Editoriale
L’INDIA E L’ATOMICA GANDHI AVEVA PREVISTO…
Mao Valpiana
L’attualità
GUATEMALA MARTORIATO: NUNCA MAS
Gabriele Colleoni
L’argomento
MA E’ PROPRIO VERO CHE NEL MONDO LE SPESE
PER GLI ARMAMENTI CALANO?
Achille Lodovisi
Testimoni di pace
SCUOLA COME…EDUCAZIONE ALLA PACE
Guy Goujon
L’obiezione
NUOVA LEGGE SULL’OBIEZIONE:
RIFORMA O CONTRORIFORMA?
Stefano Guffanti
Il fucile spezzato
VI FACCIAMO TRE RACCOMANDAZIONI:
NON DIMENTICATELE!
Pianeta India
IL GIAINISMO, SCUOLA DI NONVIOLENZA
Claudio Cardelli
Il fucile spezzato
ANCORA MATTONI PER LA PACE
Grazie a voi ho conosciuto Alex
Cari amici di A.N.,
Vi ringrazio per la rivista, davvero molto stimolante. Non sono una persona di molte parole e con una grande qualità espressiva, ma tengo a dire che ogni numero che ho letto mi ha chiarito qualcosa di questo mondo così complicato e violento e ha risvegliato in me la speranza e la volontà di lottare (in maniera nonviolenta?) contro tutto quello che non va.
Sono impaziente di approfondire la mia conoscenza di Alex Langer, ne ho letto la prima volta in quel bellissimo numero monografico uscito dopo la sua morte e da allora mi sento in qualche modo legata alla sua figura.
Nel numero di marzo ho letto delle cose interessantissime su Tolstoj, riguardo al modo di combattere il male; proprio ieri sera abbiamo avuto un incontro con il nostro vescovo Ablondi sulla pena di morte e ci ha aiutati a riflettere sull’impossibilità di giudicare gli altri degli atti che commettono e sulla necessaria revisione del nostro modo di considerare i cosiddetti delinquenti e quella struttura di morte che sono le nostre carceri.
Vi saluto caramente.
Isabella Bianchi
Livorno
Gabriele Bortolozzo, L’erba ha voglia di vita (autobiografia e storia politica tra laguna e petrolchimico), ed. Associazione G. Bortolozzo, Mestre 1998, Lire 18.000.
Ho conosciuto Gabriele Bortolozzo alle riunioni serali del Movimento Consumatori, si tenevano in un locale senza riscaldamento anche in inverno, con sedie di fortuna e Gabriele era tra i più assidui, sempre disponibile a dare il suo contributo di idee e di azione. Lo reincontro ora nel suo libro e mi sembra di ritrovarmelo davanti con quella sua figura imponente e con quella sua faccia limpida e aperta.
Il libro è in buona parte la storia di Porto Marghera vissuta in prima persona dall’autore. Non mancano digressioni storiche e riferimenti alla realtà storico-politica nazionale, ma il punto di riferimento rimane sempre saldamente ancorato a Marghera e al Petrolchimico. L’innata modestia impedisce all’autore di parlare in prima persona, ma il lettore avverte che in molti episodi e in molte situazioni Bortolozzo era lì presente e quello che scrive lo ha visto con i suoi occhi e vissuto sulla sua pelle.
Ne viene fuori un ritratto di fabbrica complesso, in cui Gabriele si muove con quella disinvoltura che gli deriva dalla personale esperienza ed è proprio questa che gli dà sicurezza nell’esprimere giudizi con l’efficacia di una estrema sintesi e semplicità, ma anche senza ricorrere ad inutili eufemismi. Stupisce però che, nonostante la forza e la gravità della denuncia, non vi sia animosità e astio nei confronti di alcuno, né volontà polemica perché il discorso è sempre pacato e misurato sia nella forma che nella sostanza. Di qui il valore di una denuncia non pretestuosa e personale contro qualcuno, ma il graduale svelarsi di un sistema in cui si intrecciano in modo inestricabile pesanti interessi economici, politici e sindacali.
In alcuni passi del libro ci si trova di fronte quasi ad una Cronica medievale, in cui lo scrittore avvicinando il suo obiettivo, mette in primo piano operai, capireparto, sindacalisti e dirigenti con tanto di nome e cognome facendo di essi i protagonisti diretti della storia quasi a ricordarci che essi hanno contribuito in modo non subalterno a fare la Storia del Petrolchimico e di conseguenza dell’industria italiana. Chi legge, inoltre, troverà sparsi i nomi di personaggi che nel bene o nel male hanno caratterizzato gli ultimi decenni della storia italiana e anche i nomi di alcuni, allora giovani sconosciuti, che segnano tuttora la storia della città di Venezia.
Meraviglia infine la ricchezza di informazione e la partecipata ricostruzione di fatti che, pur accaduti decenni fa, ci sembrano incredibilmente lontani, ma nella rievocazione di Bortolozzo riacquistano la loro dimensione temporale del ieri e dell’altro ieri e quindi di un quasi presente che sta solo dietro l’angolo.
M.Marigonda
Obiettare al CAI?
Sergio Bergami, appartenente al MIR di Padova e da 17 anni socio CAI (Club Alpino Italiano), ci sottopone una questione di notevole interesse, appresa da un articolo apparso a Pag. 7 del n. 1 – 98, della rivista CAI “Lo scarpone”, nel quale si informano i lettori dell’avvenuto sodalizio tra CAI e Ministero della difesa, avente la finalità di formare i giovani, in particolar modo quelli del sud Italia (per i quali l’arruolamento rappresenta una delle poche opportunità lavorative), interessati ad intraprendere la ferma breve nei contingenti alpini delle FFAA. L’avvio di questa collaborazione segna di fatto un coinvolgimento diretto del CAI a sostegno della realizzazione del Nuovo Modello di Difesa e della nuova filosofia che anima le politiche ministeriali in materia di difesa: supporto militare agli interessi economici e finanziari nazionali, in violazione dell’Art. 11 della Costituzione. Tutto normale, per il Vicepresidente, T. Valsesia, che ha risposto in forma privata alle osservazioni di Bergami, ritenendo opportuno non favorire prolisse polemiche e vacue diatribe sulle pagine della stampa sociale CAI, anche perché le critiche di Bergami non sarebbero voce della maggioranza ma espressione di una singola voce. Bergami ha così deciso di restituire la propria tessera di socio CAI e di segnalarci il fatto.
Quanti obiettori e nonviolenti sono soci CAI o amanti della montagna? Quanti si sentono di contestare questo impegno del CAI a sostegno del Nuovo Modello di Difesa? Non sarebbe forse il caso di obiettare anche al CAI?
Non confondiamo l’amor di Patria con..
Pubblichiamo volentieri la Lettera Aperta che il nostro Presidente Sandro Canestrini ha scritto al periodico “L’Alpino”.
Cari amici,
leggo sempre con attenzione il Vostro periodico “L’Alpino” dove spesso sono contenuti articoli di vivo interesse. Da tempo volevo inviarVi due righe e finalmente mi sono deciso. E pongo subito la domanda brutale e bruciante: posto che gli amici alpini dichiarano spesso di essere al servizio del Paese, io mi domando, e Vi domando: di quale Paese? Avverto subito che non si può dire che questo paese è l’Italia perché ogni Stato e ogni Nazione è volta a volta sorretta da principi diversi se non addirittura opposti e quindi si impone a tutti l’obbligo di dire “da che parte si sta”.
Facciamo un esempio: nel Vostro numero 3 di quest’anno leggo, in una risposta ad una domanda di un lettore, che dire “gli obiettori sono i migliori” – come Voi scrivete essere stato il riassunto di un discorso di un vescovo – provoca la seguente considerazione: “inutile ogni commento”. Per inutile vuol dire che se si volesse fare un commento sarebbe pienamente negativo. Mi domando allora perché decine di migliaia di giovani che, sulla base di un espresso dettato della Costituzione, servono la patria assistendo gli infermi o facendo altre opere di pari merito, devono essere liquidati con una definizione così ingiuriosa.
A pagina dopo, sempre lo scrittore che commenta le lettere, dichiara che ci sono ancora in Italia, coloro che “fanno poco edificanti distinguo sull’alpinità e sull’amore di patria”. Ma perché? Mi vengono in mente le forzate costrizioni con cui un gruppo di poveri prigionieri italiani nella Germania del ’44, fu indotto, per poter mangiare un pezzo di pane, a dichiarare fedeltà alla repubblica di Mussolini. Gli fu messo un berretto d’alpino sulla testa e si mandarono in Italia a combattere i partigiani in nome dell’alpinismo. È questo che voleva dire l’autore?
In un articolo successivo si dice che alcuni oggi rimproverano gli alpini per “essere legati all’amicizia, alla lealtà, all’amore di patria, all’aver dato la vita ad un ideale al quale credevano allora” e non vi è dubbio che la lealtà, l’amicizia e l’amor di patria sono giusti sentimenti. Ma l’articolista continua così: “per un ideale nel quale credevano allora e continuano a credere anche adesso, una cosa meravigliosa”. Ma qual è “l’ideale” nel quale si continua a credere anche adesso? Era amicizia e lealtà dal 1940 in su, aggredire la Francia, invadere le terre russe, portando ovunque distruzione e morte, al seguito dell’orrendo mostro nazista? È vero, come dice Cesare Di Dato in un altro articolo, che gli alpini hanno seguito “senza fare sottili distinguo tanto di moda oggi”. Ma si tratta di capire qual è il “distinguo” perché tutti sanno che i nostri poveri ragazzi sono stati spediti a soffrire e a morire e non hanno avuto modo di fare “sottili distinguo”: ma magari fosse stato chiarito loro il perché andavano a morire, le ragioni della folle ascensione bellica nazista.
Così ancora, sempre nello stesso numero, si censiscono i libri dell’ufficio pubblicazioni militare sulla guerra di Spagna. In un’intera colonna si parla di una guerra come se si fosse svolta su Marte e non si trova una riga, neppure una parola, che “in omaggio alla verità storica” precisasse che la guerra di Spagna è stata voluta da un pugno di generale fascisti contro un governo regolarmente eletto.
Vi ho parlato, come si suol dire con il cuore in mano, da amico ad amici. Posso aspettare una Vostra risposta, anche privata, se credete?
Sandro Canestrini
Rovereto
L’ultimo martire
Monsignor Juan Gerardi è a tutti gli effetti l’ultimo – in ordine di tempo – “martire” (nel senso etimologico di “testimone”) del cristianesimo latinoamericano. Di quella parte della Chiesa che ha più coerentemente seguito la scelta preferenziale dei poveri sviluppata a partire dal Concilio Vaticano II. Una scelta già pagata pesantemente con la vita di catechisti, laici, religiosi e religiose, preti e vescovi.
Juan Gerardi ha seguito il destino di altri fratelli nell’episcopato: monsignor Enrique Angellelli, ucciso nel 1978 in uno “strano” incidente nell’Argentina del generale Videla mentre andava a consegnare una denuncia sulle scomparse forzate nella sua provincia; monsignor Oscar Arnulfo Romero assassinato nel 1980 nella cattedrale di San Salvador da uno squadrone della morte perché aveva osato chiedere ai militari di deporre le loro armi puntate sui connazionali; e ancora in Salvador l’ordinario militare, monsignor Joaquin Ramos, caduto nel ’93 dopo aver criticato la condotta di taluni settori dell’esercito.
La feroce brutalità dell’omicidio di Gerardi richiama alla memoria la strage dei sei gesuiti e di due loro collaboratrici nell’università di San Salvador nel 1989. L’assassino si è accanito su di lui, rompendogli la testa come il 16 novembre dell’89 altri killer avevano fatto con padre Ignacio Ellacuria, il rettore dell’Università salvadoregna e “mente” del negoziato di pace in quest’altro Paese centroamericano, anch’esso sconvolto da un lungo conflitto civile. Una barbarie simbolica verso quegli uomini e quelle istituzioni che per la loro credibilità potevano rappresentare sapienti “carpentieri” della ricostruzione di una convivenza pacifica, fondata sulla legittima aspirazione ad una maggiore giustizia sociale.
Monsignor Gerardi aveva già conosciuto minacce e difficoltà. Nei primi anni Ottanta, fu costretto all’esilio dalla sua diocesi del Quiché insieme ai suoi religiosi e sacerdoti. Fu negli anni in cui sotto una dittatura che pure si richiamava ai “valori” cristiani per autolegittimarsi nei confronti della guerriglia, era diventato pericoloso farsi trovare in casa una
Bibbia. Nei rastrellamenti le truppe speciali Kaibiles la cercavano insieme ai libri dei canti liturgici delle comunità. Chi veniva trovato in possesso di questi libri “sovversivi” – soprattutto se catechista – veniva il più delle volte torturato e giustiziato sommariamente. Gli indigeni impararono a custodire le loro Bibbie sepolte sotto terra. Sull’altopiano guatemalteco, per anni si tornò ad un cristianesimo delle catacombe.
G.C.
L’ASSASSINIO DI MONS. GERARDI
Guatemala martoriato: nunca mas
Ancora una volta la notte tra il 26 e il 27 aprile il sangue di un testimone di pace e di riconciliazione ha macchiato la storia dei popoli latinoamericani. A Città del Guatemala mani assassine, con 17 colpi di sampietrino sulla testa, hanno posto fine alla vita di monsignor Juan Gerardi, vescovo del Quiché, ausiliare dell’Arcidiocesi della capitale e coordinatore dell’Ufficio per i diritti umani dell’Arcivescovado (Odha). Aveva 75 anni. Era già sfuggito ad almeno un attentato e durante il governo militare di Fernando Lucas Garcia (1978-1982) era stato costretto per due anni all’esilio. Dal 1984 era stato responsabile dell’Odha, ed aveva partecipato ai negoziati tra governo e guerriglia sfociati nell’accordo di pacificazione del Natale del 1996.
di Gabriele Colleoni
“Di fronte ai temi economici e politici, molta gente reagisce chiedendo: perché la Chiesa si intromette in questo? Vorrebbero che noi ci dedicassimo unicamente al nostro ministero. Ma la Chiesa ha una missione da compiere rispetto alla società. Cosa dicono i comandamenti? “Amerai il prossimo tuo come te stesso. E precisamente a quel prossimo la Chiesa deve orientare il suo compito… Siamo chiamati a riconciliare. la missione di Gesù è riconciliatrice, e la sua presenza ci chiama ad essere riconciliatori in questa società spezzata, cercando di individuare le vittime e i carnefici dentro un orizzonte di giustizia”.
Per tentare di capire ile movente di una morte brutale – ma al tempo stesso alla sua figura – occorre partire dalle parole con cui monsignor Gerardi, il venerdì precedente alla sua morte, aveva presentato il rapporto Recuperación de la memoria historica del Guatemala, il dossier di cui per tre anni aveva coordinato la stesura come responsabile dell’Odha. 1400 pagine per fare luce sulla verità dei tanti massacri perpetrati (il 90 per cento, secondo il rapporto) dall’esercito e dalle forze paramilitari, ma anche dalla guerriglia nei quarant’anni bui che hanno separato l’avvio di un conflitto civile “a bassa intensità” come lo definivano al Pentagono, e la sigla dell’accordo di pace nel 1996. Tre volumi significativamente titolati anche Guatemala: nunca mas, mai più.
“Ci interessava conoscere la verità, ricostruire la storia del dolore e della morte. Vederne gli attori, capire il perché e il come”, aveva affermato il vescovo nel presbiterio della Cattedrale, a tre isolati dal luogo dove la notte tra domenica e lunedì sarebbe stato massacrato. “Ci interessava mostrare il dramma umano, condividere la pena e l’angoscia di migliaia di persone morte, scomparse, torturate”.
Riassume senza mezzi termini lo stato d’animo con cui il Guatemala ha vissuto l’assassinio dell’uomo che più di tutti nella gerarchia ecclesiale si era esposto negli ultimi anni sul fronte della difesa dei diritti umani, la giornalista guatemalteca Dina Fernandez: “Questo crimine è stato un messaggio molto chiaro dei “gorilla” dietro le quinte, dei signori del terrore e dell’impunità: ci hanno voluto far sapere che il bagno di sangue durato quattro decenni non è stato sufficiente, che non gli è bastato assassinare bambini e donne incinte”.
Il macigno di questo omicidio “eccellente” è precipitato su un processo di pacificazione già controverso, approdato ad un accordo tra governo e guerriglia, tra lo scetticismo generale proprio perché, come scrissero nel dicembre 1996 autorevoli commentatori, fondato su una “amnesia forzata” di tutto quello che era successo. La pace arrivò in cambio della impunità dei colpevoli delle violazioni di massa dei diritti umani. Un prezzo morale altissimo da accettare per le famiglie delle 150 mila vittime e dei 45 mila desaparecidos guatemaltechi.
Ma il rapporto presentato da monsignor Gerardi non si limita ad esporre e ricostruire gli eventi del passato. No, lancia proposte impegnative e probabilmente poco gradite in taluni settori militari e civili, in prospettiva del futuro, formulando raccomandazioni perché nel tormentato Istmo centroamericano non si ripetano in futuro le crudeltà di massa di così vasta portata degli ultimi decenni. In particolare, suggerisce la messa in moto di un ampio processo di “smilitarizzazione sociale” e di meccanismi effettivi ed efficaci per risolvere i problemi connessi alla proprietà della terra, in un Guatemala che registra la più alta concentrazione latifondista della regione e dove la maggioranza della popolazione è formata da etnie indigene, sottoposte sin dai tempi della Conquista spagnola ad una secolare spoliazione ed emarginazione. Una realtà, questa, uscita dai sotterranei della storia in cui era stata relegata coperta da un colpevole velo di oblio, grazie alla testimonianza del premio Nobel per la pace 1992, Rigoberta Menchù Tum, e prima ancora dell’altro Nobel guatemalteco Miguel Angel Asturias, autore del capolavoro Uomini di mais.
É sempre difficile fare i conti con la memoria delle tragedie collettive. Lo sanno bene tutte le società latinoamericane uscite negli anni Ottanta dalle dittature militari della “sicurezza nazionale”, direttamente ispirata dagli strateghi di Washington. Un passaggio cruciale, doloroso, teso tra la necessità di arrivare alla verità e di fare giustizia, e quella di “andare oltre”.
Nunca mas – un “mai più” che richiama direttamente il senso di colpa dell’umanità dopo Auschwitz e l’Olocausto – si titolava il primo rapporto sui desaparecidos sudamericani, quello stilato dalla commissione guidata dallo scrittore Ernesto Sabáto in Argentina dopo il ritorno della democrazia nel 1983. Fu poi la volta del Nunca mas in Brasile (qui lo fece un altro coraggioso vescovo, il cardinale di San Paolo, dom Evaristo Arns).
Quindi, arrivò anche, nei primi anni Novanta, la commissione per la verità e la riconciliazione in Cile. Solo il primo sortì un qualche limitato effetto sul piano giudiziario, anche se indubbiamente questo lavoro di rivisitazione del passato ha costituito una delle pietre miliari della ricostruzione di una nuova coscienza civile in questi Paesi.
In ogni caso, il confronto con questa memoria scomoda è rimasto in qualche modo irrisolto. Lo dimostra il recente caso cileno della “promozione” del generale Augusto Pinochet ad un seggio senatoriale a vita, oppure la abrogazione in Argentina delle leggi sull’impunità dei militari e sull'”obbedienza dovuta” che nell’87 avevano tentato di archiviare per
sempre la tragica esperienza dell’ultima dittatura militare.
La dolorosa resa dei conti con il passato è rimasta il più delle volte irrisolta, trascinandosi in una spirale di recriminazioni e di intimidazioni che ostacolano la ricostruzione di una convivenza democratica. E provare ad uccidere – o perlomeno intimorire – la memoria è stata quasi certamente la molla che ha spinto la mano o le mani omicide a Città del Guatemala. Lo ha ricordato tra le lacrime per la scomparsa di un amico – del “suo” vescovo del Quiché, la regione indigena dov’è nata, a due passi dall’adesso più famoso Chiapas – Rigoberta Menchù che nella lotta in difesa dei diritti umani ha perso il padre e due fratelli. “Chiunque abbia vissuto quello che ho vissuto io non accetterebbe di arrendersi senza prima aver ottenuto giustizia. Monsignor Gerardi non si è tirato indietro neppure alla fine quando il telefono della curia squillava per minacciarlo. Volevano denigrare il suo tentativo di recuperare la memoria storica del nostro Paese. Perché è di questo che abbiamo bisogno per consolidare la pace, e lui lo sapeva”. Parola di una discendente di quegli indigeni che hanno raccolto e “ricordato” nell’antico poema del Popol Vuh, la loro storia, quella che i conquistadores tentarono – ma invano – di cancellare per annullarne l’identità di popolo.
Una considerazione, quest’ultima che ci induce ad una piccola speranza, quella così bene espressa da Roberto Bonini “ambasciatore” della Comunità di Sant’Egidio di Roma in Guatemala: “Forse l’ultimo servizio reso da monsignor Gerardi alla sua gente e al suo Paese potrà essere quello di raccogliere attorno al suo sangue e al suo martirio le attese e le energie di tutti quelli che in Guatemala vogliono difendere una pace che seppur fragile è l’unica garanzia di stabilità e di convivenza democratica, una pace che è stata ottenuta a un prezzo altissimo. Forse un’ultima occasione che non può andare sprecata”.
L’importante è non partecipare
Al Ministro per gli Affari Esteri
Alla Presidenza della Commissione Esteri Camera dei Deputati
Al Sindaco di Roma
Alla Presidenza del C.O.N.I.
Oggetto: Apertura di rappresentanza del club calcistico “Obilic” nel comune di Roma
In data 7/4/1998 il quotidiano “La Repubblica” ha pubblicato un articolo in cui si rende noto che a Roma ha recentemente aperto i battenti una rappresentanza di una squadra calcistica iugoslava (“Obilic”) il cui Presidente sarebbe Zeljko Raznatovic, meglio noto come “Arkan”, comandante di milizie che nel corso della guerra nella ex Iugoslavia si sono rese responsabili di agghiaccianti efferatezze ai danni delle popolazioni civili.
Come cittadini di una Repubblica che pone tra i capisaldi della propria Costituzione il ripudio della guerra e della violenza come strumento risolutivo dei conflitti, ci sconcerta il silenzio con il quale le Istituzioni, il mondo dello sport e la cosiddetta “società civile” hanno accolto la notizia.
Non ci convince la tesi che lo sport di fronte a questi avvenimenti debba rimanere “neutrale”; la pretesa neutralità dello sport appare sempre più insostenibile, soprattutto in relazione alla crescente importanza che lo sport, ed il calcio in particolare, va assumendo come fenomeno di costume e spettacolo, coinvolgendo strati via via più vasti della popolazione mondiale.
Il rischio che tale neutralità si traduca in una sostanziale amoralità dello sport che ne cancelli la dimensione più nobile, cioè quella di gioco e di divertimento, è molto forte e pericolosa.
L’insistenza nel far valere la pretesa di neutralità toglie qualsiasi valore alla tradizionale frase che i giornalisti delle nostre domeniche sportive utilizzano per commentare i periodici incidenti che avvengono sugli spalti: “sono fenomeni che non hanno a che fare con lo sport”. Hanno invece a che fare, purtroppo, perché vi è chi concepisce lo sport come veicolo di scontro, di contrapposizione etnica e tribale, a scapito del carattere ludico che lo sport dovrebbe avere nella sua dimensione più profonda di strumento di promozione sociale.
Auspichiamo che le Istituzioni ed il mondo dello sport vogliano esprimersi in proposito, in ossequio ai più elementari principi di giustizia che ci impongono di non dimenticare quanto avvenuto, di recente e a breve distanza dai confini italiani, nella ex Iugoslavia.
Ringraziando per la cortese attenzione,
porgiamo Distinti Saluti.
Stefano Maggi, Pietro Ferrari,
Giuseppe Camerini
(Pavia)
Fratellanza euromediterranea
……..Oggi c’è una sfida ed una possibilità di grande rilievo per i cittadini ed i gruppi europei e mediterranei. Non c’è nessun’altra area del mondo in cui in uno spazio così concentrato si trova un’eredità così comune e così diversificata insieme: al crocevia tra i tre continenti (Europa, Asia, Africa) e le tre grandi religioni monoteiste (Ebraismo, Cristianesimo, Islam), in una cornice ambientale e monumentale con caratteristiche fortemente comuni ed oggi gravemente minacciata.
Ecco perché riteniamo che sia tempo di affrontare anche dal basso la costruzione di una nuova fratellanza euromediterranea, e di accompagnare criticamente ed attivamente il processo che si svolge al livello delle istituzioni e dei governi. Una parte del volontariato europeo impegnato per la pace, per la cooperazione, per l’ambiente, per la giustizia tra nord e sud, per uno sviluppo umano e sociale sostenibile, già opera in questa dimensione. Ma se vogliamo davvero ravvivare e rinnovare il patrimonio comune che lega comunità, popoli, cittadini, eco-sistemi, economie e società mediterranee, ed intrecciarle con quell’altro grande processo di integrazione che oggi faticosamente avviene tra l’Occidente e l’Oriente del continente europeo, bisognerà sviluppare una nuova sensibilità, e cogliere le molte occasioni di azione ed interazione.
(Alexander Langer in Verdeuropa, maggio 1995)
Euro-Mediterranea
1° Festival InternazionaleBolzano 1 – 5 luglio 1998 Tenendo conto di una storia antica di relazioni e scambi, L’Europa guarda, a volte con interesse e a volte con paura, ad un Mediterraneo carico di ricchezze e di conflitti. E molti cittadini del Mediterraneo investono la loro speranza in un’Europa che appare un’opportunità economica, ma anche un ombrello contro i risorgenti nazionalismi ed integralismi.
Il Festival 1998 vuole essere un’occasione di approfondimento, in forma colloquiale e conviviale, dei rapporti tra Europa e Mediterraneo, delle responsabilità per i crimini contro l’umanità che si stanno ancora consumando, del rapporto tra valori universali e differenze culturali, attraverso:
FORUM tematici, TESTIMONIANZE da Bosnia, Algeria, Ruanda e dell’immigrazione, presentazione di LIBRI da parte di autori, azioni di SOLIDARIETA’ concreta, MUSICA, CINEMA, TEATRO.
In questo spirito, e per onorare quel bisogno di “fratellanza euro-mediterranea” che ha ispirato negli anni il lavoro di Alexander Langer, il Festival sarà la cornice per :
* avviare il progetto di una “Fondazione Alexander Langer”, nel corso di un incontro di amici e promotori, il giorno 4 luglio;
* annunciare il nome del destinatario o destinataria del premio 1998, assegnato lo scorso anno all’algerina Khalida Messaoudi;
Hanno confermato per ora la partecipazione:
Predrag Matvejevic (Croazia), Yolanda Mukagasana e Gasana Ndoba (Ruanda), Cherifa Kheddar (Algeria), Per Gahrton (Svezia), Birgit Daiber (Germania), Augusto Illuminati , Carlo Ginzburg, Lisa Foa, Peter Kammerer, Anna Segre , Gianni Sofri, Tonino Perna, i musicisti Balasevic (Serbia), Nidi D’Arak (Puglia), Giberya (Albania), il gruppo teatrale Alma Mater (Torino), parlamentari e italiani ed europei (altri contatti in corso).
Possibilità di alloggio: in albergo a Bolzano o al passo Carezza (30 km), in un collegio/ostello per giovani, ospitalità di privati, dedicata in particolare ai giovani che si dichiarino disponibili ed interessati a collaborare all’organizzazione del Festival
Il Festival è promosso da: Pro Europa, dalle riviste Una Citta’ di Forlì e BZ1999 di Bolzano, con la collaborazione della Fondazione “Heinrich Böll” di Berlino, “Cric” di Reggio Calabria, Azione nonviolenta, Fiera Utopie concrete di Città di Castello, Associazioni “A.Langer”, Forum Cittadini di Tuzla…….
INFO: Pro Europa, via Portici 49, Bolzano/Bozen Tel. 0471/976299
Considerazioni di fine servizio
Riceviamo copia della lunga lettera di considerazioni di fine servizio inviata da Andrea Redaelli, al Ministro della difesa. Ecco un breve sunto:
Andrea giudica negativamente la politica del Ministero della difesa; da una lato il Nuovo Modello di Difesa, le spese militari, l’asservimento alla NATO, dall’altro il mancato impegno economico e politico a sostegno dei progetti di risoluzione nonviolenta dei conflitti. A ciò si aggiunge una mala gestione degli obiettori: sostituzione di personale, inadeguatezza delle condizioni di vitto ed alloggio, mancanza di preparazione dei responsabili obiettori. Il servizio non lascia spazi alla nonviolenza e riduce l’obiettore a semplice volontario che cerca di tappare le falle del sistema. Quali le cause? Eccessiva genericità dei piani di impiego obiettori, mancanza di controlli sugli enti, totale assenza di sanzioni nei confronti degli enti inadempienti, ricattabilità dell’obiettore, Distretti Militari troppo concilianti con gli enti. Come riqualificare il servizio civile ed il ruolo degli obiettori? Attraverso una effettiva smilitarizzazione del servizio civile, la formazione alla nonviolenza, la possibilità di essere impiegati in missioni non armate, un effettivo controllo sull’impiego degli obiettori. L’iniziativa di Andrea è positiva ed auspichiamo che altri obiettori seguano la sua strada, per segnalare che l’obiezione non è un atto formale ma sottende un processo di maturazione civile e democratica.
Formazione … eppur si muove!
I corsi di formazione per obiettori hanno avuto, tolti casi eccezionali (p.e. Caritas), carattere sporadico, mancando strutture istituzionali formalmente preposte a realizzarli. Laddove vi è stata la possibilità di attuare corsi, questi hanno coinvolto una minima percentuale di obiettori (p.e. Regione Veneto: 30-40 obiettori in un anno). Ultimamente, con l’avvicinarsi del momento in cui la formazione sarà prevista per legge, gli stimoli a progettare interventi formativi continuativi e su larga scala si stanno moltiplicando. Da un lato sono alcune Regioni, come la Toscana, a dotarsi di leggi sul servizio civile, prevedendo finanziamenti specifici; dall’altro sono gli enti che cercano di coordinarsi per trovare modalità organizzative e moduli formativi concreti. Il problema della formazione non è di semplice risoluzione. Facciamo un esempio concreto: in una provincia media (p.e. Verona), vi sono oltre 1.000 obiettori all’anno; per coinvolgerli tutti, ipotizzando un numero ideale di 25 partecipanti per corso, si dovrebbero organizzare 40 corsi all’anno. Un simile progetto richiede una segreteria capace di risolvere problemi economici (fondi per relatori, trainer, strutture logistiche), metodologici, contenutistici ed organizzativi. Non possiamo attenderci che sia lo Stato, attraverso l’istituzione dell’Ufficio per il Servizio civile nazionale, a risolvere questi problemi. E’ necessario che i soggetti che oggi operano sul servizio civile (enti pubblici e privati, le associazioni degli obiettori, gli enti locali) anticipino i tempi e stimolino l’Ufficio, una volta operativo, a confrontarsi con una serie di proposte formative già sperimentate e funzionanti. Sarebbe auspicabile, perciò, che gli enti mettano in comune risorse, competenze, progetti. Citiamo, a tale riguardo, il caso di Verona, dove LOC, MN e ACLI, stanno operando per creare un Coordinamento degli Enti di Servizio Civile (CESC provinciale), con l’intento di affiliarsi al CESC Nazionale. L’individuazione di percorsi formativi è ancora in fase sperimentale. Altre realtà stanno individuando opzioni diverse: le Regioni, l’ANCI, singoli Comuni.
LA PEDAGOGIA DELLA DEMOCRAZIA DI FREINET
Scuola come… educazione alla pace
L’apprendistato della democrazia, del rispetto dell’altro e di se stesso è essenziale perché la scuola sia un luogo di educazione alla pace.
Cèlestine Freinet (1896/1966) ha fondato una corrente pedagogica che va in questo senso e permette lo sviluppo della creatività dei ragazzi.
Entrato alla Scuola Normale di Nizza nell’ottobre 1912, Freinet ne esce prematuramente nel 1914 per esercitare in un paesino della Provenza: la guerra aveva richiamato al fronte i maestri di scuola. È richiamato anche lui nel 1915 e viene ferito ad un polmone il 23 ottobre del 1917. Gli rimane una insufficienza respiratoria ed è poi nominato a Bar sur Loup (Alpi Marittime).
Influenzato dal pensiero comunista si impegna sindacalmente.
Sulla rivista “École emancipée” appaiono i suoi primi scritti pedagogici; il titolo di uno di essi appare significativo: “Come unire scuola e vita”, preoccupazione che lo porta ad armonizzare la pratica in classe con l’azione sindacale, ad arricchire la sua cultura con libri e viaggi. Scopre così il movimento “Education Nouvelle” di Claparède dell’Istituto J.J. Rousseau di Ginevra, e l’altro “École Active” di A. Ferrière. A quel tempo organizza una cooperativa di prodotti agricoli locali.
Nel 1926 sposa Elise, istitutrice, militante femminista, artista dedita all’incisione su legno. Avranno una figlia, Madeleine. Aderiscono al Partito Comunista con cui romperanno ala fine degli anni ’40.
Nel 1926 si trasferiscono a S. Paul de Vence, ed appare il suo il suo libro “Basta col manuale scolastico”, rottura con la scuola tradizionale, centrata sul manuale che modella il ragazzo sul pensiero di altri ed uccide lentamente il suo.
Freinet propone un tipo di documentazione che renda possibile l’individualizzazione delle attività mediante la creazione di uno schedario scolastico cooperativo, e di libretti di documentazione “Le biblioteche di lavoro”.
Le sue attività sindacali, i suoi scritti, i suoi interventi, le sue pratiche pedagogiche gli valgono un complotto dei notabili locali ed una serie di manifesti contro di lui suggeriti da una campagna condotta da C. Maurras nel giornale ultra-conservatore “L’Action Française”.
Alla fine accetta un permesso per malattia e poi si pone anticipatamente in pensione (1935).
Lo stesso anno i Freinet aprono la loro scuola-collegio in una cascina presso Vence. Vi accoglieranno dei ragazzi con problemi di carattere sociale e dei profughi dalla Spagna, avvio di una pedagogia multiculturale.
Nel marzo del 1940 Freinet è arrestato in quanto comunista, messo in residenza sorvegliata.
Nel 1944 raggiunge il “maquis” a Briançon.
La scuola di Vence riapre le sue porte nel 1945. Elise vi sperimenta le tecniche delle attività artistiche dei bambini. La coppia studia le malattie scolastiche: dislessia, disortografia, balbettio.
Elise e Célestin
Per Michel Barré che li ha conosciuti da vicino come istitutore alla scuola di Vence, Elise e Célestin erano assai differenti.
Elise animava soprattutto i laboratori artistici e stimolava individualmente ogni membro del gruppo; Freinet – per esempio – provocava uno scambio collettivo per mettere a punto un testo libero, e non esprimeva il proprio pensiero se non alla fine. La figura del maestro era rappresentata più da Elise.
Responsabile dei problemi di alimentazione e salute, Elise impone la sua scelta vegetariana e rifiuta le vaccinazioni.
Célestin è l’animatore del movimento, oratore, ama la folla.
Elise si dimostra pignola su “la linea”, mentre Freinet è attento a quelli che non condividono tutte le sue scelte; sottomette i suoi articoli a Elise che li critica spietatamente. Questa tensione di caratteri differenti ha causato la dinamica feconda della coppia Freinet.
Dal pensiero alla scrittura e la lettura
Freinet non ha inventato tutte le tecniche pedagogiche che ha usato nel suo progetto; ha utilizzato delle pratiche già sperimentate, a cominciare dalle schede (Mashburne USA, 1920), la stampa a scuola (Oberlin, circa 1800) e la cooperativa scolastica (B. Profit, circa 1923). Dal 1924 Freinet polarizza il lavoro in classe sulla connessione tra scrittura (testo libero, resoconto delle visite, stamperia, corrispondenza con altre classi) e la lettura di tali testi stampati. Il pensiero del bambino, divenuto testo orale o manoscritto, detto o letto in classe, scelto dagli altri bambini e poi da loro stessi stampato, da valore all’espressione orale o scritta ed anche alla lettura.
Questa pagina si aggiunge alle precedenti nel “Libro di vita” della classe ove ognuno lascia così la propria traccia, poi è inviato alle classi con cui si corrisponde nel quadro di uno scambio di prodotti sotto forma di un “Giornale scolastico”.
Così vengono gettate le basi dell’apprendistato naturale della scrittura-lettura, dell’espressione libera, della sua diffusione tramite il lavoro cooperativo.
L’organizzazione cooperativa non è la fine di ogni obbligo, né significa non-direzione.
Vuole invece dire portare il gruppo a creare una modalità di funzionamento della collettività-classe che permette di imparare delle conoscenze del fare e dell’essere, proponendo degli strumenti, delle tecniche, e non di imporre contenuto e modo di assimilazione. Il bambino stabilisce il proprio piano di lavoro, partecipa alla correzione, valuta i propri risultati, corregge il proprio piano.
Il maestro aiuta a organizzare la ricerca della documentazione e controlla.
Il bambino si appropria del sapere, è autore-attore della propria educazione. I bambini divengono capaci di dirigersi, di cercare essi stessi i modi di organizzarsi per servire il gruppo. Sperimentano il gestire argomenti differenti (animazione, finanze, materiale).
Tutti occupano alternativamente posti di dirigente e di subordinati. L’auto organizzazione facilita l’assunzione di iniziative, sviluppa lo spirito critico, dà il senso della responsabilità verso la collettività.
Un principio fondamentale è di lasciar entrare la vita nella scuola, la vita del villaggio o della città, gli echi di ciò che avviene nel mondo, le gioie, le sofferenze, i conflitti. La parola libera, il testo libero, il disegno libero, sono delle tecniche che permettono questo entrare della vita e suscitano un reale interesse dei bambini. Questa quantità di espressioni, orali e scritte, manuali, artistiche o corporali, attua degli scambi interni alla classe, pone domande e confronti.
Célestin Freinet scrive nel 1937: “Noi diciamo: è lo stesso bambino che deve educarsi, innalzarsi con l’aiuto degli adulti … La vita del bambino, i suoi bisogni, le sue possibilità sono alla base del nostro metodo di educazione popolare … Il metodo pedagogico è in pericolo se si tenta di definirlo. Esso è una direzione, una linea d’azione, un cammino nel quale riteniamo doverci impegnare”.
Guy Goujon
da “Nonviolence Actualité”, Nov. 1997
(Trad. di Luciano Capitini)
MAESTRI DEL PENSIERO INDIANO/5
Il Giainismo, scuola di nonviolenza
di Claudio Cardelli
Nelle religioni dell’India è assai antica la fede nell’incessante reincarnazione delle anime, che sono condannate a rivivere con dolore in moltissime forme di vita (anche inferiori, come vermi o insetti).
L’aspirazione di ogni indù era di porre un termine al ciclo delle rinascite (samsàra) e di annullarsi per sempre nell’Assoluto.
Le anime assumono questo o quel corpo, a seconda dei meriti o demeriti delle esistenze precedenti (legge del karman). Rinascere nella forma umana, dopo una vita disordinata in preda alle passioni, è un evento quasi impossibile, come leggiamo in un famoso dialogo attribuito al Buddha e ai suoi discepoli:
“Come se, o monaci, un uomo gettasse in mare un giogo con un solo foro, e il vento orientale spingesse questo verso occidente, il vento occidentale verso oriente, quello del nord verso sud e quello meridionale verso settentrione; e ci fosse una tartaruga con un solo occhio che viene a galla una volta ogni cento anni; pensate voi, monaci, che quella tartaruga con un solo occhio potrà mai infilare il collo in quel giogo con un solo foro?”
“Difficilmente, al più forse una volta in lunghissimo tempo”.
“Ebbene, più facilmente potrebbe la tartaruga con un solo occhio indovinare il giogo con un sol foro, che non il folle, il quale è caduto in una delle forme inferiori d’essere, rinascere come uomo. E perché? Perché nelle forme d’essere inferiori vi ha solo strage scambievole e non già opere buone”.
(da V. Pisani-L.P. Mishra, Le letterature dell’India, Sansoni – Accademia, Firenze, 1970, p. 44)
Proprio per raggiungere la liberazione dal ciclo delle nascite e delle morti, dal dolore e dalle passioni, nacquero, quasi nel medesimo periodo, sia il Giainismo che il Buddhismo, entrambi collegati allo yoga, che forniva una disciplina morale e un metodo per la purificazione dell’anima.
La dottrina del Giainismo
Il Giainismo sorse per merito di Vardhamana Mahavira (circa 599-527 a.C.), detto il Jina, “vittorioso”, considerato dai suoi discepoli il riformatore di un’antica setta. Egli sarebbe uno dei ventiquattro Tirthankara, o “costruttori del guado” attraverso l’oceano della rinascita, che riattivano la fede giainista quando l’umanità va verso la decadenza spirituale.
Nato in India nel bacino del Gange da famiglia appartenente alla casta guerriera, Mahavira rinunciò al mondo all’età di trent’anni e divenne un asceta itinerante: dopo circa 12 anni di mortificazione corporale, conseguì l’illuminazione spirituale. Secondo la tradizione, egli aveva seguito gli insegnamenti dei discepoli di Parsvanatha (circa VIII secolo a.C.), uno dei Tirthankara a lui precedenti.
Il monaco jaina è tenuto all’osservanza di cinque voti: ahimsa (nonviolenza), satya (veracità), asteya (non rubare), brahmacarya (astinenza sessuale), aparigraha (non essere avaro). Sono gli stessi che abbiamo già incontrato nella pratica yoga. La nonviolenza è il più importante dei cinque voti: da lei nascono tutte le virtù, come l’austerità, la conoscenza delle Scritture, l’autocontrollo, la meditazione, la carità.
Questi voti vengono osservati in tutto il loro rigore solo dai fedeli che rinunciano al mondo, i quali formano un ordine monastico.
Accanto a quest’ordine esiste una comunità laica, i cui membri sostituiscono alle regola della castità quella della fedeltà coniugale. Si dedicano alle professioni, ma il loro cuore deve essere libero dall’attaccamento alla ricchezza. Monaci e laici devono dar prova del loro distacco dalle passioni, sopportando pazientemente il male che viene loro da altri e reprimendo nel proprio animo qualsiasi impulso di odio e di vendetta.
Valore della nonviolenza
Conformemente all’ideale nonviolento, i giainisti condannano i sacrifici cruenti, l’uso della carne, la caccia e i combattimenti tra animali. Sono ovviamente rigorosamente vegetariani e cercano di non schiacciare camminando gli insetti e le bestie che strisciano. I monaci portano una pezzuola davanti alla bocca, per evitare di inghiottire, respirando, gli insetti che potrebbero trovarsi nell’aria.
Nell’Ayaramgasutta, un testo giainista risalente al III-IV secolo a.C., la nonviolenza è magnificata in questi termini:
Tutti i santi e venerabili del passato, del presente e del futuro, tutti dicono, annunciano, proclamano e dichiarano: non bisogna uccidere, né maltrattare, né ingiuriare, né tormentare, né dar la caccia ad alcuna specie di esseri, ad alcuna specie di creature, ad alcuna specie di animali, né ad alcun essere di qualsiasi specie. Ecco il puro, eterno e costante precetto della religione, proclamato dai saggi che comprendono il mondo.
(da Albert Schweitzer, I grandi pensatori dell’India, Ubaldini, Roma, 1983, p. 59)
Nella medesima pagina Schweitzer commenta: “L’apparire del comandamento della nonviolenza è uno degli avvenimenti più importanti nella storia del pensiero umano. Partendo da un principio fondato sulla non-attività e derivante dalla negazione del mondo, i pensatori dell’India, in un epoca in cui l’etica è ancora molto primordiale, fanno l’immensa scoperta che l’uomo ha dei doveri verso tutti gli esseri e che l’etica è dunque senza limiti! Uno dei grandi meriti del pensiero indiano è quello di essere stato fedele alla verità che gli è stata rivelata in questa maniera e di averne intuito l’importanza”.
È noto che il Giainismo influì sulla formazione di Gandhi: egli crebbe in una regione, il Gujarat, in cui la cultura giaina era fortemente presente. Inoltre, fra i suoi amici più cari, si trovava un esponente del Giainismo, che egli cita, accanto a Tolstoj e Ruskin, nell’Autobiografia: Raychandbhai Mehta.
Per approfondimenti si può consulture il volume: Carlo della Casa, Il Giainismo, Boringhieri, Torino, 1962.
IL RIARMO FLESSIBILE SECONDO IL RAPPORTO SIPRI
Ma è proprio vero che nel mondo le spese per gli armamenti calano?
Tra il 1989 e il 1996, nonostante la fine del confronto tra i due blocchi, sono scoppiati 96 conflitti armati che hanno provocato quasi 8 milioni di vittime, 6 milioni delle quali tra i civili, distruzioni incalcolabili e tragiche migrazioni di intere popolazioni che hanno destabilizzato dal punto di vista sociale ed economico intere regioni in Africa, in Asia e in Europa: nel 1995 l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite assisteva più di 27 milioni tra profughi e sfollati, contro i 14,9 del 1990.
di Achille Lodovisi
La sconvolgente crudezza di questa contabilità apparentemente contrasta con i dati relativi alla riduzione delle spese militari mondiali, pari a 121 miliardi di dollari nel periodo 1990-95, e alla sensibile contrazione del volume d’affari complessivo del mercato degli armamenti. A tal riguardo il SIPRI – istituto di ricerca indipendente con sede a Stoccolma – stima un calo del 48% del mercato dei grandi sistemi d’arma, che nel periodo 1987-96 da 44,2 sarebbe sceso a 23 miliardi di dollari.
Ristrutturazione più che disarmo
Se si analizza la distribuzione per aree geopolitiche e geoeconomiche della riduzione delle spese militari e delle importazioni di armamenti si delinea uno scenario assai variegato e contraddittorio. Per quel che concerne le spese militari i tagli più consistenti – il 98% della diminuzione mondiale – si sono verificati nei paesi dell’ex blocco sovietico, mentre i paesi industrializzati dell’Occidente o hanno ridotto gradualmente i loro bilanci militari o li hanno mantenuti costanti in relazione all’aumento del reddito nazionale: attualmente le spese militari dei paesi aderenti alla NATO sono 10 volte superiori a quelle degli stati dell’ex Patto di Varsavia. Nei paesi asiatici di nuova industrializzazione il ciclo di espansione economica ha favorito un aumento delle spese per la difesa, mentre nei paesi più poveri dell’Africa e dell’America Latina, contrariamente a quanto è accaduto in altre aree, la riduzione delle risorse destinate alle forze armate è stata in molti casi sensibilmente inferiore rispetto a quella toccata agli investimenti di tipo sociale.
Anche la contrazione del mercato dei grandi sistemi d’arma non si è verificata in maniera uniforme: nel periodo 1987-96 i paesi poverissimi hanno ridotto del 79,3% le loro importazioni, il mondo industrializzato ha diminuito del 61,3% le acquisizioni di armamenti, mentre la flessione registratasi per la maggioranza dei paesi in via di sviluppo è stata del 41,6%. Se si prendono in considerazione le importazioni dei paesi aderenti alla NATO, all’ex Patto di Varsavia, all’OPEC e all’ASEAN per il periodo 1990-96 (v. tabella) tale varietà di comportamenti emerge con grande chiarezza e induce a pensare non già a un processo di disarmo globale, quanto ad un domanda estremamente fluttuante e condizionata dalle variabili politiche ed economiche dell’attuale riassetto degli equilibri mondiali.
Una fase interlocutoria, come dimostra la tendenza al riarmo dei paesi dell’OPEC e dell’ASEAN. Tra questi la Malaysia e l’Indonesia tra il 1992 e il 1996 hanno accresciuto le loro importazioni di armamenti rispettivamente da 32 a 143 milioni di dollari la prima e da 69 a 537 la seconda. In particolare il riarmo indonesiano, scandito dall’acquisto di sistemi d’arma molto sofisticati quali l’aereo di fabbricazione russa SU-30, appare in sintonia con l’adozione di una politica di proiezione di potenza su tutto il Mar Cinese meridionale e sugli arcipelaghi del Sudest asiatico. In quest’area l’attuale corsa agli armamenti è molto rischiosa per i contenziosi territoriali aperti e per gli effetti sulle economie e sulla stabilità interna dei paesi coinvolti nella crisi finanziaria.
Un nuovo ciclo di riarmo?
L’ultimo rapporto reso noto nell’agosto del 1997 dall’USCRS (United States Congressional Research Service) aggiunge elementi nuovi all’analisi, in quanto presenta il mercato mondiale degli armamenti nel periodo 1989-96 esaminando sia gli accordi relativi a forniture di armamenti che possono raggiungere i paesi di destinazione in più anni, sia i trasferimenti di materiali militari annualmente svolti.
Secondo l’USCRS, una contrazione si era manifestata già prima della fine della guerra fredda sia a causa della saturazione degli arsenali conseguente alle massicce acquisizioni dei decenni precedenti sia per le crescenti difficoltà economiche incontrate dai paesi in via di sviluppo. L’interscambio di armi ha toccato i suoi valori minimi nei primi anni novanta per poi stabilizzarsi e dare nel biennio 1995-96 segni di ripresa. Nel 1996 i contratti hanno raggiunto il valore globale di 31,8 miliardi di dollari rispetto ai 30,1 dell’anno precedente. Si tratta del primo incremento sostanziale del portafoglio ordini dell’industria mondiale degli armamenti dal 1992 quando, come conseguenza della guerra del Golfo, gli accordi per la fornitura di armamenti ai paesi del Medio Oriente fecero lievitare gli ordinativi a 42,2 miliardi di dollari, invertendo il processo di contrazione che aveva portato il valore complessivo del mercato da 54 miliardi di dollari nel 1989 a 37 nel 1991.
Complessivamente, nel periodo 1989-96, gli accordi per la vendita di armamenti hanno raggiunto il valore di 324 miliardi di dollari, mentre le forniture effettivamente svolte sono ammontate a 285 miliardi di dollari, cifre paragonabili o superiori al PIL dell’India nel 1995. Nel periodo 1989-96, così come accadeva in piena guerra fredda, i paesi del terzo mondo sono stati i maggiori acquirenti di armi, assorbendo il 67,5% del valore complessivo dei contratti e il 74,3% dei trasferimenti effettuati. La domanda è stata alimentata soprattutto dai paesi del Medio Oriente e dell’Asia, con i primi titolari del 50,7% dei contratti e del 59,9% dei trasferimenti effettivi, e i secondi attestati rispettivamente sul 39,2% e il 29,3%.
La polarizzazione dei flussi è ancora più evidente se si considerano i dati relativi ai maggiori importatori tra i paesi in via di sviluppo: i primi 5 per quanto riguarda i contratti – Arabia Saudita, Taiwan, Egitto, Afghanistan e Cina – e i trasferimenti svolti – Arabia Saudita, Egitto, Afghanistan, Iran e India – hanno assorbito rispettivamente il 47,1% e il 50,3% di tutte le operazioni, con l’Arabia Saudita in veste di assoluto dominatore sia per quanto concerne i contratti (47 miliardi di dollari pari al 23,7%) sia per quel che riguarda i trasferimenti (59,4 miliardi di dollari pari al 31,8%). Nel 1996 per quanto riguarda gli accordi per la vendita di armi il gruppo dei grandi importatori si è arricchito di paesi quali il Pakistan, l’Indonesia e il Perù direttamente coinvolti in situazioni di tensione e di conflitto. In particolare è ripresa a pieno ritmo la corsa agli armamenti tra l’India e il Pakistan, con il primo paese impegnato in contratti per un ammontare di 2,5 miliardi di dollari e il secondo per 700 milioni di dollari; questo mentre i due governi si confrontano in Afghanistan appoggiando politicamente e militarmente le fazioni che si contendono il dominio del paese.
L’espansione del mercato potrebbe seguire alcune direttrici fondamentali già manifestatesi in questi anni. Alcuni paesi economicamente più floridi o politicamente impegnati nella ricerca di una posizione di preminenza a livello regionale rivolgeranno la loro attenzione a programmi di acquisizione di armamenti tecnologicamente avanzati, di tecnologie a uso duale – civile e militare – e delle licenze di costruzione dei sistemi d’arma. È il caso della Cina, dell’Iran, dell’Arabia Saudita, dell’India, della Corea del Sud – che nel settembre del 1997 ha messo a punto un piano di acquisti per l’ammontare di 3,2 miliardi di dollari – dell’Indonesia e della Turchia, tutti paesi candidati al ruolo di potenza regionale che intendono sviluppare una propria industria militare. L’avviarsi di un ciclo di sostituzione dei sistemi ormai obsoleti acquisiti negli anni settanta in alcune regioni quali il Vicino e il Medio Oriente, l’Asia e l’America Latina indurrà a un aumento della domanda. Significativamente, proprio nel 1997 l’amministrazione USA ha rimosso il divieto di esportazione di armi tecnologicamente avanzate verso i paesi latinoamenricani.
Le acquisizioni, soprattutto nel caso di paesi dalle scarse risorse o travagliati da gravi problemi economici, si indirizzeranno prevalentemente sui programmi di aggiornamento e manutenzione straordinaria dei mezzi piuttosto che sull’importazione di nuovi sistemi d’arma. Per quanto concerne il mondo industrializzato, una delle possibilità di espansione del mercato viene dal probabile aumento delle spese militari e delle acquisizioni di sistemi d’arma da parte dei paesi dell’ex blocco sovietico che intendono aderire alla NATO. Con questa allettante prospettiva le grandi aziende costruttrici di armamenti, soprattutto statunitensi, hanno esercitato forti pressioni sugli ambienti politici per accelerare i tempi dell’ampliamento a Est dell’alleanza.
NATO
5,6
8,5
9,4
7,5
6,7
3,9
2,9
EX PATTO DI VARSAVIA
4,3
0,7
0
1,4
0,04
0,6
0,5
ASEAN
1,2
1
1,1
0,7
2,3
2,8
1,2
OPEC
5,9
3,4
2,8
5,8
3,8
3,9
4,6
Fonte: Elaborazione Osservatorio Emilia Romagna su dati SIPRI.
Armi che sfuggono alle statistiche
I paesi africani, tra i principali acquirenti nei decenni precedenti, sono quasi scomparsi dal mercato mondiale degli armamenti e hanno assorbito negli anni 1989-96 solo il 4,1% dei contratti e il 4,9% dei trasferimenti. Alcune grandi regioni africane tuttavia, secondo quanto riportato in un recente rapporto delle Nazioni Unite, sono oggi teatro di un vastissimo traffico clandestino o semilegale di armi soprattutto leggere che sfugge ai rilevamenti statistici. Fucili, pistole, munizioni e pezzi d’artiglieria sono disponibili a bassissimo costo e provengono sia dai grandi paesi esportatori, sia dagli arsenali degli stessi paesi africani. Questo flusso incessante sta alimentando i conflitti interetnici nella regione dei Grandi Laghi, nel bacino del Congo e nell’Africa occidentale. La crescita del mercato clandestino – nel quale spesso si intrecciano gli interessi della malavita e del narcotraffico – e l’incontrollabilità del commercio mondiale di piccole armi rappresentano due fattori per certi aspetti nuovi.
Nel corso della guerra fredda entrambi i fenomeni erano ben presenti, ma con gli anni novanta sono diminuite le risorse a disposizione degli apparati militari ed è prevalsa una conflittualità interna – solo 5 dei 96 conflitti scoppiati dal 1989 sono stati combattuti tra stati – nella quale si affrontano partiti, fazioni, bande armate, gruppi etnici ed etnico-religiosi. Tutte queste organizzazioni, che per motivi economici o operativi non si dotano di grandi sistemi d’arma, hanno fatto ricorso ai mercati clandestini e alle armi meno costose, alimentando una corsa agli armamenti difficilmente valutabile dal punto di vista quantitativo ma estremamente preoccupante: nel solo 1992 le Nazioni Unite ritenevano che il 42% delle armi vendute nel mondo affluisse verso le zone di conflitto.
Nell’autunno del 1997 l’ONU ha invitato tutti gli stati a intensificare gli sforzi per limitare il traffico illegale di piccole armi, e l’Unione Europea ha manifestato l’intenzione di adottare un piano per prevenire e stroncare il mercato nero, mentre sulla stampa internazionale sono comparse numerose notizie relative a ingenti flussi clandestini di armi diretti verso i Balcani (in particolare in Bosnia) e l’Asia meridionale. Alcune stime ritengono che il valore del mercato nero oscilli continuamente e possa raggiungere, in anni in cui siano presenti molte situazioni di conflitto, la metà del valore complessivo del mercato legale.
Una concorrenza molto spietata
Confermando una realtà già consolidatasi negli anni settanta e ottanta, anche negli anni successivi al 1989 il portafoglio ordini più consistente per i grandi esportatori mondiali era costituito da contratti con paesi in via di sviluppo: questi rappresentavano l’unico mercato d’esportazione per le armi cinesi e assorbivano circa il 65% degli ordinativi per l’industria bellica statunitense e italiana, più dell’80% nel caso della Francia e della Russia, circa il 55% per la Gran Bretagna.
Nel mercato del dopo guerra fredda gli USA hanno svolto la parte del leone, la Russia – erede principale dell’URSS – ha visto crollare le proprie vendite all’estero, mentre grandi esportatori quali la Polonia e la Cecoslovacchia sono scomparsi e i paesi dell’Europa occidentale hanno scontato le difficoltà incontrate nell’adeguarsi alle nuove caratteristiche della domanda. Si sono molto ridimensionate le esportazioni dei paesi del terzo mondo e della Cina, mentre paesi come Israele e la Turchia, recentemente uniti da un accordo di collaborazione per la produzione di armi, stanno dimostrando una notevole capacità di intervenire sui mercati mediorientali, latinoamericani e asiatici proponendo tecnologie e programmi di aggiornamento dei sistemi d’arma che consentono di rispondere alle esigenze di ammodernamento senza necessariamente pagare costi politici ed economici elevati. La Russia dal canto suo tenta di riguadagnare le posizioni perdute ridefinendo completamente la sua strategia commerciale. Offre – a prezzi inferiori rispetto all’occidente e a qualsiasi acquirente in grado di garantire un pagamento in valuta pregiata – tutte le armi, anche le più sofisticate, di sua produzione: aerei, sottomarini, carroarmati, artiglierie, sistemi missilistici sono stati ceduti a paesi quali l’Iran, la Cina, l’India, Cipro, gli Emirati Arabi Uniti, la Malaysia e l’Indonesia. Mosca ha costruito con la Cina una sorta di asse tecnologico-militare che Pechino sfrutta per ammodernare le proprie forze armate e riguadagnare posizioni come fornitore di armi al terzo mondo.
La competizione tra gli esportatori si è intensificata anche in campo occidentale ed ha assunto, in molti casi, le sembianze di un autentico scontro senza esclusione di colpi per l’acquisizione delle commesse. L’obiettivo dei maggiori esportatori è quello di consolidare ed espandere la loro presenza in quelle aree o in quei paesi in cui possono contare su di un vantaggio competitivo, che trae origine da tradizionali legami politici e militari e/o su precedenti grandi forniture di armamenti che hanno generato una dipendenza tecnologico-militare nel paese acquirente.
Inoltre i paesi industrializzati e molti di quei paesi del terzo mondo che hanno sviluppato una base industriale per la produzione di armamenti stanno adottando una serie di politiche protezionistiche volte a diminuire il ricorso a importazioni in questo settore. I governi intervengono, sollecitati dalle industrie, sia attraverso i canali politico-diplomatici sia concedendo sussidi ai paesi acquirenti sia fornendo agevolazioni di tipo commerciale, fiscale e assicurativo alle aziende esportatrici. Queste ultime per finanziare i costosi programmi di ricerca per la nuova generazione di sistemi d’arma e i processi di concentrazione produttiva hanno urgente necessità di realizzo.
L’insieme di queste misure, applicate ad esempio dagli USA su vasta scala in Medio e Estremo Oriente e già progettate per i paesi dell’Est europeo, comporta costi elevatissimi, sia economici 15 miliardi di dollari nei prossimi anni per i soli crediti alle esportazioni sia politici. Questi ultimi sono ben esemplificati dalla pericolosa e destabilizzante corsa agli armamenti ingaggiata tra Turchia e Grecia due pedine chiave della strategia europea e mediorientale degli USA alimentata in larga misura dalle forniture militari statunitensi. Secondo i dati del SIPRI per il periodo 1990-96 i due paesi sono rispettivamente il quarto e il settimo maggior importatore di armamenti al mondo, rispettivamente con 9,2 miliardi di dollari per la Turchia e 7,2 per la Grecia.
Politiche analoghe a quella statunitense sono state adottate in Francia e in Gran Bretagna e recentemente anche il governo italiano ha dato segni di voler promuovere un rilancio delle esportazioni italiane. Secondo quanto dichiarato dal governo, nel 1996 il portafoglio ordini dell’industria militare italiana è ammontato a 2.165 miliardi contro i 1.470 dell’anno precedente, mentre i trasferimenti effettuati hanno raggiunto i 1.196 miliardi rispetto ai 1228 del 1995.