• 23 Dicembre 2024 18:45

Azione nonviolenta – Giugno 2004

DiFabio

Feb 3, 2004

Azione nonviolenta  giugno 2004

– Visita ai luoghi simbolici dell’Europa pacifica e pacificatrice, di Mao Valpiana
– Quale Europa sta nascendo? Su quali valori si deve fondare la sua Costituzione? Quale sarà il nostro futuro di cittadini europei? Tavola rotonda fra Lidia Menapace, Paolo Bergamaschi, Daniele Lugli
– La difesa civile è entrata nel palazzo del governo, di Diego Cipriani
– In Europa c’è ancora un muro che divide greci e turchi di Cipro. Il movimento pacifista deve farlo cadere con una spallata, di Paolo Bergamaschi
– La campagna nonviolenta di San Suu Kyi, ispirata a Gandhi, per liberare Burma. I tiranni cadono sempre, di Yeshua Moser
– Colombia. Nonviolenza attiva dei contadini e resistenza alla guerra. In un paese segnato dalla violenza, crescono le comunità di pace, di Vivien Sharples

Rubriche

Economia: Silenzio, parla Barilla (Paolo Macina)
Educazione: Capire l’aggressività per trasformarla in creatività (Stefania Gavin)
L’Azione: In bicicletta verso Exa (Andrea Trentini)
Lilliput: Esperienze di economia equa (Davide Biolghini)
Musica: Giuseppe Ganduscio, ha cantato la pace (Paolo Predieri)
Storia: La nuova Legge di riforma (Sergio Albesano)
Libri: Rigenerare i poteri (Giorgio Barazza)
Dibattito: Per una prospettiva politica nonviolenta (Luciano Capitini)

Visita ai luoghi simbolici dell’Europa pacifica e pacificatrice

Il Movimento Nonviolento ha organizzato una giornata per un’Europa militarmente neutrale, solidale, nonviolenta, per rendere pubbliche e visibili le proposte degli amici della nonviolenza, a partire dalla richiesta di inserire nella Costituzione europea il “ripudio della guerra” e l’istituzione dei Corpi Civili di Pace.
Hanno aderito una trentina di amici, partiti con il pullman da Verona e diretti al Ponte Europa/Europabrucke, in Austria (paese neutrale) lungo la strada fra il Brennero ed Innsrbuck.
Nonostante il calendario avanzato, sabato 22 maggio è stata una giornata meteorologicamente invernale. Ma la pioggia ha concesso tregua proprio al momento giusto, nelle tre tappe previste.
Alla sosta al cimitero di Telves, un cucuzzolo sopra Sterzing/Vipiteno, si è fatto vedere persino il sole. La tomba di Alexander Langer, sepolto insieme ai genitori, ci ha visto raccolti in un colloquio silenzioso e in meditazione. Da quel piccolo cimitero, stretto intorno alla chiesetta, si gode un bellissimo panorama sulla valle e i monti circostanti: “Qui Alex riposa davvero” è stato il commento di chi lo visitava per la prima volta. Poi, dentro la chiesa, hanno preso la parola il parroco Don Gruber, custode senza enfasi della tomba, come un’affettuosa incombenza di famiglia che gli è toccata. Don Hugo Senoner si è aggiunto al ricordo dicendo: “non so perché Alex avesse scelto di chiamarmi amico” e pronuncia la frase senza sapere che la ridente e bellissima espressione dei suoi occhi sta rispondendo, come se Alex si fosse assentato da appena dieci minuti invece che da dieci anni.
Due letture hanno concluso la prima tappa: un brano della Lettera a San Cristoforo scritta da Alex, e un messaggio del fratello Peter: “Cari amici, sono stato invitato da don Gruber a presenziare alla Vostra sosta alla tomba di Alexander. Purtroppo sono in viaggio e quindi impossibilitato a meditare con Voi, anche sul fallimento estremo di un “nonviolento”. Spesso mi chiedo cosa penserebbe, cosa farebbe Alexander in situazioni come quelle che viviamo e che – mi pare – siano peggiorate e sconfitte dalla sua morte in qua: la Palestina, l’Afghanistan, l’Iraq, il Sudan, per citare solo pochi luoghi dei tanti. Penso davvero che la nonviolenza, in tutte le sue manifestazioni e possibilità di espressione, sia un mezzo ancora a nostra portata per dire no a quanto avviene intorno a noi ed in mezzo a noi. Vi ringrazio per quanto fate”.
La seconda sosta è stata al Brennero, un paese che fino a pochi anni fa era diviso in due. Don Hugo, che vi è stato parroco, ci ha raccontato di quando ha fatto costruire un muro di neve ai bambini, e poi vi ha fatto accendere delle candele che lentamente lo scioglievano: “vedete, i muri li costruiamo noi, ma li possiamo anche demolire”. Peter Kaser è un artista, che ricerca, custodisce e fa rivivere i segni dei passati conflitti, per non disperderne la memoria. Ci ha fatto visitare un vecchio bunker dal quale si sparava al nemico; lui l’ha ripulito e ha allestito con sue opere il vecchio percorso di 84 scalini per raggiungerlo: un bel modo per mantenere vivi i segni della storia.
La meta era il Ponte Europa/Europabrucke, dove abbiamo esposto gli striscioni €uropax e Corpi Civili di Pace, e diffuso un volantino scritto nella quattro lingue tedesco, italiano, inglese e francese.
“Per una federazione, sempre più ampia e unita, di popoli pacifici e di comunità aperte, per una maggior capacità nell’affrontare conflitti e ingiustizie, in Europa e nel mondo, per il ripudio della guerra ed i Corpi civili di pace da iscrivere nella Costituzione europea, per un’Europa attivamente neutrale, ecologica, democratica, solidale, libertaria, giusta, fraterna, nonviolenta, occorre tutto l’impegno delle cittadine e dei cittadini europei e dei loro rappresentanti al Parlamento Europeo. Questo impegno chiediamo oggi, nel ricordo di Alex Langer, cittadino d’Europa e parlamentare europeo”.
Proprio dalla cima del Ponte, hanno preso la parola i due candidati al Parlamento Europeo che hanno partecipato all’iniziativa, condividendone gli obiettivi ed impegnandosi a farsene carico se eletti a Strasburgo, Lidia Menapace (Rifondazione comunista) e Sepp Kusstatscher (Verdi).
Gli interventi di Daniele Lugli e Paolo Bergamaschi hanno concluso la manifestazione.

Quale Europa sta nascendo? Su quali valori si deve fondare la sua Costituzione? Quale sarà il nostro futuro di cittatini europei?

Europa dei 25, Europa a due velocità, Europa dei popoli o dei governi, Europa politica o Europa economica… sono questi i temi del dibattito sul futuro dell’Unione. Un tema che si può affrontare guardando l’allargamento a est, o puntando l’attenzione a sud, al di là del Mediterraneo. E poi ancora l’Europa come grande mercato o l’Europa che sta in mezzo fra l’oriente e l’Atlantico; Europa alleata o alternativa all’America. Quale politica di sicurezza e di difesa sta costruendo la nuova Europa? Mentre noi lavoriamo per istituire i Corpi Civili di Pace, c’è chi sta pensando alla nascita di un nuovo esercito europe.
Per ragionare su questi temi abbiamo chiesto aiuto a Lidia Menapace, della Convenzione delle donne contro la guerra, a Paolo Bergamaschi, consigliere della commissione affari esteri del Parlamento Europeo, e a Danile Lugli, Segretario del Movimento Nonviolento.

La nascita dell’Europa a 25, dopo quasi 60 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, è davvero un evento storico? Possiamo considerare la data del 1° maggio 2004 come la definitiva caduta del muro di Berlino e la sepoltura della spartizione di Yalta?

Lidia Menapace: È certamente un evento di portata storica, anche perché sembra avviare a compimento un processo durato anche troppo e con alterne vicende e arresti molto lunghi. Ma di per sé non rappresenta ancora il superamento degli esiti della Seconda Guerra Mondiale: rotto il tragico equilibrio del terrore della Guerra Fredda, non si intravedono ancora linee di definizione di nuovi equilibri, né lo scrostamento di tutti gli aspetti che chiamo “residuati bellici”. Sembra che ci aggiriamo ai “margini del caos”, come – secondo teorie politiche – sembra si debba fare nell’epoca della complessità.

Paolo Bergamaschi: Sì, è indiscutibilmente un grande evento storico e non solo per il nostro continente. Il processo di integrazione europea, infatti, è divenuto ormai un modello di riferimento per stati di altri continenti in cerca di forme avanzate di cooperazione. Nasce come risposta a due guerre mondiali e segna fondamentalmente il riavvicinamento fra due paesi, Francia e Germania, storicamente nemici e antagonisti che oggi sono il motore dell’Unione. Questa spinta si è poi estesa a tutta l’Europa occidentale fino all’allargamento attuale. A mio avviso l’allargamento a est è stata la politica più efficace di prevenzione dei conflitti. Non era facile governare il processo di transizione di paesi vittima di terribili dittature comuniste. La prospettiva di adesione ha agito da catalizzatore traghettando i paesi dell’Europa centro-orientale verso forme di democrazia impensabili fino a pochi anni prima. Ciò non significa che l’allargamento sarà senz’altro un successo. Il fallimento in dicembre della Conferenza Intergovernativa che doveva dar vita alla Costituzione è segno delle grandi difficoltà che ancora ci attendono e della necessità di inventarsi nuove formule e meccanismi di governo sovranazionali.
Se proprio vogliamo trovare un simbolo ritengo che Yalta sia stata sepolta a Berlino. Nell’1989 la Comunità Europea era ancora un progetto troppo debole per determinare la fine di un’epoca e l’allargamento di questi giorni è solo una conseguenza di quell’avvenimento.

Daniele Lugli: È certamente un fatto importante. Attesta il successo della costruzione europea iniziata all’indomani della guerra e proseguita tra alterne vicende. La proposta federalista, elaborata al confino dagli antifascisti Spinelli, Rossi e Colorni, è una proposta di superamento delle ristrette e distruttive visioni nazionali di pace e di sviluppo, nella libertà e nella giustizia. La stessa messa in comune di carbone e acciaio, primo passo verso la costituzione della Comunità Europea, ha significato sottrarre all’arbitrio dello stato nazionale le materie prime indispensabili per la guerra.
La divisione del mondo in blocchi, la subordinazione alla politica ed agli interessi degli USA, le resistenze nazionalistiche, l’incomprensione di gran parte del movimento dei lavoratori ha impedito che il processo di unità giungesse a un più compiuto livello e desse frutti migliori. Questi non sono comunque mancati. La data del 1° maggio 2004 può certamente essere indicata come definitiva caduta di un muro e liquidazione di una spartizione tra due potenze, visto che di potenze ne è rimasta una sola. Quanto questa situazione sia migliore della precedente dipende da cosa riusciremo a fare delle opportunità che si offrono. Quanto si è visto nell’ultimo quindicennio non conforta.

L’allargamento dell’Unione è solo la creazione di un più vasto mercato e un’area di sviluppo per il neoliberismo? Oppure l’innesto di popoli e territori che hanno sperimentato l’economia socialista e ora sono in cerca di libertà e benessere, farà nascere nuove prospettive?

Lidia Menapace: L’allargamento certo viene fatto perché chi lo promuove si aspetta – avendo lavorato in tal senso – che i nuovi stati che entrano entrino con molti problemi e poche pretese, per fare da freno a un ulteriore allargamento verso la Russia e gli altri paesi europei dell’est, e per mostrarsi del tutto subalterni agli imperativi neoliberisti. Ma non si può mai “fidarsi” del tutto dell’oggettività e non è detto che posti di fronte a iniziative politiche diverse i popoli di quegli stati si adeguino senza alcun sussulto a un ingresso i cui tempi modi e accessi sono nelle mani altrui. Per ora l’ingresso dei 10 nuovi stati sembra accrescere la pressione integralista cattolica da parte della Polonia e portare una cultura di destra anche estrema dalle repubbliche baltiche. I problemi dell’economia sono molto pesanti perché i paesi che accedono hanno alte scolarità e buona preparazione tecnica, ma strutture non “modernizzate”. Sembrano attesi per fornire manodopera a basso prezzo, il che pesa sull’area del lavoro dipendente anche nei nostri paesi. Diventa più che mai urgente e necessaria un’azione coordinata del sindacalismo europeo, per evitare che i nuovi accessi siano usati per rendere più pesante la situazione di lavoratori e lavoratrici, meno tutelata la condizione di lavoro e più difficile il ripristino di quelle forme di stato sociale che hanno caratterizzato dopo la Seconda Guerra Mondiale tutto il territorio europeo in varie forme. È superfluo dire che lo stato sociale è incompatibile con lo stato militarista, proprio per la collocazione delle risorse e la distribuzione della ricchezza sociale prodotta.

Paolo Bergamaschi: Difficile prevedere i nuovi equilibri che si instaureranno nell’Unione a 25 paesi. Alcuni di questi (Repubblica Ceca ed Estonia per esempio) hanno da tempo adottato politiche neoliberiste che troveranno probabilmente sponda nella Gran Bretagna. Altri invece (Slovacchia e Cipro per esempio) cercheranno garanzie in politiche sociali più spinte che le accomuneranno ai paesi scandinavi. Sicuramente gli aspetti di mercato saranno predominanti in considerazione del fatto, peraltro, che l’Europa politica fatica ancora ad emergere. Credo comunque che nel lungo termine le caratteristiche europee della cosiddetta “economia sociale di mercato” fondata sul dialogo tra le parti, la concertazione e la coesione sociale in contrapposizione al modello americano sapranno prevalere.

Daniele Lugli: L’economia europea non sembra attraversare un momento particolarmente felice. Potrebbe essere l’occasione per una riflessione sull’inefficacia di semplicistiche proposte neo liberiste per risolvere i problemi complessi che sono di fronte alle nostre società. Scontata l’improponibilità di un’economia “socialista”, secondo i modelli già sperimentati, e la crisi del “wellfare made in Europa” non si vedono però emergere proposte alternative, convincenti e condivise. Unica ricetta la “crescita economica” nella speranza, per una parte almeno delle forze europee, che ciò non si risolva in ulteriori diseguaglianze, ingiustizie, disastri ambientali.
Non pare che nel complesso (qualche buona eccezione pure ci sarà e la varietà ha in sé del buono) ci sia molto da attendersi dai “nuovi europei”. Si tratta di paesi da poco usciti da un dominio oppressivo. Identità e sovranità nazionale appaiono loro valori irrinunciabili. Ciò non favorisce certo l’assunzione di una responsabilità e di una visione europea. Una nuova prospettiva nasce dalla maturata convinzione dell’impossibilità di fondare su basi nazionali (se non addirittura “etniche”) non dirò la democrazia, ma neppure uno stato di diritto. Le istituzioni sovranazionali, in particolare quelle europee, vanno dunque in ogni modo rafforzate.

Quale sarà il ruolo dell’Europa nello scenario mondiale? Una nuova potenza contrapposta all’America e alla Cina? Un gigante economico e un nano politico? Quale rapporto costruire con il sud del mondo e in particolare con l’Africa?

Lidia Menapace: Il suo ruolo l’Europa deve costruirselo. A me pare che le reazioni e le aspettative dei massimi poteri mondiali obblighino l’Europa a costruirsi un ruolo autonomo del quale vi sarà molto bisogno affinché lo scontro tra grandi economie non diventi lacerante e violentissimo e metta a rischio il pianeta stesso. In questo senso è importante che l’Europa non scelga una via di antagonismo militare verso le altre grandi aree politiche del mondo, ma si collochi in una ricerca di alternativa economica politica sociale e culturale nella linea dei movimenti altromondisti e nonviolenti. Una posizione politico culturale di alternativa serve anche per poter avere col sud del mondo e soprattutto verso l’Africa una posizione di collaborazione e riequilibrio e non di sfruttamento e di egemonia.

Paolo Bergamaschi: Indipendentemente da quello che crede o vuole essere o da quello che piace a noi l’Unione Europea è già una potenza globale. Le decisioni assunte dai 25 si ripercuoteranno inevitabilmente sui paesi terzi. Potranno continuare a distruggere le economie degli altri ad esempio se verrà mantenuta la politica attuale di sussidi agricoli. Oppure salvare il pianeta se si continuerà a difendere il protocollo di Kyoto e resistere agli OGM. Oppure, ancora, costruire e affermare il diritto internazionale in un ambito multilaterale se si sosterrà pervicacemente, come è stato fatto fino ad oggi, il Tribunale Penale Internazionale e le Nazioni Unite. Gli opinionisti parlano di “soft power”, potere gentile, in riferimento all’Unione Europea per differenziarlo dal “diritto della forza” degli Americani. In realtà la tentazione militare è molto presente anche in Europa anche se oggi, fortunatamente, per tante ragioni diverse non è ancora in grado di materializzarsi.
L’Unione Europea è il più grande donatore di aiuti a livello mondiale. Siamo ancora lontani, comunque dallo 0,7% di PIL raccomandato dalle Nazioni Unite. L’attenzione verso l’Africa si è concentrata soprattutto sui paesi mediterranei coinvolti con luci ed ombre nel partenariato euro-mediterraneo. Il resto del continente, purtroppo, interessa poco: lo constato dalla scarsa attenzione che la Commissione Esteri del Parlamento Europeo dedica ai problemi dell’Africa sub-sahariana. Gli accordi ACP non mi sembra abbiano raggiunto il risultato prefissato.

Daniele Lugli: Un ruolo per l’Europa presuppone la capacità di rappresentare i popoli che la compongono. La cosiddetta Costituzione europea, le prossime elezioni, il funzionamento, la trasparenza, l’efficacia delle istituzioni che la costituiscono sono gli elementi essenziali. Quasi sessanta anni fa Capitini pensava ad un Europa punto d’incontro delle civiltà dell’Est e dell’Ovest, e superatrice dei due mondi, capace di integrare ciò che ad esse manca. Indicava una federazione di popoli pacifici, di comunità aperte: non mediazione di due esperienze diversamente insufficienti, ma loro oltrepassamento.
Il contributo che l’Europa potrebbe dare sarebbe quindi non di contrapposizione ma di esempio se riuscisse ad essere, secondo l’auspicio e l’impegno di Alexander Langer, “un’Europa ecologica, pacifica, democratica, nonviolenta, solidale, libertaria, giusta e fraterna”. Si uscirebbe così dalla connotazione gigante/nano, che rudezza yankee ha completato con verme (gigante economico, nano politico, verme militare). Per essere una potenza invece bisogna essere gigante, sia economico che militare. Così puoi permetterti tutto in quanto a politica, come gli USA vogliono dimostrare. È un pensiero generalmente condiviso. Lo dice anche Prodi: l’Africa, il sud del mondo, bussa all’Europa per aiuto ed agli USA per la sicurezza. Sta invece all’Europa mostrare all’Africa ed al Sud del mondo un’altra strada per benessere e sicurezza. Sono processi di collaborazione e integrazione economica e politica tra gli stati di vaste regioni che hanno problemi decisivi in comune, in un rapporto sempre più stretto e paritario con l’Europa e le sue istituzioni. Alcune esperienze compiute vanno già in questa direzione, da rendere più forte e coerente.

Inserire nella Costituzione europea il ripudio della guerra e l’istituzione dei Corpi Civili di Pace: come raggiungere questi due obiettivi del movimento per la pace? Quale dovrebbe essere la politica estera dell’Unione?

Lidia Menapace: L’inserimento dipenderà dalla capacità e forza e peso numerico e politico dei rappresentanti pacifisti nel prossimo parlamento europeo, oltreché dal persistere ed esprimersi di una opinione pubblica pacifista ampia e permanente. Sono in corso varie iniziative per “censire” le forze e le persone che al Parlamento, nelle altre istituzioni e nella società civile potranno svolgere azione di pressione in tal senso. Comunque già sappiamo che non mancano forze intenzionate a supportare le richieste del Social Forum italiano ed europeo per inserire nella Costituzione europea un articolo di ripudio della guerra, che considero premessa necessaria a un processo al termine del quale mi auguro si possa approdare alla neutralità militare; nel contempo le Nazioni Unite debbono dotarsi di corpi civili di pace e l’Europa pure, portando anche a compimento l’assetto di diritto internazionale con i tribunali penali per i crimini di guerra e contro l’umanità, una vera e stabile polizia internazionale e una magistratura ad hoc. Una Europa che fa autocritica pubblica sul suo passato violento e aggressivo e bellicista può essere un fattore molto importante per favorire lo stabilirsi di relazioni tra stati e popoli improntate al diritto e non alla guerra, alla diplomazia (anche dei popoli) e non allo scontro, a nuove istituzioni giuridiche e politiche laiche accoglienti e neutrali.

Paolo Bergamaschi: La Politica Europea di Sicurezza e Difesa (PESD) attribuisce pari dignità all’elemento civile e a quello militare. È un indiscutibile passo in avanti rispetto alle politiche di difesa dei vari paesi membri. Il problema, però, è che l’accezione del civile è troppo limitata e alla fine si torna a privilegiare il militare con l’istituzione, ad esempio, dell’Agenzia Europea per gli Armamenti. La scommessa e la sfida del movimento per la pace è di far in modo che l’Unione Europea rimanga una potenza civile. Mi conforta il fatto che fino ad oggi le quattro missioni militari dell’Unione Europea (polizia in Bosnia-Erzegovina; operazione Artemide in Congo e operazione “Concordia” e poi “Proxima” in Macedonia) sono state effettuate su specifica richiesta e con il mandato delle Nazioni Unite e che anche la prossima (il rilevamento della SFOR in Bosnia-Erzegovina) avverrà nello stesso ambito. La costituzione di un CCPE dipende molto dal tipo di progetto che il movimento per la pace sarà in grado di proporre. C’è ancora parecchia confusione al nostro interno che ci impedisce di far breccia nel politico. La politica estera dell’Unione Europea più per necessità che per scelta consapevole si è basata su principi di inclusione, integrazione, condivisione e partenariato al contrario di quella della superpotenza americana che fa leva tradizionalmente sui modi spicci della coercizione e della imposizione.
Poiché non c’è pace senza giustizia e non c’è giustizia senza democrazia e diritti dell’uomo, vorrei un’Unione Europea in grado di proiettare questi valori al suo esterno. Oggi vedo un’Europa avvitata, a volte prigioniera di se stessa e dei propri problemi politico-istituzionali che la paralizzano sulle grandi questioni e la rendono fortezza impenetrabile a chi bussa alla sua porta.

Daniele Lugli: Il ripudio della guerra e l’istituzione dei Corpi Civili di Pace sono obiettivi maturi, anche se non facilmente raggiungibili. C’è un crescente bisogno di sicurezza e ciò rende molto forte l’appello all’uso della forza militare, anche se quotidianamente si constata il suo fallimento. Capitini, negli anni ’60, invitava l’Europa alla fermezza di fronte agli Stati Uniti americani, a non accettare ad occhi chiusi la loro forza, senza fantasticare di dotarsene di una pari. “L’Europa è debole come forza, ma è più complessa come spirito, sente più esigenze, mentre gli Stati Uniti, nella loro sostanza, sono la difesa del sistema della proprietà privata: gli Stati Uniti, posto il proprio modo di vivere (way of life), sono disposti a subordinare tutto alla difesa di esso, alla sicurezza in esso”.
Una politica estera ispirata alla consapevolezza della complessità, lontana dal semplicismo, dall’elementarietà, dalla pretesa di essere guardiani dell’ordine, che già allora, secondo Capitini, caratterizzava la politica americana, sarebbe certo un contributo importante. Bisognerebbe però ci fosse una politica comune e dunque istituzioni in grado di esprimerla. Che una crescente e diffusa insicurezza sia un effettivo problema non è dubbio. Che il ricorso alla guerra faccia parte, come componente decisiva, del problema e non della soluzione dovrebbe essere sempre più evidente. Un’Europa neutrale e attiva, che sostiene, sperimenta, qualifica forme di azione, che già hanno dimostrato la loro necessità ed utilità, costituisce il presupposto per una efficace alternativa.

Stati Uniti d’Europa, Europa dei popoli, Europa delle regioni, Europa federale: qual è il tipo di organizzazione più consono per costruire un’Europa militarmente neutrale, solidale e nonviolenta? Come vedi il futuro dell’Europa?

Lidia Menapace: La forma di stato che preferisco è quella federale che parte dalla considerazione che tutti i poteri risiedono nella base e possono essere esercitati secondo il principio di sussidiarietà, o conferiti a livelli superiori a seconda delle necessità. Lo stato federale riduce gli aspetti delegati del potere perché conserva alla base il massimo possibile di autogoverno e di controllo. Naturalmente sono per forme democratiche che avviino e consolidino un riequilibrio della rappresentanza tra i generi e l’inserimento rapido dei e delle migranti nella cittadinanza e nelle decisioni politiche: sostengo infatti la cittadinanza di residenza per chi arriva in Europa.

Paolo Bergamaschi: Io non voglio un’Europa militare. Se però questa opzione mi consente di non aumentare o addirittura di ridurre le spese per la difesa dei singoli paesi membri e di mettere a disposizione delle Nazioni Unite mezzi di intervento che oggi non hanno, allora sono pronto al dialogo. Sono un europeista e federalista convinto che realisticamente vede un futuro difficile per il processo di integrazione. Troppa è ancora la distanza fra Bruxelles e la periferia, troppe sono le pastoie burocratiche, troppe le resistenze degli stati nazionali, troppa la indifferenza del cittadino europeo, ammesso che questo esista. Siamo in bilico tra euro-foria ed euro-scetticismo: basta poco per fare crollare un edificio dalle fondamenta superficiali. La crisi irakena dimostra che il mondo ha fame di un nuovo ordine internazionale fondato su di un’organizzazione delle Nazioni Unite efficiente dotata dei mezzi per agire. Nel breve periodo mi accontento che l’Europa sia l’alleato più fidato di Kofi Annan ma l’anima politica ha bisogno di profonde mutazioni per trasformarsi in anima di pace. Queste possono scaturire solo da un movimento per la pace maturo, consapevole dei propri mezzi e lucido negli obiettivi da perseguire.

Daniele Lugli: Sono un vecchio federalista, da quando andavo al Liceo. Anzi sono stato un “militante del popolo europeo”, quando ci pareva troppo tiepido Altiero Spinelli, padre del federalismo (una parola che l’uso dissennato ha reso quasi impronunciabile, assieme a “lega”, termine un tempo caro al movimento operaio). E dunque sono per l’integrazione politica più forte possibile. Il residuo potere degli Stati nazionali, l’accanita difesa di loro prerogative non garantiscono maggior controllo, miglior democrazia, più certezza del diritto. Non c’è tema, non c’è problema che non attesti l’impossibilità di essere anche solo esaminato in un’ottica nazionale. La costruzione dell’Europa è una sfida anche per gli amici della nonviolenza, orientati verso l’edificazione di un potere nuovo e dal basso e di un’Europa militarmente neutrale, solidale e nonviolenta.
Non sono molto ottimista circa il futuro dell’Europa. Porto il nome di un profeta, ma preferisco affidarmi alle parole che Capitini consegnò al suo ultimo scritto. Valgano come augurio: “L’Europa, unita al Terzo Mondo e al meglio dell’America, elaborerà la più grande riforma che mai sia stata comune all’umanità, quella riforma che renderà possibile abolire interamente le disuguaglianze attuali di classi e di popoli, e abolire le differenze tra i fortunati e gli sfortunati”.

La difesa civile è entrata nel Palazzo del Governo

Di Diego Cipriani

L’11 maggio 2004 può essere considerata una data “storica” per il movimento pacifista e nonviolento italiano, perché in quel giorno, a Palazzo Chigi, si è insediato il “Comitato di consulenza per la difesa civile non armata e nonviolenta”. Sedici persone che Carlo Giovanardi, ministro per i rapporti col Parlamento e con delega al servizio civile, ha convocato per dare attuazione a quanto previsto dalla legge 230 del 1998 sull’obiezione di coscienza (Biagio Abrate, Generale; Marta di Gennaro, Protezione Civile; Paolo La Rosa, Ammiraglio; Giovanni Ricatti, Ministero dell’Interno; Maria Antonietta Tilia, Ufficio nazionale per il servizio civile; Paolo Bandiera, Associazione Italiana Sclerosi Multipla; Giorgio Bonini, Centro servizi volontariato; Padre Angelo Cavagna, Gavci, movimenti nonviolenti; Pierluigi Consorti, Professore Scienze per la Pace; Diego Cipriani, Consulente Ufficio nazionale per il servizio civile; Sergio Giusti, Associazione Nazionale Pubbliche Assistenze; Giovanni Grandi, Associazione Papa Giovanni XXIII; Roberto Minervino, Lega Obiettori di Coscienza; Rodolfo Venditti, Magistrato di Cassazione, Aldo Bacchiocchi, Direzione ANCI e Antonino Drago, esperto in materia di difesa popolare nonviolenta, che è stato nominato Presidente del Comitato).
Ed è proprio da quella legge che bisogna partire per capire il significato di questa data “storica”. La legge che riformò la 772/72 (la prima legge che ha ammesso in Italia l’obiezione di coscienza al servizio militare) prevedeva, tra i compiti dell’Ufficio nazionale per il servizio civile, la struttura cioè della Presidenza del Consiglio che gestisce l’intero sistema del servizio civile nel nostro Paese, anche quello di “predisporre, d’intesa con il Dipartimento della protezione civile, forme di ricerca e di sperimentazione di difesa civile non armata e nonviolenta”.
Come si sa, la legge nulla aggiungeva a questa previsione. Non è dunque strano che solo dopo sei anni dall’entrata in vigore di quella legge (grazie alla quale per la prima volta nella legislazione italiana è entrata la parola “nonviolenza” – tutto attaccato, beninteso!), lo Stato ha cominciato ad applicare quanto previsto. Nel decreto istitutivo del Comitato si dice esplicitamente che si è ravvisata “la necessità di operare una ricognizione sulle esperienze più significative in materia di difesa civile non armata e nonviolenta, nonché di individuare indirizzi e strategie da parte dell’UNSC per la migliore attuazione” di quanto previsto dalla legge. Per far fronte a questa necessità, viene appunto costituito il Comitato “con il compito di elaborare analisi, predisporre rapporti, promuovere iniziative di confronto e ricerca” che poi l’UNSC possa utilizzare per i suoi compiti.
Nella composizione del Comitato, che inevitabilmente ha finito col lasciar fuori qualcuno, s’intravede la volontà di guardare a questo come a un “tavolo di lavoro” attorno al quale siedono i diversi soggetti che, a vario titolo, sono impegnati nel vasto campo della difesa del Paese. Mi pare che questo costituisca una novità assoluta e che sia in qualche modo il frutto di anni di lavoro, di atti e campagne di disobbedienza, di pressioni “ai fianchi” delle istituzioni, a partire dalla famosa sentenza della Corte Costituzionale che nel 1985 dichiarò la piena legittimità del servizio civile e la sua piena parità, ai fini del dovere costituzionale di difesa della patria, col servizio militare. Introducendo così nella giurisprudenza italiana il principio di forme di difesa alternative a quella militare, come sancito poi dalla stessa legge n. 64 del 2001 che ha istituito il servizio civile nazionale (volontario) finalizzato a “concorrere, in alternativa al servizio militare obbligatorio, alla difesa della Patria con mezzi ed attività non militari”.
Certamente la costituzione di una commissione non è sufficiente per far gridare “vittoria” ai nonviolenti né per vedere realizzata a livello istituzionale una forma di difesa alternativa a quella militare. Né basta una prima riunione per capire quale sarà lo sviluppo di questo Comitato e, soprattutto, quali saranno le ricadute sulla realizzazione, da parte dell’Ufficio nazionale, di quelle “forme di ricerca e di sperimentazione” di difesa alternativa previste dal legislatore.
Indubbiamente interessante è il tentativo di tener legati insieme i temi della nonviolenza e della difesa alternativa con la prassi del servizio civile, anche dopo la sospensione della leva obbligatoria che tra qualche mese vedrà anche la “fine” dell’obiezione di coscienza al servizio militare, almeno nelle forme e modalità che abbiamo visto negli ultimi trent’anni in Italia. Il che potrebbe aprire prospettive tanto attese, quali quelle di una formazione “di base” alla DPN o la costituzione dei corpi civili di pace oppure la possibilità di contribuire anche finanziariamente a forme di difesa alternative. L’ottimismo, seppur moderato e prudente , è d’obbligo.

In Europa c’è ancora un muro che divide greci e turchi di Cipro
Il movimento pacifista deve farlo cadere, con una spallata

Di Paolo Bergamaschi

Siamo stati in tanti in questi mesi a marciare contro la guerra. Siamo purtroppo ancora pochi a marciare per la pace.
Dal 1960, anno della sua indipendenza, l’isola di Cipro è stata più divisa che unita. Nel 1974, infatti, in risposta ad un tentativo di colpo di stato panellenico ispirato dalla Grecia dei “colonnelli” le truppe turche hanno invaso la parte settentrionale del paese per proteggere la popolazione turco-cipriota dalle violenze della maggioranza greco-cipriota. Da allora le due parti non hanno più creduto alla pace. Negli anni novanta la comunità turco-cipriota, forte delle truppe di occupazione di Ankara ha iniziato un percorso di integrazione più spinto con la Turchia indifferente ai richiami delle Nazioni Unite mentre quella greco-cipriota, confortata dal riconoscimento internazionale, si è incamminata verso l’Unione Europea convinta di poter far leva su Bruxelles per la risoluzione del conflitto.

Arrivando in aereo a Nicosia colpisce dall’alto la linea di demarcazione che separa le due parti come una ferita profonda che dal primo maggio sfregia tutta l’Europa allargata. Eppure pochi giorni fa siamo stati ad un soffio dalla pace. E’ mancato poco, pochissimo.
Il 21 aprile scorso i Greco-Ciprioti hanno respinto il piano di pace di Kofi Annan che è stato approvato invece dai Turco-Ciprioti. E’ paradossale che dopo trent’anni sia stata proprio la parte greco-cipriota che più si era sforzata per giungere ad un compromesso a rifiutare la proposta delle Nazioni Unite mentre quella turco-cipriota, tradizionalmente recalcitrante al dialogo, l’ha fatta propria.

Quando agli inizi degli anni novanta Cipro (NB il governo greco-cipriota, l’unico riconosciuto internazionalmente) ha presentato domanda di adesione all’Unione Europea aveva ottenuto da Bruxelles una risposta tiepida: come è consuetudine i paesi membri non volevano importare il conflitto al proprio interno. L’accordo informale fra la Commissione Europea ed il governo di Nicosia era di subordinare l’adesione ad uno sforzo reale di pacificazione fra le due comunità. Kofi Annan ha indicato recentemente l’Unione Europea come il motore che ha fatto ripartire il processo di pace. Un primo tentativo sotto l’egida delle Nazioni Unite è fallito nel marzo dello scorso anno per le chiusure ostinate del leader turco-cipriota Denktash. Quando si pensava ormai ad una separazione definitiva il presidente cipriota Papadopulos ha convinto nel dicembre scorso Kofi Annan a compiere un ultimo sforzo culminato nel piano di pace respinto proprio dalla parte che l’aveva invocato.

Nel corso della campagna referendaria le frange più oltranziste della popolazione della parte meridionale dell’isola hanno rispolverato slogan anti-turchi che si pensavano ormai sepolti dalla storia. Facendo leva sulla paura dell’altro sono riuscite a convincere il 75% della popolazione che l’unico turco buono è quello morto. Spicca in questo quadro desolante il comportamento della chiesa ortodossa con alcuni vescovi a dichiarare che chi votava “si” sarebbe andato all’inferno. E’ ancora più desolante constatare, però, come il fronte del “no” oltre ad una componente di nazionalisti oltranzisti schierasse anche tutti i partiti tradizionalmente più vicini al movimento pacifista europeo. Comunisti, socialisti e verdi, infatti, hanno determinato la bocciatura del piano di pace.

La “Road Map” in Medio Oriente è morta, l’Iraq brucia. Era importante che da Cipro partisse un segnale forte che anche i conflitti più incancreniti possono trovare una soluzione in un quadro di legalità internazionale che passa per le Nazioni Unite. Purtroppo queste sono state ancora una volta delegittimate e questa volta con grosse responsabilità da parte del pacifismo europeo.

Il conflitto cipriota in questi anni non è mai stato all’ordine del giorno del movimento per la pace continentale. Eppure a Cipro si trova l’ultimo muro europeo che rappresenta lo scontro fra due civiltà, due culture, due religioni, due etnie. La nuova Europa allargata nasce con una linea di confine presidiata dai caschi blu dell’ONU.
Ogni compromesso porta con se dolorose rinunce. Il piano di pace prevedeva la nascita della Repubblica Unita di Cipro formata da una federazione di uno stato costituente greco-cipriota e di uno turco-cipriota. Oltre novemila pagine regolavano i rapporti fra le due comunità finalizzate soprattutto a fornire garanzie alla minoranza turco-cipriota che nel 1960 rappresentava il 18% della popolazione dell’isola. In questo quadro i diritti di movimento, di proprietà e di residenza venivano ridotti, alcuni in forma transitoria, per evitare che lo squilibrio economico fra il sud ed il nord (il reddito pro-capite dei Greco-Ciprioti è quattro volte quello dei Turco-Ciprioti) trasformasse la riunificazione in una vera e propria annessione.

Dopo il fallimento del referendum la diplomazia si lecca le ferite ma si è già rimessa al lavoro. La Commissione Europea, per esempio, ha già deciso di superare le sanzioni internazionali nei confronti di Cipro-Nord adottando un pacchetto di misure economiche per lo sviluppo della parte turco-cipriota. La dirigenza di questa comunità, peraltro, ha detto chiaramente che l’obiettivo finale resta comunque la riunificazione dell’isola. Qualcuno avanza l’ipotesi di un nuovo referendum entro la fine dell’anno. Altri ritengono più probabile che il governo di Cipro eserciterà al momento opportuno in seno al Consiglio il diritto di veto nei confronti della Turchia per piegarla ad un piano di pace più favorevole ai Greco-Ciprioti.

La pace può essere imposta dall’alto ma va costruita dal basso perchè sia duratura. Alla diplomazia spetta la pace dall’alto, al movimento per la pace quella dal basso. A Cipro è mancata un’iniziativa decisa dei pacifisti europei che accompagnasse l’azione di Kofi Annan creando le basi per il successo. Nell’isola, comunque, le prospettive di pace sono vive e concrete e non vanno abbandonate. I pacifisti europei devono includere il conflitto cipriota fra le priorità assolute dei prossimi mesi. Perchè, ad esempio, non pensare di trasferire la tradizionale marcia della pace Perugia-Assisi a Cipro nell’autunno prossimo? L’invasione gioiosa dell’isola da parte di migliaia di pacifisti europei che camminano insieme contro i vecchi ed i nuovi muri sarebbe in grado di restituire speranza a questa terra spingendo le parti ad un dialogo più serrato. E l’Unione Europea potrebbe qui dispiegare per la prima volta un Corpo Civile di Pace a sottolineare che sicurezza e fiducia non hanno bisogno di essere armate.
L’ultimo muro sta vacillando: i pacifisti possono dare la spallata finale per abbatterlo.
Separati in casa nel Mediterraneo

Cipro è la terza isola del Mediterraneo (9.251 km2). Dopo quasi ottanta anni di amministrazione britannica nel 1960 diviene indipendente con una costituzione bi-comunitaria che sancisce l’uguaglianza dei gruppi etnici greco-cipriota e turco-cipriota (quest’ultimo circa il 20% della popolazione). Il trattato di fondazione della repubblica riconosce Grecia, Turchia e Gran Bretagna come potenze garanti con diritto di intervento.
Nel 1974 l’esercito turco interviene per sventare un colpo di stato di alcuni ufficiali greci di stanza a Nicosia che miravano a ricongiungere l’isola alla Grecia. Da allora Cipro è divisa in due parti con più di 30.000 soldati di Ankara che occupano la parte settentrionale corrispondente al 36% circa dell’isola. La Repubblica Turca di Cipro Nord, riconosciuta soltanto dalla Turchia conta 200.000 abitanti di cui più della metà sono coloni provenienti dalla Turchia . La Repubblica di Cipro (di fatto solo la parte greco-cipriota), riconosciuta come unico governo legittimo dalla comunità internazionale, conta 700.000 abitanti. Nel 1990 ha presentato domanda di adesione all’Unione Europea diventandone membro dal primo maggio del 2004.
Nell’aprile dello scorso anno le restrizioni che impedivano il passaggio della linea verde sono state allentate permettendo a 90.000 greco-ciprioti e a 30.000 turco ciprioti di rivedere i rispettivi luoghi di origine dopo quasi trent’anni.
Il 24 aprile scorso il piano di pace del Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan è stato respinto dalla comunità greco-cipriota con più del 75% dei voti mentre la comunità turco-cipriota lo ha approvato con il 65%.

La campagna nonviolenta di San Suu Kyi, ispirata a Gandhi,
per liberare Burma. I tiranni cadono sempre. Sempre.

Un confronto tra le esperienze e i metodi della lotta di liberazione indiana del Partito del Congresso di Gandhi e la campagna nonviolenta portata avanti nel Burma dalla Lega Nazionale per la Democrazia di Daw Aung San Suu Kyi.

Di Yeshua Moser –Puangsuwan *

“ Quando mi dispero, mi ricordo che nel corso della storia la via delle verità ha sempre vinto. Ci sono tiranni, assassini, e per un po’ possono sembrare invincibili, ma alla fine cadono sempre. Pensate a questo. Sempre”. – MK Gandhi

Sebbene non prevista dai sapienti politici del tempo, la campagna del Sale lanciata da Gandhi in India, divenne l’azione diretta nonviolenta chiave per raggiungere la libertà dall’amministrazione Britannica. Al lancio della campagna un corrispondente del N.Y. Time chiese a Gandhi cosa sperava di ottenere con la campagna e cosa sarebbe potuto accadere se fosse stato arrestato all’inizio della campagna stessa. Gandhi rispose che non era questione di vincere o perdere la campagna, perché il movimento per la liberazione aveva già la situazione sotto controllo. Gli inglesi potevano solo reagire. Il movimento per la liberazione avrebbe portato avanti azioni per mettere in pratica la sua libertà e questo a sua volta avrebbe portato ad uno dei due risultati: o provocare una reazione da parte degli inglesi o portare ad un cambiamento.

La situazione attuale di Burma (ex Birmania) è ad uno stadio molto simile di quello della campagna nonviolenta ed è fondamentale che la comunità internazionale comprenda che Daw Aung San Suu Kyi e i suoi compagni del partito NLD (Lega Nazionale per la Democrazia) non sono vittime. Hanno la situazione sotto controllo. Daw Aung San Suu Kyi e il partito NLD stanno continuando a praticare la loro libertà nel paese, con una chiara consapevolezza che questo o provocherà una reazione o porterà un cambiamento. Molto probabilmente entrambe.

L’SPDC (la giunta militare) ha “liberato” la leadership del NLD e la sua carismatica leader Daw Aung San Suu Kyi nella metà del 2002, non perché improvvisamente siano diventati sostenitori della democrazia liberale, ma perché sono stati forzati da ragioni di potere. Daw Aung San Suu Kyi lo ha spiegato in un recente incontro con il Premio Nobel Jody Williams , che è andata a farle visita nel Febbraio 2003 nella sua residenza a Rangoon. Disse in quell’occasione che la giunta militare nel 2000 ha tentato di distruggere completamente il movimento quando questo provocò una simile reazione in seguito ad una dimostrazione in cui lei e i leaders del partito NLD furono fermati mentre lasciavano la capitale in un corteo di macchine. Stavano esercitando la libertà che le autorità dicevano che loro avevano, ma che in realtà veniva loro negata. Alla fine, ha detto ancora Daw Aung San Suu Kyi, la giunta militare ha fallito nel tentativo di spezzare NLD, a causa del supporto interno ed esterno al movimento. Ha spiegato a Ms Williams che il supporto interno (la popolazione di Burma e gli attivisti democratici che continuano ad essere quotidianamente arrestati) e quello esterno delle nazioni e dei gruppi internazionali che hanno ritirato il riconoscimento al regime militare, combinati, sono stati ciò che ha impedito alla giunta militare di distruggerli. La giunta militare stessa è stata forzata a vedere la saggezza nel rilascio della leadership NLD e di alcuni prigionieri e a proclamare che avrebbero iniziato a dialogare sulla futura governance del paese.
Lo stile gandhiano della campagna satyagraha consiste in azioni dal baso che vogliono far emergere la verità. L’NLD in seguito al rilascio nella metà del 2002 ha iniziato un lavoro capillare viaggiando in varie province e stati di Burma. Queste visite erano fondamentali per la costruzione di un partito; Daw Aung San Suu Kyi ha tenuto pochi e brevi discorsi pubblici ma ha invece lavorato molto affinché la gente potesse parlare in prima persona, mentre lei ascoltava. La popolazione di Burma non ha perso tempo nel trarre vantaggio da questa iniziativa e si è presentata in centinaia, poi in migliaia. La maggior parte erano i giovani che hanno preso parte alla rivolta democratica del 1988. Si sono presentati non solo per ascoltare Daw Aung San Suu Kyi ma per parlare con lei, a volte anche fino a tarda notte. In giro per il paese lei e i generali si ritrovavano ad ascoltare lo stesso messaggio più e più volte. I giovani affermavano che nella Burma di oggi non avevano opportunità educative. Le volevano e non credevano che sotto le attuali autorità avrebbero potuto averle, pertanto per il loro futuro volevano un cambiamento di regime il più velocemente possibile.

I militari stessi sono schiavi della loro linea politica. Le organizzazioni militari di per sé non funzionano democraticamente. La molteplicità di opinioni è interpretata come insubordinazione e ostacolo al raggiungimento della loro missione. L’insieme degli strumenti militari converge in uno solo che serve a fissare le cose, cioè nella violenza. Quando quell’infelice messaggio di magliaia di persone raggiunse le orecchie dei generali, loro hanno cercato di zittirli, limitando il movimento dell’NLD che aveva fornito alla gente un luogo in cui potesse parlare. Tuttavia i generali hanno cercato di imparare qualcosa dal fallimento dei loro sforzi di repressione del problema e hanno cercato di mascherare la violenza. Invece dei soldati hanno usato mobilitazioni di massa organizzate e controllate da militari come l’Union Solidarietà Alliance e la Myanmar Red Cross per portare avanti la repressione, testata nello stato Rakhine. Quando quella fallì i militari e la polizia si sono vestiti da lavoratori e monaci buddisti e hanno attaccato una carovana NLD nel Nord di Burma a Depayin.

Alcuni hanno erroneamente sostenuto che la giunta militare che controlla Burma è diversa dall’amministrazione coloniale britannica in India e che la nonviolenza non sarà efficacie. Si deve ricordare che quando Gandhi lanciò la prima fase della lotto di liberazione nonviolenta ebbe luogo il massacro di Amritsar., in cui il generale Dyer con le truppe inglesi uccise freddamente dei sostenitori dell’indipendenza che si erano radunati, causando 1.516 morti con 1.650 pallottole. Quell’atrocità premeditata veniva descritta dal Generale in questo modo: “ La mia intenzione era di dare una lezione che avrebbe potuto avere un impatto in tutta l’India”. Era irrilevante che questo includesse donne e bambini . Nei colloqui seguenti Gandhi affermò che il Massacro di Amritsar era semplicemente l’estremo esempio del punto a cui gli inglesi dovevano arrivare per controllare gli indiani. Affermò poi che era giunto il momento per gli inglesi di andarsene. Un ufficiale inglese sorpreso disse: “ Non ti aspetterai semplicemente che ce ne andiamo, vero?”, Gandhi rispose “ Sì. Alla fine ve ne andrete perché 100.000 uomini inglesi non possono controllare 350 milioni di Indiani se quegli indiani si rifiutano di cooperare e questo è quello che intendiamo fare, finché voi stessi vedrete la saggezza nel partire”.

L’incidente di Depayan che lasciato almeno 9 morti, è solo uno dei più recenti esempi delle misure estreme che la giunta militare deve prendere per controllare Burma. La loro intenzione era senza dubbio di avere un impatto in tutta Burma e ha portato esattamente agli stessi risultati di prima, lasciando i generali ancora più isolati. Hanno imprigionato Daw Aung San Suu Kyi e la leadership NLD perché sentono che questo conterrà la minaccia rappresentata dalla gente di Burma. Presto o tardi saranno costretti a vedere la saggezza del rilasciare Daw Aung San Suu Kyi e i suoi colleghi., perché lei, come Gandhi , ha sempre lasciato la porta aperta ai generali per potersene andare da amici. Non li forzerà. Devono vedere da sè la saggezza nel farlo. Daw Aung San Suu Kyi ha reso chiaro nell’incontro di Febbraio che devono farlo, se“ i generali vogliono vedere un transizione alla democrazia senza una violenza di massa, non hanno altra scelta”.

Il futuro non appartiene più solo all’SPDC o a Daw Aung San Suu Kyi, ma ora è più che mai nelle mani della gente di Burma, e di tutte le persone di questo mondo che credono che la gente di Burma deve avere la parola per scegliere il proprio governo. Tutti coloro che credono in un cambiamento nonviolento non devono dare alcun tipo di legittimità e riconoscimento al regime militare. I generali non vedranno la saggezza nel partire finché non saranno costretti a farlo, come Gandhi ha chiaramente dimostrato.

* Yeshua Moser –Puangsuwan è il Rappresentate Regionale del Nonviolent International (NI). NI cerca di rendere in grado le persone a portare avanti un cambiamento politico attraverso metodi nonviolenti.
Traduzione di Giulia Allegrini

Colombia. Nonviolenza attiva dei contadini e resistenza alla guerra.
In un paese segnato dalla violenza, crescono le Comunità di pace.

Di Vivien Sharples *

Penso tutti sappiano che in Colombia è in corso uno spietato conflitto armato e molti senz’altro avranno sentito parlare del gruppo di guerriglieri denominato FARC (Fuerzas Armadas evolucionarias de Colombia) e di AUC (Autodefensas unidas de Colombia), la rete di gruppi paramilitari legata alle forze armate colombiane e ai grandi latifondisti. Ma quanti di voi sanno delle decine di Comunità di pace formate da contadini, sparse in tutto il paese, delle associazioni indigene che riescono a riscattare le terre dei loro avi o dei giovani obiettori di coscienza e delle associazioni di attivisti pacifisti? La stampa tende a privilegiare la violenza, perciò sta a noi parlare del grande numero di iniziative nonviolente colombiane, del forte impegno pacifista di questo paese e dei successi riportati.
Nell’agosto 2003 ho visitato la Colombia per esprimere la mia solidarietà e lì ho capito quale sia il livello di coraggio dei movimenti nonviolenti ispirati alla pace e alla giustizia sociale.
A Medellin ho partecipato ad una conferenza di sei giorni dal titolo “Nonviolenza attiva e resistenza alla guerra” e per due settimane sono stata ospite delle comunità rurali e indigene impegnate a creare spazi e rispetto per la nonviolenza lì dove la guerra ha il suo epicentro.

I giovani alla testa del cambiamento
La conferenza “Nonviolenza attiva e resistenza alla guerra” ha riunito oltre 150 persone tra antimilitaristi, indigeni, Afrocolombiani, campesinos e attivisti difensori dei diritti umani provenienti da tutta la Colombia e non solo: molti venivano dal Messico, dal Paraguay, dall’Ecuador, dal Guatemala e dal Cile. C’era anche uno sparuto gruppo di europei e nordamericani. Io partecipavo in rappresentanza della War Resisters League (www.warresisters.org), ed ero una dei due unici partecipanti statunitensi.
Questa occasione è stata quasi unica nel suo genere, data la partecipazione di una vasta rappresentanza di attivisti colombiani di base che impiegano le strategie della nonviolenza per resistere alla guerra e per creare la pace grazie alla giustizia sociale.
La conferenza era organizzata da Red Juvenil (Rete di giovani) fondata a Medellin nel 1990. Gli appartenenti alla rete lavorano con i giovani dei barrios per offrire loro una valida alternativa alla scelta di unirsi ad organizzazioni criminali o ai gruppi armati o di diventare sicari. La Red Juvenil trasmette, tramite l’arte, il teatro e l’istruzione popolare, i principi legati al rispetto dei diritti umani, dell’autorealizzazione e dello sviluppo economico comunitario. Molti membri sono obiettori di coscienza e rifiutano il servizio militare obbligatorio di 20 mesi, nonostante si tratti di un reato punibile con la carcerazione e comporti, come conseguenza, molte difficoltà nella ricerca di un’occupazione o nell’ammissione alle università. La Red Juvenil organizza dimostrazioni antimilitariste e azioni dirette di nonviolenza, spesso ricorrendo al teatro di strada.
Questi attivisti dimostrano un enorme coraggio. Uno degli organizzatori mi ha raccontato di quando il gruppo si è trasferito nel quartiere Comuna 13, un agglomerato di 100.000 persone poverissime (molti profughi da varie zone del paese in conflitto) che si estende sulle colline circostanti Medellin.
Nell’ottobre 2002 Comuna 13 è stata attaccata dall’esercito colombiano nel contesto della cosiddetta Operazione Orion, evidentemente studiata per fare piazza pulita delle milizie armate collegate alla guerriglia. Tremila soldati con carri armati, elicotteri da combattimento e decine di civili delatori incappucciati hanno invaso il barrio uccidendo 35 persone e arrestandone centinaia. L’esercito, dopo aver sequestrato il centro sanitario per farne il proprio quartier generale, terrorizzava la popolazione che non osava più uscire di casa. La Red Juvenil ha organizzato un gruppo che distribuiva cibo e aiuto agli abitanti del quartiere spostandosi apertamente per le strade e aiutando a restituire nuovamente il territorio ai suoi scopi civili.

“Donne non partorite né allevate bimbi per la guerra”
Durante la conferenza sono stata particolarmente colpita dal gruppo Ruta Pacifica (donne contro la guerra) una coalizione pacifica di femministe fondata a Medellin nel 1995. Riunisce donne di ogni razza, classe e provenienza (urbana o rurale). La prima marcia di Ruta Pacifica si è svolta ad Apartado (Uraba), nel nord ovest, il 25 novembre 1996, giornata internazionale dell’eliminazione della violenza contro le donne. Queste femministe hanno marciato per esprimere la loro solidarietà alle donne di Uraba che soffrono, per dare loro una voce, mettere in evidenza le conseguenze della guerra sulle donne, per esprimere la loro opposizione all’uso dello stupro come arma di guerra. All’epoca, una marcia simile in una zona di guerra era considerata una pazzia, ma questo non ha scoraggiato Ruta Pacifica, e migliaia di donne dalle città e dalla campagna si sono fatte sentire.
Da allora la marcia si svolge ogni anno a sostegno delle donne in varie città: Bogota, Cartagena, Medellin e Barrancabermeja. Il 25 luglio del 2002, subito prima dell’inaugurazione dell’attuale presidenza di destra del Presidente Uribe, le donne di Ruta Pacifica hanno organizzato un’imponente marcia a cui hanno partecipato 50.000 donne di Bogota, per dire no alla guerra e per chiedere che le donne potessero partecipare ai negoziati di pace. Nel novembre 2003 Ruta Pacifica ha organizzato una carovana di pace di oltre 3.000 donne verso Puntamayi per protestare contro le conseguenze delle fumigazioni delle coltivazioni di coca sull’ambiente, del traffico di droga e della guerra sulle donne, sulle loro famiglie e sull’economia locale.

“Neutralità attiva” in zona di guerra
Prima della conferenza ho passato sei giorni presso i campesinos delle comunità di pace di San Jose de Apartado, nella regione di Uraba. Questa regione strategicamente importante ha vissuto un intenso conflitto armato con tutti e tre gli “actores armados” (così sono chiamati in Colombia i gruppi militari, paramilitari e di guerriglieri) che violano i diritti umani e commettono atrocità. Migliaia di campesinos sono stati cacciati delle loro terre e forzati a trasferirsi in città dove vivono nell’indigenza, in baraccopoli che sorgono nelle periferie. La Colombia conta il numero di profughi interni tra i più elevati del mondo: 2,9 milioni dal 1985 più un altro milione che continua a fuggire in tutto il paese dal 1996.
I coraggiosi membri della comunità di pace di San Jose hanno deciso di non lasciarsi cacciare dalla loro terra. Si sono uniti e nel 1997 si sono dichiarati ufficialmente comunità di pace. In base ai loro principi fondamentali non portano né usano armi, non partecipano né direttamente né indirettamente alla guerra e non cooperano con nessuno degli “actores armados”. Stanno tentando di creare una “zona di pace” nel cuore dell’area di guerra, chiedendo che gli “actores armados” li lascino tranquilli e rispettino il loro diritto alla vita, alla dignità e al lavoro della loro terra nella pace.
Chiamano il loro atteggiamento di resistenza nonviolenta “neutralità attiva”. Rifiutano di allinearsi con gli “actores armados”, di qualunque natura siano, e denunciano apertamente le violazioni dei diritti umani da chiunque siano perpetrate. E’ un atteggiamento pericoloso da assumere in un conflitto marcatamente polarizzato in cui il motto “o con noi o contro di noi” è fatto rispettare con forza spietata.
La Comunità di pace ha deciso di restare sulla propria terra nel 1997 e ora è una perfetta e funzionante organizzazione: oltre ad aver costruito un’alternativa pacifista alla guerra, ha anche proposto una valida alternativa economica all’individualismo. Gli appartenenti alla comunità lavorano la terra collettivamente e gestiscono varie imprese cooperative, tutti si prendono vicendevolmente cura di anziani e malati. Tutto ciò ha dell’eroismo in un paese in cui il 66% della popolazione vive nella povertà, il tasso ufficiale di disoccupazione si attesta al 20% e oltre 300.000 persone all’anno sono costrette ad abbandonare le loro case.
Il successo di questo coraggioso impegno ha un prezzo elevato. Gli “actores armados” hanno preso di mira le comunità per mettere in atto la repressione. Negli ultimi 7 anni, su 1300 componenti della Comunità,120, tra cui molti dirigenti, sono stati uccisi o sono spariti senza lasciare tracce, lasciando tra l’altro 115 bambini orfani da accudire. Gli attacchi sono opera degli actores armados, con omicidi commessi dai paramilitari sostenuti e coperti dalle forze armate.

Nonostante questa situazione la Comunità di San José continua a ricercare la pace e a difendere il diritto di rimanere sulla propria terra. L’anno scorso in settembre la Comunità ha ospitato gli appartenenti di altre 57 comunità che seguendo il suo esempio, si sono dichiarate comunità di pace.
Al raduno hanno partecipato anche molti attivisti dei gruppi pacifisti internazionali che offrono aiuto e protezione a queste comunità, tra loro le Brigate Internazionali di Pace e il Movimento Internazionale della Riconciliazione che assicurano la loro presenza a San Jose rispettivamente dal 1998 e dal 2002, assieme a Justicia y Paz e ad altri gruppi colombiani.
I leader dei gruppi hanno sottolineato l’importanza di questa forma d’intervento nonviolento da parte di terzi, ai fini della sopravvivenza della comunità.

Un forte movimento indigeno per Terre ed Autonomia
Dopo la conferenza ho visitato Toribio, città di etnia Nasa, nelle provincie del sud-ovest del Cauca. Questa bella regione montuosa è sotto il controllo militare dei guerriglieri FARC sin dalla formazione del FARC negli anni sessanta.
Nel 1971, la comunità Nasa di Toribio si era ribellata allo sfruttamento economico da parte dei latifondisti e al poco rispetto per la loro cultura. Riunendosi in segreto, costituirono la prima organizzazione indigena regionale in Colombia, il CRIC (Consejo Regional Indigena del Cauca) per rivendicare l’autonomia indigena e la riappropriazione delle terre. Volevano che si desse una maggior importanza ai tradizionali Cabildo (capi) e all’identità indigena, e propugnavano la disobbedienza fiscale. Affermavano che “Senza terra, un indigeno è morto” . Il movimento per le riforme agrarie da loro capeggiato è stato tra quelli di maggior successo nelle Americhe. Oggi, 30 anni dopo, la maggior parte del Cauca è di nuovo territorio indigeno. Questo risultato è stato raggiunto attraverso azioni nonviolente dirette: occupazione delle terre e riappropriazione delle stesse.
Il prezzo della resistenza è stato alto. Già durante il primo anno, 800/1.500 contadini indigeni sono rimasti uccisi . Ma, nonostante la repressione, l’occupazione nonviolenta è continuata, e alla fine governo e latifondisti sono stati costretti a trattare. Così, nel nord del Cauca, 130 haciende private sono state trasformate in terreni gestiti collettivamente dai contadini locali.
Nelle terre riscattate, i Nasa hanno ristabilito le leggi e i costumi del loro popolo, in particolare sistemi tradizionali di giustizia, medicina e agricoltura. Si sono creati negozi in cooperativa, sono state aperte scuole bilingue con l’intento non solo di riappropriarsi della propria lingua, ma anche di promuovere programmi di alfabetizzazione e istruzione.

Nel 1980, la comunità Nasa a Toribio ha creato “Proyecto Nasa”, programma di sviluppo che ha anche vinto un premio, nel quale, in un sistema di democrazia partecipativa, ognuno discute i problemi della comunità e relative soluzioni in assemblee generali, fino al raggiungimento di un accordo. Sono sorte imprese commerciali comunitarie, quali negozi, una miniera, un caseificio, un allevamento di pesci, una fabbrica di fertilizzanti biologici, e persino un sistema di trasporti autonomo, riducendo così la dipendenza sia dal governo centrale sia da latifondisti e grandi industrie. Risorse sono state poi investite per la formazione dei giovani e delle donne e per l’ acquisizione di competenze, oltre che per la valorizzazione della lingua, della cultura, e dell’identità indigena.
La Costituzione del 1991 riconosce, per la prima volta, la composizione multietnica e multiculturale della società colombiana, ammette l’autonomia e i diritti sulla terra di afro-colombiani e indigeni, e stanzia risorse finanziarie per i Cabildo.

“Liberazione da eserciti esterni”
Abbiamo visitato ciò che resta della stazione di polizia di Toribio, bombardata l’11 luglio 2002 durante un attacco dei guerriglieri FARC in cui 300 guerriglieri, armati di fucili, granate e mortai rudimentali, durante due giorni di pesanti combattimenti, avevano assediato i 14 poliziotti che erano all’interno, mentre soldati del governo, a loro volta, facevano fuoco dagli elicotteri. Molti guerriglieri, e un bambino Nasa, rimasero uccisi prima che il FARC infine si ritirasse, lasciando dietro di sé 50 case semidistrutte.
L’attacco contro Toribio era avvenuto il giorno dopo che 7000 membri della comunità avevano sollecitato il sindaco, Gabriel Pavi, a rimanere nel proprio ufficio nonostante l’ultimatum del FARC ordinasse a tutti i sindaci di lasciare la regione entro il 15 luglio, minacciandoli di morte. Oltre 200 sindaci, impauriti, rassegnarono le dimissioni, ma Pavi rimase, dicendo: “Il popolo mi protegge, ed ho fiducia nel popolo. Non ho guardie del corpo, perché sono inutili qui. Non ho giubbotti antiproiettili, perché anche quelli sono inutili qui. L’unica cosa che funziona, qui, è l’unità del popolo” (riportato nel Miami Herald, 19 luglio 2002).
Molti quotidiani colombiani si sono occupati dell’attacco del FARC e della resistenza civile nonviolenta del popolo di Toribio, così come di quella di altre comunità indigene della regione, come per esempio, quella di Bolivar, nel dicembre del 1991: con una fiaccolata, e intonando canti, una processione di gente ha formato una catena umana, impedendo al Farc di impadronirsi del potere. Tuttavia, nella maggior parte delle cronache viene utilizzato il termine, imposto dal governo, di “resistenza civile”, facendola apparire quindi solo come opposizione al FARC e in appoggio al governo e all’esercito, e non riconoscendo l’altrettanto forte resistenza dei campesinos alle violenze dei paramilitari e delle forze di sicurezza. Il sindaco Pavi descrive la situazione attuale della città come “non semplice neutralità, ma autonomia – liberazione da qualsiasi forza militare esterna”. (Miami Herald, op cit.)
Con molta sorpresa, abbiamo visto uomini con la divisa del FARC ogni giorno mentre eravamo a Toribio: alcuni rimanevano di guardia fuori dai negozi mentre gli altri entravano a far acquisti, o per strada. Pur sapendo che eravamo in territorio controllato dal Farc, credevo che sarebbero rimasti più nascosti. Erano invece molto sicuri e visibili. Due settimane dopo la nostra visita, tuttavia, il 9 settembre del 2002, esercito e polizia hanno invaso e occupato la città di Toribio, ingaggiando combattimenti quotidiani con i guerriglieri, e affermando che non sarebbero andati via nonostante la loro presenza rappresentasse un pericolo per la popolazione civile.

L’intervento degli USA: “Progetto Colombia”.
Gli Stati Uniti hanno una lunga e deplorevole storia di interventi in Centro e Sud America. Per il passato, l’influenza degli USA in Colombia è spesso passata attraverso l’invio di ufficiali per l’addestramento militare e la fornitura di armamenti. Nel 2000 l’approvazione del “Progetto Colombia” ha portato il tipo di interventi USA ad un nuovo livello. La Colombia è ora, nel mondo, il terzo destinatario in grandezza per quanto riguarda gli aiuti militari statunitensi, dopo Israele e Egitto, con un valore di 2,5 miliardi di dollari in aiuti militari e di polizia ricevuti negli ultimi anni. Dapprima camuffati da “guerra alla droga”, gli aiuti sono ora descritti come parte della guerra al terrrorismo e apertamente riconosciuti come assistenza anti-insurrezione.
Chi trae vantaggio dagli aiuti militari USA? Ovvi beneficiari sono i fabbricanti di armi statunitensi, oltre alle compagnie petrolifere internazionali, proprietarie della maggior parte dei pozzi petroliferi colombiani. La Colombia è il più importante fornitore di petrolio nella regione, dopo Venezuela e Messico, e i timori legati all’instabilità nel Medio Oriente sta probabilmente facendo crescere d’importanza il petrolio latino-americano per gli USA.
L’invio di ulteriori aiuti militari non protegge i civili in Colombia. Molto ben documentati sono i legami dell’esercito colombiano con quei gruppi paramilitari che hanno commesso oltre il 70% delle atroci violazioni dei diritti umani in Colombia. Nel 2000, 12 civili al giorni rimasero uccisi nel conflitto. Nel 2003, il numero, già enorme, è salito a 19 (civili al giorno).

Come agire
La storia dimostra che un approccio repressivo e militare alla soluzione dei conflitti è destinato al fallimento. Sono necessarie soluzioni globali legate al territorio, volte alla risoluzione delle ingiustizie sociali ed economiche nella distribuzione delle risorse e nel possesso della terra. Abbiamo la responsabilità di lavorare per metter fine agli aiuti militari alla Colombia, che stanno portando ad una drastica escalation di violenza. Possiamo inoltre sostenere e divulgare le notizie sulle iniziative nonviolente che coraggiosi gruppi e comunità sviluppano in tutta la Colombia.

* Vivien Sharples, mediatore culturale, funzionaria addetta alla formazione professionale, attivista per pace e giustizia, è la delegata di War Resister League presso War Resisters International
Traduzione a cura di Carla Zenoni e Giuseppina Vecchia dei Traduttori per la Pace

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Silenzio, parla Barilla
(e le armi sparano…)

E’ sempre un bene che le aziende italiane si espandano all’estero? Se studiamo il caso della Barilla, sembrerebbe proprio di no. Nel 2002 l’azienda alimentare parmense ha intrapreso la strada tedesca comprando, per un miliardo di euro, la Kamps, produttrice di pane e crackers. L’anno successivo si è ripetuta acquistando, per 517 milioni, la Harry’s, leader francese nel medesimo comparto. Dove li ha trovati tutti questi soldi? Inizialmente andando a bussare alla porta della Banca Popolare di Lodi, che ha versato metà di queste somme per costituire la Finba Bakery, società divenuta poi proprietaria delle due aziende d’oltralpe; ma ora il conto pagato è diventato eticamente salato.
Non essendo la società alimentare quotata in borsa, bisogna attendere che qualche giornale finanziario scopra gli altari della finanza occulta tramite interviste o analisi mirate per conoscere gli assetti proprietari. Si scopre quindi che in marzo la banca lodigiana ha girato il 17% del capitale della Finba Bakery a vecchie conoscenze della Barilla: tramite la solita finanziaria anonima, la Gafina, la quota è passata nelle mani della famiglia Anda-Bührle, presente nel capitale di Barilla con una partecipazione del 15% dal 1979, allorquando aiutò la famiglia a riprenderne il controllo riacquistandola dalla statunitense Grace.
Gratian Anda, un passato nel consiglio di amministrazione dell’azienda parmense, è un finanziere svizzero che ha il delicato compito di investire al meglio i profitti derivanti dal patrimonio di famiglia, che consiste principalmente nella proprietà della Oerlikon-Contraves, ultimamente ribattezzata in modo asettico col nome di Unaxis. La madre del finanziere, Hortense Anda Bührle, ha ereditato nel lontano 1956 con il fratello Dieter Bührle (hanno entrambi circa 80 anni) la sgradevole attività di produzione di armi: il nonno di Gratian Anda e padre di Hortense, Emil Georg Bührle, fondò questo gruppo che durante la Seconda Guerra Mondiale si distinse nel rifornire di armi la Wehrmacht.
Sembra che nonno Emil in quel tempo non andasse molto per il sottile: un’inchiesta effettuata dal periodico francese L’Hébdo il 27 maggio 1999 portava a galla un risvolto inquietante della fornitura di armi al III Reich, e cioè il sistema di pagamento stabilito dal feldmaresciallo Hermann Göring. A corto di denaro nelle ultime fasi del conflitto, il gerarca nazista pagava le forniture con quadri ed opere d’arte, e proprio la sezione francese della Collezione Bührle di Zurigo, fondata negli anni ’60, è sospettata essere quella rubata dai comandi nazisti alla Collezione Israelita di Parigi.
Gli anni del dopoguerra segnarono l’inizio di una saga familiare irresistibile: Dieter e tre suoi collaboratori furono condannati dal Tribunale federale nel 1970, per vendita d’armi al Sudafrica e alla Nigeria, paesi in guerra, mentre l’European Network Against Arms Trade documentò vendite di fucili d’assalto, razzi e missili contraerei all’Indonesia tra il 1982 e il 1993 nonostante l’embargo in corso per violazione dei diritti civili. Il quotidiano spagnolo El Mundo nel 1997 scriveva infine che, secondo il Dipartimento Federale della Difesa Svizzero, i bombardamenti con munizioni contenenti uranio impoverito, nel conflitto in Kosovo appena terminato, erano stati effettuati con ordigni prodotti dalla Contraves.
Ora Gratian Anda è annoverato tra i 40 più ricchi quarantenni svizzeri, ben distanziato da Michael Schumacher ed il signor Kamprad fondatore di Ikea, ma pur sempre seduto sulla rispettabile fortuna di 200 milioni di dollari, alla pari con mamma e zio. E sapere che una parte dei suoi quattrini proviene dalla vendita di pane, pasta e merendine della Barilla recherà più di un dispiacere ai molti consumatori etici italiani.

EDUCAZIONE
A cura di Angela Dogliotti Marasso
Capire l’aggressività e trasformarla in creatività

Da questo numero pubblichiamo, a puntate, dei percorsi didattici a tema che possano offrire strumenti e spunti di lavoro per le scuole, come da molti ci è stato richiesto. Sono progetti sperimentati e compiuti, che possono essere facilmente adattati alle diverse realtà ed esigenze. Non delle “ricette”, dunque, ma delle esperienze da condividere. Chi volesse segnalarne altre può inviarle direttamente a: maradoglio@libero.it
Il percorso che segue, “Gestire l’aggressività”, è stato realizzato da Stefania Gavin come corso di aggiornamento per insegnanti presso la scuola “Nostra Signora della Scala” di Chieri ed è adatto in particolare alla fascia della scuola dell’infanzia e dell’obbligo.

Il progetto

La scuola e la famiglia si trovano spesso a doversi confrontare con l’espressione diretta di aggressività da parte dei bambini: esplosioni di rabbia, episodi di bullismo, difficoltà ad adottare comportamenti positivi, svalorizzazione di sé e degli altri.
A partire da questo confronto come educatori, insegnanti, genitori è necessario interrogarsi su come intervenire, con quali strumenti, supportati da quali modelli educativi.
Quali risposte dare, quali comportamenti realizzare in modo da aumentare le abilità dei bambini nel superare le crisi, esprimere sentimenti ed emozioni negative in una maniera non distruttiva e gestire i conflitti?
I metodi educativi autoritari non “ci” appartengono più, sono dissonanti rispetto alla nostra esperienza e ai modelli educativi di riferimento (Cfr Novara: L’ascolto si impara). Ma allora quali strumenti e quali modelli alternativi?
Questo percorso è stato soprattutto uno spazio di riflessione (individuale e di gruppo) su questi temi e una proposta di strumenti per leggere e trasformare le situazioni conflittuali e l’aggressività dei bambini.

3 domande…
Nel nostro percorso di ricerca siamo partiti dal farci tre domande:
Perché affrontare il tema dell’aggressività e della violenza? Quali possono essere i significati della violenza e dell’aggressività? Quali strumenti abbiamo per poter intervenire?

…e una premessa
Il tempo. A volte si è tentati di credere di trovare strade brevi che ci portano rapidamente ad un cambiamento desiderato, alla soluzione di un problema. La proposta di lavoro che facciamo per trasformare l’aggressività, per poter lavorare insieme ai bambini per costruire rapporti con gli altri basati sulla fiducia, sulla valorizzazione, sulla ricerca di soluzioni comuni ai problemi richiede tempo. Non si tratta solo di tamponare le situazioni di aggressività o eliminarle. L’obiettivo è quello di affiancare e sostenere i bambini nel riconoscimento delle emozioni negative che possono provare e nel trovare delle modalità non distruttive per esprimerle.
In diverse situazioni le insegnanti hanno espresso l’esigenza di gestire situazioni in cui l’aggressività del bambino si manifesta in maniera improvvisa e dirompente. In questi casi, nell’immediato, l’intervento non può che essere di separazione (dei bambini che si stanno picchiando) e il contenimento. Vogliamo però provare ad avere uno sguardo a lungo termine, come ogni sfida educativa dovrebbe avere.

L’aggressività

Il primo incontro è stato dedicato all’approfondimento dei concetti di aggressività, forza e violenza.
Possiamo fare alcune riflessioni e incominciare ad avere alcune chiavi di lettura per comprendere modalità più adeguate di intervento per gestire l’aggressività dei bambini.
Innanzitutto alla domanda “Che cosa provoca in noi l’aggressività” sono state individuate quattro possibili cause: l’essere trattati ingiustamente o il vedere delle ingiustizie, la stanchezza, l’aggressività altrui e il fatto che qualcuno tocchi le cose di proprietà.
E’ importante ricordare a questo punto che per i bambini il senso di giustizia è molto importante ma allo stesso tempo è diverso da quello degli adulti e l’impressione di essere trattati ingiustamente dagli adulti (e quindi dagli insegnanti) è una cosa che spesso che giudicano intollerabile: forse anche per questo alcune volte si sentono vittime della situazione (ad esempio se in un litigio giudicano che l’insegnante non ha “punito” a sufficienza il compagno).
Molte delle strategie che si mettono in atto per gestire l’aggressività sono delle strategie cognitive che mettono distanza (fisica, temporale o mentale) tra noi e l’evento o la persona che ha provocato in noi sentimenti aggressivi. Oppure ricorriamo al pensiero per trovare una modalità sostitutiva ad un comportamento immediato di reazione verso l’altro (il film mentale). I bambini non hanno però ancora queste capacità simboliche, le devono ancora costruire, da qui possibili agiti attraverso i quali ricavare una soddisfazione immediata (oltre che uno sfogo immediato) e da qui l’indicazione di lavorare anche per lo sviluppo del pensiero simbolico per la gestione della rabbia e dei conflitti (ad esempio drammatizzazioni, burattini…).

Stefania Gavin
1 – Continua

L’AZIONE
A cura di Luca Giusti
In bicicletta e con le bandiere della pace per tenere gli occhi ben aperti su Exa

Facciamo un veloce punto della situazione sulla campagna Disarmiamo Exa(1) a un anno di distanza dagli articoli (2) che questa rubrica dedicava alle azioni teatrali in occasione di EXA 2002. Quali risultati ha ottenuto? Quali nuovi obiettivi e che uso dell’azione nonviolenta per perseguirli?

Campagna Disarmiamo Exa:
a che punto siamo

La 23.ma edizione, svoltasi a Brescia dal 17 al 20 aprile scorsi, ha superato quota 25 mila visitatori; tra questi molte coppie con figli al seguito, attratti dalle rivisitazioni delle battaglie medievali.
Nessun risultato dunque? Il solito grande successo di pubblico e la solità ambiguità nel mescolare spettacolo e strumenti di morte senza timore di coinvolgere anche i bambini? Così parrebbe ma fortunatamente così non è: anzitutto questi anni di campagna hanno fatto della mostra bresciana un appuntamento di tutto il movimento nazionale, un appuntamento sempre più ricco di azioni e manifestazioni. Sono poi arrivati i primi risultati, anzitutto da due dei percorsi praticati:
1) promuovere un programma costruttivo di un pezzo della realtà alternativa, dimostrare che occupazione non è sinonimo di armiero e che il pacifismo non è solo capace di dire dei no. Un ampio cartello di associazioni ha promosso Expa(3), una fiera della pace con tutte le proposte e esperienze per un mondo di pace.
2) Stimolare e incalzare forze politiche e istituzioni locali perchè si proceda sulla via della modifica del regolamento della mostra, affinché le armi da difesa e le armi impiegate nei conflitti non trovino più spazio all’interno dell’esposizione. E’ il senso dell’appello Disarmiamo EXA(4), che diede il via alla campagna raccogliendo un folto cartello di organizzazioni bresciane. Ebbene a pochi giorni dalla fiera il Consiglio comunale di Brescia ha approvato una mozione(5) in cui si chiede agli organizzatori di dividere in due l’esposizione, separando la mostra delle armi da caccia (visibili a tutti) da quella delle armi leggere (riservate agli operatori). La mozione è stata accettata dopo che era stata bocciata quella che chiedeva di ammettere ad Exa solo armi da caccia, escludendo armi da guerra, da difesa e dotazioni per la sicurezza. Un compromesso dunque, che tuttavia raggiunge un fondamentale obiettivo intermedio, prerequisito per una successiva progressione: i pubblici decisori dichiarano pubblicamente che ad Exa non si espongono solo armi sportive e da caccia, ma armi leggere di tutti i tipi.
Lo stesso sindaco di Brescia ha dichiarato di essere favorevole a vietare ai minorenni l’ingresso ad Exa, come del resto avviene in tutte le altre fiere del settore.
La bella facciata di appuntamento sportivo per grandi e piccini sta dunque mostrando significative crepe: avanti così che disarmiamo EXA!

Preparazione
La preparazione delle azioni era partita gia a marzo con un incontro dove sono stati definiti gli obiettivi e i ruoli.
Nei mesi seguenti i vari gruppi di affinità distribuiti sul territorio hanno preparato i vari materiali e con degli incontri tra i portavoce nominati si è cercato di coordinare la preparazione dell’azione.

Le azioni sono state concordate con il coordinamento di realtà e movimenti locali. Nelle settimane prima dell’evento si sono tenuti degli incontri organizzativi del Comitato locale a cui hanno partecipato alcuni rappresentati della Rete dei GAN che hanno presentato le azioni concordando le modalità in modo da non compromettere il lavoro locale.

Azione!
Durante la giornata di sabato si è tenuta in città una biciclettata che ha toccato le sedi di tutti gli enti che possiedono partecipazioni nella fiera scrivendone le percentuali con il colore rosa. I ciclisti hanno scandito le pedalate con lo slogan L’unica Exa che ci piace è l’esposizione di pace!.

Domenica 18 aprile: a partire da metà mattina i GAN, muniti di trampoli e di grandi occhi di cartapesta, hanno distribuito all’esterno migliaia di volantini parlando con i visitatori per informarli dei milioni di morti causati dalle armi leggere nel mondo e chiedendo se le armi “sono un diritto o un delitto”.

Dalle 11.30 un gruppo di una quindicina di attivisti ha portato proprio davanti all’ingresso della fiera le carte della riconversione che componevano da una lato l’immagine di un fucile e dall’altro quella di una bicicletta con i colori dell’arcobaleno. A un rullo di tamburi alcuni finti passanti cadevano morti e venivano coperti da un sudario con la scritta le armi di EXA uccidono.

Alle biglietterie della fiera altri membri dei GAN hanno inscenato un’azione di teatro invisibile (un teatro naturale che non viene dichiarato e si modifica in base alle reazioni degli spettatori) per disturbare l’ingresso e creare discussione sulla vendita di armi da difesa e sicurezza personale e sul fatto che fosse autorizzato l’ingresso dei bambini. La sicurezza della fiera ha invitato più volte i personaggi ad abbassare la voce o ad allontanarsi dall’atrio della biglietteria, ma senza ricorrere all’intervento della polizia.

All’interno una decina di attivisti hanno dimostrato tra gli stand con delle bandiere della pace riuscendo a denunciare pubblicamente la presenza di armi impiegate nei conflitti, tra cui le famose Beretta92 in dotazione all’esercito degli Stati Uniti. L’azione di denuncia ha visto momenti di dialogo con gli utenti della fiera che dimostravano di ignorare la destinazione delle armi leggere prodotte in Italia e esportate all’estero. Dopo circa venti minuti gli attivisti sono stati avvicinati dalla Digos che li ha invitati a uscire restituendo i soldi del biglietto pagato all’entrata visto che non avevano potuto visitare la mostra.

Valutazione
A conclusione delle azioni la Rete dei GAN ha tenuto nei pressi della stazione di Brescia un momento di valutazione per raccogliere le impressioni dei quasi cinquanta partecipanti dei vari gruppi locali.
E’ emerso un positivo rapporto con i visitatori e una buona gestione dei rapporti con le forze dell’ordine, la stampa e tra i partecipanti stessi.
E un buon risultato sui media è stato dato oltre che dai richiami sui quotidiani locali e nazionali, almeno quelli più vicini ai movimenti, anche dalla trasmissione di Rai Tre Ballarò che martedì 20 aprile, all’inizio della seconda parte, ha trasmesso alcune immagini degli striscioni (quello sulla riconversione di Exa e quello armi leggere armi di distruzione di massa), dei “morti” a terra con i sudari (le armi di exa uccidono) e del teatro invisibile davanti ai botteghini. Poi hanno intervistato alcuni visitatori di Exa sulla necessità o meno di possedere delle armi. La discussione in studio non riguardava direttamente Exa ma i recenti fatti di cronaca nera con l’uccisione di un rapinatore da parte di un gioielliere e la proposta di Castelli di ridefinire il concetto di legittima difesa.

Prossime azioni
La rete dei Gan (6) continuerà la sua azione sui territori locali puntando a far pressione verso le Banche armate e in particolare su Unicredit per far sì che abbandonino le commesse armate anche a rischio di pagare penali contrattuali. Una pressione che si collega bene con la campagna Tesorerie disarmate promossa dalla Rete di Lilliput che chiede agli enti locali e pubblici non territoriali l’inserimento nei prossimi bandi per le gare d’appalto per le tesorerie di una voce relativa al finanziamento del commercio di armi. Su questo fronte da registrare il risultato ottenuto nel Comune di Pavia dal Nodo di Rete di Lilliput.

Andrea Trentini

Note:
(1)Exa è una delle maggiori esposizioni mondiali di armi leggere; vi partecipano tutti i colossi internazionali dell’industria armiera. Per avere qualche dato (e soprattutto un’idea dell’immagine che cerca di darsi) è possibile curiosare nell’accattivante sito ufficiale della mostra: http://www.exa.it;
(2) Azione Nonviolenta n°5/2003 “Non solo corteo; agire con il teatro” e n°6/2003 “Teatro contro la mostruosa mostra d’armi”;
(3) Expa: http://unimondo.oneworld.net/article/view/81872/1/;
(4) appello disarmiamo EXA: http://www.bresciasocialforum.org/disarmiamoexa;
(5) mozione consiglio comunale Brescia http://www.adista.it/numeri/adista04/adi25/adi25-1.html;
(6) Rete dei GAN www.retegan.net

LILLIPUT
A cura di Massimiliano Pilati
Esperienze di economia equa, ecologica e socialmente sostenibile

In vari paesi del mondo (Brasile, Argentina, Spagna, Francia) esistono già reti di economia solidale, nate negli ultimi anni ed emerse soprattutto in occasione dei Forum Sociali Mondiali ed Europei. In Italia esistono molteplici realtà che, pur definendosi in vario modo, agiscono quotidianamente secondo i principi dell’economia solidale.
Lilliput e diversi soggetti di economia alternativa (Botteghe del Mondo-commercio equo solidale, Gruppi di Aquisto Solidali-GAS, organizzazioni della Finanza Etica e del Turismo Responsabile, cooperative sociali) stanno promuovendo un processo analogo, per collegare e rafforzare queste pratiche di economia basate su principi opposti a quelli del neoliberismo; punto di partenza di questo processo è la costituzione di Distretti locali di Economia Solidale.

Che cosa sono i Distretti di economia solidale?
Sono “laboratori pilota” locali in cui si sperimentano forme di collaborazione e di sinergia per un modello economico che pratica modalità opposte a quello (dominante e presentato come unico possibile) della globalizzazione neoliberista, sulla base di:
1.Economia equa e socialmente sostenibile: i soggetti che appartengono ai Distretti si impegnano ad agire:
a. in base a regole di giustizia e rispetto delle persone (condizioni di lavoro, salute, formazione, inclusione sociale, garanzia di beni e servizi essenziali)
b. in modo equo nella distribuzione dei proventi delle attività economiche (investimento degli utili per scopi sociali a livello locale e nel Sud del mondo).
c. con criteri trasparenti nella definizione dei prezzi da attribuire a merci e servizi
2.Sostenibilità ecologica: i soggetti aderenti ai Distretti si impegnano a praticare un’economia rispettosa dell’ambiente (sia nell’uso di energia e materie prime, sia nella produzione di rifiuti) e il più possibile contenuta nell’impatto ambientale.
3.Valorizzazione della dimensione locale, il che significa dare la priorità alla produzione e al consumo delle risorse del territorio, sia in termini di materie prime ed energia, che di conoscenze, saperi, pratiche tradizionali, relazioni e partecipazione a progetti locali.
4.Partecipazione attiva e democratica: i soggetti che fanno parte dei Distretti, nel definire concretamente come gestire i processi economici e le relazioni al proprio interno e con gli altri soggetti del proprio territorio, faranno riferimento a metodi partecipati1.

Gli obiettivi principali proposti ai vari soggetti che faranno parte dei Distretti sono:
A.utilizzare prioritariamente beni e servizi forniti da altri membri del Distretto stesso
B.investire preferibilmente gli utili nelle imprese che fanno parte del Distretto
C.promuovere e diffondere in modo sinergico la cultura dell’economia solidale, degli stili di vita sobria e del consumo critico.

Le esperienze in corso

Le esperienze in corso hanno caratteristiche molto diverse:
A Roma il DES dovrebbe nascere in rapporto con il progetto di “Casa dell’Economia Solidale” finanziato dal Comune
A Torino è stata stilata una “carta” per il DES, su cui sono state raccolte le adesioni delle realtà interessate; la prima uscita comune è stata una “Festa dell’economia solidale”
In Brianza il percorso del DES prevede in primo luogo l’attivazione dei GAS, cui proporre di destinare una quota del 7% sugli acquisti ad un fondo per la nascita di realtà produttive etico-solidali
A Milano accanto ad una proposta di censimento delle realtà interessate al DES promossa da una struttura di raccordo già esistente, il Forum Consumo Critico, c’è un progetto di Distretto promosso dall’Associazione Comunità e Famiglia tra le cooperative sociali collegate o interne alle proprie Comunità dell’area milanese, che prevede anche la costituzione di un primo “sportello” di supporto allo sviluppo dei Distretti di Economia Solidale
A Como una proposta di DES è gestita direttamente dal nodo locale di Lilliput, a partire dalla scelta di mettere al primo posto questo progetto, fatta a livello nazionale nell’assemblea programmatica di Lilliput 2003-04.
Numerose altre realtà si muovono nella direzione indicata dalla “Carta di intenti” di RES; ad es.:
Bilanci di Giustizia con il progetto “Stilinfo” a Venezia
Il Centro Sperimentazione Autosviluppo nel sud della Sardegna
Comuni e realtà associative della Valdinievole (PT)
Nuclei di RES sono inoltre attivi a Treviso, Verona, Fidenza (PR), Bologna, Lucca, Senigallia (AN), Napoli.
Significativi sono infine alcuni progetti portati avanti da altri soggetti come “Terrà e libertà/Critical wine”, alcuni Centri Sociali e Rete Nuovo Municipio.

Davide Biolghini

MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Ha cantato la pace, la fatica e la gioia dei contadini siciliani

“Sapeva parlare con i contadini siciliani, aveva quel meraviglioso, plastico, caldo modo di trovare la forma più semplice e diretta per unirsi alla loro umanità (…) si vedeva nei suoi occhi quel baleno che veniva da un’intelligenza vivissima, accorta, fedele al buon senso, ma pronta a farsi lirica, canto appassionato di gente che soffre e si apre ad una liberazione”. Così Aldo Capitini ricordava Giuseppe Ganduscio nato a Ribera (AG) nel 1925 una vita trascorsa fra la Sicilia e Firenze, dove è morto prematuramente nel settembre1963, stroncato da un male incurabile. Protagonista e guida nelle occupazioni delle terre da parte dei contadini siciliani nel 1945-46. Ha collaborato per un anno col Centro Studi di Danilo Dolci a Partitico e ha militato attivamente nel Pci, specificando ed approfondendo l’ impegno per la pace, arrivando a collaborare strettamente con Capitini e ad essere fra i fondatori della Consulta italiana per la Pace. Negli sviluppi di questo lavoro si è avvicinato sempre più alla nonviolenza, fino ad aderire nel 1962 al Movimento Nonviolento. La moglie Carla Marazza, recentemente scomparsa, ha partecipato attivamente negli anni sessanta alle azioni dei Gan per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza.
Cultore autodidatta di musica classica, aveva colto la profonda bellezza delle antiche melodie popolari che studiava, approfondiva, cantava per gli amici e per chiunque desiderasse ascoltarle. Chi lo ha conosciuto ricorda la spontaneità del suo modo di parlare e cantare e la grande espressività della sua voce. Per Ganduscio i canti popolari,“ con la mediazione e l’immediatezza propri dell’espressione musicale, ci fanno comprendere intuitivamente le vicissitudini e i più riposti sentimenti, l’intima psicologia della vita del popolo che vi si esprime con accenti di profonda bellezza (…)“uno dei risultati che ci proponiamo di conseguire con la loro diffusione – spiegava in una lettera – è quello di conservare e far conoscere degli autentici valori colturali per contrastare in qualche modo il diffondersi di canzoni pseudo-culturali che con i costumi e la gente di qui non hanno niente a che fare. Sarebbe augurabile poi che la musica colta, sempre più perduta dietro esperimenti spesso intellettualistici e funamboleschi, tornasse ad alimentarsi alla fonte perenne dell’arte popolare… Gli ascoltatori si riconoscono nei loro canti popolari; canti che sono la storia e l’esaltazione lirica della loro vita quotidiana e dei loro più riposti sentimenti”. Alcuni di questi canti li portava in sé dall’infanzia, come “Vaiu e vegnu di lu Mazzarinu”: “ è la melodia di Ribera, della valle dei Platani – diceva – sono sicuro di interpretarla in maniera perfetta perché l’ho sentita migliaia di volte, la cantavano passando i contadini…”; altri li rielaborava, come “Guarda chi vita fa”, un testo ispirato a frasi e discorsi della lotta contadina del dopoguerra in Sicilia, sull’aria di un canto popolare di ringraziamento dei mietitori. forse la canzone più conosciuta del suo repertorio, interpretata e incisa in seguito anche da Rosa Balistreri.
La sua cultura musicale lo ha portato a frequentare l’ambiente della musica colta e personaggi come Luciano Berio, Augusto Vismara e Luigi Pestalozza; non è un caso che musicisti contemporanei si siano ispirati alla sua musica e alla sua storia, come Federico Incardona e che esistano opere dedicate a lui, come “In memoria di Giuseppe Ganduscio” del 1997 di Giovanni Damiani. Il suo lavoro sul patrimonio musicale popolare lo ha portato a collaborare con Roberto Leydi e con il “Nuovo Canzoniere Italiano” ed è riconosciuto nei testi più importanti: Giuseppe Vettori, ricercatore e critico severo del folk italiano riconosce il “ buon livello” dei dischi di Ganduscio.

DISCHI DI GIUSEPPE GANDUSCIO

“Lu Carzaratu”, EP Ricordi (riedizione 1976: Folk Italiano, Family)
“Quantu basilicò-canzoni siciliane d’amore”, Dischi del Sole

TESTI DI E SU GIUSEPPE GANDUSCIO:
AAVV, Nell’anniversario della morte di Giuseppe Ganduscio, testimonianze e documenti (6 pagine), Azione Nonviolenta luglio/settembre 1964
Giuseppe Ganduscio, Perché il sud si ribella, Ed.Libri siciliani 1970
Carla Marazza, Giuseppe Ganduscio, una vita per la pace, ed.Comune di Ribera 1992

STORIA
A cura di Sergio Albesano
La nuova Legge di riforma dell’obiezione di coscienza

Prendendo in contropiede anche gli osservatori più attenti, il 16 giugno 1998 il Senato approvò in via definitiva la nuova e dibattutissima legge sull’obiezione di coscienza, con centotrentatre voti a favore, quindici contrari (il gruppo di Alleanza Nazionale) e undici astenuti (Lega Nord). Dopo ventisei anni andava in pensione la legge n° 772. La nuova normativa, la legge n° 230/98 pubblicata sulla “Gazzetta Ufficiale” n° 163 del 15 luglio 1998, riconosce l’obiezione di coscienza come diritto soggettivo e smilitarizza il servizio civile, trasferendo le competenze relative al Dipartimento per gli affari sociali della Presidenza del Consiglio, che ha tra l’altro il compito di rivedere ogni anno l’elenco degli enti convenzionati. In sintonia con quanto più volte espresso dalla Consulta, la legge riconosce pienamente la pari dignità e validità del servizio civile rispetto a quello militare. E’ prevista la possibilità di svolgere il servizio civile, che si può scegliere presentando una semplice domanda alle strutture di leva, anche in missioni di pace all’estero a sostegno di operazioni umanitarie italiane e, a richiesta degli obiettori di coscienza, anche per periodi superiori ai dieci mesi di norma. La legge prevede il rifiuto della richiesta solo in pochi casi: possesso del porto d’armi; domanda nei due anni precedenti per la prestazione del servizio militare nelle Forze armate o nella Polizia di Stato; condanna anche con sola sentenza di primo grado per detenzione, uso o porto d’armi o per delitti non colposi compiuti mediante violenza. Gli obiettori, che nel 1997 furono 54.867, hanno il diritto di svolgere il loro servizio civile nella regione di residenza o in un’altra che possono indicare a loro scelta. La nuova legge ha conseguenze anche per gli obiettori totali, che continueranno ad andare in carcere, ma che saranno congedati non appena superato il periodo di durata del servizio militare. Nella domanda è possibile indicare il settore di impegno e fino a dieci enti in cui si desidererebbe essere impiegati, anche se l’assegnazione a uno di questi enti non è automatica. Il Distretto, dopo aver svolto una breve indagine, controllando la veridicità delle dichiarazioni dell’obiettore, incarica i carabinieri di fornire una documentazione sulla persona. Questi ultimi possono invitare l’obiettore a un colloquio puramente formale. Se non esistono cause ostative, il Distretto invia tutta la documentazione, ricevuta dai carabinieri, al ministero che, entro sei mesi dalla presentazione della domanda, deve comunicare l’accoglimento o un rifiuto motivato, contro il quale si può ricorrere in tribunale. Se entro tale periodo non giungono comunicazioni dal ministero, scatta il silenzio assenso e la domanda è automaticamente accolta. L’Ufficio per il servizio civile nazionale ha un anno di tempo per inviare l’obiettore presso un ente; trascorso infruttuosamente tale periodo, l’obiettore ha diritto al congedo illimitato. E’ confermata, inoltre, la pari durata del servizio civile rispetto a quello militare, salvo particolari impieghi per i quali, all’atto della stipula delle convenzioni con gli enti che si avvalgono dell’opera degli obiettori, possono essere previsti periodi aggiuntivi per la formazione. Uguale al servizio militare è il soldo giornaliero e il diritto a ottenere licenze e permessi. L’obiettore può essere impiegato per un orario minimo di trentasei ore settimanali su sei giorni. Una volta completato il servizio, l’obiettore può essere richiamato, fino al compimento del quarantacinquesimo anno di età, in caso di calamità naturali. Nell’ipotesi di guerra, gli obiettori di coscienza in servizio o richiamati verrebbero assegnati alla protezione civile e alla Croce Rossa. Chi ha svolto il servizio civile non potrà mai chiedere il porto d’armi, né fare domanda di arruolamento in un corpo armato, nemmeno per svolgere compiti amministrativi, non potrà ricoprire incarichi dirigenziali in aziende di armamenti e, se compirà reati con armi, perderà in sede di giudizio il diritto alle attenuanti. Molto critica nei confronti della nuova legge si dimostrò l’A.O.N., che attraverso Massimo Paolicelli parlò di “passo indietro” e di “controriforma”. Egli criticava la norma “incostituzionale” che prevede che “la durata del servizio di obiezione sia variabile e venga fissata in base a convenzioni fra lo Stato e i singoli enti che beneficiano dei servizi degli obiettori stessi”. Inoltre contestava la riduzione del termine per presentare la domanda da sessanta a quindici giorni. Totalmente positivo, invece, il giudizio della Consulta enti di servizio civile che, attraverso il presidente Diego Cipriani, sosteneva che il 16 giugno 1998 era “una giornata storica”.

LIBRI
A cura di Sergio Albesano

W. WINK, Rigenerare i poteri, discernimento e resistenza in un mondo di dominio, EMI, Città di Castello (PG) 2003, pagg. 574, € 20.

Può la nonviolenza diventare una strategia per il cambiamento sociale?
Jackie Robinson fu il primo nero a giocare nella massima divisione del baseball negli Stati Uniti. Brand Rickey dei Brooklyn Dodgers lo pressò perché subisse senza dire parola qualunque intemperanza gli venisse rivolta. Robinson gli disse: “Mister Rickey, sta forse cercando un negro che ha paura di reagire?” Rickey rispose: “No, sto cercando un giocatore che abbia abbastanza fegato da non farlo”.
Il viaggio in cui l’autore ci accompagna nella storia del sistema di dominio è finalizzato a portare chi prima si riteneva impotente a scoprire di poter prendere l’iniziativa, anche là dove un cambiamento strutturale immediato è assolutamente impossibile.
Wink riesce con ottimi risultati a trarre dalla ricerca storico-esegetica una moltitudine di esempi dove la nonviolenza è una opportunità pratica e strategica per dare potere agli oppressi.
Il suo lavoro offre la possibilità di uscire dagli schemi, di spiazzare l’oppressore e di aprire nuovi orizzonti possibili alle relazioni di disuguaglianza istituzionalizzate. In particolare analizza tre situazioni in cui Gesù offre consigli:
1.se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra;
2.a chi ti vuole chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello;
3.se un soldato delle truppe di occupazione ti costringe a portare il suo carico per un miglio, tu portaglielo per due.
Questo schema di reazione non è nuovo: era già stato sperimentato ed era patrimonio della comunità ebraica di quel periodo. Gesù non suggerisce quindi comportamenti estranei alla sua gente e lo testimonia il fatto che, dopo essersi insediato come procuratore della Giudea (26 d.C.), Pilato fece introdurre nottetempo in Gerusalemme i busti dell’imperatore che adornavano le insegne militari. Gli ebrei ritennero ciò una profanazione della città santa e una grande folla invase il quartier generale di Pilato a Cesarea, per implorarlo di togliere tali insegne. Al suo rifiuto, essi si prostrarono a terra e rimasero così per cinque giorni e cinque notti. Il sesto giorno, con la promessa che avrebbe dato loro una risposta, Pilato riuscì a farli radunare nello stadio, ma li fece circondare dalla milizia. Dopo averli minacciati di sterminio se non avessero accettato le insegne, ordinò ai soldati di estrarre le spade. Gli ebrei allora, come per un segnale convenuto, si gettarono a terra come un solo corpo, scoprirono la nuca e proclamarono di essere pronti a morire piuttosto che trasgredire la Legge. Stupefatto da uno zelo religioso così intenso, Pilato ordinò di rimuovere immediatamente le insegne da Gerusalemme.
L’azione nonviolenta per il cambiamento sociale richiede una forte creatività da parte delle vittime, che non debbono più accettare il loro ruolo in modo passivo, come fosse naturale. Si tratta di apprendere l’arte dello spiazzamento. L’autore, attraverso l’impianto del libro, mette a disposizione spazi di azione a uso degli oppressi all’interno delle situazioni di dominio.
Wink mette a fuoco quattro argomenti:
1) il sistema di dominio: i miti della violenza che lo sostengono, la sua origine, quali nomi assume, qual è la sua natura, come smascherarlo;
2) il progetto di Dio per una realtà nuova: l’ordine divino libero dal dominio, come rompere la spirale della violenza attraverso il potere della croce;
3) rigenerare i poteri con la nonviolenza: la terza via di Gesù e l’impegno nonviolento, non trasformarsi in ciò che si odia, evitare il contagio del male, andare oltre all’opposizione guerra giusta/pacifismo, che cosa succederebbe se prendessimo sul serio la scelta della nonviolenza, una rilettura della storia attraverso la nonviolenza con settanta eventi significativi;
4) i poteri e la vita dello spirito: la parola rivelatrice (amare i nostri nemici), il controllo della violenza interiore, l’utilizzo della preghiera di intercessione.
Sono frequenti i riferimenti biblici, ma altrettanto gli eventi storici che supportano la lettura.
Come rompere la spirale della violenza? Impariamo l’arte di morire ai poteri. L’autore ci propone di inquadrare la confessione come denuncia della proprie complicità con il sistema di dominio (non come violazione delle sue regole), assume il perdono come nuovo orizzonte di liberazione possibile e come atto liberatorio (non come reinserimento) e coniuga magnificamente la preghiera di intercessione con l’azione.

Giorgio Barazza

Per una prospettiva politica della nonviolenza organizzata

Di Luciano Capitini

Immaginiamo che, negli anni del disfacimento dell’impero romano, quando in Italia e su Roma “calavano le orde barbariche” gli ultimi rappresentanti del senato romano si coprissero il capo con la toga, per non vedere.
Cadeva lo stato tanto faticosamente eretto, crollava un sistema che aveva comandato sul mondo, si dissolveva una civiltà: il suo complesso di leggi, di religione, di cultura.
Due secoli dopo quei barbari si erano stabiliti in Italia, si erano convertiti alla religione romana, il cristianesimo, parlavano lingue molto simili al latino, in quella lingua, ormai, scrivevano, obbedivano a leggi che altro non erano se non le vecchie leggi romane. Per secoli tentarono poi di ricostruire l’impero romano.
Era accaduto ciò che era inevitabile: una civiltà (ormai militarmente debole) aveva permeato chi era venuto a combatterla, portatore, però, di una proposta culturale di livello assai più basso, e molto meno universale.
Naturalmente questa premessa serve a capire l’oggi.
Siamo di fronte – come si dice – ad uno scontro di civiltà?
Possiamo dire che una civiltà è la proposta derivante da una cultura? Se fosse così potremmo anche pensare che una cultura forte, carica di valori universalmente condivisibili ed adatti al periodo storico, produce una civiltà che si porge come modello credibile ed attraente anche per popoli che non coincidono con chi tale cultura aveva creato.
Il cristianesimo è stato certamente – per un lungo periodo – il modello vincente, poi è stata la volta dell’islam che si è diffuso in spazi geografici ampissimi ed in tempi relativamente brevi, e così via……
Per ultimo abbiamo avuto la proposta liberista: più libertà, più benessere, maggiori occasioni di arricchimento, una enorme diffusione dell’informazione: la “way of life” americana.
Penso che oggi tutte queste proposte abbiano mostrato i loro lati deboli. Forse non tratta di uno scontro di civiltà, ma invece di uno scontro dei sostenitori di civiltà ormai “usate”, che mostrano la corda, che hanno perso la spinta propulsiva.
In tale situazione quelli che sono più accaniti e pieni di fervore sono in realtà gli estimatori dell’antico, delle credenze ormai collaudate, dei “credi” divenuti indiscutibili.
Fa eccezione la cultura cristiana, che ha saputo, parzialmente, rinnovare le sue proposte: via via si è passati dalla difesa delle verità di fede (che rimangono, ma di cui nessuno parla più – il mistero della Trinità, l’assunzione in cielo di Maria, ecc) ad argomenti moto più attuali, splendidamente indicati dal Pontefice in tante sue indicazioni: la solidarietà, la Pace, la difesa degli ultimi……
Per la sua stessa struttura la religione islamica sembra incapace di un tale rinnovamento, sappiamo che tale ansia esiste, ma dà frutti molto inferiori a quelli di Roma.
Il liberismo si trova in una situazione ancora peggiore: ogni cambiamento comporterebbe una clamorosa smentita degli assiomi tanto conclamati.
Se la libertà diventa licenza come fare un passo indietro? Se il libero mercato significa sfruttamento delle risorse e degli uomini, come introdurre regole? Se la democrazia non convince, come esportarla? Se il controllo totale dei mezzi di informazione non riesce a coartare tutte le coscienze, resta da usare solo la violenza?
Una proposta europea esiste, quella della democrazia e del welfare state, ma lo stato sociale appare al terzo mondo come un privilegio, e la democrazia assume valore solo quando serve ad un modo di governare che sia positivo ed accettabile (e non è così).
Possiamo quindi immaginare di trovarci in un periodo di crisi e di passaggio, in cui, per ora sappiamo solo cosa non ci accontenta più?
In realtà una prospettiva sta avanzando velocemente, la cultura della pace, condivisa coscientemente o meno, da milioni e milioni di uomini.
Questo spazio già esiste. Si tratta di un sentire diffuso ma indistinto, più simile, per ora, ad un rifiuto che a una scelta, ma che man mano indica anche delle direzioni positive.
Dobbiamo ora approfondire la proposta, e farla diventare una proposta di civiltà; dobbiamo instaurare in qualche nazione una ferma, matura politica complessiva di pace ed offrirla, con l’esempio e con l’attuazione di atti concreti al giudizio del mondo.
Un primo passo – quello del ripudio (ma davvero!) della guerra – darebbe il segno del cambiamento, senza il quale non saremo mai credibili.
Tutto il resto – ed è molto – consiste nella proposta nonviolenta.
Poniamoci il traguardo che il primo paese ad entrare nel nuovo millennio sia il nostro….non perché ci dovessimo ritenere in qualche modo migliori o più sensibili, ma perché siamo qui, e su questa realtà possiamo influire ed agire.

Di Fabio