• 24 Novembre 2024 19:09

Azione nonviolenta – Giugno 2006

DiFabio

Feb 2, 2006

Azione nonviolenta giugno 2006

– Un convegno “umile e alto” per la nonviolenza politica (di Mao Valpiana)
– Omnicrazia. Patate e ideali. Ascoltare e parlare. Nonviolenza e controllo dal basso per superare il militarismo e la burocrazia (di Daniele Lugli)
– Il femminismo, elemento centrale della nonviolenza (di Lidia Menapace)
– Trasformazione nonviolenta dei conflitti interculturali (di Pasquale Pugliese)
– Finiamola con l’idea dello sviluppo infinito (di Piercarlo Racca)
– Un’esperienza importante per la città di Firenze (di Tiziano Cardosi)
– Una forza più potente: scheda 5: “Nashville 1960: eravamo guerrieri” (a cura di Luca Giusti)
– Un monumento diverso (di Irene Valente)

LE RUBRICHE

– Giovani. Battere la mafia è possibile anche nel nord d’Italia (a cura di Laura Corradini)
– Educazione. Educare all’incontro con l’altro contro il virus del razzismo (a cura di Pasquale Pugliese)
– Disarmo. E se il lavoro da difendere è in una fabbrica di armi? (a cura di Massimiliano Pilati)
– Economia. Controlliamo la finanza palestinese per capire meglio OLP e Hamas (a cura di Paolo Macina)
– Per esempio. Nella comunità di Parihaka vive la nonviolenza dei Maori (a cura di Maria G. Di Rienzo)
– Musica. L’anima popolare degli States ha un nome: Pete Seeger (a cura di Paolo Predieri)
– Cinema. Alla ricerca di un equilibrio per affrontare i conflitti familiari (a cura di Flavia Rizzi)
– Movimento. Verso i corpi civili di pace, una necessità della storia (a cura di Silvano Tartarini)
– Libri. Una scuola migliore per tutti (a cura di Sergio Albesano)
– Riceviamo e segnaliamo (a cura della Redazione)
– Lettere

Un convegno “umile e alto” per la nonviolenza politica

Di Mao Valpiana

Nei giorni 5, 6 e 7 maggio si è svolto a Firenze il Convegno “Nonviolenza e politica” promosso dal Movimento Nonviolento. Il Convegno si è inserito nel percorso iniziato con la Marcia Perugia-Assisi “Mai più eserciti e guerre” del 2000, proseguito con la camminata Assisi-Gubbio “In cammino per la nonviolenza” del 2003, e poi con il Congresso di Gubbio “Nonviolenza è politica” del 2004.
L’iniziativa è nata dalla necessità di una nuova politica: quella che cresce dal basso, unica a legittimare quella delle istituzioni. L’orizzonte è quello indicato da Aldo Capitini: il “potere di tutti”, concetto che annuncia e supera quello oggi tanto citato di “democrazia partecipata”.
E’ stata scelta Firenze come sede del convegno proprio per l’importanza che la città ha avuto nella storia della nonviolenza italiana: da Giorgio La Pira ad Alexander Langer, da Padre Ernesto Balducci a Don Lorenzo Milani, dalla rivista “Il Ponte” al Centro di Orientamento Sociale (COS) di Aldo Capitini. Proprio i COS furono una esperienza breve, ma intensissima, nell’Italia appena uscita da un ventennio di dittatura e una guerra devastante: erano assemblee dove i cittadini potevano parlare in libertà, senza alcuna distinzione di ceto o di cultura, di ogni argomento possibile. Una esperienza che conserva intatto la sua importanza ancora oggi.
I temi affrontati sono stati molti: dalle campagne per il disarmo ai corpi civili di pace, dall’opposizione al nucleare civile e militare alle campagne ecologiste contro le antenne, dal movimento No-Tav all’educazione alla pace, dalla scuola all’informazione, e altro ancora. Il metodo di lavoro è stato quello dei Cos: ascoltare e parlare. Esperienze, idee e proposte sono state presentate da 30 interventi che si sono susseguiti mattina e pomeriggio, in un clima di grande interesse ed accoglienza. Nella mattina l’attenzione si è concentrata su “nonviolenza e politica: partiti e istituzioni”, mentre il pomeriggio è stato dedicato a “nonviolenza e politica: movimenti e alternative”. Nel convegno, frequentato da un centinaio di persone, ampio spazio ha trovato il confronto fra tante iniziative concrete che sono cresciute in questi anni, per riconoscere e rafforzare le radici storiche, e per costruire nuovi momenti comuni di iniziative di movimento.
Indubbiamente la politica ha bisogno di essere ripensata, e non da oggi, e noi siamo convinti che la nonviolenza sia la strada giusta anche per la rigenerazione della politica.
La domenica si è svolta la camminata (come una “processione” laica) in città, variopinta dalle bandiere della nonviolenza, per visitare luoghi della nonviolenza, partendo da Palazzo Vecchio, dove lavorarono Giorgio La Pira e Enriquez Agnoletti, in Piazza della Signoria, luogo storico della democrazia a Firenze; la prima sosta è stata alla Chiesa evangelica metodista in via de’ Benci, dove abbiamo ricordato la figura di Ferdinando Tartaglia, poeta e religioso, animatore con Capitini dei Centri di Orientamento Religioso. Poi ci si è soffermati in Piazza Santa Croce, alla cappella dei Pazzi, luogo a lui caro, per rivolgere un pensiero ad Alexander Langer, morto a Firenze, dove sognava di fondare una università per la pace. La terza tappa è stata in via Oriuolo, dove Isabella Horn, ha ricordato la figura di suo marito, Pio Baldelli, amico e collaboratore di Capitini. In piazza San Marco siamo stati ospitati nella sede della Fondazione dedicata a Giorgio La Pira, indimenticabile sindaco della città. Accolti nella Chiesa di San Giovannino degli Scolopi in via Martelli, dove egli predicò, abbiamo omaggiato padre Ernesto Balducci. La conclusione della camminata è stata davanti al Palagio di Parte Guelfa, sede del primo Centro di Orientamento Sociale a Firenze. La camminata, conviviale e sobria, è stata apprezzata da tutti i partecipanti ed è stata una vera e propria “assemblea itinerante”.
Il convegno fiorentino del Movimento Nonviolento è stato un utile confronto comune sulle proposte di una politica nonviolenta e di una nonviolenza politica.

Omnicrazia. Patate e ideali. Ascoltare e parlare. Conoscere, discutere, agire
Nonviolenza e controllo dal basso per superare il militarismo e la burocrazia

Può essere che la democrazia per il suo sviluppo chieda alle persone maggiori garanzie di quelle che chiede ora: una garanzia sarebbe l’apertura alla compresenza di tutti. Aldo Capitini

La democrazia appare sotto assedio. Un pugno di manager di immense multinazionali fanno e disfano quello che vogliono. Gli altri miliardi di uomini sono complici o schiavi. Se si rifiutano, nella migliore delle ipotesi, sono emarginati e non contano niente. Questa era la previsione di Lelio Basso, un trentennio fa. Pare avverata. Gli stati contano sempre meno. Le organizzazioni internazionali, a cominciare dall’Onu, sono screditate. In grave difficoltà appare la stessa Unione Europea. Gli stati “democratici” sembrano differenziarsi dagli altri per una minor ferocia verso i propri cittadini e per la volontà di esportare “democrazia”, consistente unicamente in rituali elettorali e nel rispetto delle multinazionali. Contrastare questo processo non è semplice. Uno stimolo ci può venire da Aldo Capitini e dalla sua omnicrazia.
E’ una strana parola per indicare democrazia diretta e consiliare, potere di tutti e di ciascuno, inventata da Capitini negli anni del dopoguerra e riproposta, nell’azione e con scritti teorici, fino agli ultimi giorni. La riforma religiosa e la rivoluzione nonviolenta, che avrebbero dovuto realizzarla, non sono in vista. Capitini ne era consapevole: non voglio dire affatto che proprio le mie proposte religiose e politiche troveranno chi le farà proprie e le svolgerà. Tutt’altro che questo! Così annotava infatti nel suo ultimo scritto Attraverso due terzi di secolo, che si conclude così: Questa unità o parte interna di tutti, la loro possibilità infinita, la loro novità pura, il loro “puro dopo” la finitezza e tante angustie, l’ho chiamata la compresenza. Anche senza la persuasione capitiniana nella compresenza si può però, con Edgard Morin, condividere la necessità di conoscere la condizione umana – l’unità complessa della sua natura, fisica, biologica, psichica, culturale, sociale, storica – e il legame indissolubile tra l’unità e la diversità di tutto ciò che è umano.
La proposta di Capitini merita di essere ricordata come aggiunta possibile e necessaria allo stato democratico, costituzionale, in crisi nei suoi elementi costitutivi di pluralismo politico, sociale, informativo e nella sua tensione alla costruzione di ordinamenti superiori, che ne regolino i rapporti esterni. Non si contrappone alla democrazia rappresentativa, fondata sullo spirito critico, della quale afferma il progresso rispetto alle società militare e religiosa, fondate su obbedienza pronta e cieca e su formazione alla fede. Se finalità dello Stato democratico pluralista è l’inclusione nel circuito politico istituzionale del massimo numero possibile di gruppi, interessi, idee, valori presenti nella comunità l’omnicrazia, che è inclusione di tutti, ne appare il compimento. E’ assieme adempimento della solenne promessa che, nella nostra Costituzione, è ben formulata all’articolo 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Possiamo esaminare più da vicino la proposta secondo cinque direttrici fondamentali.

Il ripudio della guerra
Il rifiuto della guerra è la condizione preliminare per un nuovo orientamento. Aldo Capitini
Se lo Stato appare in crisi quanto alla sua connotazione democratica non lo è per l’aspetto militare. Anzi la sua capacità offensiva, da solo o in bellicose alleanze, è la principale e decisiva misura del suo peso, del suo ruolo internazionale. La guerra è tornata ad essere normale, e micidiale, elemento della politica. Il crollo dell’ex Unione sovietica, nel cui atteggiamento l’Occidente ha per anni indicato l’impossibilità di un virtuoso funzionamento dell’ONU, non ha portato a rapporti tra gli Stati regolati dal diritto anziché dalla forza. L’attacco della Carta costitutiva Noi popoli delle Nazioni unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra… non trova conseguente traduzione pratica.
Addirittura i Diritti umani, universalmente dichiarati, sono presi a pretesto delle guerre condotte dai paesi più ricchi, potenti e democratici nei confronti dei paesi più poveri, deboli e autoritari. Nel nostro Paese nessuna applicazione si dà al disposto costituzionale che ripudia la guerra. La Chiesa stessa, nella sua gerarchia, (attenta al diritto alla vita quando si tratti di un embrione o di “vivente” per artifici tecnici, magari sofferente e senza alcuna coscienza) si è ritratta, nonostante la bella formulazione contenuta nel catechismo per gli adulti, dalla solenne proclamazione della Pacem in terris. Qua re aetate hac nostra, quae vi atomica gloriatur, alienum est a ratione, bellum iam aptum ad violata iura sarcienda. Se è irragionevole pensare che in questa era atomica (nel frattempo le armi di distruzione di massa si sono arricchite di nuovi orrori) la guerra possa essere usata come strumento di giustizia bisogna riconoscere che la sua pratica distrugge ogni diritto, che non sia ulteriore arma nelle mani dei potenti, e, certamente, ogni giustizia.
La giustizia, ricorda Gustavo Zagrebelsky, ha come fondamento minimo il rifiuto dell’ingiustizia, che è, tipicamente, la sofferenza inferta agli innocenti, esito sicuro della guerra. Perciò il rifiuto della guerra è necessario preliminare per una convivenza civile. Il suo ripudio è cosa da praticare e non vuotamente proclamare. E’ quindi il primo terreno sul quale impegnarsi, così come il diritto alla vita è condizione per tutti gli altri diritti. Corpi civili di pace, difesa popolare nonviolenta, diplomazia dal basso sono elementi di costruzione di un intervento per i diritti umani non affidato a carneficine di massa. In questa direzione va la proposta del Movimento Nonviolento di ridurre le spese militari del 5% annuo progressivo, per finanziare forme di intervento e difesa nonviolenta, quali i Corpi Civili di Pace; usare il denaro così risparmiato, per adottare, magari attraverso il Ministero per la Pace, una rigorosa politica costituzionale di ripudio effettivo della guerra; ritirare i militari italiani da ogni teatro di occupazione e guerra; espellere dall’Italia le bombe nucleari presenti nelle basi Usa; ripristinare e rafforzare la legge 185, limitativa del commercio delle armi.
Mentre la guerra, come osserva Giuliano Pontara, non ha mai trovato positiva applicazione nella tutela dei diritti umani, invocati a sua giustificazione, né appare scongiurata la prospettiva di una catastrofe nucleare, costituiscono invece esiti certi della guerra i massacri su scala industriale, la violazione dei diritti degli innocenti, presenti e futuri, per gli strascichi letali a lungo termine delle armi impiegate, l’alimento a nuove guerre e alla loro escalation, il rafforzamento del complesso militare industriale, alimentato ed alimentante la guerra, l’avvvio ed il sostegno a processi di deumanizzazione (genocidi e simili).
Occorre al contrario, condividendo il pensiero di Edgard Morin, insegnare ed apprendere l’identità terrestre, il complesso della crisi planetaria, nella quale ci troviamo, per cui tutti gli umani, ormai alle prese con i medesimi problemi di vita e di morte, vivono una medesima comunità di destino, che lo scannarsi reciproco non può in alcun modo migliorare. E’ l’uomo planetario del quale già ci parlava Ernesto Balducci.Controllo dal basso
Nonviolenza e controllo dal basso per superare il militarismo e la burocrazia. Aldo Capitini
L’impotenza di fronte alla guerra, la complessità del vivere associato, l’enormità dei problemi percepiti, la fondata sensazione della propria scarsissima influenza aiuta la passività, l’apatia dei cittadini, spettatori (meglio telespettatori) di vicende politiche di difficile comprensione. Alle scadenze istituzionali si assiste a un risveglio, più o meno accentuato, secondo le stimolazioni ricevute, che si traduce in voto. Molto efficaci si rivelano gli stimoli elementari e ripetuti, che non impegnano capacità critiche, ma si affidano a riflessi, più o meno, condizionati. Si assiste però a risvegli collettivi quando nei pressi di casa le amministrazioni vogliano depositare cose o persone sgradevoli: scorie, inceneritori, nomadi, immigrati… Nascono comitati, che non solo si oppongono, ma suggeriscono usi creativi dei siti, dei quali si scoprono valori e bellezze fino a quel momento sconosciuti. Amministratori avveduti cercano di evitare queste opposizioni – si verificano sempre e sono sempre inaspettate – attraverso procedure di partecipazione e coinvolgimento: VIA ben fatte, Agende 21, piani sociosanitari, urbanistica, bilanci, e quant’altro, partecipati, pratiche innovative, importate dall’America o dal Nord Europa, focus group, citizen jury, planning cells, consensus conference, open space… Non è detto che la cosa funzioni: quando li chiami i cittadini non vengono, ma si fanno puntualmente vivi quando gli amministratori non ne sentono il bisogno.
Nell’immediato dopoguerra si colloca la straordinaria esperienza dei Centri di Orientamento Sociale, promossi da Capitini e da un ristretto gruppo di amici, che ebbe tuttavia significativa diffusione e risonanza, nonostante il modestissimo e periferico sostegno ricevuto dalle forze politiche e sindacali e dalle istituzioni. E’ proprio il luogo del controllo dal basso sull’operare delle istituzioni. Ci si va per ascoltare e parlare, non l’uno senza l’altro. Chi può parlare ascolta più profondamente, diceva Capitini. E’ un’esperienza che non supera le elezioni del ’48. Chi oggi la rivisita vi trova ricchezza di ispirazioni, confronto su problemi etici, suggerimenti all’assemblea costituente, esperimenti di democrazia partecipata, anticipazione di questioni emerse decenni più tardi, buone pratiche di cittadinanza… Non è stata questa la strada imboccata e sostenuta da partiti, sindacati, formazioni religiose e sociali poco interessati, quando non ostili, alla formazione di cittadini, di lavoratori, competenti e consapevoli, capaci di esprimere direttamente, nel confronto in appropriate assemblee, il proprio orientamento o di scegliere, quando necessario, propri rappresentanti. Pensava Capitini a Cos non solo diffusi sul territorio (in ogni parrocchia), ma in ogni istituzione, dalla fabbrica, alla scuola, all’ospedale, al carcere. Una democrazia consiliare, che almeno affiancasse il sistema dei partiti, che si veniva affermando, garantendo circolazione di proposte e di esperienze.
E’ questo un terreno di impegno per il nostro piccolo movimento e per chi vorrà con noi praticarlo. Un maestro liberale, Luigi Einaudi, indicava come corretto percorso del governare conoscere, discutere, agire. Non è detto che il percorso sia sempre questo. Il punto di partenza può variare: l’importante è che questi elementi siano il più possibile collegati ed, alla fine, compresenti ed includenti. E’ la base perché la democrazia sia di tutti e non democrazia di amministrazione, come la chiamava Capitini, diventata nel frattempo di cattiva, se non pessima e corrotta, amministrazione. Per dirla con Totò è la scelta tra essere uomini o caporali e come tali rapportarsi e dar vita a congruenti istituzioni. Il lavoro per lo sviluppo e la qualificazione del controllo dal basso, da parte di chi è coinvolto nelle decisioni di ogni ente, pubblico o privato, ad ogni livello è un passo ineludibile. E’ anche occasione di apprendimento condiviso di altri saperi, che Morin indica come essenziali per stare decentemente nel tempo che ci è dato: riconoscere l’errore e l’illusione, che accompagnano la nostra conoscenza, acquisire principi di una conoscenza pertinente, che colga i problemi globali e fondamentali e sappia inserirvi le conoscenze parziali e locali. Il pensiero va a Alexander Langer e ancora a Capitini. Nei Cos si parla di patate e ideali. E’ questo un elemento della sua forza: il Cos è umile e alto.

Metodo nonviolento
Bisogna prepararci tutti al potere per il bene di tutti, cioè per la loro libertà, per il loro benessere per il loro sviluppo. Aldo Capitini
Si tratta dunque di aggiungere al metodo democratico il metodo nonviolento, a partire dal controllo dal basso per la difesa e lo sviluppo della democrazia. Questa aggiunta può e deve farsi ovunque: nelle lotte politiche, sociali, economiche. Solo così la riforma delle corrispondenti istituzioni può accompagnarsi ad un positivo mutamento delle persone. E’ la sola speranza di un futuro migliore. Già lo scriveva Condorcet: progresso è eguaglianza tra popoli di paesi diversi, eguaglianza tra le persone all’interno dello stesso paese, perfezionamento del genere umano.
Di metodo, non di sole tecniche, si tratta. Il boicottaggio, strumento classico delle lotte nonviolente, dei negozi degli ebrei precedette e preparò la notte dei cristalli e i forni crematori. L’ispirazione nonviolenta – cioè l’apertura all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo di ogni essere – è necessaria. E’ apertura contro chiusura, apertura ai singoli tu fino all’apertura alla realtà di tutti, diceva Capitini. Non è così lontano un altro dei saperi necessari indicati da Morin: La mutua comprensione tra umani, sia vicini sia stranieri, è ormai vitale affinché le relazioni umane escano dal loro barbaro stato di incomprensione. E’ un saper indispensabile a chi opera nelle istituzioni, come a chi opera nei movimenti.
Al metodo nonviolento conduce anche la consapevolezza della nostra fallibilità e lo stesso principio di precauzione. Può condurvi tutt’altro che l’amore. La nonviolenza è arte che si può apprendere per fare di ogni agire politico, dal più complesso al più elementare, un’opera d’arte. Già l’avevano scritto i ragazzi di don Milani: Così abbiamo capito cos’è l’arte. E’ voler male a qualcuno o a qualche cosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in un paziente lavoro di squadra. Pian piano viene fuori quello che di vero c’è sotto l’odio. Nasce l’opera d’arte, una mano tesa al nemico perché cambi.
Non c’è un nemico da sopprimere, da sconfiggere, da mettere sotto. C’è una violenza agita in diverse forme, incorporata nelle strutture e giustificata dalla cultura, che vogliamo far cessare, una relazione ingiusta e dolorosa che vogliamo cambiare. Dobbiamo essere pronti ad assumere i sacrifici che un’azione a ciò rivolta necessariamente comporta, per liberarci da un condizionamento nel quale viviamo e del quale avvertiamo l’insopportabilità ed aiutare anche gli altri a farlo assieme a noi. I nostri avversari resisteranno e attaccheranno duramente, quanto più convinti sono di difendere la posizione migliore, se non l’unica realistica e possibile. Occorre anche di questo tener conto. Perciò è necessario che l’azione degli amici della nonviolenza si fondi sulla massima obiettività nell’analisi dei problemi; non nasconda i propri punti deboli; li affronti nel modo più trasparente possibile, sotto il controllo dei partecipanti. Miri ad un programma costruttivo che allarghi la partecipazione e proponga la collaborazione delle parti in conflitto. Di qui ancora la necessità di un’attenta considerazione dei mezzi di lotta impiegati. Se ci opponiamo ad una situazione, che percepiamo come di violenza nei suoi vari aspetti (strutturale, culturale, diretta) primo obiettivo sarà non alimentarla. La graduazione dei mezzi impiegati, l’attenzione agli effetti prodotti sugli avversari e sull’opinione in generale è una modalità che tende a rendere le parti, la nostra inclusa, più attente e competenti nella conduzione. Mira a trasformare il conflitto evitandone la distruttività e favorendone il miglior esito per tutte le parti. Fonda la politica, come già quarant’anni fa la indicavano i ragazzi di Barbiana: il problema degli altri è eguale al mio. Uscirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia.

Il centro per l’innovazione della politica
Per trasformare la democrazia in omnicrazia vi sono due elementi: le assemblee e l’opinione pubblica. Aldo Capitini
Sentiamo come compito nostro contribuire a costruire luoghi e modalità che consentano ai cittadini di pensare la politica e, con procedure decenti, determinarla, anche scegliendo i propri rappresentanti nelle diverse istituzioni. Occorre almeno integrare, se non radicalmente mutare e sostituire i partiti, che a tale compito male assolvono, ammesso che se lo pongano. Nelle ultime elezioni, ancor più che per il passato e in modo più esplicito, un pugno di segretari di partiti (della cui democrazia interna meglio non parlare) hanno deciso la composizione del nuovo parlamento e cioè coloro che dovrebbero rappresentare i cittadini. Impossibile riconoscere, nel modo di essere e di agire dei partiti, la previsione della Costituzione. Art.49: Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.
Non si tratta di contrapporre democrazia diretta a democrazia rappresentativa. Si tratta di fondare (o rifondare) le basi di una democrazia decente. Giovanni Sartori, che vede un rischio in ogni tentativo di massimizzare una democrazia incerta del suo futuro, la caratterizza secondo tre coordinate fondamentali: 1 governo di ideali, alimentato e arricchito da ideali: 2 un governo di idee (ideocrazia), per dire che deve essere ragionata e capita; 3 un governo di opinione, e cioè fondato su opinione e consenso dei cittadini. E’ una visione sulla quale si può concordare, ma che è una severa condanna per la democrazia che viviamo. In essa questi elementi sono, con tutta evidenza, assenti da tempo. Gli uomini della politica (vi sono fortunatamente eccezioni, forse più numerose tra le donne) non sembrano mossi da grandi ideali, né interessati ad un’ideocrazia (piuttosto al suo rovescio che è la videocrazia) né al formarsi di un consenso informato e di un’opinione pubblica, potenzialmente scomodi. Stanno piuttosto bene nei loro privilegi. Qualcuno, incontentabile, li chiama pane e cicoria. Sono privilegi minimi, d’accordo, se paragonati a quelli di chi condanna il teatrino della politica, quando rilutta a rappresentare il suo musical preferito. La politica immota, richiusa su se stessa, marcisce. Occorre altro.
Il centro è aperto al mondo circostante, non delimita e chiude la sua azione, non registra ciò che riceve, va oltre gli iscritti, gli iniziati, i battezzati, gli aderenti, i fruenti delle stesse idee e degli stessi beni. Al posto della società circoscritta che esclude trova posto il centro che dà e non sa più dove arriveranno le onde che partono da esso. Il pensiero torna ai Centri di orientamento sociale, all’esperienza consiliare, dove potere e sapere stanno assieme. E’ un’indicazione che può dar vita a strutture non effimere, articolarsi in procedure. E’ avvenuto in passato, quando ancora i sindacati non fornivano magari sindaci e presidenti, ma cercavano nuovi istituti, sperimentavano lotte ed organizzazione, partendo dai gruppi omogenei di base. E’ la condizione per affrontare il mare di incertezza nel quale ci troviamo (un altro dei saperi indispensabili secondo Morin). Vi sono donne e uomini, nei partiti, nelle istituzioni che avvertono tutta la pochezza di una visione aziendale, che ha conquistato ogni luogo e che al più si ripromette di fare del cittadino un cliente, che ha sempre ragione (di quella ragione che si concede, appunto, a chi non ragiona). Vi sono donne e uomini impegnati, come si dice, nel sociale che ne avvertono i limiti. Vi sono ancora cittadini che sentono l’incompletezza di una vita, che non passi per la vita pubblica, che non si rassegnano ad essere clienti. I clienti sono persone che dipendono e sono controllate da chi li aiuta e li guida. I clienti sono persone che concepiscono la propria esistenza in funzione delle proprie carenze, persone che aspettano che altri agiscano per loro conto. I cittadini sono invece persone che capiscono i propri problemi. I cittadini avvertono che esiste un legame tra loro e credono nella loro capacità di agire. I buoni clienti sono cattivi cittadini, scrivono Osborne e Gaebler in Dirigere e governare.

Nuova socialità per la comunità aperta
L’apertura alla compresenza, la persuasione di un’interdipendenza infinita, eterna perché crescente tra tutti gli esseri che mai sono stati, che sono e che saranno. Aldo Capitini
L’ultimo dei saperi, che Morin indica come indispensabili per entrare nel XXI secolo, è l’etica del genere umano, che non si insegna con lezioni di morale. Muove dalla coscienza di essere sia individuo, che parte di una società, che di una specie. Promuove le azioni politiche e le forme giuridiche che mirano alla realizzazione della cittadinanza terrestre. Segni di quanto questa necessità sia avvertita non mancano. I vari Forum, più o meno sociali che si svolgono in giro per il mondo (con tutti i loro limiti), lo testimoniano. Ma è importante anche rispondere in modo adeguato alla frana delle istituzioni democratiche, che da vicino ci minaccia. Il pensiero va al referendum costituzionale che deve bocciare l’attacco portato alla Costituzione. Anche in questo caso si tratta dell’esito ultimo di un processo le cui responsabilità riguardano l’intero ceto politico e una popolazione priva di una decente educazione civica. Si inscrive in un mutamento epocale, del quale Marco Revelli ci parla ne La politica perduta. Meglio di molti politologi ha descritto questo tipo di processi Emily Dickinson:

Sgretolarsi non è un evento istantaneo
o una cesura fondamentale
i processi di dilapidazione
sono deperimenti sistematici.
E’ dapprima una ragnatela dell’anima
una pellicola di polvere
un insetto che scava nella trave
una ruggine degli elementi.
La rovina è metodica – consecutivo
e lento è il lavoro del diavolo –
cadere in un istante, a nessuno è successo
scivolare – è la legge del crollo.

Gli strumenti tradizionali della politica non hanno saputo vedere i segnali di questa frana, tuttora in corso a vari livelli (statale, infrastatale e sovrastatale). Occorre una nuova socialità, capace di cogliere per tempo i segni delle crisi e di affrontarle, ai livelli e nei campi in cui si manifestano. Questa socialità non si produce spontaneamente. Va alimentata quotidianamente facendosi Centro, come suggeriva Capitini, a partire dalla singola persona, dal piccolo gruppo, per giungere ai contatti più vasti. L’attenzione va alle forme istituzionali, alle attività produttive, all’ambiente, in cui si scarica l’incapacità di dare soluzioni non distruttive ai nostri conflitti, alla soddisfazione dei nostri bisogni, al nostro vivere associato. L’individuo si trova in gruppi di condizionamenti, che per semplificazione abbiamo ridotto a tre: lo Stato, l’Impresa, la Natura scriveva Capitini. La costruzione del potere di tutti si confronta con questi ambiti, a tutti i livelli, per farne luoghi di liberazione e non di oppressione. Si misura quindi nella capacità di trasformare i conflitti, nelle esperienze di pianificazione dal basso, nelle varie forme di democrazia inclusiva, nel dare dignità e sicurezza a chi lavora e a chi lavorare non può ancora o più, nell’impostare un rapporto con la Natura più maturo e responsabile…
Non mancano, nel mondo e nel nostro paese, persone che su questa strada si sono messi e, fortunatamente, ci precedono. Non è persa la speranza che qualcuno un giorno dica, come Capitini si augurava, Ieri eravamo violenti.

Daniele Lugli

Il femminismo, elemento centrale della nonviolenza

Io sento molto forte l’urgenza di fare qualcosa per cambiare le cose per come stanno andando, ma al tempo stesso so che quando c’è un’urgenza bisogna essere lenti. Ciò di cui avremmo più bisogno sarebbe: distendere in un tempo ristretto un ragionamento calmo. Per esempio, noi donne elette, che siamo riunite in un comitato, siamo state già sorpassate dalle decisioni che sono state prese rapidamente da quelli che si sono subito insediati perchè sono attaccati al loro potere. Per non parlare della possibilità di portare in parlamento le rivendicazioni ecco ad esempio venute fuori in una giornata come oggi. Arriva sempre tutto troppo tardi. E ci ritroviamo a fare i giochi di risulta. Mentre invece ciò che più servirebbe è avere la forza di dire: “no fermiamoci un momento, più che di andare veloce adesso serve mantenere una relazione molto fervida tra rappresentanze e rappresentati/e”. Bisogna fermare il vorticoso moto della politica, rallentare i tempi per fare spazio alla democrazia perchè se no ci troviamo sempre di fronte al fatto che altri, che avevano la legittimità di farlo, hanno preso le decisioni… [….]
Sulla necessità che i movimenti si autofinanzino io ho un atteggiamento duplice, ma mi sembra importante non rimanere sempre in una marginale posizione sacrificale, una nobile testimonianza che forse passerà alla storia, ma non la modificherà. […]
I movimenti dovrebbero chiedere un’interlocuzione alla pari con i partiti di riferimento. Ad esempio, è stato detto che il programma dell’Unione è stato scritto con il metodo del consenso, ma è necessario che i movimenti facciano chiarezza sulle proprie posizioni, anche forzandole perchè emergano e in maniera chiara. Soprattutto è necessario superare un linguaggio troppo generico. Non basta dire “superamento di una determinata legge”, è necessario anche specificare che cosa si intende per “superamento”, che per alcuni può essere andare avanti per altri tornare indietro.
Rispetto al partito in cui sono stata eletta, sia pur come indipendente, ho intenzione di mantenere un atteggiamento che definirei “laico”, e sono disposta a fare cose come spionaggi, infedeltà, non ho nessun problema da questo punto di vista dal momento che le infedeltà che si fanno a mio carico sono assolutamente senza numero. Del resto io non credo più di tanto a questa forma politica straordinariamente rispettabile-rispettata, che ha finito la sua storia e che comunque continua a mantenere un grande potere, che si chiama “il partito”.

Se devo dire che cosa mi manca in questa giornata: avete accennato al ’68, all’ecologismo, etc, ma il femminismo non vi esce di bocca neanche sotto tortura, eppure qualsiasi discorso non può essere fatto senza anche questo elemento che è stato, ed è, una cosa grandiosa; forse inquietante, perchè mette in gioco le certezze più profonde di chi ha gestito tutto al mondo fino a ieri mattina e che ha dalla sua la gloria, la storia, il potere, tutto. Non per niente tutto quello che fa il padre si studia a scuola, mentre niente si sa di ciò che fa la madre. Anche solo come si mettono al mondo i bambini… eh, ma non si raccontano di queste cose… Attila sì, ma come si nasce no! Un modo di osservare il reale che fa già partire inosservate più di metà delle persone che compongono la specie umana. Un pensiero politico che non includa ciò che è il femminismo, e non si aggiorni (perchè il femminismo non è mica lo stesso sempre, e inoltre i femminismi sono tanti) è un discorso incompleto e sostanzialmente violento. Anche solo dal punto di vista del linguaggio non inclusivo, il fatto di dire uomo per intendere l’essere umano comporta un genocidio simbolico di natura violenta.
[….]
….sul movimento di base come forma politica… i vari movimenti dovrebbero contaminarsi tra di loro utilizzando meno l’aspetto populista, l’unità di popolo, e più i contenuti che hanno di cultura politica perchè la cosa nuova di questi movimenti (quelli contro la TAR in Val di Susa o simili) è che hanno fatto una crescita culturale straordinaria ed hanno elementi di conoscenza della realtà, di collocazione nel tempo, di attualità… sono assolutamente movimenti presenti, e questo ha una grande importanza. [….]
I movimenti non hanno più la forma del mosaico, in cui qualcuno ha fatto il disegno e poi colloca gli altri nei posti delle varie tessere del mosaico. I movimenti oggi sono olistici, in un piccolo pezzo di realtà leggono tutto il reale e questo stabilisce un’altra forma della conoscenza politica e delle relazioni, però ti priva del fatto che qualcuno abbia fatto prima il disegno generale. Risulta una cosa più affascinante, più avventurosa, più libera se si vuole, ma anche c’è il rischio che così ci si arrocchi, non si abbia più la capacità di mettersi in comunicazione con gli altri. Io credo che all’interno del movimento ci si debba preoccupare di più di questo genere di problematiche. Ed occuparsi più del presente, questo presente, così complesso che ci sfugge sotto i piedi e che se non lo analizziamo per tempo, e non troviamo il modo di affrontarlo, ci travolgerà. A me no perchè me ne andrò prima….

L’intervento di Lidia Menapace è stato trascritto da Giovanna Providenti. Sono stati inseriti dei brevi tagli (indicati da [….]) e poche sintesi per aiutare alla comprensione.

Trasformazione nonviolenta dei conflitti interculturali

I.In un contesto culturale già di per sé connotato da elementi di violenza, il governo di destra ha introdotto ulteriori elementi di imbarbarimento che si aggiungono agli imbarbarimenti sociale, civile e politico, di cui si è fatto portatore.
II.Ciò si è manifestato attraverso momenti di accelerazione e rinforzo dei peggiori istinti presenti nella società. Non a caso una delle ultime norme che ci ha lasciato è l’estensione della licenza di uccidere per la legittima difesa dei beni propri e altrui.
III.Finora, l’inevitabile flusso migratorio, che sta trasformando lentamente la composizione culturale e sociale del paese, era stato accompagnato da un’ansia securitaria ed espulsiva che ha avuto il proprio apice nella legge “Bossi-Fini” e nella vergogna dei “Centri di permanenza temporanea”.
IV.Nell’ultima fase è avvento un salto di qualità che ha dato la stura, la legittimità e l’alimentazione ad elementi diffusivi di vero e proprio razzismo. Ciò di fronte ad un dato sociale che, tra le altre cose, vede ogni anno aumentare la presenza dei bambini stranieri nelle scuole italiane del 20% rispetto all’anno precedente.
V.Razzismo sembra una parola antica, ma come nessuno chiama più la guerra, anche quella di occupazione, con il suo nome ma la si definisce “intervento di pace”, così il razzismo viene definito “superiorità della civiltà occidentale”. Ed in nome di questa importanti uomini delle istituzioni elaborano e sottoscrivono manifesti contro “l’uguale valore di tutte le culture” (riallacciandosi idealmente al “manifesto della razza” del 1938) e partiti al governo hanno riempito le città di squallide vignette elettorali offensive di tutte le comunità presenti in Italia (riallacciandosi idealmente, e graficamente, alle vignette antiebraiche del ventennio fascista).
VI.Bisogna accorgersi che stiamo scherzando con il fuoco: non dimentichiamo che i quattro attentatori suicidi di Londra erano figli di famiglie pakistane emigrate in Inghilterra negli anni ottanta, il cui malessere da integrazione è stato intercettato dall’ideologia terrorista. Non dimentichiamo l’ondata di violenze globali suscitate dalle vignette anti-islamiche danesi, né la rivolta delle seconde generazioni nelle banlieus parigine…
VII.Non a caso, Alex Langer tra le ultime cose ha scritto: “esplosioni di razzismo, sciovinismo, fanatismo religioso, ecc. sono tra i fattori più dirompenti della convivenza civile che si conoscano (più delle tensioni sociali, ecologiche o economiche), ed implicano praticamente tutte le dimensioni della vita collettiva: la cultura, l’economia, la vita quotidiana, i pregiudizi, le abitudini, oltre che la politica o la religione. Occorre quindi una grande capacità di affrontare e dissolvere la conflittualità etnica”. (Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica, 1994)
VIII.Non a caso la pratica della nonviolenza nasce attraverso il confronto con queste questioni nelle loro diverse dimensioni: Gandhi elabora e sperimenta il satyagraha nei confronti del segregazionismo in Sudafrica, della discriminazione contro gli “intoccabili” in India e del conflitto inter-religioso tra indù e musulmani, durante e dopo la lotta per l’indipendenza dell’India. M.L. King introduce la nonviolenza negli U.S.A. attraverso la lotta per i diritti civili dei neri.
IX.In Italia, arrivata ultima in Europa all’appuntamento diretto con il fenomeno dell’immigrazione, invece non si vede la complessità del problema: da un lato la destra xenofoba e razzista sostiene che gli immigrati devono tornare a casa loro e dall’altro la sinistra “buonista” sostiene che possono restare perché servono al mercato del lavoro, purché si comportino bene…
X.L’approccio nonviolento all’inevitabile passaggio alla società trans-culturale, recuperando l’eredità di Gandhi e M.L.King, deve invece focalizzare almeno tre elementi:
a)l’incontro con l’altro – con chi è portatore di culture, valori e pratiche differenti – è un elemento fondamentale per lo sviluppo della civiltà e della conoscenza e passa attraverso la relativizzazione delle rispettive cornici data dal confronto con le altre cornici culturali;
b) l’incontro tra persone portatrici di differenze non è mai indolore, ma è causa di conflitti. E se le differenze sono di carattere culturale i conflitti sono propriamente inter-culturali, e quanto più valori e pratiche culturali saranno differenti tanto più i conflitti saranno intensi e duraturi;
c)perciò occorre attrezzarsi per la trasformazione nonviolenta dei conflitti interculturali, considerando la cultura la dimensione più profonda e radicata – seppur dinamica e fatta di elementi complessi – di cui ciascuno è portatore sano o, molto spesso, insano.

Pasquale Pugliese

Finiamola con l’idea dello sviluppo infinito

Estremamente positiva è stata la partecipazione e la ricchezza degli interventi.
Si è partiti da una introduzione di Daniele Lugli sulla figura di Capitini e della ricca esperienza dei Cos (centri di orientamento sociale) dove effettivamente la gente comune poteva interloquire sulle scelte politiche ed economiche delle amministrazioni locali. Oggi i Cos non esistono più, i cittadini sono di fatto estromessi dalle scelte politiche ed economiche. Ma malgrado tutto questo alcuni segnali confortanti sembrano emergere dagli esempi di democrazia partecipata e dalla lotta No Tav in Val di Susa.
Dagli interventi che si sono susseguiti sono emerse molteplici situazioni in cui la nonviolenza è presente nella politica e cerca di farsi strada con le sue proposte. Servizio civile volontario, corpi civili di pace, cantieri di pace, fucina della nonviolenza, percorsi di nonviolenza, riviste varie
(“Azione nonviolenta”, “Satyagraha”…), economia di pace, lotte varie (rifiuti, scorie nucleari, inquinamento elettromagnetico, ecc…).
In particolare sulla questione No Tav è stato fatto presente che la lotta in Val di Susa non è solo la questione se fare altri binari, se esiste la sicurezza stante la situazione di presenza di amianto e uranio; ma soprattutto è l’opposizione consapevole che non c’è futuro con un uno sviluppo in cui l’unico parametro di riferimento è la crescita del Pil e dove non viene assolutamente tenuto conto della qualità della vita, degli scenari futuri di questo sviluppo dissennato in cui un semplice yogurt percorre tremila chilometri prima di essere acquistato e consumato. E una possibile lettura nonviolenta di questa lotta ci porta a sperare che sia l’inizio di una inversione di rotta rispetto alle sciagurate scelte economiche che i politici di mestiere sia di destra che di sinistra continuano a propinarci con la teoria dello sviluppo infinito e senza tenere conto della deforestazione, della cementificazione, dell’inquinamento, dell’aumento della popolazione e del prossimo esaurimento delle fonti energetiche fossili.
Molti altri temi sono stati proposti in questo momento di confronto. Non si sono votate mozioni ma si è preso atto della ricchezza dei contenuti. Una proposta interessante è quella di una campagna per espellere dal nostro territorio le armi nucleari tuttora presenti in alcune basi della Nato, campagna che potrebbe essere un collante per una grande iniziativa comune di varie associazioni tra cui il Movimento Nonviolento.
In tutto questo non è certo mancato il richiamo (eravamo a Firenze) alla figura di La Pira che nel campo della nonviolenza e dell’obiezione di coscienza ha rappresentato un punto fermo cui riferirsi.
Il giorno successivo, domenica 7 maggio, a conclusione di questo percorso fra nonviolenza e politica i partecipanti al convegno hanno preso aprte a una camminata attraverso Firenze per visitare i luoghi in cui persone legate alla nonviolenza (La Pira, Capitini, Langer, Pio Baldelli e altri) hanno
vissuto e lasciato un segno tangibile.
Conoscere la storia passata è sicuramente uno stimolo e la base per lavorare teneramente verso un futuro nonviolento.

Piercarlo Racca

Un’esperienza importante per la città di Firenze

Mi piace cominciare proprio dalla fine di questo incontro, ai saluti, quando le persone arrivate da tutta Italia sono partite salutando i Fiorentini. Qualcuno ha detto: i semi della nonviolenza gettati germoglieranno. Ho annuito, ma non troppo convinto. Mi aveva deluso la partecipazione dei cittadini che prevedevamo più numerosa, viste le reazioni positive alla vigilia del convegno.
Invece i semi hanno cominciato a germogliare subito, come per incanto: a Firenze, dove stiamo cercando di riunire i nonviolenti della città in un gruppo che si è chiamato “Fucina per la nonviolenza”, sono già nate idee di nuovi incontri e iniziative in vista dell’opposizione alla guerra e all’allargamento della partecipazione di tutti; una serie di telefonate, contatti, email hanno cominciato a girare come se una forza magnetica avesse scosso il torpore della città.
I semi germogliano, germoglieranno, al peggio saranno quieti, se l’ambiente sarà ostile, in attesa che si risvegli la coscienza intorpidita degli abitanti di Firenze.
Tre giorni pieni di discussioni, confronti, appunti, scambio di documenti, libri, stampe, impressioni.
Un convegno che ha visto interventi di tutte le anime del movimento, da quella meditata e concretissima di Nanni Salio nel delineare i pericoli della danza macabra sull’orlo di un vulcano che l’umanità sta conducendo, a quella più positiva e fiduciosa di Lidia Menapace che ha portato il soffio rigeneratore delle sue ironiche esperienze femministe, dai dubbi e le speranze sul nuovo servizio civile, al ribadire convinto e testardo della necessità dei Corpi Civili di Pace come esperienza assolutamente alternativa, ma concretissima, nella soluzione dei conflitti che insanguinano il mondo, dal ricordo di un uomo come La Pira (ex sindaco di Firenze) alla constatazione dei problemi di oggi cui, intuizioni come quella dell’omnicrazia, potrebbero essere un valido rimedio…
Al di là di tutte le parole dette e ascoltate, germogliano i virgulti di amicizie nate o rinvigorite dallo stare assieme, sbocciano sentimenti di stima e di affetto usciti dal reciproco confronto; una tenue promessa di umanità pacificata con se stessa e col mondo.
Alla domenica mattina una passeggiata nel centro di Firenze, nei luoghi che furono importanti per la nascita della nonviolenza in città e nel mondo. Per chi, come me, vive in questa città è stata una brutale esperienza vedere luoghi che furono abitati e vissuti dai cittadini, sospesi in un vuoto urbanistico: dove una volta erano quartieri di donne e uomini, adesso solo negozi griffati, fast food, alberghi, mandrie di turisti condotte in sentieri di consumismo e di arte ridotta a insipidi bignamini.
L’emozione più amara è stata di fronte alla prima sede del COS (Centro di Orientamento Sociale) di Firenze, una volta quartiere popolare, adesso deserto umano segnato dagli scarti di un turismo frettoloso e inutile: lattine, dépliant accartocciati, scatole vuote di pellicole, tovaglioli di carta.
Un amaro epilogo se non fosse che il ricordo dei COS, iniziati in città da Aldo Capitini e Pio Baldelli, ricordati dalle parole di Daniele Lugli, ha preso forma nel cuore dei presenti, dando sostanza al desiderio di rinnovare una stagione aperta di umanità partecipe al proprio destino, dove il potere non sia più il mostro opprimente che le cronache ci fanno conoscere, ma un patrimonio di tutti, la ricchezza di esseri viventi riconciliati con se stessi. La coscienza della pochezza della vita politica attuale non è divenuta astioso desiderio di rivalsa, ma bisogno di persuadere i detentori del potere, divenuto dominio, che la condivisione è una ricchezza per tutti, ben più piacevole di un’arida illusione di potenza.
I semi germogliano: oggi, amici che hanno sentito parlare alla radio di omnicrazia, mi hanno chiesto che cosa fosse. Mi hanno ascoltato piacevolmente stupiti.
I semi germoglieranno, non possono non germogliare se l’umanità vuole un futuro.
Un saluto da Firenze, città alla ricerca di un futuro di pace.

Tiziano Cardosi

una forza più potente: scheda 5
Nashville1960: eravamo guerrieri

Proseguono le schede sui casi di resistenza nonviolenta nel XX secolo presentati dalla serie “Una forza più potente”, prodotta negli Stati Uniti dalla York Zimmerman e diffusa in versione italiana DVD dal Movimento Nonviolento. Pubblichiamo una scheda al mese: dopo Danimarca, India, Polonia, Cile, Usa, concluderemo con il Sudafrica e Usa.

La situazione
Nashville (negli USA, 1959) è una città totalmente segregazionista al pari di Johannesburg, una sorta di Apartheid; una città divisa fra due razze distinte, con vite parallele senza alcun contatto fra la comunità bianca e quella nera, né a scuola, né sul lavoro, né in chiesa, né nei luoghi pubblici. Vige una totale segregazione, con ampia e tranquilla soddisfazione delle parti.
Preparazione della campagna
In una piccola chiesa presso il campus della Fisk University, prestigiosa istituzione afro-americana, James Lawson tiene una serie di seminari serali sulla nonviolenza.
James Lawson: 30 anni, prelato metodista dell’università dell’Ohio, è tornato da poco da un soggiorno di 3 anni in India dove insegnava e ha studiato l’opera di Mohandas Gandhi. Inviato a Nashville da Martin Luther King jr.
“Con l’intero gruppo affrontammo la nonviolenza da diversi punti di vista: la storia della nonviolenza, le sue radici nella Bibbia, nel pensiero cristiano, i metodi non violenti, e cercai di rimarcare l’idea di Gandhi, di intraprendere un sentiero sperimentale” … “

Mesi prima di entrare in azione con gruppi di azione diretta nonviolenta, Lawson prepara gli studenti. Il suo scopo è far sperimentare loro i probabili attacchi verbali e fisici imparando a resistere alla tentazione di fuggire o reagire con violenza
“Doveva essere conquistata una disciplina coerente; per una dimostrazione non servivano 25 reazioni diverse, pur se intese come nonviolente. E questa è spesso una difficoltà con simpatizzanti nonviolenti: non riconoscono la necessità di un approccio disciplinato, costruito, sistemico, preparato, collaudato, credendo che basti l’intenzione/atteggiamento interiore; che invece può non bastare in un individuo, tanto meno in un gruppo, un movimento (…) Se volevamo mettere fine alla segregazione a Nashville dovevamo iniziare dai ristoranti e dai luoghi di ristoro del centro. Era naturalmente solo il primo passo, il primo passo verso la nonviolenza insegnata da Gandhi: cercare un obiettivo, scegliere un preciso obiettivo e concentrarsi su quello”…

Il sit-in nei ristoranti
I volontari così preparati inscenano la loro prima dimostrazione un sabato, quando sono certi di essere notati e benvestiti per evitare ulteriori attriti, entrano nel ristorante e si siedono in modo ordinato e pacifico. Non si stupiscono che il servizio sia loro rifiutato. “Sono spiacente ma non ci è permesso di servire negri qui”. I gestori chiudono i locali di ristorazione, ma gli studenti rimangono seduti fino alla chiusura leggendo e facendo i compiti. Nessuna violenza, nessun arresto.

La comunità bianca è convinta si tratti di un fenomeno passeggero lungi dal minacciare lo status quo. I gestori di locali prendono una decisione scontata: chiuderanno prima di servire eventuali avventori neri.
?Il sabato seguente: gli studenti tornano: provocano curiosità e qualche abuso verbale, ma nulla più, nessun arresto.
?Il 3° sabato: sono pronti a violare la segregazione in 6 locali. In ogni gruppo sono presenti un leader ed un osservatore, incaricato di riferire telefonicamente al coordinamento presso la chiesa.

Il confronto con polizia e istituzioni cittadine
?Dopo un quarto d’ora: la polizia intima di andarsene e, al rifiuto, arresta i giovani, che vengono però sostituiti dopo poco da altre persone (sono in 600) disposte a farsi arrestare.
John Seighenthaler era caporedattore di “The Tenneseen” (giornale del mattino di Nashville) e aiutò a esporre le ingiustizie e a stimolare il dibattito sul razzismo. “Era chiaro che c’era una guerra in atto, che l’arma della nonviolenza stava prevalendo sulla violenza, e che era un momento storico, qualunque fosse stato l’esito finale. Credo vi fosse una certa consapevolezza in tutti noi del significato storico di quel momento”.
I media giocarono un ruolo fondamentale nel formare la pubblica opinione. Se il giorno dopo della prima azione “The Tenneseen”, riportò la notizia in decima pagina, dopo gli arresti in massa i giornalisti si accorgono che stanno assistendo a un evento di portata nazionale.
?Il lunedì mattina: gli studenti sono ancora dietro le sbarre presso la questura avendo rifiutato il rilascio su cauzione.
In sole 48 ore il piccolo movimento promosso dagli studenti ha ispirato migliaia di persone. Gran parte della comunità nera cittadina si è ora unita alla lotta e si organizza: raccoglie denaro, cerca sostegni e ingaggia avvocati. Alexander Luby, fra i più eminenti avvocati neri di Nashville organizza un gruppo di legali del luogo per la difesa degli studenti arrestati. Quando si presentano davanti al giudice, come Gandhi, drammatizzano il loro arresto e le ingiustizie subite.
La NBC trasmette un dibattito sull’emergente strategia non violenta. Ormai sotto gli occhi dell’opinione pubblica nazionale, il movimento accresce enormemente il numero di adesioni. I seminari di Jim Lawson sono ampliati per accogliere nuovi allievi, le chiese cittadine forniscono nuovi spazi d’incontro, ciclostili, telefoni, con lo scopo di far arrivare il loro messaggio ben aldilà dei confini di Nashville.
Una settimana dopo, quando gli studenti tornano nei ristoranti la città risponde con altri arresti e condanne a 50$ di multa o 30 giorni di detenzione. Rifiutandosi di pagare la multa, che sosterrebbe il sistema che li opprime, optano per il carcere, scelta che invece mette in difficoltà il sistema: le carceri che non sono pronte a sostenere la situazione e devono sobbarcarsi costi notevoli.

Il boicottaggio dei negozi
I sit-in continuano e ad essi si aggiunge il boicottaggio della zona commerciale del centro. Volantinaggi chiedono ai clienti di non frequentare i negozi che praticano la segregazione. Le comunità ecclesiali nere invitano la congregazione al boicottaggio sistematico di tutti i negozi del centro. Fra i neri la percentuale di partecipazione al boicottaggio è stimata al 98%.
Le contro-manifestazioni della comunità bianca portano un effetto economicamente controproducente: il centro viene evitato da molti abituali frequentatori per timore dei disordini. Esercizi commerciali del centro perdono fino al 40% degli affari.

La stretta finale: attentato e marcia
?19 aprile 1960 ore 5,30: la casa dell’avvocato Alexander Luby viene fatta esplodere. Tutti illesi ma l’attentato scuote la città e dà agli studenti la possibilità di prendere l’iniziativa.
?in giornata: inviano un telegramma al sindaco chiedendo un incontro
?in serata: marcia silenziosa dal campus al municipio. Inizialmente sono in 1500, lungo il percorso il numero raddoppia. Vengono ricevuti dal sindaco.
Diane Nash Studentessa della Fisk University svolge in questa occasione un ruolo importante, interpellando faccia a faccia il sindaco: “lei non ritiene sbagliata la discriminazione sulla sola base della razza e del colore della pelle?” Il sindaco risponde “non ritengo moralmente corretto che qualcuno venda merci ai neri ma rifiuti di servirli per motivi razziali” Diane rilancia chiedendo se pensa sia giusto mettere fine alla segregazione nei ristoranti. Il sindaco risponde di si.
?quel giorno stesso, il sindaco comincia a liberalizzare l’accesso alle istituzioni pubbliche, ai grandi magazzini e altri luoghi pubblici.
?3 o 4 anni dopo: il processo si estende a teatri, ai ristoranti e altri luoghi di ritrovo. Molti ristoratori in centro dichiarano in privato agli studenti di essere intenzionati alla desegregazione. Gli studenti allora mettono a punto un piano di azione morbido. Non avremmo annunciato ufficialmente la fine delle proteste per la fine della segregazione. Decidono di fare un esperimento, una sorta di prova: coppie di colore entrano nei ristoranti, si siedono e mangiano, con osservatori bianchi seduti lì vicino. E’ tutto programmato. E funziona benissimo: nemmeno un incidente.
L’esperienza ha lasciato ai protagonisti una grande consapevolezza: eravamo guerrieri, affinati, di un equivalente nonviolento dell’accademia militare di west point.

Per approfondire
Howard Zinn, Disubbidienza e democrazia lo spirito della ribellione, edizioni Saggiatore 2003. Qui sono interessanti i seguenti capitoli: a) un esempio di cambiamento sociale tranquillo, b) il frutto dei sit-in (a proposito del comitato di coordinamento degli studenti nonviolenti), c) la marcia di Selma a Montgomery (per organizzare la partecipazione al voto) d) abolizionisti, fredom raiders e tattiche di rivolta (un confronto tra le lotte degli abolizionisti e le forme più avanzate della lotta per i diritti civili)
Branch, Taylor. Parting the Waters:Marting Luther King and the civil right movement, 1954-63. edizioni Papermac, 1988.
Arnulf Zitelman, Non mi piegherete, vita di Martin Luther King, edizioni Feltrinelli 1997
Martin Luther King Jr, Il giorno di Dio nel giorno dell’uomo (capitolo 4: la lotta per i diritti civili), edizioni Amicia 2002

Un monumento diverso

C’era una volta un monumento antimilitarista.
Qualcuno conserva ancora nella memoria le vicende del monumento creato da Gino Scarsi che, negli ultimi anni ’70, ha indignato i militaristi e le Forze Armate, tanto da indurle a sequestrarlo e a denunciare l’autore e il Movimento Nonviolento di vilipendio. Fortunatamente, nonostante siano passati quasi 30 anni – e da più di 15 il monumento sia praticamente stato relegato in un angolo – c’è chi non dimentica la sua storia.

Nel lontano 1977 prende vita il monumento intitolato “ai caduti di tutte le guerre”: un’idra a tre teste (una portante un berretto da generale, un’altra con un fez fascista, la terza indossa un cilindro con il simbolo del dollaro, a raffigurare rispettivamente militarismo, totalitarismo e capitalismo), che trafigge con la baionetta il petto di un soldato steso a terra, inerme, in ricordo di tutti i soldati caduti in guerra.
Nell’ottobre dello stesso anno il monumento (reso itinerante da una pedana con rotelle) inizia il suo cammino, partendo da Canale d’Alba (Cuneo) – paese d’origine dell’autore – dove viene denunciato per vilipendio all’esercito, e dove rimane in esposizione per due mesi. In seguito, il monumento si mette in viaggio e inizia a girare per le varie città della penisola. Questa “processione laica”, organizzata dal Movimento Nonviolento, era l’occasione, in ogni città dove passava il monumento, per una manifestazione antimilitarista e per dibattiti sul tema della pace e della guerra. Solitamente i monumenti “ai caduti” che ci sono in ogni paese d’Italia, sono pieni di retorica; spesso si tratta di monumenti che “esaltano” la guerra e che quindi uccidono una seconda volta la memoria di chi a causa della guerra ha perso la vita.
Arrivato a Verona, nell’ottobre del ’79, il monumento viene sequestrato dalle forze dell’ordine e nuovamente denunciato per “vilipendio”. Il caso fa scalpore ed è oggetto anche di interrogazioni parlamentari e di una memorabile manifestazione nazionale. Il monumento rimane sequestrato per oltre due anni nella locale caserma dei carabinieri, dopodichè monumento e autore vengono prosciolti in istruttoria. Riprende il viaggio nell’82 e, nel 1984 vede la sua ultima tappa ad Acri, in Calabria, dove l’amministrazione si offre per ospitarlo definitivamente. Ma poi le cose vanno diversamente. Passato il tempo, cambiato amministrazione, il monumento rimane “nascosto” in un angolo del piazzale di un liceo, come un oggetto incomodo e importuno.

A riaccendere l’interesse per questa “creatura” in ferro battuto è stato proprio un ragazzo di Acri, Jonny Rosa, studente universitario, anch’egli appassionato di scultura, che ha tentato di avere maggiori delucidazioni su tutta la faccenda ma, quando si è recato presso il Comune per raccogliere informazioni, l’amministrazione comunale l’ha liquidato dicendo che non sapeva nulla. Stranamente, però, il giorno seguente la sua intromissione, la scultura è stata spostata dal cortile del liceo in un’autorimessa per mezzi comunali in periferia.
Se prima, almeno chi frequentava il liceo poteva vedere quell’emblema pacifista (anche non conoscendone le vicissitudini), ora è stato condannato all’oblio.
Intenzionato a restaurare e ridare importanza al monumento, il giovane si è messo in contatto con Gino Scarsi, il «padre» della scultura, entusiasta di riceverne notizie e di aver trovato qualcuno nuovamente interessato alla vicenda.
Così l’autore, dopo uno scambio di informazioni con il giovane cosentino, ha scritto una lettera al Sindaco di Acri, spiegandogli brevemente la storia del monumento, con le varie tappe, e chiedendogli la sua disponibilità a ridare una posizione visibile e dignitosa ad una scultura ancora di grande e drammatica attualità.

GIOVANI
A cura di Laura Corradini
Battere la mafia è possibile anche nel nord d’Italia

Abbiamo scelto che il primo articolo per questa rubrica, quello di gennaio-febbraio, fosse di ponte con i giovani della Calabria che avevano reagito in modo nonviolento contro la mafia, scendendo in piazza dopo l’uccisione di Fortugno a Locri. Martina Raschillà durante l’intervista ci assicurava che molto era quel che noi potevamo fare da qua sia per dare loro sostegno sia per agire sul nostro territorio. Per questo motivo, per capire meglio cosa in concreto si può fare da qui contro la mafia, venerdì 5 maggio abbiamo invitato presso la nostra scuola, la SMS Ossola di Novara, Gabriele Cortella, il referente del coordinamento della provincia di Vercelli per “Libera, Associazioni, Nomi e Numeri contro le mafie”. L’incontro si è svolto in due momenti. Il primo è stato di riflessione su che cosa si intende per mafie, sulle sue origini storiche, su quali sono le condizioni che ancora oggi le permettono di avere forte potere su larga parte del territorio italiano, sulle diverse realtà che gravitano intorno agli affari mafiosi. Il secondo momento è stato di informazione su cos’è Libera e sulle sue attività. La mafia non è solo un problema del sud. Si muove anche al nord, con modalità diverse, molto spesso sono legata ad affari finanziari illeciti, alle gare di appalto, al riciclo di denaro sporco.
Gabriele ci ha ha spiegato che è importante ricordare i nomi di chi ha dato la vita per resistere con forza e determinazione al potere mafioso, per proporre sulla sua terra un modo di pensare diverso, per offrire una speranza di futuro libero alla sua gente e soprattutto ai giovani. Per questo si è proclamato il 21 marzo Giornata dell’impegno e della memoria delle vittime di mafia: un giorno non di ricorrenza, ma di presenza: non un momento di manifestazione, ma di testimonianza. Il dolore porta a ricordare. E il ricordo è un invito ad assumerci delle responsabilità, a imparare a essere cittadini che partecipano, che sanno e che vogliono agire in prima persona. Insieme.
Altri appuntamenti importanti sono: La Carovana Antimafie (un gruppo di persone che si spostano in tutt’Italia per promuovere iniziative pubbliche, incontri con le scuole sui temi della cultura della legalità e della giustizia sociale); la Corsa per la Pace e i Diritti, che fa parte delle attività organizzate da LiberaSport – un coordinamento che promuove una cultura dello sport inteso come momento formativo e di svago, che aiuta a comprendere i propri limiti rifiutando l’idea di dover vincere ad ogni costo, che educa ad un atteggiamento e comportamento sportivo corretto e senza uso di dopping; i Campi estivi di formazione antimafia, dove parte della giornata è dedicata al lavoro presso le cooperative di Libera Terra e parte è di educazione e informazione.
Libera si occupa anche in modo concreto dei problemi sociali che alimentano la mafia: per esempio la mancanza di lavoro al sud e il “pizzo”. Una legge approvata alcuni anni fa ha fatto in modo che i beni confiscati alle mafie fossero assegnati ad associazioni e cooperative. Libera Terra, per esempio, è una rete di cooperative che lavora i terreni sottratti alle mafie per produrre olio, pasta, vino, legumi e altri prodotti biologici, restituendo così quelle terre alla legalità e avendo loro stessi un lavoro onesto. Altre associazioni si sono organizzate per contrastare il “pizzo” (come per esempio AddioPizzo) o l’usura. Sono scelte difficili che queste persone portano avanti con coraggio e un modo per sostenerli concretamente può essere per esempio organizzare dei gruppi di acquisto solidale per comprare i loro prodotti. Per informare e diffondere una cultura di impegno contro la corruzione e la criminalità organizzata e per formare ad una cittadinanza attiva, Libera propone dei percorsi didattici nelle scuole e ha anche una rivista: Narcomafie.
Gabriele ci ha raccontato che nelle scuole superiori della provincia di Vercelli le associazioni che hanno aderito a Libera hanno già proposto dei momenti di riflessione su questi temi e che dal prossimo anno scolastico cercheranno di coinvolgere anche i giovani delle scuole medie. E’ importante imparare a riconoscere quegli atteggiamenti e comportamenti che favoriscono il diffondersi della mentalità mafiosa: l’omertà, la passività, il disinteresse per le informazioni, per esempio. La mafia è anche qua vicino. Uno dei collaboratori di Riina è stato arrestato a Borgomanero e l’unico comune del nord sciolto per mafia è Bardonecchia, poco distante da Torino.
L’incontro con Gabriele ha acceso in alcuni di noi il desiderio di poter fare qualcosa di concreto contro le mafie, anche se ci rendiamo conto che siamo solo dei ragazzi. Tenerci informati forse è già un buon inizio.

Lorenzo Arnoletti 11, Mamadou Sall 12, Laura Di Pietro 12, Maria Stella Smecca 12, Raissa Zuliani 1, Mattia. Lorenzo ha rielaborato il racconto per tutto il gruppo.

EDUCAZIONE
A cura di Pasquale Pugliese
Educare all’incontro con l’altro contro il virus del razzismo

Contesti culturali…

Il contesto culturale attuale, dal punto di vista delle relazioni interculturali, mi pare per certi versi analogo a quello apertosi nei primi anni ’90 sul piano delle relazioni internazionali. Da allora le prassi educative volte alla trasformazione nonviolenta dei conflitti interpersonali hanno dovuto cominciare a fare i conti con la ri-legittimazione della guerra come strumento per affrontare i conflitti internazionali. Oggi le pratiche educative volte alla convivenza interculturale devono cominciare a fare i conti con la ri-legittimazione del razzismo. Non lasciamoci distogliere dalle parole: come nessuno chiama più guerra la guerra, ma la si definisce “missione di pace” (!), così nessuno chiama il razzismo con il suo nome, ma lo si definisce “superiorità della civiltà occidentale”.
Intellettuali e importanti uomini delle istituzioni hanno firmato manifesti “Per l’Occidente” contro chi “predica l’uguale valore di tutte le culture” (l’ultimo manifesto di questo tipo circolato in Italia è “Il manifesto della razza” del 1938) e partiti al governo hanno fatto campagna elettorale affiggendo grandi vignette satiriche che nulla hanno da invidiare a quelle che accompagnavano la propaganda razzista del fascismo.
Se in questo contesto dobbiamo ripartire dal confronto con il razzismo, allora l’educazione deve riaffermare principi che non si possono più dare per scontati. E non basta certo rispondere ai “cattivi”, che dicono che gli immigrati devono tornare a casa, con le argomentazioni dei “buoni” che sostengono che possono restare perché servono alle aziende. Credo che sui piani culturale ed educativo si debba riaffermare l’importanza – tout court – dell’incontro con l’altro, con il differente da noi. Non con il diverso, che implica un concetto complementare di normalità nei cui confronti si definisce una diversità, ma con chi è portatore di pratiche, norme e valori a volte molto differenti.
Naturalmente nessuna cultura va considerata in maniera essenzialistica e reificata, cioè ridotta a pochi elementi immodificabili, ma tutte vanno guardate nelle rispettive complessità e nelle evoluzioni che avvengono principalmente attraverso l’incontro – e la convivenza – tra persone appartenenti a culture differenti. Per questo va ribadito che una città interculturale è anche una città educativa, purché nel contesto vengano agite pratiche conseguenti.

…e apprendimenti educativi

Dal punto di vista educativo l’incontro con l’altro ha un’enorme rilevanza tanto sul piano cognitivo che relazionale: anche se nella realtà i due piani sono intrecciati, proviamo ad accennarne separatamente.
Dal punto di vista cognitivo, sempre più gli studi sullo sviluppo dell’apprendimento evidenziano il carattere integrato, fatto per connessioni successive delle operazioni mentali. L’intelligenza umana dà il meglio di se quando riesce ad adattarsi alle richieste dell’ambiente, a mostrare flessibilità e capacità di rivedere le certezze precedenti. Ossia quando viene aiutata la sua propensione propriamente “interculturale”. Invece i modelli culturali ed educativi autocentrati e difensivi tendono all’invecchiamento prematuro delle capacità esplorative, alla chiusura rispetto al nuovo. Ossia formano intelligenze propriamente “monoculturali”.
L’incontro con l’altro che viene a con-vivere con noi consente a tutti perciò di avviare un processo di apertura della conoscenza nel quale possiamo evidenziare almeno 3 tappe1:
1.la presa di coscienza dalle proprie cornici, ossia ri-conoscere la dimensione culturale delle rispettive categorie;
2.l’avvio del decentramento cognitivo, ossia imparare a vedere le cose anche dal punto di vista dell’altro;
3.l’operare per “doppie visioni”, ossia diventare ricercatori sociali capaci di muoversi in sistemi complessi dove non valgono per tutti le stesse premesse implicite.
Sul piano delle relazioni, l’incontro non occasionale ma strutturale con l’altro ci fornisce infine la grande opportunità di esercitarci nell’arte della trasformazione nonviolenta dei conflitti. Questa pratica educativa, che si fa carico dell’esistenza dei conflitti e cerca di trasformarli affinché i diversi confliggenti non ne escano con le ossa rotte, ma con una maggiore conoscenza reciproca ed una migliore relazione, ha fatto ormai grandi passi in avanti.
Scriveva Martin Luther King che se il virus dell’odio penetrerà nelle vene della nostra nazione e non sarà fermato, porterà ad una catastrofe morale e spirituale inevitabile. L’odio è un male contagioso; si diffonde e si estende come una pestilenza; e nessuna società è tanto sana da conservarsene automaticamente immune2. Per prevenire l’attecchire del virus, il nostro compito di educatori è di costruirne, tutti i giorni, robusti e resistenti anticorpi.

DISARMO
A cura di Massimiliano Pilati
E se il lavoro da difendere è in una fabbrica di armi?

Come si concilia il diritto del lavoratore con la produzione di armi? il lavoratore è solo parte dell’ingranaggio o ha anche lui delle responsabilità? che significato hanno per il sindacato parole come: nonviolenza, disarmo, riconversione dell’industria bellica?
Abbiamo chiesto a Gianni Alioti della Fim Cisl di aprire la discussione.

I sindacati, con tutti i loro limiti e difetti, hanno svolto e svolgono tuttora un grande ruolo di protezione del lavoro dal libero e incondizionato funzionamento del mercato.
Gian Primo Cella ha scritto1 che “il sindacato è in fondo una rappresentazione organizzata degli aspetti più concreti della vita quotidiana, del lavoro, ma non solo. Per questo riproduce impegno e dedizione, solidarietà pratica, ma anche egoismi e meschinità. Fornisce rappresentanza e protezione al lavoro e ai lavoratori, per come essi sono, non per come dovrebbero essere”.
Parlando di produzione d’armi dobbiamo, quindi, avere coscienza di ciò e delle contraddizioni che possono manifestarsi tra la difesa corporativa degli interessi materiali e le scelte di natura etica e politica.
Una cosa va detta, però, con chiarezza: la decisione di produrre armi da parte degli Stati (che ne sono i maggiori committenti) non è lo strumento per garantire il diritto al lavoro (il fine), né per creare maggiore occupazione. Chi sostiene questo (fosse anche un sindacalista) fa un’operazione mistificatoria. E’ vero piuttosto il contrario: spesso si usa il diritto al lavoro e la difesa dell’occupazione come argomento per giustificare determinate commesse militari da parte dello Stato o peggio per forzare i vincoli all’export di armamenti verso determinati paesi. In questi casi i lavoratori e le loro rappresentanze sindacali – sovente -finiscono per essere colpevolmente risucchiati in azioni di lobby. Per rompere questa logica subalterna è fondamentale che il sindacalismo svolga anche un ruolo “educatore”, recuperando la tensione etica, coniugando l’utopia con la pratica del possibile, rifuggendo viceversa il cinismo e l’opportunismo. In caso contrario la partecipazione massiccia dei sindacati nel Movimento per la Pace, come ho più volte sostenuto, rischia di essere schizofrenica.
In questo senso la nonviolenza è un importante antidoto. Allo stesso modo le parole “disarmo”, “riconversione dell’industria militare” (concetto più ampio e radicale di quello comunemente usato di “industria bellica”, perché presuppone il superamento degli Eserciti e della Difesa Armata) rivestono un’importanza straordinaria, in quanto ci costringono come sindacati a misurarci concretamente con le nostre contraddizioni.
Il disarmo presuppone un’azione del sindacato globale per ridefinire le priorità nell’agenda politica degli Stati e della comunità internazionale riducendo le spese militari e trasferendo risorse ingenti dalla “sicurezza militare” alla “sicurezza alimentare – ambientale – sanitaria”.
Per quanto riguarda la “riconversione dell’industria militare” dobbiamo partire da un dato: nonostante si stia verificando una crescita imponente delle spese militari nel mondo, l’occupazione in questo settore non è destinata ad aumentare, anzi subisce una progressiva contrazione (a maggior ragione se riuscissimo ad invertire il trend delle spese per armamenti).
L’esperienza dei primi anni ’90 ci ha insegnato che una dipendenza esclusiva delle aziende dal mercato militare è un elemento di maggiore vulnerabilità sul piano occupazionale. Per questo occorre lanciare un nuovo programma Konver a livello europeo, accompagnato da iniziative legislative nelle regioni direttamente interessate, che rispondano ad esigenze di innovazione, conversione e diversificazione nel civile dell’industria militare, dettate – più che da ragioni di crisi di mercato – da scelte di responsabilità sociale e comportamento etico delle imprese.
Ritornando, invece, alla questione posta sulle responsabilità individuali di quanti lavorano in fabbriche d’armi, ritengo personalmente sbagliato colpevolizzare i lavoratori per le cose che si producono. L’obiettivo della riconversione nel civile – per avere successo – deve coinvolgere necessariamente gli operai, i tecnici ed i manager di queste aziende. Un atteggiamento antagonista verso questi lavoratori preclude, viceversa, l’individuazione di alternative alla produzione militare impiegando le competenze professionali e le tecnologie esistenti. Se vogliamo dare una risposta a questo problema dobbiamo offrire un quadro giuridico e normativo che garantisca (sul piano della tutela del reddito e della mobilità da un posto di lavoro ad un altro) il diritto all’obiezione di coscienza dei lavoratori occupati nelle fabbriche d’armi. Il mio pensiero va a Maurizio Saggioro, operaio della MPR, che nel 1981 – prima della messa al bando delle mine antiuomo – pagò la sua testimonianza di obiettore alla produzione militare con il licenziamento.

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Una sbirciatina nella finanza palestinese per capire meglio OLP e Hamas…

Come si comportano i paesi arabi di fronte al tema della finanza etica? Il tema è di stretta attualità, a causa del sospetto imperante nell’opinione pubblica per il quale dietro ogni arabo si celi ormai un pericoloso attentatore, e che i denari gestiti dagli enti creditizi orientali servano solo ad acquistare esplosivi e mitragliatori.
Per gli arabi credenti nell’Islam il Corano in proposito è molto preciso: divieti sussistono nel commercio e l’utilizzo di sostanze come alcool, tabacco o pornografia (halal), che quindi devono essere messi al bando quando si tratta di scegliere gli investimenti in cui operare. Inoltre alla sura II vv. 275-280 recita: “Coloro che si nutrono di usura resusciteranno come chi sia stato toccato da Satana… Ma Allah ha permesso il commercio e ha proibito l’usura… O voi che credete, temete Allah e rinunciate ai profitti dell’usura se siete credenti”. Da queste parole i praticanti evincono che è possibile prestare soldi, ma non ricevere una remunerazione. Alcuni fondi islamici “aggirano” questo divieto investendo in immobili o mutui per l’acquisto della casa, trasformando i rendimenti in canoni d’affitto: con questa modalità la banca di Singapore stima una raccolta di 30 miliardi di dollari, e un’istituzione come il Dow Jones ha creato un indice finanziario per comparare i risultati dei numerosi fondi islamici.
In Inghilterra è poi nata la Islamic Bank of Britain, che investe direttamente nel capitale di rischio delle aziende finanziate, in modo che banca e cliente dividano i profitti (o le perdite) delle attività; di conseguenza i risparmiatori, condividendo lo stesso rischio, non sono perseguibili agli occhi della legge islamica. In Germania infine la Commerzbank, come in Italia la Banca Agricola Mantovana, mette a disposizione dei numerosi immigrati islamici dei conti correnti a tasso zero, con particolari vantaggi per chi deve trasferire denaro all’estero.
La finanza araba laica invece come si comporta? Un esempio viene dall’Autorità Palestinese, che amministra il Palestine Investment Fund fondato ufficialmente il 14 agosto 2002. Il direttore generale risponde direttamente al presidente Abu Mazen, e la sua sede è all’interno della famosa Muqata a Ramallah. La provenienza dei denari è stata garantita negli anni da istituzioni internazionali e paesi amici, ma anche dalla cosiddetta solidarietà del popolo arabo. Il fondo amministra circa 790 milioni di dollari (dati 2005) con investimenti in 79 imprese commerciali, soprattutto nella regione, per un valore degli investimenti quasi doppio grazie alle rivalutazioni di alcuni asset presenti nel portafoglio. Il fondo serve soprattutto per garantire parte del bisogno corrente dell’Autorità per funzionare, pari a circa 100 milioni al mese: solo per pagare gli stipendi del settore pubblico servono 115 milioni e 125 ne servono per i fondi di disoccupazione e sicurezza sociale. Qualche esempio di investimento? Il 10% dell’egiziana Orascom, l’operatore cellulare che in Italia possiede Wind; il 35% di Palestine Cellular Comunication; oppure il cementificio Cement Co, che in Gaza opera in regime di monopolio. Ma il grosso degli investimenti resta un mistero.
Quel che si sa ormai è come il patrimonio della comunità palestinese è stato gestito, con altre denominazioni, nei decenni precedenti, quando a controllarlo era direttamente Arafat. Si sa che già nel momento migliore, prima dell’invasione israeliana del Libano nel 1982, il leader poteva contare su 900 milioni di dollari, che comprendevano anche linee aeree nella Guinea Bissau, piantagioni di caffè nello Zimbabwe e fondi europei; che nel 1994, dopo gli accordi di Oslo, si lanciò in acquisti negli Stati Uniti, arrivando a controllare un’azienda per il commercio elettronico in Virginia, un’impresa di computer a New York e una quota del famoso bowling al Village di Manhattan; che nel 2001, a causa del crollo della New Economy, perse quasi 20 milioni di dollari al Nasdaq. Questo incidente aprì la porta ad una gestione più trasparente delle attività, con l’aiuto di Standard&Poor’s, l’arrivo alla direzione generale di un palestinese già funzionario della Banca Mondiale, Mohammed Mustafa e addirittura l’apertura di un sito internet (www.pa-inv-fund.com).
Ora Hamas, recente vincitore alle elezioni politiche, reclama la gestione del tesoro di famiglia, ma l’Olp sembra restio a concederlo. Inutile dire che Stati Uniti e ONU sono leggermente contrariati alla sola idea che un militante possa appropriarsi di una somma così ingente. Ai posteri verificare con quale approccio all’etica il movimento estremista affronterà i mercati economici mondiali.

PER ESEMPIO
A cura di Maria G. Di Rienzo
Nella comunità di Parihaka vive la nonviolenza dei Maori

C’è un villaggio, in Nuova Zelanda, che si chiama Parihaka. Ogni anno vi si tiene un Festival Internazionale della Pace. Parihaka si è formato artificialmente, per così dire, in seguito alle confische delle terre abitate precedentemente dai Maori ed alla loro conseguente migrazione interna. Nel 1870, Parihaka era il villaggio Maori più grande del paese ed era divenuto il rifugio principale per i profughi e gli spossessati di qualsiasi genere. Dieci anni dopo, fu il teatro di una delle peggiori violazioni dei diritti umani subite da questo popolo, il culmine di una campagna di repressione che aveva già condotto ai lavori forzati, indefinitamente e senza processo, centinaia di persone. Il 5 novembre 1881, una milizia armata di 1.500 uomini, affiancata da “irregolari” assoldati dai proprietari terrieri europei, invase Parihaka.
Due prominenti figure, due uomini esplicitamente dediti all’azione nonviolenta, i cui nomi erano Te Whiti o Rongomai e Tohu Kakahi guidarono la resistenza. Entrambi volevano instaurare buone relazioni fra i due gruppi, sostenuti dai loro convincimenti spirituali che derivavano sia dalle tradizioni ancestrali, sia dai più recenti insegnamenti cristiani. Da tempo i Maori avevano deciso che l’uso delle armi e della violenza non avrebbero portato alcuna soluzione, ed avevano chiamato il governo coloniale a rispondere sul piano giuridico, proclamando l’illegalità delle guerre, della confisca delle terre, delle politiche punitive a cui erano soggetti. Il giorno dell’invasione, più di 2.000 abitanti del villaggio sedettero quietamente mentre i bambini andavano a salutare l’esercito. Al popolo di Parihaka fu letto l’atto governativo contro le sommosse, ed un’ora più tardi Te Whiti e Tohu furono condotti ad un processo farsa, ed incarcerati. La distruzione del villaggio cominciò immediatamente: ci vollero due settimane per abbattere tutte le case, e due mesi per estirpare le coltivazioni. Migliaia di capi di bestiame vennero uccisi e confiscati. Donne e ragazze Maori vennero sistematicamente stuprate, dando inizio ad un’epidemia di sifilide nella comunità. Al posto del villaggio sorse un fortino che ospitava un’ottantina di soldati: l’occupazione militare di Parihaka, che durò cinque anni, era cominciata. Ma la gente di Parihaka continuò a fare ciò che aveva fatto in precedenza, ovvero a chiamare al dialogo i propri oppressori. Il villaggio aveva infatti stabilito una data ricorrente (il 18° giorno di ogni mese, in una sorta di rovesciamento della memoria del 18.3.1860, data di inizio della prima guerra nel loro territorio) in cui invitava i coloni europei a sedere nel proprio cerchio di dialogo. Con il ritorno di Te Whiti o Rongomai e Tohu Kakahi dal carcere, nel 1883, questi incontri ripresero con regolarità, mentre lentamente e testardamente gli abitanti del villaggio ricostruivano tutto: case, stalle, coltivazioni. Te Whiti fu arrestato di nuovo nel 1886, e rilasciato due anni dopo.
Parihaka aveva adottato il suo convincimento che la tecnologia europea, se adottata insieme a quella Maori, poteva essere usata per arrivare alla stabilità ed alla pace, ed alla costruzione di una nuova grande società: nel 1890, i Maori avevano fatto di Parihaka l’insediamento urbano più avanzato del paese, con case in cui vi era acqua corrente calda e fredda, illuminazione stradale, bonifica dei terreni. E il 18 di ogni mese continuavano a sedere insieme, e a parlare con i soldati. La resistenza nonviolenta del villaggio era fonte di imbarazzo per l’intero paese, eccetto che per coloro che vi appartenevano.
Nel 1898 l’ultimo dei deportati di Parihaka fece ritorno a casa. Nel 1907, sia Te Whiti che Tohu morirono. Le violazioni contro i Maori non cessarono nel secolo successivo, deprivandoli di ogni acro di terreno coltivabile, eppure Parihaka continuava ad esistere, a vivere, a riunirsi pacificamente e ad invitare chiunque lo volesse a discutere insieme. Gandhi e King visitarono Parihaka e riconobbero i due leader, Te Whiti e Tohu, come “padri dell’azione nonviolenta”. Parihaka è ancora oggi il luogo in cui al 18° giorno di ogni mese la comunità si riunisce, condivide ciò che appreso, trasmette la tradizioni Maori, pratica l’armonia con la terra e fra esseri umani. Un luogo in cui, come scrisse Te Whiti o Rongomai ne “L’eredità di Parihaka”, ognuno è “il frutto di uno sforzo verso la giustizia, e un’erba che guarisce”.

MUSICA
A cura di Paolo Predieri

L’anima popolare degli States ha un nome: Pete Seeger

“We shall overcome: the Seeger session” è l’ultimo cd di Bruce Springsteen. Il “boss”, sempre più sbilanciato pubblicamente contro la guerra e contro la politica di Bush, in questo titolo chiama in causa un inno storico dei movimenti nonviolenti e pacifisti e il grande vecchio della canzone folk non solo americana.
Se andate su Wikipedia.org, libera enciclopedia on line, trovate la voce “nonviolenza” e alla lettera S, assieme a Satyagraha e Shanti Sena, trovate Pete Seeger!
Chi è Pete Seeger? E’ un uomo di 87 anni (è nato a New York nel 1919) che ha fatto della musica un potente strumento di crescita e autoeducazione popolare, collegata prima ai movimenti operai e poi pacifisti ed ecologisti. Ha fatto parte della War Resisters’ e ricordo ad esempio una sua simpatica lettera alla rivista dell’Ifor dove lodava una curiosa rubrica, in cui si immaginava come il Mahatma Gandhi potesse rispondere argutamente ai lettori smontando alcuni classici luoghi comuni. Pete Seeger ha raggiunto enorme popolarità centrando successi commerciali con canzoni ancor oggi popolarissime e interpretate da svariati artisti, come “Wimoweh”, “If I had a hammer”, “Where have all the flowers gone?”, “We shall overcome” e “Turn! Turn! Turn!”. Ha scoperto e fatto conoscere al grande pubblico perle come “Guantanamera”, “Goodnight Irene” e “The house of the rising sun”.
E’ stato uno degli iniziatori della riscoperta della tradizione popolare non solo americana. Figlio di una violinista e di un musicologo e docente universitario, ha iniziato a suonare professionalmente negli anni ’30 percorrendo gli Stati Uniti alla ricerca dell’anima popolare musicale del Paese. In un primo tempo ha proposto questa musica per l’educazione musicale dei bambini. Ha collaborato con Woody Guthrie e ha fatto parte degli Almanac Singers e poi dei Weavers, gruppi che proponevano musica collegata alle radici popolari, ai movimenti sindacali e con grande capacità di coinvolgimento del pubblico che diventava protagonista dello spettacolo.
Con decenni di anticipo sulla word music, già nel 1955 realizzò “Bantu choral folk songs” un disco di canzoni africane. “La gente dimentica – dice Pete Seeger – che esistono tante canzoni folk quanti diversi tipi di persone. Ci sono nel mondo 4000 lingue parlate e molti più tipi di canzoni folk”
Negli anni 50 per la sua militanza comunista fu vittima della caccia alle streghe maccartista che gli rese difficili i contratti discografici e gli negò lo spazio sui mass media, riconquistato poi grazie successo ottenuto con i concerti e le canzoni scritte.
Negli anni 60 si oppose con forza alla guerra nel Vietnam attaccando in uno spettacolo tv la politica di guerra del presidente Johnson con la canzone “Waist deep in the big muddy”(= giù fino al collo nel grande pantano), censurata in un primo momento ma ripresentata per intero la settimana dopo. Fu parzialmente critico con le rivolte studentesche e il radicalismo culturale e politico degli anni 60: in particolare ammonì ripetutamente i giovani rispetto alle tensioni e divisioni generazionali, scrivendo anche la canzone “Be kind to parents” (= siate gentili coi genitori).
In seguito si è impegnato in iniziative ambientaliste e, in particolare, è stato ideatore e sostenitore della campagna “Hudson Clearwater” diretta a risanare l’avvelenato corso d’acqua del grande fiume americano. Navigandolo su una casa-battello e fermandosi a cantare contro l’inquinamento in ogni centro abitato è riuscito a organizzare volontari per ripulirlo, a sensibilizzare milioni di persone, l’opinione pubblica e i politici. Se una gran parte dell’Hudson è oggi nuovamente balenabile, lo si deve a lui e alla sua “Clearwater”.
Pete Seeger oggi si esibisce raramente anche se non fa mancare la sua voce a sostegno di cause progressiste. Presente nelle manifestazioni contro la guerra di questi ultimi anni e più volte protagonista al “National storyteller Festival” del Tennessee, dove racconta storie in gran parte rivolte ai bambini. Secondo Riccardo Venturi, curatore del sito “Canzoni contro la guerra”, Pete Seeger è stato e resta una delle figure più amate da chi in America “non cede”, uno degli ultimi legami viventi rimasti con la cultura ottimistica ed aperta dell’America post-depressione.

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
Alla ricerca di un equilibrio per affrontare i conflitti familiari

ANCHE LIBERO VA BENE
Italia – 2006
Regia: Kim Rossi Stuart
Interpreti: Alessandro Morace
Kim Rossi Stuart
Barbora Bobulova
Marta Nobili

Un dramma familiare che è costruito sui conflitti: professionali, familiari, scolastici, sportivi.
Un uomo, marito e padre perdente, che riversa frustrazione sul lavoro, odio sulla moglie fuggitiva e aspettative sui figli.
Conflitti, conflitti, conflitti e assoluta incapacità di affrontarli.
Il padre sfoga la propria insoddisfazione in scenate di violenza verbale via via crescente, ma tutto sommato sterile. La madre si rifugia nella fuga verso una esistenza più agiata (una volta si sarebbe detto dissoluta) quasi rispondendo ad un oscuro richiamo. La figlia maggiore, Viola, affronta la vicenda in modo più sentimentale, cercando al contempo una vita da adolescente “normale” fra scuola, danza e idoli giovanili. Il tutto viene invece affrontato in maniera molto più interiore ed intensa dal fratello undicenne, Tommaso (l’ottimo esordiente Alessandro Morace, dalla grande espressività e ricchezza di pathos) che, senza mai fare cose “da grande”, anzi cercando anch’egli le sue evasioni, è colui che vede, elabora e affronta la realtà per quella che è (ovviamente vista con i suoi occhi).
Non si entusiasma più di tanto al ritorno della madre ed è il primo che si accorge della sua nuova, ennesima, fuga; è attento alla realtà economica della famiglia, tanto che la sorella, più evanescente, lo canzona come tirchio; ha la perseveranza di far sentire il suo disamore per il nuoto, che il padre considera il vero investimento per il futuro; ha il coraggio del ritorno a casa dopo esserne stato cacciato e chiedere al padre un «come stai, pa’?», vero culmine emotivo del film.
Un ragazzino però, con le sue monellerie e le sue avventure; con Antonio, vicino di casa ricco e con una famiglia modello verso la quale si sente inevitabilmente attratto (bilanciata peraltro, forse in maniera non necessaria, dall’amicizia col compagno di classe muto, guardacaso, per un trauma familiare); con la compagna di classe per la quale prende una cotta (rinnegata poi per timidezza); col suo girare sui tetti ad osservare la gente col binocolo.
Quest’ultimo svago, però, contiene a mio avviso una seconda lettura. Durante il film ci si aspetta da un momento all’altro che Tommi “cada”, che la vita prenda il sopravvento su di lui. Invece, come sulle tegole dei tetti di Roma (belle alcune inquadrature in piena luce del panorama della città), riesce sempre a trovare un equilibrio: una piccola esistenza sul limite…
Fa da contraltare a ciò il fatto che il suo amico Antonio, non appena esce sul tetto, corre sbalordito a rimettersi al sicuro…
Questa è la vera forza della vicenda narrata, lo sforzo di trovare, ove possibile, un nuovo equilibrio: col padre che accetta la sua scelta di cambiare sport (immagine forse di un nuovo clima familiare), ma che continua nel volerlo condizionare scegliendogli il ruolo; con la madre accettando il suo definitivo abbandono (unica scena in cui Tommi cede al pianto).
In definitiva un buon esordio alla regia per Kim Rossi Stuart, con una storia tutto sommato semplice ma molto intensa, realizzata in maniera abbastanza convenzionale, ma ben costruita nel crescendo di emozioni (il primo tempo sembra fin troppo lento, ma è funzionale a portarci al culmine) e ben recitata, anche se qualche dialogo appare un po’ convenzionale.
C’è qua e là qualche citazione (una per tutte, la morettiana cantata familiare in macchina), forse inevitabile per un esordiente, che tuttavia non toglie originalità al film.
Quest’opera inoltre rappresenterà l’Italia al festival Cannes alla Quinzaine des Rèalisateurs con un film che già è stato paragonato per forza espressiva a “Incompreso” di Comencini o “I bambini ci guardano” di De Sica.
Resta, alla fine di tutto, il coraggio di Tommi, il coraggio di chi trova la forza di tornare verso chi con lui aveva chiuso e chiedergli “come stai?”. Sull’orgoglio, sull’affermazione di sé pare vincere il richiamo affettivo verso un padre disperato. Una sorta di Edipo a rovescio. Un Edipo che non uccide il padre, ma gli tende la mano per aiutarlo a rialzarsi.

Giuseppe Borroni

MOVIMENTO
Verso i Corpi Civili di Pace una necessità della storia

Ci troviamo oggi in una situazione paradossale: mentre i popoli del pianeta sono oppressi quasi ovunque dalla guerra, i governi sono arrivati a chiamare la guerra “missione di pace”. Inoltre, il governo più potente del pianeta, troppo spesso, non riconosce nei fatti altra autorità oltre se stesso. Come conseguenza, molti governi tendono ad usare sempre di più la violenza. In questa situazione, l’ONU è pressoché impotente. Siamo in una situazione di palese emergenza. Di positivo c’è che, certo, proprio per questo la vigilanza della società civile internazionale non è mai stata così alta. I popoli del pianeta, stanchi della politica violenta dei più forti (siano essi governi o meno), che pagano sempre sulla propria pelle, si domandano come uscirne. In questi anni abbiamo visto crescere fortemente l’esigenza di dare una risposta alla guerra in difesa della vita, e la necessità di organizzarsi per questo. In Italia, in particolare, è ormai matura una esperienza organizzativa di anni che vede nei corpi civili di pace una prima precisa risposta al problema guerra. Per realizzare in concreto e in visibilità i Corpi Civili di Pace serve sinergia. Per questo è nata la Rete Corpi Civili di Pace (ccp), ora divenuta Ipri-Rete ccp. Questa nuova associazione si riunirà il 2 luglio a Bologna (Saletta ferrovieri della Stazione centrale) per iniziare la realizzazione del progetto comune.

In Italia si sta iniziando a dibattere molto su e intorno ai corpi civili di pace. Sono state fatte anche alcune pubblicazioni e si fa formazione in modo abbastanza ampio. Tutti dati positivi.
Tuttavia, non c’è ancora un progetto comune. Mi spiego: la ricerca e la formazione sono quasi sempre slegate dall’azione, non esiste una azione comune e non esiste, salvo casi rari, una ricerca basata sull’azione, che è, a mio avviso, una ricerca fondamentale. Questo è dovuto a due motivi:

1) i gruppi che fanno intervento in zona di conflitto non costruiscono poi sufficiente riflessione, cioè fanno poca ricerca;

2) i gruppi o i singoli che fanno formazione nella loro stragrande maggioranza, non fanno azione in zona di conflitto.

A mio avviso, questa situazione va rapidamente superata, trovando delle forme di collegamento tra chi fa ricerca e formazione e chi fa azione, ma, di sicuro, invitando da subito chi fa azione a fare ricerca approfondita sul proprio lavoro. Inoltre, manca del tutto una formazione comune finalizzata all’intervento.
Ad oggi esistono una serie di interventi, più o meno validi, che già giustamente si chiamano corpi civili di pace. Sono interventi a bassa incidenza, è vero, e soprattutto sono scarsamente o per niente fra loro coordinati, ma, tuttavia, rappresentano una volontà visibile e operativa della società civile in contrasto al dominio della guerra e sono di importanza capitale perché tengono accese le speranze di pace dei popoli, che sanno che la pace è una necessità della Storia. E serve anche alla democrazia. Costruire una risposta alla guerra vuole dire lavorare non solo per la pace ma anche per la democrazia. Il binomio pace e democrazia, del resto, è un patrimonio e un compito che, da tempo, i nonviolenti hanno fatto proprio.
Bisogna che la nuova associazione Ipri-Rete ccp, appena inizierà il suo cammino, realizzi questo coordinamento e la saldatura tra ricerca-formazione e azione in modo che si sviluppi rapidamente nel nostro paese una sinergia operativa tra le varie associazioni, tesa alla concreta realizzazione dei corpi civili di pace. La prima azione comune potrebbe essere lavorare assieme a un progetto pilota, riconosciuto, magari anche solo parzialmente, dalle istituzioni che si renderanno disponibili.
Inoltre, questa sinergia deve essere anche visibile all’esterno e relazionarsi internazionalmente. E’ necessaria, quindi, una formazione comune di chi lavora per i corpi civili di pace all’interno di una casa comune, la casa dei Corpi Civili di Pace.
Gli spazi che si sono aperti faticosamente nelle istituzioni hanno bisogno di un interlocutore unico, chiaro e valido sul tema dei corpi civili di pace. Ripeto: una casa, un interlocutore, una ricerca-formazione-azione comune costruiscono un progetto, che può essere aggiustato assieme in corso d’opera, ma che, sono convinto, sarà solido, poiché nato dal basso della società civile, e non potrà, proprio per questo, essere facilmente invalidato dall’alto.
I corpi civili hanno naturalmente bisogno al loro interno anche dei professionisti, ma questo dopo che il volontariato ha costruito l’ossatura, la macchina della pace.
Il percorso per il riconoscimento dei corpi civili di pace da parte delle istituzioni nazionali e internazionali sarà probabilmente lungo e complesso, ma, proprio per questo è necessario decidere da subito di nascere assieme e assieme operare per una politica estera di pace, che veda protagonista la società civile, che la guerra la paga sulla propria pelle.

Silvano Tartarini
Berretti Bianchi

LIBRI
A cura di Sergio Albesano –

G. BAGNI R. CONSERVA, Insegnare a chi non vuole imparare, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2005.

Insegnare a chi non vuole imparare potrebbe essere definito come un “dialogo sul mestiere dell’insegnare”. E’ infatti un insieme di riflessioni presentati nella forma di scambio epistolare tra due colleghi, Giuseppe Bagni e Rosalba Conserva, entrambi docenti della secondaria.
Già la scelta di ragionare intorno ai problemi dell’insegnamento attraverso una relazione dialogica tra due docenti è di per sé significativa, perché rimanda a un approccio che mette in primo piano il lavoro docente come attività centrata sulla relazione.
Ciò che rende significativo un insegnamento è in primo luogo il modo in cui l’insegnante si pone, i suoi atteggiamenti, il suo mettersi in gioco come persona, il che porta a rifuggire da ogni facile illusione tecnicistica: la metodologia didattica può certamente aiutare, ma non basta; ciò che fa la differenza si pone a un livello più profondo e più ampio.
“Non c’è conoscenza senza pathos” è il tema della passione come condizione essenziale per ogni vera conoscenza. Così come l’essere appassionato della propria materia è ciò che rende credibile e motivante l’insegnamento per il docente stesso, per l’allievo un apprendimento è tale solo se coinvolge razionalità ed emozioni. Da ciò scaturisce una sorta di intesa, di alleanza, di legame empatico tra insegnante e allievo.
Tuttavia la passione è costantemente temperata dal dubbio e ciò aiuta a evitare atteggiamenti di intolleranza e rigidità che potrebbero derivare da forti e appassionate certezze.
Un altro tema ricorrente è quello del rigore, declinato spesso insieme a quello della cura. Non c’è contraddizione tra questi due aspetti; anzi, proprio perché è presente un atteggiamento di cura verso gli studenti, c’è nei loro confronti anche un grande rigore. Rigore e cura sono l’essenza dello spirito milaniano che nel testo si sente aleggiare in più punti.
Certamente è necessario prendersi cura soprattutto di quelli che di scuola “non ne vogliono”, ma ciò non porta a pensare a recinti differenziali, a percorsi facilitati per loro, ma piuttosto a una scuola migliore per tutti.
Nel volume lascia perplessità il modo in cui è trattato il tema della gerarchia. E’ certamente vero che quella tra insegnate e allievo è una relazione asimmetrica, ma una relazione asimmetrica non necessariamente è una relazione gerarchica; ci può essere asimmetria e relazione di equivalenza (riconoscimento di ugual valore). E’ una questione relativa al modo in cui il diverso tipo e livello di potere viene gestito da ciascun attore: ci può essere abuso di potere, non uso del proprio potere o uso corretto del potere da parte di ciascuno, qualunque sia il ruolo che ricopre e il potere che ha. Quando le relazioni da asimmetriche diventano gerarchiche si corre il rischio di legittimare abusi di potere. Il concetto di gerarchia introduce infatti una sorta di cristallizzazione nelle relazioni, mentre le asimmetrie sono più mutevoli e dinamiche e consentono di fare riferimento a diversi tipi di potere.

Angela Dogliotti

E. PEYRETTI, Esperimenti con la verità, Pier Giorgio Pazzini, Villa Verucchio RM, pagg. 104.

Il titolo di questo libretto è ripreso da Gandhi, che intitolò la propria autobiografia An autobiography, or the story of my experiments with truth. Egli diceva di se stesso: «Non sono che un comune mortale che procede dall’errore verso la verità».
Per lui la verità è la preziosa unità di tutte le cose e di tutte le vite, che nessuna violenza deve offendere, che va difesa con la forza della nonviolenza, la forza dell’anima e dell’unità.
Il libro è un lavoro semplice, divulgativo, un avvio a conoscere Gandhi e il movimento, più importante che imponente, da lui messo in moto nel Novecento: in questo secolo è sorta la maggiore alternativa politica alla violenza nei conflitti, nelle strutture, nelle culture, nella concezione stessa della società e delle sue istituzioni.
Il lavoro è dedicato e diretto ai giovani che stanno scoprendo l’esempio e l’impegnativa eredità di Gandhi e se ne sentono sospinti e incoraggiati a costruire pace e giustizia coi mezzi della pace e della giustizia.
Dopo una sintesi sulla vita e la personalità di Gandhi, attraverso la sua azione storica si espone la sua teoria della nonviolenza: etica e politica, fini e mezzi nell’azione, le regole sperimentate dell’azione nonviolenta, la relazione tra religioni e pace.
Concludono il volumetto di un centinaio di pagine l’indicazione dei principali libri per conoscere Gandhi e una piccola antologia di testi gandhiani.

RICEVIAMO

Antonino Drago “Storia e tecniche della nonviolenza”, Edizioni in proprio, Napoli, 2006, pp. 192
Cesare Persiani “La parabola del dottor Gittardi. Cronaca di un tumulto popolare avvenuto in Martinengo, terra bergamasca, al tempo dell’avvento del fascismo”, Flavius Editore, Pompei, 2005, pp. 262
Girogio Grimaldi (Centro Studi sul Federalismo) “Federalismo, ecologia politica e partiti verdi”, Giuffrè Editore, Milano, 2005, pp. 253
Martino Corazza “L’arca di Lanza Del Vasto. Aspetti socio-religiosi di una comunità nonviolenta”, Edizioni Il Punto/Schena Editore, Brescia, 2005, pp. 314
Francesco Selmin “Verso Awschwitz”, Cierre Edizioni, Verona, 2006, pp.47
A cura di Francesca Contini e Gianluca Casadei “Tränen-lacrime. Cinema teatro deportazioni”, un progetto Cinecircoli Giovanili Socioculturali, Milano, pp. 285
AA. VV. “Poesie di pace. I° concorso internazionale”, Casa Editrice Costruttori di Pace, Varese, 2005, pp. 46
A cura di Manitese e Campagna per la riforma della Banca Mondiale “Il pubblico, il privato e i perdenti. I falsi miti della privatizzazione dell’acqua”, Manitese, Milano, pp.42
“Augen-Blicke mit tieren. Attimi con animali” DVD con 7 video di animali. Prodotto da Radio Santec GmbH, Würzburg, 2004
Estratti dal libro “Questa è la mia parola ? e O. Il Vangelo di Gesù. La rivelazione del Cristo che il mondo non conosce”, Edizione italiana a cura di Comunità per la diffusione di Vita Universale, Milano, 2000, pp. 46
“L’amore di Gesù per gli animale finora tenuto nascosto. Antichi scritti dimostrano che i primi Cristiani erano vegetariani / Gli animali: vittime indifese. Che cosa dicono i grandi personaggi storici in merito al cibarsi di cadaveri di animali e riguardo alla caccia?”, Edito da Vita Universale, Milano, 2003, pp. 88
“Per una vita migliore, più sana e più cosciente. Libri, cd, cassette”, Edito da Vita Universale, Milano, 2005, pp. 34
“Il profeta: l’assassinio degli animali è la morte degli uomini”. Edito da Vita Universale, Milano, 2003, pp. 64
“Gli animali soffrono:il profeta denuncia”, Edito da Vita Universale, Milano, 2005, pp. 156
“Liberi!” Pubblicazione realizzata dai detenuti durante il corso di Comunicazione, promosso dall’associazione “La Fraternità”, Verona, 2005, pp. 45
“Per mano: per mano dell’altro, per mano con l’altro. Una raccolta di interviste a israeliani e palestinesi che hanno avuto un familiare ucciso e che militano insieme nell’associazione pacifista Parent’s Circe-Families Forum”, Edito da Una Città soc. coop., Forlì, 2005, pp. 95
Collettivo Matuta “E dunque che fare? Cambia il tuo stile di vita e salverai il pianeta. Prefazione di Alex Zanotelli”, Edizioni Paoline, Milano, 2006, pp. 170
Giorgio Pecorini “Il segreto di Barbina ovvero l’invenzione della scuola”, Edito da EMI della coop. SERMIS, Bologna, 2005, pp. 64
Ellin Selae “Raccolta illustrata di pensieri, tracce, armonie e disarmonie umane, Edito dall’Associazione Letteraria Ellin Selae, Cuneo, pp. 38
Kirkpatrick Sale “Ribelli al futuro. I luddisti e la loro guerra alla rivoluzione industriale”, Arianna Editrice, Bologna, 2005, pp. 270
Michele Meomartino “Frammenti di pace. Racconti, riflessioni, lettere di un amico della nonviolenza e artista pacifista”, Edizioni Qualevita, L’Aquila, 2005, pp. 126
“Le conflit: entrez sans frapper”, Edito da Centre pour l’Action Non-Violente (CENAC), Lausanne, 2005, pp. 19

AA. VV. “Tutte le bugie del libero commercio. Perché la WTO è contro lo sviluppo”, Consorzio Altra Economia Edizioni, Milano, Suppl. al n° 67, dic. 2005 di “Altreconomia”, pp. 54
Vito Piazza “Lettera a una professoressa 2. Don Milani vive ancora”, Edizioni Erickson, Trento, 2005, pp.109
Claudio Tugnoli “Perché la violenza. Mimetismo conflitto sacrificio”, Il Segno dei Gabrielli Editori, Verona, 2005, pp. 103
AA. VV. “Obiezione di coscienza in sanità. Nuove problematiche per l’etica e per il diritto”, Edizioni Cantagalli, Siena, 2005, pp. 264
Dino Levante “Novoli: contributo alla resistenza”, Edito da Biblioteca Minima, Novoli (Lecce), 2005, pp. 8
“Educare nei parchi. Rassegna delle proposte educative delle aree protette della Regione Veneto”, Edito da ARPAV (Agenzia Regionale Per la Prevenzione Ambientale del Veneto) con il patrocinato della Regione Veneto, dell’Assessorato alle Politiche per l’Ambiente e per la Mobilità e dell’Assessorato alle Politiche per il Territorio, 2004, pp. 182
“Guida agli ambienti del Veneto per realizzare attività educative”, Edito da ARPAV, 2005, pp. 241
“Dall’A-mianto…alla Z-anzara…Glossario dei rischi ambientali”, Edito da ARPAV, 2005, pp. 251
“Linee guida per Agenda 21 a scuola”, Edito da ARPAV, 2005, pp. 117
“L’ambiente e i giovani del Veneto. Comportamenti conoscenze percezioni”, Edito da ARPAV, 2005, pp. 121
“Rom rumeni a Verona. Azioni positive per una convivenza possibile”, Edito da Centro Polifunzionale Don Calabria e Comunità dei Giovani-Società Cooperativa Sociale ONLUS, Verona, 2005, pp. 78
“Taizè Fr. Roger. Una parabola di semplicità”, Suppl. alla rivista “L’Incontro” n° 136-137 dic. 2005- feb. 2006, pp. 99
Daniele Novara “Ognuno cresce solo se sognato. Antologia essenziale della pedagogia citica”, Edizioni La Meridiana, Bari, 2005, pp. 122
Daniela de Robert “Sembrano proprio come noi. Frammenti di vita prigioniera”, Bollati Boringhieri Editore, Torino, 2006, pp. 119
“Sapere d’Africa. La cultura come via per la cooperazione allo sviluppo”, Suppl. alla rivista “Vita”, pp. 32
“Aldo Capitini. Elements of a religious experience”, Edizioni La Terza, Bari, pp. 97
“Finanza etica-guida 2006”, Allegato alla rivista “Vita”, pp. 72
Carlo Simon-Belli “La risoluzione dei conflitti internazionali”, Guerra Edizioni, Perugia, 2005, pp. 100
Enrico Peyretti “Esperimenti con la verità. Saggezza e politica di Gandhi”, Pazzini Editore, Rimini, 2005, pp. 102
Aldo Capitini, Remo Ricci “Carteggio (1953-1968)”, a cura di Giuseppe Moscati, Associazione Nazionale “Amici di Aldo Capitini”, Perugia, 2005, pp. 94

LETTERE

Una campagna sbagliata

Ho letto l’appello dell’AVI all’Obiezione al certificato per il porto d’armi (AN gen-feb 2006).
Io sono medico, sono stato obiettore al servizio militare, obiettore fiscale, e sono contrario all’uso delle armi, ma mi sembra che questa campagna contenga un errore di fondo.
L’errore è di pretendere di imporre direttamente ad altri cittadini le nostre scelte etiche.
Un conto è fare una campagna per MODIFICARE UNA LEGGE, utilizzando strumenti come la propaganda, la pressione sulle istituzioni, i sacrifici personali. Un altro conto è, per affermare le proprie convinzioni, utilizzare la propria posizione per CREARE PROBLEMI AI SINGOLI CITTADINI, come avviene in questo caso costringendo gli assistiti che vogliono per loro scelta il porto d’armi a peregrinare di medico in medico cercando qualcuno che gli rilasci il certificato.

Portato all’eccesso questo atteggiamento porterebbe a situazioni paradossali e alla fine della convivenza civile: se sono contrario all’uso delle automobili private dovrò rifiutarmi di rilasciare i certificati per la patente? Un dipendente delle poste ateo potrà negarmi di fare un versamento a favore di una organizzazione religiosa? Un impiegato del gas potrebbe negarmi l’allacciamento perché pensa che potrei utilizzare il gas per scopi autolesivi?
Credo inoltre che questo tipo di campagne invece di sensibilizzare e attirare la solidarietà della pubblica opinione, provochino la reazione arrabbiata di chi suo malgrado subisce un danno.

Vi invito gentilmente a rivalutare l’opportunità di questa campagna.
Cordiali saluti.

Antonio Carones
Milano

Adunata nazionale alpini ad Asiago

Mi sia permesso di esprimere il mio dissenso dal contenuto della lettera che il Sindaco di Bassano del Grappa ha mandato alla cittadinanza in occasione della festa nazionale degli alpini di maggio ad Asiago.
Credo di aver il diritto morale di esprimermi in questa circostanza in quanto mio padre all’età di 25 anni circa, alpino nella guerra del 15-18, perse il braccio destro sul fronte dell’altipiano di Asiago. La sua mutilazione condizionò pesantemente il suo futuro e di conseguenza anche la sua famiglia che egli si creò molto tempo dopo. Io ho sempre ammirato mio padre per la modestia con la quale egli portò avanti la sua vita.
In questi tempi, lo scenario degli equilibri internazionali non è più quello di 80 anni fa. Oggi molte personalità esprimono il loro dissenso e preoccupazione per il crescente accesso alle armi nel mondo e per l’opzione alla guerra sotto le più svariate giustificazioni; e invitano grandi e piccoli della terra a costruire innanzitutto il dialogo e a diffondere concetti e prassi di nonviolenza.
Nella lettera, il sig. Sindaco ricorda le gesta degli alpini nella prima guerra mondiale, ma tace sulla storia degli alpini della seconda guerra mondiale: dichiara di aver creato un sodalizio più forte con l’ANA in questi ultimi anni ed elogia gli alpini per i valori che essi sanno conservare e trasmettere.
Questi due aspetti, la fermezza e la bontà, sono un’evidente caratteristica portata avanti dall’ANA, che piace e che ha fatto breccia nel cuore della maggioranza delle persone. Una voce nel deserto fa osservare invece che la base dell’ANA dialoga con il popolo per attività solidali e umanitarie e che, nello stesso tempo, il vertice dell’ANA dialoga con le alte cariche dell’Esercito per missioni di pace armata nel mondo. Questa alternanza è un connubio forzato di valori assai diversi tra loro.

Bassiano Moro
Bassano del Grappa

L’Africa c’è e vuole vivere

Chi pensa all’ Africa come ad un continente che sta morendo non conosce bene questa terra e la sua grande vitalità, non solo per motivi anagrafici visto che buona parte della sua popolazione è sotto i 30 anni, ma anche per quella culturale e sociale.
In un mio recente viaggio in Kenya e Tanzania ho potuto provare quanto ciò sia vero.
Sono stato invitato a parlare a Nairobi (Kenya) a nome della Tavola della pace alla “Nairobi Peace Rally & concert towards Justice and Equity”.
Quella che doveva essere una marcia con quattro cortei che dovevano partire da zone diverse della città si è dovuta trasformare in un grande incontro al Parco Uhuru perchè il governo l’ ha vietata.
Fare una manifestazione per la Pace a Nairobi non è la stessa cosa che farla a Perugia, se non altro per le priorità ed i bisogni degli abitanti di una città di 5 milioni di abitanti di cui la metà vivono in 199 baraccopoli. Eppure circa 5000 persone hanno partecipato a questa iniziativa che è stato un grande spettacolo con cori vocali, cantanti, acrobati, percussionisti ed anche una banda musicale.
Una manifestazione non facile che cozza con gli interessi delle ecomafie locali, che vede coinvolti anche esponenti governativi.
La riuscita della manifestazione segnala le possibilità di cambiamento che esistono anche in simili circostanze.

Luigino Ciotti
Bastia umbra

Di Fabio