine di vera poesia in musica ( “Il poeta”, “Ritornerai”, “La casa nel parco”); ha scoperto e fatto conoscere Paolo Conte (che era stato il suo avvocato!) interpretando “Genova per noi” e “Onda su onda”; ha portato in cima alle classifiche “Amore caro amore bello”, “L’Aquila” e altri classici scritti per lui da Lucio Battisti; ha tradotto in italiano autori come Brel, Moustaki e Paul Simon; ha scritto per Ornella Vanoni e Mia Martini. E’ stato compagno di banco di Luigi Tenco e, assieme facevano parte di un gruppo jazz.
Sapeva scrivere per i bambini e con grande maestria:“La tartaruga”, “Johnny Bassotto”, “Babbo Blu” e “La gallina brasiliana”
Tutti motivi sufficienti per ricordarlo e che vanno sicuramente ricordati.
Ma vorrei dire che Bruno Lauzi, con la sua vita ci ha spesso indicato qualcosa che dovrebbe avvicinarsi al cuore della nonviolenza: una ricerca semplice ma profonda di quello che c’è di buono in ogni persona e in ogni situazione. A partire da se stesso, ormai gravemente infermo, che sapeva rendere la sua malattia occasione di divertimento: “Grazie dell’applauso! Con tutto il tempo che ci ho messo per salire sul palco, dovrete aspettare un bel pezzo prima di farmi scendere” e ancora “Da giovane ero dritto e fermo e avevo una voce tremolante, oggi faccio fatica a stare in piedi e tremo tutto ma ho una voce che taglia come una spada, prima di morire canterò come Pavarotti!”
Agli ascoltatori consigliava di non cercare profondi messaggi nelle sue canzoni:”io stesso non so dove sto andando (Ma ci vado lo stesso…!)
Al “Piccolo Angelo” protagonista di una delle sue ultime canzoni fornisce un “Manuale del piccolo esploratore” con istruzioni precise: “Ma tu ricordati ogni giorno che hai visto passare/ E dell’ultima stella d’agosto che hai visto cadere/ Memorizza ogni singolo bacio prendi nota di ogni bicchiere/ E chissà che qualcosa di bello, qualcosa di bello ti possa accadere”
Ci piace pensarlo sempre lì, a sognare e a disegnare “L’ufficio in riva al mare” dove “l’arredamento non c’è, però c’è il mare da ascoltare e il tramonto da aspettare”, c’è un gran daffare a costruire e architettare e dove il vecchio Bruno ( “sono un vecchiaccio, ma piaccio…”) il figlio, uccelli, coralli e chiunque voglia entrare in sintonia può viverci in libertà: “Liberi, qui dentro noi viviamo liberi”

Qual è il significato del messaggio ?
Come si fa a capire quando è vero ?
Sono il messaggio o sono il messaggero ?

Io canterò politico quando starete zitti
E tutti i vostri slogan saranno ormai sconfitti
Quando sarete stanchi di starvene nel coro
A battere le mani solo se lo voglion loro
Io canterò politico soltanto per la gente
Che è pronta a riconoscere di non capirci niente
Non è cambiando tattica o il nome del padrone
Che il popolo ha finito d’esser preso per coglione
Volete stare comodi nessuno a disturbarvi?
Ebbè siete serviti: potete masturbarvi

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
Dentro al carcere di Rebibbia per ritrovare umanità e amore

L’ARIA SALATA
di Alessandro Angelini, Italia, 2006

Festa del Cinema di Roma – Premio Miglior Attore a Giorgio Colangeli
Fabio, educatore nel carcere di Rebibbia scopre che il nuovo detenuto arrivato via mare è suo padre, che dopo essere stato condannato per omicidio una ventina d’anni prima, aveva reciso ogni tipo di relazione con la moglie e i suoi due allora piccoli figli.
Ottimo esordio alla regia di Angelini in un film scritto a quattro mani con il suo grande amico Angelo Carbone. Una vicenda concentrata sul drammatico rapporto tra un padre schivo e scostante, abituato dalla vita (e dal carcere) ad impostare i rapporti interpersonali sul “confronto fisico” e un figlio (Giorgio Pasotti) che crede, invece, nella possibilità di cambiare il mondo e le persone attraverso il dialogo e la parola. A far da sfondo a questo incontro un passato difficile fatto di violenza e sensi di colpa, da una parte, e da sacrificio e voglia di “riscatto” (quella specie di naturale inclinazione al bene che nasce e cresce nei figli di padri che hanno commesso crimini pesanti) dall’altra. Un film che ha anche il merito di far entrare la macchina da presa in un carcere e quindi di raccontare una porzione di una realtà ai più quasi del tutto sconosciuta. Questo anche grazie al bagaglio personale del regista: «La decisione di ambientare la storia in un carcere ha preso spunto da una mia esperienza di volontariato nel penitenziario di Rebibbia, a Roma. Ero rimasto molto colpito dall’immagine della fila dei parenti in attesa del colloquio, e in particolare dei bambini, che non si rendono conto del luogo in cui si trovano, e continuano a giocare portando la loro felicità all’interno della struttura carceraria». E’ proprio sul contrasto tra l’innocenza apparente, che sa tanto di rimozione, con la quale un bimbo vive sulla propria pelle vicende così dure, e il loro improvviso riaffiorare in età adulta come un pugno nello stomaco, che il film pare sviluppare uno degli assi tematici. Paradigmatica in questo senso la sequenza d’apertura nella quale Colangeli, imbarcato su un traghetto, rivela ad un bambino che gli porge un foglio su cui vi è disegnato un prato che l’erba non è, nella realtà, così verde e brillante; che se guardi un prato da vicino è pieno di nero, della terra. Una visione, contrastata e contraddittoria della vita, insomma, all’interno della quale anche le relazioni compresa quella padre-figlio sono da intendersi come una conquista difficile fatta di rapide accelerazioni e brusche retromarce; un processo dinamico all’interno del quale ciascuno singolarmente deve fare un passo indietro. Colangeli è stato premiato proprio per la credibilità con la quale riesce a restituire allo spettatore il conflitto interiore tra la maschera-personaggio che si è venuta “scelorotizzando” nell’esperienza del carcere (quella dell’uomo freddo e antipatico che pone continue barriere tra sé e il proprio interlocutore) e la grande umanità ed amarezza dell’uomo sconfitto che, messo di fronte ai propri errori, desidera in maniera insopprimibile di riaccostarsi al figlio. Angelini decide di raccontare tutto ciò attraverso l’uso della macchina a mano che spesso e volentieri si sofferma sulla psicologia dei rapporti attraverso strettissimi primi piani, quasi a voler spiare i personaggi da vicino, eliminando tutto ciò che è di contorno: «È come se la macchina da presa – e quindi lo spettatore – fosse dentro a questo triangolo familiare (vi è inclusa anche la sorella, interpretata da Manuela Cescon, la quale si oppone con tutte le sue forze al ritorno del padre sulla “scena” della loro vita) e facesse fatica ad uscirne». Da apprezzare anche il tono sobrio e asciutto della narrazione e la resa cromatica fredda e sgranata. Unico neo: il finale, brusco, “strappato” e poco credibile, nel quale si avverte la sensazione che non si sapesse con precisione come dipanare la complicata e preziosa matassa narrativa precedentemente intrecciata.
Gianluca Casadei

Giovani
A cura di Elisabetta Albesano e Agnese Manera
La sfortuna di nascere da due genitori nonviolenti…

Perché la mia infanzia non ha potuto essere come quella di tutti gli altri bambini? Io ho avuto la condanna di nascere in una famiglia con due genitori nonviolenti e ne ho portato le conseguenze.
Anzitutto i miei compagni di scuola avevano tutti la televisione. Noi no! Mio padre sosteneva che assuefa alla violenza e citava una statistica in cui si diceva che i bambini, nei primi tre anni di vita, guardando la televisione assistono a tremila omicidi. Sarà, ma intanto i miei compagni tra loro parlavano a scuola delle avventure di Mignolo e Prof, mentre io non sapevo neppure chi erano e mi sentivo emarginata.
Poi nelle altre famiglie si mangiava la carne. Noi no! Perché bisogna avere rispetto per le altre creature viventi, sentenziava mia madre. Ma su questo argomento mi presi la mia rivincita la volta che andai a cena dalla nonna di una mia amica. Mi chiese che cosa gradivo mangiare e io, cogliendo l’occasione al balzo, le risposi: “La bistecca e il salame”. “Strano”, disse la poveretta stupita “mi sembrava che voi foste vegetariani.” “No, no, io mangio sempre la carne perché mi fa bene.” Così mi mangiai due bistecche alla milanese e finii il salame. Poi mi venne il mal di pancia. “E’ perché non sei abituata agli ormoni della carne”, affermò mia madre quando mi venne a prendere, ma secondo me era soltanto perché avevo fatto indigestione, riuscendo per una volta a mangiare anch’io come tutti gli altri.
Un giorno una mia compagna di scuola mi mollò una sberla e io la ripagai con la stessa moneta. Alla sera a casa dovetti subire un’ora di indottrinamento politico. “E’ in questi piccoli conflitti che nascono i semi delle grandi violenze”, asserì mio padre. Però poi quella volta che inavvertitamente diedi fuoco alle tende del salotto anche lui mi diede uno schiaffo. “Aldo Capitini non picchiava i suoi bambini”, lo redarguii, cercando di farlo vergognare. E lui di rimando: “Aldo Capitini non aveva bambini… Per questo era così pacifico!”.
Un Natale scrissi nella letterina a Gesù Bambino che desideravo che mi portasse le scarpe della Nike. “E’ un’azienda che sfrutta il lavoro minorile e contro di essa è in atto in tutto il mondo una campagna di boicottaggio a cui pure noi aderiamo”. Va bene, ero d’accordo con le motivazioni, ma chissà se anche Gesù Bambino sapeva del boicottaggio…
“Non voglio il cacao nel latte; mi piace il Nesquik!” Apriti cielo! “Contro la Nestlé, che è la ditta che produce il Nesquik, c’è un’altra campagna di boicottaggio, perché causa la morte di migliaia di bambini in Africa.” Anche questa volta ero d’accordo, perché non volevo essere complice dell’uccisione dei bambini in Africa. Da quei tempi iniziai a guardare torva le mie compagne che indossavano le Nike e che mangiavano il Nesquik, perché ai miei occhi apparivano come infanticidi.
Una sera a cena i miei genitori mi dissero: “Domani andiamo tutti a fare una bella gita!”. Ero proprio felice a questa idea, fin quando non scoprii che la gita era la marcia Perugia-Assisi. Quaranta chilometri sotto un sole implacabile, con un cartello davanti e uno dietro, e intanto io pensavo: “Dio, fa’ che nessuno mi fotografi o mi riprenda. Che nessuno dei miei compagni mi riconosca in qualche telegiornale o su un quotidiano…”.
Non è stata facile la mia infanzia. Scusate se non firmo questo articolo e se preferisco mantenere l’anonimato, ma non vorrei che i miei genitori capissero che sono io l’autrice di questo scritto e organizzassero un sit in di protesta davanti a camera mia…
Lettera firmata

LIBRI
A cura di Sergio Albesano

G. PROVIDENTI (a cura di), La nonviolenza delle donne, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2006.Nel presentare questo libro conviene chiarire subito l’equivoco a cui il titolo potrebbe indurre: non è intenzione delle autrici perpetuare l’oppressivo luogo comune secondo cui le donne sarebbero meno violente e meno aggressive degli uomini. Non solo perché è stato fin troppo dimostrato che le donne possono essere anche molto cattive (vedi soldatesse torturatrici, madri assassine, ministre guerrafondaie e via dicendo). E non solo perché sempre più uomini mettono seriamente in discussione il dogma culturale della loro connaturale attitudine a bellicosità e competizione.
Il motivo per cui ci preme non cadere nell’equivoco delle donne nonviolente per natura è perché siamo consapevoli che per quanto riguarda il tema genere maschile e femminile la maggior parte delle cose definite naturali sono in realtà frutto della secolare cultura patriarcale da cui proveniamo: una cultura in via di sfaldamento da quando sono state individuate le false premesse del pensiero bipolare e si è compreso il valore dell’ambivalenza e complessità del mondo. Oggi la differenza tra persone è stata riconosciuta come una ricchezza e non più motivo di discriminazione. Il femminismo ha contribuito moltissimo alla trasformazione della realtà da manichea e oppressiva in plurale e potenzialmente libera.
Attraverso il racconto di esperienze di donne rivolte all’essenziale (e per questo instancabili e profonde costruttrici di pace) e il recupero di contenuti e pratiche femministe, in questo libro emerge il contributo che la libertà femminile sta offrendo alla realizzazione di un mondo aperto all’esistenza, allo sviluppo e alla libertà autentica di ogni essere. Nei diversi contributi del volume emergono luoghi concreti e simbolici in cui la differenza delle donne sta generando cambiamento della politica e della società in una direzione nonviolenta.

E. LIOTTA, La maschera trasparente, La piccola editrice, Celleno 2006, pagg. 140, € 12,00.
Nella vita degli esseri umani, il dialogo (e il conflitto) tra l’apparire e l’essere hanno già inizio durante la prima infanzia, con lo sforzo costante che il bambino piccolissimo fa per conquistare e garantirsi la vicinanza e l’approvazione della madre.
Non sapremo mai esattamente quanta parte del nostro essere sia veramente nostra e quanto lo sia diventata, né fino a che punto ciò che siamo, in ciascun periodo della vita, sia stato indotto e condizionato dall’ambiente sociale. Anche l’apparire è soggetto allo stesso ambiguo destino.
L’autrice, com’è nel suo stile scorrevole e legato alla concretezza della vita, ripercorre le varie contraddizioni che caratterizzano le relazioni personali tra finzione, vuota apparenza e autenticità. Passa poi a leggere in modo critico le incongruenze di una società, corroborata dai massmedia, che insinua modi di vita basati sulla superficialità. Nell’ultima parte ci offre alcuni stimoli di cambiamento concreto verso uno stile di vita che sa scegliere la semplicità nell’autenticità dell’essere.
Luciano Comini

FRANCESCO COMINA, Il monaco che amava il jazz, Testimoni e maestri, migranti e poeti, Il Margine, Trento 2006, pagg. 224, € 13,00.
Thomas Merton, monaco contemplativo e maestro di vita interiore, amava il jazz e si batteva per la pace nei movimenti americani degli anni ’60. Il suo è uno dei trenta ritratti che Francesco Comina traccia in questo libro con brillante scrittura e appassionata partecipazione.
Storie vere di coraggio e di speranza, ritratti di martiri della libertà e testimoni della giustizia, dialoghi con grandi maestri di vita e di pensiero. Ma ci sono anche i volti dei poeti e dei migranti a comporre questa singolare galleria di personaggi: da Josef Mayr-Nusser, soldato semplice di Bolzano che rifiutò il giuramento a Hitler, a Marianella Garcia Villas che si chinò sugli uccisi in Salvador; da Raimon Panikkar, filosofo che pensa e vive l’incontro tra le religioni, a Ivan Illich, acuto critico dei nostri idoli culturali e sociali; da Giorgio La Pira, sindaco della povera gente e della pace, a Esperanza Martinez, che si sta battendo per gli indios contro i signori del petrolio; da Alex Langer, costruttore di ponti etnici e politici a Yolande, tutsi, e Jacqueline, hutu, che tessero amicizie impossibili nel tragico Ruanda del ’94. Ma anche padre Turoldo, don Tonino Bello e le coraggiose Madri argentine e le badanti dell’Est che salvano le nostre famiglie.

LETTERE

Famiglie e volti di persone
In questi giorni si fa un gran parlare di pacs, unioni civili, coppie di fatto. Sorrido felice nel constatare come nel mio piccolo universo di vita le cose siano totalmente diverse. Di fronte a me infatti vedo volti di persone: vedo la mia compagna di vita da 13 anni, vedo le nostre figlie di tre anni e di quattro mesi, una famiglia che si ama e che cresce serena e gaia. Scopro dai giornali che sbaglio a definire questa mia situazione “famiglia”, scopro che non mi è consentito equipararmi (questo è il verbo usato) a questo bene supremo, quasi che la definizione “famiglia” fosse un’unità di misura in uso a qualche arbitro. Sorrido perché so quanto amore c’è dentro casa nostra, ma anche noi navighiamo a vista in mezzo alle tante contraddizioni che questa esistenza terrena si porta dietro.
Non sorrido più, non capisco la rappresentazione che parte del mondo fa di noi, coppie di fatto. Non capisco l’enorme divario che si percepisce nei nostri confronti. Quando ci si renderà conto che i volti che formano queste coppie di fatto alla fine sono i vostri stessi colleghi di lavoro, le persone che si siedono accanto a voi in autobus, i vostri vicini di casa, i vostri elettori?
Alcune coppie vivranno per sempre assieme, altre si lasceranno, altre ancora si sposeranno, altre sbaglieranno o faranno giusto… esattamente come ogni giorno fa qualsiasi essere umano. Qui non si tratta di avere diritti riconosciuti, di creare leggi anche per noi, si tratta di rendersi conto che esistiamo e che non siamo dei mostri o, se lo siamo, lo siamo come qualsiasi altra persona di questo mondo. Siamo società civile, esattamente come tutti.
Nessuna legge, nessun benpensante “teocon” o “teodem”, nessuna toga o paramento sacro impedirà alle società di evolversi, di trasformarsi. E noi siamo parte di questa trasformazione. Ma non preoccupatevi, non esiste nessun piano segreto per intaccare e minare i pilastri su cui regge il matrimonio e la famiglia tipicamente conosciuta. Semplicemente vorremmo capiste che ora esistono altre forme di convivenza, altre forme di amore pulito, sereno e bello.Massimiliano Pilati
Lavis – Trento

La responsabilità politica del degrado
Bullismo, violenza dilagante, truffe estese, vari disagi sociali , sono i semi germogliati negli stili di vita funzionali al potere! Si parla di consapevolezza, responsabilità, ambiente e si mortificano le città, i luoghi con nefandezze. E’ stato tolto il senso del gioco alla vita!!…E’ stata tolta la gioia di vivere! E i bimbi non hanno più i prati per giocare. Amministrazioni comunali che si reggono sulla cementificazione producendo così agglomerati caotici invivibili che privano la persona dell’esercizio del sé.
Una burocrazia elefantiaca con remunerazioni da truffa collettiva che prosciuga le tasche del Paese, impegnata nell’agevolare l’affarismo…e toglie le speranze. Pronti sempre a generare guerre inutili, scontri… E’ lì nel terrore che si legittimano. Linciaggi a chi potere non ne ha e che forse per la miseria e la provocazione quotidiana dell’impunità degli intoccabili si spinge oltre ogni limite divenendo preda prediletta. E’ un collasso etico sociale governato dall’orgia! C’è uno sterminio di intelligenza e potenzialità: studiosi, ricercatori costretti a espatriare; Università senza mezzi; laureati senza futuro e talenti emarginati…Lo chiamavano il Bel Paese, finché non è stato occupato!

Luigi Boschi
Parma

La condanna a morte di Saddam
Male più male, uguale due mali. Questa è una umile fortissima verità. Il male che Saddam ha inflitto non è riparato ma aggravato e confermato dal dargli il male della morte come castigo.
Il senso di ciò, del tutto irrazionale, sta nella triste parafrasi di un proverbio più allegro: «Uccide bene chi uccide l’ultimo». Se per ultimo uccidesse Saddam, forse ucciderebbe bene? Sì, secondo questa logica, se fosse lui il vincitore. La giustizia dei vincitori non è giustizia, perché la vittoria armata non è giustizia, ma mera imposizione della violenza delle armi. La vittoria armata non dà al vincitore titolo di giudice del vinto. Chi vince perché ha più armi ed è più abile, spregiudicato e crudele nell’usarle, non afferma la ragione, dunque la giustizia, ma soltanto la violenza mortale, il trionfo della morte. La sentenza della guerra è morte e non vita.
Il caso Saddam somma l’iniquità della pena di morte all’iniquità della guerra e all’iniquità della dittatura. L’ingiustizia della dittatura è soltanto confermata e non smentita dalla ingiustizia della guerra usata per abbatterla da quegli stessi che fino a ieri sostennero e si servirono del dittatore. O la tirannia si smonta con le libere coscienze, con la comunicazione e solidarietà tra i popoli, con la disobbedienza popolare civile e nonviolenta, con la democrazia internazionale, oppure all’uomo tiranno si sostituisce la potenza tiranna armata e mortale.
Enrico Peyretti
Torino

Di Fabio