• 23 Dicembre 2024 18:47

Azione nonviolenta – Luglio 2007

DiFabio

Feb 2, 2007

Azione nonviolenta luglio 2007

– Il Movimento Nonviolento chiama a raccolta il ventiduesimo Congresso, di Mao Valpiana
– Il respiro ampio della politica per un’economia al servizio dell’uomo, di Eros Tommasi
– Idee sparse di una volontaria che osserva e pensa mentre svolge il suo servizio annuale, di Diana Napoli
– Il vittimismo prolunga l’escalation della violenza in Israele come in Palestina, di Jerome Liss
– Nei luoghi della memoria il silenzio non parla ma grida, di Alberto Trevisan
– Antigone, il contrasto fra coscienza e legge, di Anselmo Palini
– Onore al disertore che condanna e maledice la guerra, di Sergio Albesano

Le rubriche:

– Cinema. Richard Nixon contro John Lennon per togliere una possibilità alla pace, a cura di Flavia Rizzi
– Educazione. Nei conflitti ci sono rischi ed opportunità, a cura di Pasquale Pugliese
– Economia. Niente liti e cassa comune nel “condominio solidale”, a cura di Paolo Macina
– Per esempio. I sette valori nonviolenti per essere una “babaylan”, a cura di Maria G. Di Rienzo
– Servizio civile. Analisi del Bando 2007, crescono gli Enti, calano le risorse, a cura di Claudia Pallottino
– Movimento. Energie pulite e rinnovabili per un nuovo modello di società, a cura della Redazione

EDITORIALE
Il Movimento Nonviolento chiama a raccolta il ventiduesimo Congresso

Mao Valpiana

Con il XXII° Congresso nazionale del Movimento Nonviolento, che si svolgerà a Verona dall’ 1 al 4 novembre 2007, vogliamo in qualche modo concludere quel confronto fra amici della nonviolenza che abbiamo iniziato con la nostra Marcia Perugia-Assisi “Mai più eserciti e guerre” del 2000 e proseguito con la camminata Assisi-Gubbio del 2003, il convegno eugubino sulla difesa nonviolenta, la manifestazione del 2004 sul Ponte Europa per un’Europa neutrale e disarmata, il Congresso del Movimento del 2004 su “Nonviolenza è politica”, il convegno di Firenze del maggio 2006 su “Nonviolenza e politica” e poi il seminario di ottobre 2006 su “La politica della nonviolenza, alla prova della guerra”. Una lunga riflessione corale, fatta di teoria e di azione.
Il Congresso di quest’anno ha un titolo lungo, ma che contiene tutte le parole chiave sulle quali abbiamo lavorato nei sette anni che sono trascorsi dalla Marcia nonviolenta del 2000: “La nonviolenza è politica per il disarmo, ripudia la guerra e gli eserciti”. Il Congresso, nelle nostre intenzioni, chiuderà un ciclo e ne aprirà un altro, che dovrà lanciare iniziative e politiche che diano corpo all’elaborazione del pensiero nonviolento.
Il Congresso è il momento principale e decisivo della vita del nostro Movimento. E’ al Congresso che si decidono le linee guida dei prossimi anni, e che ci si assumono le diverse responsabilità. Al Congresso sono invitati tutti gli amici della nonviolenza, ma saranno gli iscritti a dare poi corpo al Movimento stesso. Il Movimento Nonviolento è nelle mani delle duecento persone che hanno sottoscritto la Carta programmatica e si sono fatte centro propulsore. Come sarà e cosa farà il Movimento Nonviolento nel 2008, lo decideranno i partecipanti iscritti al Congresso di Verona.
L’invito che facciamo fin d’ora è quello di predisporre la propria partecipazione a tutte le fasi del lavoro congressuale, programmando la presenza a Verona fin dalla sera precedente, che vedrà lo svolgimento di un dibattito pubblico (in corso di definizione) di presentazione del Congresso alla città. Il Congresso si terrà presso la Casa madre dei Comboniani, e stiamo predisponendo l’ospitalità dei congressisti presso il vicino Ostello della Gioventù. Nei prossimi numeri tutte le informazioni più dettagliate.

L’appuntamento è a Verona, nei primi quattro giorni di novembre.
XX° Congresso nazionale del Movimento Nonviolento

Programma di massima definito dal Comitato di Coordinamento
1 NOVEMBRE, giovedì
Mattina, ore 10,30
Apertura del Segretario e relazione introduttiva
Pomeriggio
Comunicazioni sulla rivista Azione nonviolenta, sul centri studi, sui gruppi locali…
Dibattito in assemblea plenaria.
2 NOVEMBRE, venerdì
Mattina
lavoro in 3 commissioni
I Corpi Civili di Pace
Il Servizio Civile Volontario
L’Educazione alla nonviolenza
Pomeriggio
lavoro in 3 commissioni
Economia, Ecologia, Energia
Risposte di movimento alla crisi della politica
Resistenza nonviolenta contro il potere mafioso
3 NOVEMBRE, sabato
Mattina
Riferiscono le prime 3 commissioni e poi dibattito
Riferiscono le altre 3 commissioni e poi dibattito
Spazio per presentare le mozioni.
Pomeriggio
Dibattito sulle mozioni
Votazioni
Rinnovo delle cariche
4 NOVEMBRE, domenica
Mattina
“Non festa, ma lutto”, iniziativa nonviolenta:
camminata attraverso luoghi simbolici della città

Il respiro ampio della politica per un’economia al servizio dell’uomo

Eros Tommasi

Per consuetudine il respiro della politica deve essere ampio, ma da tempo mi appare asfittico.
Occorre pensare a uno spazio creativo, una finestra culturale, che lavori su modelli ideali, lontano dalla logica di potere e di convenienza elettorale, libero di muoversi fuori dalle esigenze di partito, per costruire dei progetti che ricerchino il benessere della collettività.
In premessa intendo fare una osservazione riguardante il rito dell’alternanza di governo, che rischia di trasformarsi in democrazia apparente se non si riescono a sviluppare contenuti veramente alternativi fra gli schieramenti. Anche in politica si guarda al sistema americano come ad un modello da imitare, ma personalmente lo trovo stucchevole. Probabilmente sarò miope, ma dopo anni di alternanza fra “Repubblicani” e “Democratici” non riesco a vedere cosa cambi nella sostanza se governano gli uni o gli altri. Ovviamente c’è una miriade di provvedimenti marginali che servono a distinguersi, ma nell’insieme non cambia nulla. Questo perché non viene mai messo in discussione il “sistema”, che è funzionale al potere, sia economico che politico.
Le oligarchie del potere trovano la loro legittimazione attraverso le elezioni, che mantengono viva l’illusione della libertà e della democrazia, mentre il cittadino non ha concrete possibilità di incidere sulle scelte che gli vengono preconfezionate, quindi si accontenta di delegare, schierandosi con una parte o con l’altra più per motivi affettivi che razionali, oppure prende coscienza del gioco delle parti e si disinteressa alla politica, tanto è vero che parte dell’astensionismo elettorale è paradossalmente determinato da persone che hanno forse maggiore coscienza civica di tanti elettori rituali. Se prendiamo atto di questi fatti, non ritengo si possa importare in Italia questo sistema in modo acritico. Il problema comunque non risiede tanto nel modello di governo quanto nei contenuti e nell’azione di governo.
Il modello economico capitalista – liberista, uscito vittorioso dopo la fine della “guerra fredda”, ha ingabbiato il mondo politico, che di fronte al trionfo del “sistema” non ha saputo replicare e ha rinunciato a gran parte delle proprie prerogative in campo economico. Pensiamo a tutti i provvedimenti internazionali che limitano la sovranità nazionale a vantaggio del libero mercato. Abbiamo assistito inermi ad una politica di “spolicitizzazione” che dietro pretesto di libertà, ha attuato una deregolamentazione selvaggia e attribuito ai determinismi economici un potere assoluto. La politica è stata costretta a muoversi entro limiti amministrativi, ma se si tratta solo di amministrare forse un “tecnico” può farlo meglio di un “politico” e può capitare che un uomo di “destra” lo possa fare meglio di uno di “sinistra”.
A questo punto non si capisce più nulla e le differenze si appiattiscono nel “pensiero unico”.
Il sistema economico dominante è funzionale al mantenimento delle oligarchie di potere e non tiene conto dell’economia reale e delle sue grandi potenzialità.
Attraverso una assurda politica monetarista provoca, con il pretesto dell’inflazione, una riduzione del potere d’acquisto delle masse, che genera ogni sorta di povertà, che nel nostro mondo si chiamano “nuove”, anche se sono piuttosto vecchie, mentre nel terzo mondo sono antiche e si chiamano “fame”. Si calcolano centomila morti di fame al giorno, in un pianeta le cui risorse alimentari potrebbero sostenere il doppio dell’attuale popolazione.
Questo “sistema” riesce a crearsi dei problemi di sovrapproduzione con conseguente stagnazione economica (prodotti invenduti, sussidi per ridurre la produzione ecc.), a fronte di tanti bisogni insoddisfatti. Una tale incongruità, sotto gli occhi di tutti, dovrebbe far scuotere il buon senso comune della gente e condurre ad una riflessione su cosa diavolo stiamo combinando, invece non accade nulla, le menti sono obnubilate dai falsi dogmi inculcati dal potere.
Un altro paradosso che possiamo osservare, fra i tanti, deriva dallo sviluppo della tecnologia, la quale aumenta la capacità di produrre ricchezze diminuendo il lavoro per l’uomo.
Questo fatto anziché migliorare le condizioni di vita per tutti, determina disoccupazione fra i lavoratori e accumulo di capitale nelle mani di pochi (oligarchia di potere). E’ noto infatti che i duecento più grandi capitalisti del mondo gestiscono un reddito circa pari a quello del 50% della popolazione mondiale, residente nelle regioni più povere.
Abbiamo lavoratori disoccupati, materie prime (ancora per un po’) e capacità tecniche per realizzare grandi progetti, ma facciamo mancare le risorse per realizzarle. Si preferisce pagare sussidi di disoccupazione piuttosto che dare onesto lavoro alla gente per risolvere i tanti problemi che ci circondano. Siamo costretti in un mondo di penuria e di grandi disparità sociali, allorché per la prima volta nella storia dell’umanità, avremmo le potenzialità per trasformare il Pianeta in un paradiso terrestre. Nella realtà occidentale non manca la capacità di produrre una marea di beni tale da sommergere e forse anche soffocare il mondo intero. Mi sembra evidente, il problema è dare lavoro e reddito adeguato alla gente. Mi chiedo, dobbiamo insegnarlo noi agli economisti liberali che per far funzionare una economia di mercato occorrono consumatori in grado di consumare ?
Invece, se le cose vanno un poco meglio, la produzione e i consumi aumentano e la disoccupazione diminuisce, i mercati finanziari sono colti dal panico, perché questi indici sono premonitori di una possibile ripresa dell’inflazione e del rialzo dei tassi di interesse, quindi la borsa va in flessione, frenando rapidamente la ripresa economica.
E’ inutile fare politiche di sostegno alla produzione, come propone la destra, quando il potere di acquisto delle masse è soffocato ed è la causa principale della recessione. Per uscire dalla crisi permanente della nostra economia, occorre un forte impegno pubblico, capace di sostituirsi alla insufficiente domanda privata, e una politica monetaria meno restrittiva, che in Europa significa anche rivedere i criteri previsti dal Trattato di Maastricht.
Tutto questo però non basta, il modello economico liberale va corretto e governato, altrimenti porterà alla distruzione ecologica del Pianeta. Il “sistema” è basato sul mito dello sviluppo espansivo e illimitato, funziona bene solo quando c’è crescita, non prevede che ci siano dei “limiti dello sviluppo”. E’ chiaro il richiamo al documento, di oltre trenta anni fa, del Club di Roma, di quel grande personaggio che è stato Aurelio Peccei. La prognosi del documento era evidentemente sbagliata, per nostra fortuna, ma la diagnosi era a mio avviso corretta ed è ancora attuale.
Oggi si parla molto di sviluppo sostenibile. Il concetto è giusto, ma c’è poca chiarezza su come realizzarlo. Per lo più si pensa ad un modello di vita morigerato e accompagnato da un’equa distribuzione delle risorse. L’idea sul piano etico è molto bella, ma non si attaglia alle regole dell’economia di mercato. Se anche si riuscisse a far abbandonare i propri privilegi al mondo occidentale, cosa di cui dubito fortemente, il risultato sarebbe verosimilmente una forte recessione economica, senza concreti vantaggi per i lavoratori e per i poveri diseredati del mondo.
Il cambiamento dello stile di vita deve essere accompagnato dalla realizzazione di una economia al servizio dell’uomo, che abbandoni la ricerca di una affannosa crescita quantitativa, governata dalla sola logica del profitto, per costruire uno sviluppo qualitativo, che abbia al centro dei propri interessi la condizione di vita dell’uomo sul Pianeta. In questo ambito veramente la crescita può considerarsi illimitata e può interessare tutti i settori dell’economia, ma prioritariamente deve a mio avviso dedicarsi alla eliminazione della condizione di povertà e alla salvaguardia del patrimonio ambientale e culturale. Attraverso la ridistribuzione del lavoro e il supporto della tecnologia, è anche auspicabile che l’uomo possa affrancarsi da un lavoro alienante e riesca a trovare più tempo per godersi la vita e per crescere spiritualmente, assecondando il proprio destino evolutivo.
Per ottenere tutto ciò la politica deve recuperare capacità di progettazione e di governo economico, non possiamo lasciarci guidare dalla acefala “stateless global governance” proposta dai signori dei mercati mondiali.
Bisogna reagire a questo potere occulto e trovare strategie per ridare respiro alla politica.

Idee sparse di una volontaria che osserva e pensa mentre svolge il suo servizio annuale

Diana Napoli

Un paio di decadi fa, i volontari avevano un grosso vantaggio: quello di trovare una questione, un fatto (che nella fattispecie era la lotta per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza) che sostanziavano la nonviolenza. La scelta antimilitarista radicale era specifica del movimento nonviolento (i radicali ci passiamo su e facciamo finta che non siano esistiti, se non altro per non tirarci i capelli per quel che fanno ora) e l’obiettivo del servizio civile dava una forma specifica all’obiezione di coscienza, la coscienza che diceva no e che sapeva quale fosse, nell’immediato, l’oggetto del suo riferimento: poi si poteva trovare l’accordo su tale o tal’altra faccenda, con questo o con quell’interlocutore, ma il nucleo della nonviolenza, o così io almeno immagino, doveva sembrar rotolare per la storia chiaro ed evidente come una massima cartesiana e si doveva solo affermarlo.
Aggirandomi da qualche mese per i corridoi nonviolenti, la direzione di tutto questo vorticoso nonviolento fare e disfare, lo confesso, mi sfugge. Ragioni di contatto col mondo (e anche di “lotta”, mi si passi il termine), per carità, se ne possono trovare a iosa: e perché c’è Vicenza, e perché la guerra e le armi, e l’acqua da ripubblicizzare, Exa da contestare, Don Milani da commemorare. Ma quello che a me, volontaria per un anno, sfugge è il nucleo, lo “spirito”. Sarà che non ho mai assistito ad un congresso; sarà che l’idea di rimettere insieme i frammenti dell’esperienza mi richiama solo tragicità: ma la direzione, il senso, la giustizia, non mi si rivelano. Poi si può certosinamente risistemare l’archivio; rietichettare i libri, salterellare per gli uffici provinciali per via della biblioteca. Ma se la nonviolenza è solo questo, è solo forma vuota. Se è solo un principio generale, che al massimo serve ad andare a braccetto con i centri sociali a Vicenza e che tenta da una parte o dall’altra di trovare la situazione per inserirsi, serve a poco e allora sì che la forza si perde. Allora sì che la coscienza non ha più ragione né di obiettare, né di intenzionare il mondo. Dove sta l’apertura di possibilità (se le possibilità si inseguono solo)?
Enumerare i mali del mondo è attività che riesce quasi a tutti; quello che forse riesce meno è spiegarne il perché. Naturalmente non sono così presuntuosa da attribuirmi capacità di esplicazione inaudite, per cui quello su cui vorrei soffermarmi è il modo in cui il movimento nonviolento (ho anche sentito dire da qualcuno che oramai anche Rifondazione è nonviolenta per cui capirete che a volte userò l’etichetta “nonviolenza” non filologicamente, ma in senso molto ampio, relativa a tutti coloro che rifiutano la violenza in tutte le sue forme e in qualunque situazione) comunica all’esterno la propria ragion d’essere, poiché servizio civile o meno, è dall’esterno che io (in quanto nuova arrivata, foss’anche solo per un anno) ho la possibilità di guardare.
Ovviamente dividere il mondo Nord/Sud come un tempo si faceva Est/Ovest, oppure Occidente/Islam come pure qualcuno oggi fa, non è una spiegazione. E’ un modello interpretativo che rende conto di questo o quell’altro fatto, ma non va mai al nocciolo del problema.
Io credo (come la maggior parte di coloro che conosco) che questo famigerato nocciolo sia la crisi della democrazia. Siccome la democrazia (con tutto l’arsenale di forme che porta con sé, dai diritti ad alcuni tipici meccanismi rappresentativi) non è né un’ideologia, né un semplice sistema istituzionale, ma è “un’umanità”, un processo storico e evoluzione filosofica a un tempo, si tratta chiaramente della crisi della democrazia occidentale. E’ qui che risiede l’origine di tutti i mali.
Di fronte a questa tanto indicata crisi della democrazia, la soluzione più in voga è quella di proporre una “democrazia partecipata”, come se il problema fosse solo quello di istituzionalizzare dei meccanismi più o meno diffusi (dal grande sol dell’avvenir di Porto Alegre) di massiccia partecipazione “dal basso”, meccanismi per altro in genere, se non in rari casi, fallimentari e che a ben vedere sono il contrario, dal punto di vista dello “spirito”, dell’idea di democrazia. Infatti, tutte le esperienze di democrazia partecipata almeno qui in Italia sono relative a decisioni su questioni locali, per cui il territorio si mobilita (di solito mai in modo propositivo, ma oppositivo) in virtù di, ad esempio, la Tav, la base, l’inceneritore. Significa che, a parte qualche minoranza sparuta (e a parte il caso di Vicenza che ha coinvolto un gran numero di persone sulle parole d’ordine: abbasso l’imperialismo americano), se non si è direttamente coinvolti nella questione non ci si impegna. Se la Tav la fanno in val di Susa e passerà a Brescia vicino casa mia, allora scendo in piazza. Altrimenti no. Hannah Arendt scriveva che un processo del genere è la fine della politica perché non è altro che la gestione pubblica di affari privati, di interessi privati. La politica, e se è democrazia, dovrebbe (stiamo sempre parlando teoricamente) essere lo spazio pubblico in cui ognuno è libero da interessi privati: per questo le riflessioni di questa filosofa sulla democrazia ateniese sono così suggestive, poiché indicano la politica come uno spazio non di cure “domestiche”, ma in cui la libertà di ciascuno, non soggetta alle questioni private (che inevitabilmente vizierebbero, egoisticamente, le nostre decisioni), possa manifestarsi. Ed essendo la libertà l’essenza dell’uomo e della sua capacità di agire, la politica è lo spazio che accoglie la caratteristica umana per eccellenza: l’imprevedibiltà, la novità, il nuovo inizio che ogni uomo, solo per il fatto di essere nato, rappresenta. A me Hannah Arendt piace molto, poiché leggendola io mi riconcilio con me stessa (e col mondo, ovviamente): anche se siamo “finiti” e se la nostra vita singola non trascenderà la nostra esistenza biologica, siamo nati non per morire, ma per ricominciare, dato che ogni nuova nascita è un nuovo inizio, una novità assoluta, a ognuno di noi di prenderla in carica (ciascuno per sé).
Non voglio con questo sottovalutare le grandi lotte, le mobilitazioni, e la Tav e Vicenza e chi più ne ha più ne metta, così come tutte le sacrosante opere di sensibilizzazione locali (a Brescia, per dirne una, quella condotta da EXPA contro la fiera delle armi), ma credo che insistere come panacea di tutti i mali col “coinvolgimento” del territorio, sia ozioso: la gente quando viene “toccata”, si muove sua sponte.
Eppur la riflessione pare essersi fermata alla nuova parola d’ordine “coinvolgimento del territorio”, i “territori”, la “partecipazione”, con una grottesca sovrapposizione di esperienze geografiche storiche. Guardando dall’esterno, la sensazione che ho è una vulgata del “movimento”, con i suoi Maîtres à penser, le sue parole d’ordine e una mancanza assoluta di riflessione e di elaborazione. Il che significa, di dialogo col mondo e con tutti coloro che per le tematiche che ci interessano hanno pure prodotto risultati eccellenti. Io sinceramente prima di iniziare il sc non sapevo cosa fosse la nonviolenza (semantica a parte), ma credo anche che ora potrei darne una definizione solo mia, non condivisa, poiché nessuno tra i “padri” del movimento in Italia sembra curarsi di trasmetterne l’eredità, il patrimonio morale, spirituale (e non solo la lotta per questo o per quello). Forse che si è smesso di pensare? Si crede effettivamente che la nonviolenza sia solo una battaglia circostanziata per la questione del momento, o una generale aspirazione alla pace nel modo, o peggio ancora una tecnica per non venire alle mani se si litiga? Io mi rifiuto di credere che sia ciò: io ci vedo una direzione, un sentimento (etimologico), un progetto preciso, perché altrimenti il risultato è la vulgata giornalistica per cui basta fare la marcia per la pace (che quest’anno, peraltro, proprio per sfotterci, si chiama marcia per i diritti) e si è nonviolenti; Rifondazione comunista è nonviolenta, e ci si mette la spilla e si fa la nonviolenza. Ma affinché ci sia il “progetto”, il senso, occorre pensare: non basta fare.
Rimanendo nell’ambito del pensiero (e però restringendo il campo al movimento nonviolento vero e proprio) è sconcertante la povertà di autori che ho trovato. Viva Aldo Capitini, viva il grande maestro. Non è mia intenzione discutere il rigore morale di questo filosofo, né il suo contributo all’apertura di orizzonti intellettuali che il suo pensiero ha consentito dalla fine degli anni Trenta del secolo scorso. Però la gratitudine è una cosa, il rispetto pure, il riconoscimento dei meriti imprescindibili anche, la venerazione idolatrica no.
Io credo che un pensiero, per essere veramente fecondo, debba avere la capacità di “parlare” anche oltre la propria epoca. Se rimane chiuso in un percorso di storia delle idee serve a poco, anzi a niente. E il passato, in generale, serve solo quando, senza anacronismi, può indicare una direzione per il futuro. Se quello che ci viene consegnato è un’eredità senza testamento, a noi (cioè a quelli che ad esempio hanno 27 anni) serve a poco. Ora, ovunque io sia andata (formazione, comitati, semplici pour parler), ho sentito i panegirici del concetto capitiniano di “apertura all’altro”. Certo, non solo ha parlato dell’altro ma ha anche inventato i COS, pensiero e azione, ma perché però non dialogare con altro che la cultura filosofica ha prodotto? Perché scrivere e pensare solo sul maestro? Chi viene dopo (me, ad esempio), legge quel che ha scritto, non può vedere quel che ha fatto e la lettura sarà un dialogo tra sordi.

Il vittimismo che prolunga l’escalation della violenza in Israele come in Palestina

Jerome Liss *

David Grossman ha sofferto una tragedia. Il proprio figlio, soldato per l’esercito Israeliano, è stato ucciso in Libano. Anche prima di questo momento, Grossman era conosciuto come uno degli scrittori più “liberali” in Israele. Dopo questa tragedia, il suo nome è stato ancor più associato con la visione della pace, la voglia di dare una svolta agli avvenimenti e fermare una violenza che è stato l’incubo di Israele dai sessant’anni della sua esistenza.
All’interno di Repubblica di venerdì 2 marzo, 2007, è stato pubblicato proprio un articolo di Grossman, dal titolo “Israele, La Shoah e il Futuro, Ritratto di un Paese Difficile.” Come altri lettori, ho pensato: “Ecco una nuova luce, una prospettiva illuminata, sfortunatamente, della tragedia personale, comunque sia una voce che può aiutare la marcia verso la pace”. Invece, leggendo l’articolo, mi sono ritrovato a concludere: “Nient’affatto. Il problema continua!”. Il modo di pensare di David Grossman può favorire il prolungamento della violenza. Il suo messaggio non dice che la violenza deve essere fermata ma solamente che gli Ebrei hanno sofferto delle percezioni negative dagli altri e da se stessi.
Ecco come Grossman ha infatti analizzato la situazione. In primis lo scrittore ha presentato lo stato di “ansietà esistenziale degli Israeliani”. “Da cinquantanove anni della nascita dello Stato di Israele… la terra continua a muoversi sotto i nostri piedi. La nostra esistenza non ci è garantita… Lo Stato di Israele non è un luogo dove possano stare al sicuro. Al contrario, spesso vediamo che gli ebrei sono il bersaglio di una violenza incessante, e la nostra esistenza qui è in gioco.”
Questo è un linguaggio intrinseco di vittimismo: “poveri noi”, “come soffriamo noi!”. E’ il linguaggio che troveremo in ogni episodio nella storia di escalation militare, di violenza crescente. “Siamo il bersaglio della violenza!” in altri termini vuol dire: “Non abbiamo fatto niente! E’ colpa loro!”
Uno studio in psicologia ha evidenziato lo stesso fenomeno. Lo studio ha avuto come oggetto diversi fratelli, di età compresa fra 10 e 12 anni. In una situazione di gioco libero, i ricercatori hanno osservato in quale momento tra di loro cominciavano i litigi. Proprio durante la lite, il ricercatore entra dentro la situazione e domanda, ad ogni fratello: “Perché state litigando?” Risposta inevitabile di ogni fratello: “Colpa sua! Non ho fatto niente!” Nel colloquio, un fratello dice, “Mi ha spinto!” L’altro, “Non è vero! Lui ha preso il mio capello!” Il. primo: “Non è vero. Mi ha dato lui il capello!” Il secondo: “L’ha buttato a terra!” “Perché hai colpito il mio castello!?” L’altro: “Era già rovinato!” Di risposta: “Non è vero!”
Un dialogo tra sordi, ma molto frequente. E che cosa succede quando i leader delle nazioni e delle religioni parlano come fratelli di 12 anni? Si scatena la guerra! George Bush: “Noi li elimineremo! Noi li cacceremo! Sono fanatici che vogliono distruggere la democrazia!” Bin Laden: “Sono pagani, infedeli! Sputano sul Corano! Allah ci darà il coraggio di difendere il nostro onore!” Al livello della logica umana, George Bush e Osama Bin Laden sono “fratelli epistemologici”. Entrambi fanno ragionamenti come in un gioco di specchi – del tipo “Colpa loro! Sono innocente!” – che caratterizzano situazioni di violenza ed escalation.
Così David Grossman, nel trasmettere l’insicurezza degli Israeliani, l’incertezza, la paura, la precarietà, sottende un implicito “Non è colpa nostra!”. Non c’è riferimento ai disaggi e sofferenze dei Palestinesi. Non una riga sull’invasione territoriale dei coloni, l’uccisone dei Palestinesi con carri armati ed elicotteri, il rinvio dei Palestinesi, il rifiuto di permettere la riunione delle famiglie arabe, l’umiliazione costante degli arabi alle frontiere, ecc. Solo un grido difensivo: “Siamo il bersaglio!”, ed ecco che l’analisi di un’interazione spinta di una escalation mutua è evitata.
Ma è interessante anche approfondire come Grossman spieghi questa precarietà, paura ed insicurezza, che gli Israeliani vivono ogni giorno: “Per me, la mancanza di fiducia esistenziale è uno dei sintomi tipici della condizione ebraica, da generazioni e forse da millenni”. E’ quindi un’eredità del passato. L’incertezza non sembrerebbe provocata dal presente: “La tragedia della sua esistenza negli ultimi duemila anni. L’anomalia di un popolo che vive presso altri popoli, il più delle volte ostili e sospettosi!” Vittime dell’ostilità degli altri quindi. “Non ho fatto niente, Io!”: dice il fratello, dodicenne. Ed ecco come Grossman scrive.
Possiamo riflettere: “Cosa avrà voluto dire Grossman? Quale messaggio oggi può servire veramente alla pace?” Evidentemente, un messaggio adulto che riconosca le responsabilità di ambo le parti: “Noi abbiamo contributo a questa tragedia, questa violenza quotidiana. Ciò che vogliamo è arrestare la violenza che uccide persone da entrambi i lati.” E più precisamente?
Un articolo apparso su Repubblica di B. Zbrzenski, teorico politico degli Stati Uniti, ha dato un orientamento importante. Ha detto con rammarico che gli Stati Uniti non hanno preso una posizione efficace per raggiungere la pace dopo l’ll Settembre 2001. Ciò che ha deluso è che gli Stati Uniti non abbiano aiutato “i moderati” all’interno del mondo arabo. L’analisi di Zbrzenski può stimolare i pensieri di chi è rimasto intrappolato nella violenza di mutua escalation: Chi ha provocato questa violenza? Chi continua a favorire la violenza? Risposta: Gli estremisti di qualsiasi lato. Gli estremisti intorno a Bin Laden, gli estremisti vicini a George Bush (Cheney, Rumsfield, Wolfowitz) spargono semi di violenza e ne coltivano il raccolto. Il gruppo di estremisti di Bin Laden coltivano il raccolto dell’onore, del potere e del martirio. Allo stesso modo gli estremisti degli USA raccolgono ugualmente di un salto di prestigio e di potere. Inoltre, l’investimento nel petrolio e l’avanzata dell’industria degli armamenti aggiungono ulteriori guadagni. E’ inevitabile che un gruppo provi a trarre profitto da una situazione catastrofica. Il dilemma è che interi popoli – Americano, Islamico – seguono questa pazzia.
L’analisi di Brzezinski – secondo cui ogni parte di un conflitto contiene estremisti che cercano la violenza e che godono di questa mutua escalation – trova altri sostenitori nella storia. Un libro informativo – Il Crollo della Democrazia in Europa – esamina gli anni 1920 e 1930 in Europa. In questo periodo paese dopo paese ha visto crollare la propria democrazia: Germania, Italia, Finlandia, Spagna, ecc. In ogni caso, gli avvenimenti sono stati sempre gli stessi: scontri tra gli estremisti dell’ala sinistra e gli estremisti dell’ala destra! Il risultato? Violenza nella strada. Stragi. Innocenti uccisi. Una spirale di scontri, fino a che da un lato venga fuori un leader (in questi casi, di destra) che salvi la situazione. La sicurezza è ritrovata. Il prezzo? La democrazia. Ma fra vita e libertà, la scelta fatta da un popolo, è quasi sempre la vita.
Ritorniamo a David Grossman. La sua analisi non frena la bellicosità dell’ala violenta e estremista degli Israeliani. Non un riferimento alla controparte nel mondo arabo. L’accento è tutto su “l’intensità dell’ansia esistenziale, il peso della memoria storica, la profondità di questo danno, della cicatrice che la storia ha inciso su di noi.” Ecco una parola empatica per la sofferenza. L’appello di Grossman al suo popolo è diretto a “liberarci da quella metafora distruttiva che altre nazioni hanno proiettato su di noi vedendo in noi gli eterni stranieri, in perenne nomadismo tra altri popoli.” Quindi gli Israeliani soffrono solamente di una percezione sbagliata del passato, un’auto-valutazione negativa causata da anni di esclusione, dall’essere un bersaglio delle “proiezioni” di altre nazioni. La logica della sua analisi dice, “Cambiamo la nostra auto-percezione negativa, condizionata da duemila anni di esclusione, e loro dovranno cambiare la loro proiezione”. Credo che i militari e i coloni non sentiranno un disagio da questo messaggio di Grossman.
Per concludere, possiamo riferirci a Noam Chomsky. La sua analisi in Egemonia o Sopravvivenza si basa su una logica etica: “Le cose che vogliamo fare devono essere permesse agli altri. Le cose che non vogliamo che gli altri facciano, neanche noi dobbiamo farle a loro.” E’ proprio necessaria una mente brillante – come gli scienziati, Noam Chomsky, Richard Feynman, Carl Sagan ed altri — per comprendere il loro messaggio che gli altri esistono, e che possono godere degli stessi nostri diritti?

* Consulente World Food Program, Onu

Nei luoghi della memoria: il silenzio non parla ma grida!

Alberto Trevisan

“Questo è un luogo dove il silenzio vale più di mille parole”: è la frase semplice, agghiacciante, forse scritta da una mano tremolante di uno scampato dal lager di Mauthausen che ho letto incisa su una parete a fianco del forno crematorio. Per me è stato il momento più alto ma anche più drammatico di un viaggio della memoria che, partendo dal Tempio Nazionale dell’Internato Ignoto di Padova, ci ha portato a Dachau, Gusen e Mauthausen. Avevo deciso di affrontare questo viaggio della memoria perché al termine di una riflessione sul senso del silenzio in una società sempre più frenetica e gridata, volevo cogliere “ il silenzio che parla” nei luoghi della barbarie dell’olocausto, ricordando anche Alex Langer che ci ha chiesto di essere più dolci, più lenti e più profondi. Ero assieme ad un gruppo di persone che fanno parte di un Centro studi intitolato a Ezechiele Ramin , un giovane martire padovano da me conosciuto, ucciso dai latifondisti brasiliani perché a fianco dei contadini: un giovane prete gesuita che aveva capito subito da quale parte stare. Nell’iniziare questo viaggio avevo presente il libro Hanna Arendt e la sua celebre frase “La banalità del male” che scrisse dopo aver seguito il processo a Gerusalemme contro Adolf Eichmann accusato di crimini contro il popolo ebreo e tutta l’umanità. Ma proprio a Padova c’è stato un “giusto”, il padovano Giorgio Perlasca, che, pur schierato con il fascismo, seppe opporre alla “banalità del male” la “banalità del bene” salvando migliaia di ebrei ungheresi. Furono alcune donne da lui salvate che, dopo molti anni, lo ritrovarono e lui della sua “banalità del bene” non ne aveva parlato quasi con nessuno. Ora il suo albero cresce rigoglioso nel Giardino dei Giusti a Gerusalemme. Ma in questo viaggio c’era una guida preziosa e molto importante: é Luigi Bozzato, cittadino di Pontelongo, un piccolo comune in provincia di Padova, scampato, anzi miracolato, proprio a Mauthausen , la cui ragione di vita rimane quella di accompagnare in questi viaggi della memoria quanti vogliano vedere di persona ciò che è potuto succedere nella culla dell’occidente europeo. I suoi 85 anni non gli pesano per niente tanto è l’impegno di raccontare come lui, già nudo e pronto ad essere messo nel forno crematorio, si trovò ancora in vita sopra un cumulo di cadaveri e vestendo la divisa di un compagno già morto, riuscì a scampare ad una sorte già segnata. Lo spazio non mi consente di raccontare a fondo né il diario di viaggio né la vita di questo testimone ma il libro di Umberto Marinello, “Il lager dentro”, può permettere, a chi lo voglia, di conoscere e riflettere ciò che Luigi Bozzato ha vissuto nei lunghi anni trascorsi tra un lager all’altro. In tutti questi viaggi Luigi veste la sua divisa di internato con tanto di numero di matricola e senza proferire parola cammina per i campi e molti sono i giovani e le persone che lo avvicinano dandogli così la possibilità di raccontare che per lui e’ un modo di liberarsi del nodo di angoscia che da anni opprime il suo animo. Un viaggio che si presentava già alla partenza denso di emozioni e dove il silenzio avrebbe avuto una parte importante proprio nei luoghi dove il silenzio sembra naturalmente voler “ gridare” quasi squarciare il velo di vergogna che impedisce ancora oggi un dibattito vero su ciò che c’è stato e riempire di verità il grande buco nero che ha caratterizzato la storia del novecento europeo. A pensarci bene avanza sempre di più il pericolo di un revisionismo storico che, iniziato con gli scritti del tedesco Nolte, sembra fare ancor oggi più proseliti che critici. In questo viaggio avevo anche un impegno: dovevo proprio a Mauthausen trovare una targa deposta in ricordo degli obiettori di coscienza, oltre ad un’altra targa che un amico di famiglia, vicesindaco di Padova,. aveva portato con incise delle parole significative. Ho controllato minuziosamente tutte le varie incisioni e, non trovando le targhe che cercavo, la mia attenzione si è fermata sulla fotografia di un avvocato veronese, certo Gracco Spaziani, torturato dai fascisti prima a Verona, dopo nel lager di Bolzano e infine trasportato a Mauthausen dove morì. Me ne aveva parlato anni fa un carissimo amico della nonviolenza, suo nipote, rompendo il riserbo di una storia intima e così mi è parso importante stringere attorno a questa fotografia la bandiera del nostro Movimento Nonviolento con impressa la parola “Nonviolenza” e con raffigurato il fucile spezzato cercando di fissarla in maniera che il vento e il freddo gelido di quel luogo non la portasse via e soprattutto con l’idea che il nipote che, sicuramente, tornerà a ricordare il nonno, potesse trovare questo segno importante e sicuramente più duraturo di un mazzo di fiori. Cominciava all’imbrunire il viaggio di ritorno dopo aver visitato i luoghi, aver sostato davanti ai forni crematori, percorso con fatica e in silenzio la “scala della morte“ del campo di Mauthausen che gli internati dovevano salire con una pietra di 30 chili sulle spalle e che se non ce la facevano a proseguire, cadevano a terra trascinando a morte i loro compagni. La tristezza aveva ormai da qualche ora avvolto ognuno di noi ma una semplice proposta di fare alcune brevi e spontanee riflessioni su quanto avevamo vissuto in due giorni ci ha permesso di capire come ogni persona era partita con un sottile filo che lo attorcigliava e che lo aveva spinto in questo viaggio della memoria per non dimenticare le “storie“ personali, i ricordi, i vissuti, il dolore di aver perso persone care che da questi luoghi di barbarie non erano più tornati o se ritornati, per anni hanno tenuto dentro di sé l’angoscia senza raccontare ad altri per non aggiungere dolore a dolore, per non far pesare ai propri cari il dolore che non li ha mai abbandonati come quello di Primo Levi. Mi é parso che ognuno di noi ha voluto donare agli altri il suo vissuto cioè il motivo per cui aveva scelto di visitare questi luoghi. Tutte le testimonianze che ci siamo scambiati in pullman nella strada del ritorno, sono state di grande intensità emotiva. Luisa e Rosalba, hanno raccontato, in sintesi la loro storia di figlie specificando che “non siamo né parenti né amiche, siamo qualcosa di più” aggiungendo poi che i loro padri si ritrovarono fratelli per sempre per aver condiviso la sofferenza, la fame, la fatica dei campi di concentramento ma anche la fiducia nel futuro per la famiglia. Quasi allo stesso modo Anna e la sorella, hanno ricordato il padre, carabiniere caduto prigioniero in Africa e poi deportato sino a Bassora in Iraq, il quale una volta ritornato a casa preferì il “silenzio che parla” portando avanti gli impegni di ogni giorno, accudendo i nipoti e coltivando i suoi amati campi. E ancora il racconto delle amiche Romana e Anna che parlano della “rabbia” vissuta per essere state private dell’affetto dei loro papà per anni e che una volta ritornati loro, invece di serbare rancore, hanno ripreso a vivere con coraggio e si sono dedicati con grande amore alle loro famiglie, al loro lavoro più entusiasti di prima. E da ultima la testimonianza più toccante di una ragazzina che con voce flebile, ingenua ma decisa ci saluta dicendo: “sono venuta a vedere e ho capito che ciò che ho visto non è una brutta favola ma è una cosa vera!”. Il viaggio era finito. Il Tempio dell’Internato Ignoto ancora una volta accoglieva il ritorno di viaggiatori, stanchi, con gli occhi un po’ lucidi ma certi di non aver viaggiato invano rompendo così il silenzio dell’oblio per “ricordare, imparare, non odiare” come è inciso sulle vetrate del Tempio, accanto al quale sta per nascere un nuovo Giardino dei Giusti dopo Gerusalemme ed Erevan in Armenia. Certamente i viaggi ripartiranno con altre persone: Luigi Bozzato li guiderà ancora una volta confermando che spesso è “il silenzio che parla” e che quello che la bambina ci ha detto vale più di un saggio storico che voglia mettere in discussione quello che e’ accaduto nei campi di sterminio.

ANTIGONE,
il contrasto fra la coscienza e la legge

di Anselmo Palini

Antigone a Creonte:
“Non potevo pensare che i tuoi decreti fossero a tal punto potenti da dare, a te che sei mortale, il diritto di trasgredire le leggi non scritte, ma inviolabili, degli dèi. Non da oggi, non da ieri, ma da sempre esse sono vive e nessuno sa da dove e da quando siano apparse”.
Un conflitto inconciliabile
Definire che cosa sia una tragedia non è semplice. Ci può essere d’aiuto quanto scrisse Goethe: “Ogni tragicità è fondata su un conflitto inconciliabile. Se interviene o diventa possibile una conciliazione, il tragico scompare” . L’essenza del tragico consiste dunque nel fatto che i valori, incarnati da un personaggio, si scontrano con quelli proposti da altri. L’origine della tragedia sta dunque in questo conflitto. La tragedia in questo senso è lo scontro fra la volontà e la necessità, ossia fra il desiderio di determinarsi in forma autonoma e la presenza di forze esterne che intendono impedire questa libera determinazione. In realtà, poi, una sola via si apre davanti all’individuo, quella indicata dagli dèi, il cui volere rimane comunque per l’uomo imperscrutabile. Sono pertanto le divinità ad avere l’ultima parola in merito al destino umano. Contro questo destino l’eroe tragico misura la propria impotenza, senza però mai cedere.
Se è vero che gli dèi hanno l’ultima parola in merito al destino degli uomini, tuttavia Sofocle afferma anche la grandezza dell’uomo, che campeggia, solo, di fronte al proprio destino. Tutte le tragedie di Sofocle, ad eccezione di una, Trachinie, portano il nome degli eroi o delle eroine che ne sono protagonisti. Ci si trova così di fronte ad una serie di figure monolitiche nella loro grandezza, personaggi magnanimi e inflessibili, diritti e lineari, che rimangono fedeli alla propria natura fino all’estremo esito. Questi eroi rispondono ad un modello di determinazione tenace e pongono tutto il loro coraggio a servizio di una causa.
Antigone: l’antefatto
La prima delle tre tragedie che Sofocle dedica al mito di Edipo è l’Antigone; le altre due sono Edipo re e Edipo a Colono. L’Antigone ha per oggetto gli avvenimenti conclusivi dell’antico dramma tebano.
Per comprendere bene l’Antigone, bisogna dunque risalire al mito che riguarda Edipo, figlio di Laio, nipote di Labdaco, il fondatore della stirpe dei Labdacidi, sovrani di Tebe. Un oracolo aveva predetto che Edipo avrebbe ucciso il proprio padre Laio e sposato la madre Giocasta. Laio, sconvolto da questa profezia, per sfuggire a tale destino abbandona il neonato Edipo sul monte Citerone con le caviglie forate. Qui il bambino viene trovato da un pastore che lo porta alla corte del re di Corinto, Polibo. Il re e sua moglie Peribea, che non avevano figli, lo adottano e gli danno il nome di Edipo, che significa appunto “dai piedi gonfi”.
Edipo cresce e un giorno, dopo che i compagni di gioco lo hanno chiamato “bastardo”, ponendogli dei sospetti riguardo alle sue origini, decide di recarsi nella Focide, a Delfi, per interrogare l’oracolo. La risposta è oscura e insieme terribile: se farà ritorno in patria, ucciderà suo padre e sposerà sua madre. Edipo, convinto che i suoi veri genitori siano Polibo e Peribea, si allontana da Corinto per sfuggire al destino che gli è stato annunciato dall’oracolo. Sulla via per Tebe, si imbatte in un carro sul quale viaggia Laio. Scoppia un diverbio e Edipo uccide Laio, che non sa essere suo padre, e compie così la profezia. Con la morte di Laio, a Tebe il potere passa nelle mani di Creonte, fratello di Giocasta. Ma la città si trova assediata dalla sfinge, un feroce mostro mitologico metà leone e metà donna. La sfinge propone un oscuro enigma e uccide tutti coloro che non riescono a risolverlo. “Qual è l’animale che al mattino si regge su quattro zampe, a mezzogiorno su due e alla sera su tre?”. Edipo affronta coraggiosamente il mostro e risolve il famoso enigma, affermando che quell’animale è l’uomo. Viene così accolto trionfalmente in città e per riconoscenza i Tebani gli chiedono di regnare su di loro e di sposare Giocasta. Così accade e dal matrimonio con quella che Edipo non sa essere sua madre nascono due maschi, Eteocle e Polinice, e due femmine, Antigone e Ismene. Improvvisamente la città è invasa da una pestilenza. Interrogato sul perché di tanta sciagura, l’indovino Tiresia fa in modo che Edipo giunga all’atroce verità, ossia alla scoperta di essere figlio di Laio e Giocasta: Edipo si rende conto così di avere ucciso il proprio padre e sposato la propria madre. Frutto di questo incesto inaccettabile sono i quattro figli: ciò ha scatenato l’ira degli dèi. A questo punto Giocasta, scoperto l’orrore, si uccide, impiccandosi. Edipo, quando viene a sapere che la madre – sposa si è impiccata, strappa gli spilloni dalla veste di lei e si trafigge gli occhi, accecandosi. Allontanato da Tebe, Edipo si reca, accompagnato da Antigone, in Attica, a Colono, dove viene accolto dal re Teseo. Prima di morire, maledice i figli maschi per non averlo difeso e per non aver impedito il suo esilio. Eteocle e Polinice, spaventati da questa maledizione che li condanna a darsi una morte reciproca, stabiliscono di regnare su Tebe un anno ciascuno. Trascorso un anno, Eteocle si rifiuta di cedere il trono al fratello. Allora Polinice ripara, esule, ad Argo, presso il re Adrasto, di cui sposa la figlia Argia. Successivamente raccoglie un’armata di sette principi, tra cui lo stesso Adrasto, che schierano i loro eserciti davanti alle sette porte di Tebe (è la guerra dei Sette contro Tebe messa in scena da Eschilo). Per porre fine alla guerra e decidere il vincitore, i due fratelli si affrontano a duello, dandosi reciprocamente la morte nello scontro. In questo modo trova compimento anche la maledizione lanciata verso di loro dal padre Edipo. I Tebani riescono poi ad avere la meglio ed i principi argivi sono costretti a fuggire. Il potere a Tebe torna nelle mani di Creonte, zio dei due principi, il quale decreta che solo Eteocle, avendo difeso la città, abbia gli onori funebri, mentre Polinice, considerato traditore della sua patria poiché l’aveva attaccata, dovrà restare insepolto. A questo punto ha inizio la tragedia di Sofocle, Antigone.
La vicenda rappresentata nella tragedia di Sofocle
Nel prologo Antigone, sorella di Eteocle e Polinice, ritenendo che l’ordine di Creonte sia empio, manifesta alla sorella Ismene l’intenzione di disobbedire e la invita a ribellarsi con lei al decreto che offende il volere degli dèi. Ismene non accetta di seguire Antigone nel suo proposito, temendo di incorrere nell’ira di Creonte.
Ai componenti del Coro, dall’alto della sua sovranità, Creonte ripete il suo ordine e ne sostiene i validi motivi.
Creonte ha appena terminato di illustrare i motivi che hanno portato all’emanazione dell’editto relativo alla sorte riservata ai due fratelli, quando all’improvviso arriva una guardia e informa il re del fatto che una persona sconosciuta ha cosparso di polvere il cadavere di Polinice per dargli degna sepoltura. Esplode a questo punto la collera di Creonte, che teme vi sia una cospirazione ai suoi danni. Invia allora alla ricerca del colpevole una guardia che poco dopo torna portandosi dietro Antigone, che era stata scoperta mentre per la seconda volta gettava polvere sul corpo di Polinice. Antigone ammette il proprio gesto ed afferma anche di essere al corrente dell’editto di Creonte, ma di avere disubbidito in nome delle leggi eterne degli dèi, che garantivano per tutti la sepoltura. Viene quindi condannata a morte.
Il figlio di Creonte, Emone, innamorato di Antigone, riferisce al padre che la città è turbata e commossa per la vicenda; pur rispettoso dell’autorità paterna e del suo prestigio, Emone esorta il padre alla ragionevolezza, ma si trova di fronte ad un rifiuto netto.
Antigone viene quindi condotta ad una caverna per esservi rinchiusa; piange e si lamenta, domandandosi quale giustizia divina abbia trasgredito. Si rivolge poi al Coro, perché veda che cosa subisce per aver voluto seguire la volontà degli dèi.
Nel frattempo da Creonte si reca Tiresia, il veggente cieco, l’infallibile indovino: sinistri presagi indicano che gli dèi sono sdegnati con Creonte, poiché ha impedito la sepoltura di Polinice. Accusato di essere menzognero, Tiresia predice a Creonte che pagherà caramente il suo affronto agli dèi e che contro di lui si leveranno le città contaminate dal sacrilegio.
Creonte, dopo che il vate Tiresia si è allontanato, spaventato da quanto sentito, recede dalle proprie decisioni, annulla l’editto precedentemente emesso, autorizza la sepoltura di Polinice e si attiva per liberare Antigone. Arriva un messaggero che informa prima il Coro, poi Euridice, moglie di Creonte e madre di Emone, che Antigone si è impiccata e che Emone, dopo essersi scagliato contro il padre, ha rivolto la spada contro di sé e si è ucciso.
A Creonte, che avanza con il cadavere del figlio, un secondo messaggero riferisce la notizia del suicidio di Euridice. Sconvolto dal dolore, Creonte invoca la morte e piange la propria rovina, dinanzi ad un Coro apertamente nemico.
I diritti del ghenos e quelli della polis
L’Antigone di Sofocle è stata letta e commentata da tutti i maggiori filosofi. Fra questi studi, interessante è quello di Hegel, il quale tra l’altro scrive nell’Estetica che l’Antigone “è una delle opere d’arte più eccelse e per ogni riguardo più perfette di tutti i tempi” . Per Hegel, Antigone rappresenta la fedeltà ai valori della stirpe (ghenos), mentre Creonte a quelli dello stato (polis). Antigone agisce per l’affetto che la lega a Polinice e rappresenta, dunque, i diritti della famiglia. Creonte si fa, invece, portavoce delle esigenze dello Stato e delle sue leggi superiori. La famiglia chiede alla città la restituzione di un corpo che le appartiene, affinché gli siano tributati gli onori funebri e sia consegnato alla pietà dei parenti; la città pretende dalla famiglia il rispetto di una legge, di un divieto, per non turbare l’equilibrio dello Stato di diritto. Creonte difende un principio giuridico e ritiene che nessuna legge morale possa porsi al di sopra dello Stato; Antigone, invece, proclama la superiorità della pietas e dei legami familiari.
Il dramma dell’Antigone è dunque tutto impostato su una questione morale e religiosa, che si esplicita nel conflitto fra la protagonista e il re di Tebe, Creonte: Antigone incarna il valore universale delle leggi eterne degli dèi, Creonte invece è irriducibilmente persuaso della necessità politica del suo agire. Antigone afferma la propria completa fedeltà alle leggi eterne e immutabili, pur se non scritte; Creonte invece è il re potente che si fa portavoce dell’inviolabilità del diritto positivo in quanto fondamento dello Stato.
Il contrasto fra ius e lex
In occasione del quarantennale dell’opera di aggiornamento e cultura giuridica Leggi d’Italia, in una cerimonia svoltasi il 25 giugno 2003 a Roma, a palazzo Montecitorio, Gustavo Zagrebelsky”, in qualità di vice-presidente della Corte Costituzionale Italiana, tenne una lezione su “Antigone e l’alba della legge”. Secondo Zagrebelsky il testo fondativo della nostra civiltà giuridica è appunto l’Antigone, ove vi è una grande riflessione sulla legge intesa come deinòs, ossia come un qualcosa che può essere contemporaneamente meraviglioso e terribile. E l’intera vicenda storico-spirituale e concettuale della legge nel corso della storia non è altro che il continuo e mutevole rapporto fra ius (diritto) e lex (legge). La tragedia sofoclea, secondo Zagrebelsky, deriva proprio dal reciproco disconoscimento di ius e lex, impersonati rispettivamente da Antigone e Creonte. Nella vicenda tebana la legge per la prima volta avanza le proprie pretese e reclama la propria legittimità, che viene fortemente contestata in nome dello ius, ossia dei legami sociali e familiari stabili e profondi. I secoli che separano noi da Antigone sono stati un continuo confronto, a fasi alterne, appunto fra il diritto e la legge. Oggi, afferma ancora Zagrebelsky, il punto di partenza si è rovesciato: la legislazione ha invaso tutti gli ambiti dell’esistenza e il mondo del diritto è saturo di leggi. Il risultato è una sorta di “positivismo giuridico, cioè la riduzione del diritto a sola legge positiva”. Tutte le diverse forme di potere, democratica e antidemocratica, liberale o totalitaria, hanno usato nel corso della storia la legge per legittimarsi: la legge era la legge, moderata o crudele che fosse, e nessun altro diritto le si poteva contrapporre. Lo Stato che operava secondo le leggi, era dunque, per questo motivo, legale e legittimo. Ci ricorda ancora Zagrebelsky che però “le leggi, e tra queste la Costituzione, possono molto ma non tutto. Esse formano come una grandissima costruzione, ma non più solida di un castello di carte, in quanto il loro fondamento sia posto solo in se stesse: cioè, in ultima analisi, nel potere. Antigone ci ammonisce ancora: senza ius, la lex diventa debole e, al tempo stesso, tirannica”.
L’eroina eterna del diritto naturale
Per Jacques Maritain, Antigone incarna l’idea del diritto naturale, ossia la coscienza che vi è “per virtù stessa della natura umana, un ordine o una disposizione che la ragione umana può scoprire e secondo la quale la volontà umana deve agire per accordarsi ai fini necessari dell’essere umano. La legge non scritta o il diritto naturale non è altro che questo”. I grandi filosofi dell’antichità, secondo Maritain, “sapevano che la natura deriva da Dio e che la legge non scritta deriva dalla legge eterna che è la saggezza creatrice stessa. È per questo che l’idea della legge naturale o non scritta era legata presso di loro a un sentimento di pietà naturale, a quel profondo rispetto sacro, indimenticabilmente espresso da Antigone”. La legge naturale è dunque l’insieme delle cose da fare o da non fare, che risultano in modo necessario e per il solo fatto che l’uomo è uomo, in assenza di ogni altra considerazione. La legge naturale, per Maritain, è una legge non scritta e la conoscenza che l’uomo ne ha aumenta a poco a poco con i progressi della coscienza morale. Lo sviluppo di questa idea risale molto indietro nel tempo. “L’idea del diritto naturale è un’eredità del pensiero cristiano e del pensiero classico. Non risale alla filosofia del XVIII secolo, che l’ha più o meno deformata, ma a Grotius e prima di lui a Suarez e a Francesco de Vitoria; e più oltre a san Tomaso d’Aquino; e più oltre ancora a Sant’ Agostino e ai padri della Chiesa, e a san Paolo; e più oltre ancora a Cicerone, agli Stoici, ai grandi moralisti dell’antichità e ai suoi grandi poeti, a Sofocle in particolare. Antigone è l’eroina eterna del diritto naturale, che gli antichi chiamavano legge non scritta, ed è il nome che meglio le conviene” .
Fedeltà a leggi eterne
Per il filosofo Paul Valadier, già direttore della rivista Ètudes, “il caso esemplare dell’Antigone di Sofocle mostra con straordinaria chiarezza come l’uomo possa trovare la forza di opporsi a un ordine ingiusto anche mettendo a repentaglio la propria vita. Antigone non può non celebrare sulla salma del fratello i riti prescritti per onorare i morti. Sa che, comportandosi così, contravviene agli ordini pubblici del re Creonte: se scoperta, rischia la morte. Ciononostante obbedisce a quella che ancora non chiama la sua coscienza, ma che ad essa assomiglia molto. Non agisce per ostinazione, come le viene rimproverato: mentre disobbedisce agli ordini del re, la sua coscienza obbedisce in realtà a leggi non scritte, a leggi eterne, che nessuno ha mai letto in un codice e che tuttavia sono inderogabili. Quando, alcuni secoli più tardi, esclameranno davanti al Sinedrio che “è meglio obbedire a Dio che agli uomini”(Atti degli Apostoli 5, 29), Pietro e Giovanni rinnoveranno la protesta morale dell’Antigone davanti all’arbitrio e si richiameranno ad una fedeltà che obbliga senza riserve. Tale è la coscienza morale quando, rispondendo a istanze assolutamente superiori, si impegna a comportamenti di cui paga le conseguenze fino in fondo. Né in Antigone, né in Pietro, né in Giovanni, è chiaro, la coscienza si pone come unico riferimento: ogni volta si richiama ad una legge che la trascende e, al tempo stesso, la obbliga” .

Per saperne di più
Anselmo Palini, Antigone, una donna fedele alle leggi immutabili degli dèi, in Testimoni della coscienza.
Da Socrate ai nostri giorni, editrice Ave, Roma ottobre 2005 (prima ristampa aprile 2006), prefazione di Franco Cardini
G. Steiner, Le Antigoni, Garzanti, Milano 1990.
P. Montani (a cura di), Antigone e la filosofia, Donzelli, Roma 2001.
Ibidem.

Onore al disertore

Sergio Albesano

“1860. Un esercito di napoletani, imbottiti dell’idea di patria, tentò di buttare a mare un pugno di briganti che assaliva la sua patria. Fra quei briganti c’erano diversi ufficiali napoletani disertori della loro patria. Per l’appunto furono i briganti a vincere. Ora ognuno di loro ha in qualche piazza d’Italia un monumento come eroe della patria.”
Così scriveva Lorenzo Milani e questo testo è indicativo di come il concetto di diserzione muti a seconda del punto di vista da cui si studiano gli eventi: i disertori di alcuni sono gli eroi di altri e viceversa.
In genere al concetto di diserzione è stato abbinato il senso della vigliaccheria e della codardia. Ma è proprio così? Esiste davvero un onore, una dignità e un merito nelle azioni militari e c’è di conseguenza un disonore, una mancanza di dignità e un demerito in coloro che disertano? Analizziamo qualche fatto storico.
La prima guerra mondiale
Durante la prima guerra mondiale ci furono comportamenti collettivi contro la guerra, come ad esempio quello di coloro che si stesero sui binari davanti alla tradotta. Mancava a quei gesti l’organizzazione e l’espressione culturale, ma c’era una luce di coscienza fondamentale che la nostra attuale cultura di pace non può mancare di raccogliere. Tanti di questi atti sono già stati studiati e documentati, insieme a quelle rivolte personali che dettero luogo, durante e dopo la prima guerra mondiale, ai processi militari per diserzione, per autolesionismo, per intelligenza col nemico. Si parla di “quattrocentomila processi intentati dalle autorità militari in quattro anni di guerra, centinaia e forse migliaia di esecuzioni sommarie e di decimazioni, una forsennata propaganda di odio e lo sviluppo di un apparato repressivo imponente ed efficiente”. Nel libro L'”altra” guerra sono raccolti strazianti brani di lettere di soldati che condannano e maledicono la guerra, incriminati per disfattismo, e brani tratti dalle sentenze di condanna. Le manifestazioni contro la guerra, soprattutto di donne, furono frequentissime: 459 solo nei primi mesi del 1917, tra cui le più importanti ed estese furono i moti dell’agosto a Torino, inizialmente per il pane, poi apertamente per la pace e contro la guerra, con oltre cinquanta morti. Ci furono 870.000 denunce, diecimila condanne per automutilazione, quindicimila condanne all’ergastolo e oltre quattromila a morte. E’ però doveroso specificare che dei 470.000 processi per renitenza alla leva 370.000 furono contro emigrati che non erano rientrati. Comunque i disertori della guerra 1915-1918 furono così numerosi che fu necessaria un’amnistia, promulgata nel 1919 dal presidente del consiglio Francesco Saverio Nitti.
La seconda guerra mondiale
Durante la seconda guerra mondiale l’assistenza ai renitenti alla leva e la copertura delle loro fughe divenne un compito delle bande partigiane, tra le quali segnaliamo in particolare la 171° brigata Garibaldi, che in tal modo toglievano alle guarnigioni repubblichine il necessario ricambio di soldati. La 53° brigata Garibaldi nel marzo del ’45 riuscì a far fuggire più di duecento soldati della Russia asiatica, da poco inquadrati come ausiliari nelle file dell’esercito tedesco. Altre truppe russe, in particolare dell’Arzebajan, inquadrate nelle S.S., tentarono diserzioni di massa, ma avendole preparate in maniera insufficiente subirono una tragica repressione da parte dei nazifascisti.
A guerra finita la prigione di Gaeta ospitava molti condannati per aver disertato in Grecia, in Jugoslavia o in Africa settentrionale. Vecchi soldati, spesso senza nemmeno il denaro per pagare un avvocato, condannati a pene detentive dopo aver combattuto in guerra, sono diventati pazzi e sono stati mandati a scontare la pena in manicomio. In una lettera pubblicata su “L’incontro”, scritta da un anonimo detenuto, veniva sottolineato crudamente quanto fosse inumano il trattamento nelle carceri militari: “Fa pena vedere i cinquantenni fare attenti e riposo, tremare per le sgridate e manifestare le loro idee sottovoce per paura di essere sentiti (…). Le celle di rigore sono le stesse di ottanta anni fa dove vi furono rinchiusi Mazzini e altri. Lunghe m. 2, larghe m. 1,50, molto umide, con l’acqua talvolta per terra e con pochissima luce. Il detenuto deve vivere in quella tomba a pane e acqua, con tre coperte d’inverno dove ne occorrerebbero dieci e senza pagliericcio. Bisogna dormire sul cemento talvolta per due mesi di seguito. Nelle carceri comuni han tolto la punizione a pane e acqua per senso di umanità, ma le autorità militari son sorde alle lagnanze dei detenuti. Trenta giorni a pane e acqua rovinano l’organismo, spianano la strada alla tubercolosi e riducono un uomo sanissimo in uno straccio. (…) Un trattamento di favore godono gli ufficiali tedeschi condannati per crimini di guerra. Hanno stanzette a parte, ricevono tutti i giornali, scrivono a chi vogliono. Hanno quattrini, comprano liquori e brindano assieme al comandante del reclusorio, regalano qualche sigaretta ai detenuti italiani che devono andar a pulire le loro stanze e a lavare i loro piatti. Il detenuto che ha quattrini non può regalare venti lire al compagno che vuol scrivere alla mamma e che non ha un centesimo. E bisogna tacer sempre: la paura della punizione a pane e acqua fa tremare tanto che molti detenuti chiedono inutilmente di essere trasferiti alle carceri comuni”.
Il versante cattolico
La posizione di chiusura nei confronti dell’obiezione di coscienza da parte della gerarchia non impedì che all’interno della Chiesa si sviluppassero figure che hanno rappresentato pietre miliari nella lotta per la conquista del diritto a obiettare. Ad esempio le tesi di don Mazzolari a favore dell’obiezione di coscienza ispirarono un libretto anonimo intitolato Tu non uccidere, risultato di discussioni da lui tenute con alcuni giovani in cui veniva condannata integralmente la guerra. Stampato dopo molte difficoltà perché nessun editore voleva pubblicarlo, il libro ebbe invece un clamoroso successo e ne uscirono anche edizioni in inglese e in tedesco. La stampa di destra cercò di stroncarlo, definendolo “i pensamenti di un gruppo di ‘partigiani cattolici della pace’ , probabilmente scartati alla visita di leva, che suggeriscono ai giovani italiani di non prestare servizio militare e li incitano alla diserzione in caso di guerra nel nome di un fumoso internazionalismo cattolico”.
Nel numero di domenica 13 gennaio 1963 de “Il giornale del mattino” era riportata un’intervista a padre Ernesto Balducci intitolata “La chiesa e la patria”, nella quale egli tra l’altro affermava: “Un cattolico in caso di guerra totale ha, non dico il diritto, ma il dovere di disertare”. La presa di posizione del battagliero sacerdote fiorentino suscitò scalpore ed egli venne denunciato per apologia di reato, insieme a Leonardo Pinzauti, direttore responsabile de “Il giornale del mattino”. Balducci e Pinzauti furono in seguito condannati dalla corte d’appello e allora ricorsero in cassazione. La suprema corte ritenne che padre Balducci avesse superato nell’intervista il limite imposto dalla costituzione alla libera espressione del proprio pensiero spingendo i lettori a una condotta, la diserzione, espressamente vietata dalla legge. Inoltre i giudici sostennero che il sacerdote stravolse l’insegnamento della Chiesa cattolica per sostenere convinzioni personali. E’ interessante notare che in questo caso la giustizia civile si fece interprete e tutrice della dottrina cattolica. La motivazione della sentenza fu depositata e venne confermata la condanna a otto mesi di reclusione per il religioso, riconosciuto colpevole di apologia di reato, e a sei mesi per Leonardo Pinzauti, quale responsabile di reato commesso a mezzo stampa.
Testimoni di Geova e anarchici
I testimoni di Geova hanno costituito il gruppo più numeroso di obiettori e di disertori ospitati nelle carceri militari. Nel 1963 su ottanta obiettori riconosciuti dal 1947 ben l’82% era formato da testimoni contro i quali furono instaurati circa 150 procedimenti penali militari, quasi tutti per disobbedienza, tranne qualcuno per diserzione.
E’ attualmente impossibile conoscere i dati ufficiali ed esatti di quanti fossero i giovani che ogni anno si dichiaravano obiettori totali, ma si stima che le condanne per “renitenza alla leva”, “mancata presentazione alla visita militare” e “diserzione” fossero annualmente circa settecento. Tali giovani erano in gran parte testimoni di Geova con una significativa minoranza di anarchici.
Citiamo il caso di una diserzione anarchica. Il 19 agosto 1996 a Torino venne fermato dai carabinieri e arrestato Marzio Muccitelli, disertore anarchico. Muccitelli, rinchiuso nel carcere civile delle Vallette per scontare una condanna di due mesi per un’occupazione effettuata a Pescara, venne condannato a otto mesi di carcere militare per diserzione. Egli dichiarò: “Verso la fine del CAR mi ero accorto che la vita militare mi stava trasformando. I gesti, le azioni, persino i pensieri diventavano meccanici. Sentivo che la mia individualità si stava spegnendo lentamente, che una garrota invisibile manovrata da un boia, altrettanto invisibile, strozzava la mia coscienza. Era naturale; quando i giorni si susseguono uguali, quando devi fare sempre le stesse cose, a che ti serve una coscienza, un’individualità? (…) Io che sono uno spirito libero e non ho voglia di sottomettermi a nessuno ho scelto la strada più logica e, perché no, più divertente per esprimermi: ho disertato. La sera del 17 gennaio ho preso le mie cose, sono uscito e mi sono scordato di rientrare”. Muccitelli richiese alla procura militare di La Spezia la conversione della pena militare in civile. Infatti la detenzione in un carcere militare lo avrebbe portato a scontrarsi nuovamente con quella serie di regole e riti (divisa, cubo, barba e “signorsì”), che con la sua scelta aveva già rifiutato. Nel mese di novembre Muccitelli venne trasferito nel carcere militare di Forte Boccea a Roma. All’epoca del suo arresto si ebbero manifestazioni di protesta a Torino, a Bologna e a Trieste. In quest’ultima città il cippo di san Giusto, monumento ai bersaglieri, venne deturpato con una scritta effettuata da ignoti, che collocarono anche una finta lapide in cui si inneggiava ai disertori.
Obiezione di coscienza e diserzione
Le gerarchie militari dal loro punto di vista hanno considerato l’obiezione quasi come una diserzione legalizzata.
L’on. Caporali, che aveva presentato alla Costituente un emendamento volto ad assicurare “l’esenzione dal portare le armi per coloro i quali vi obbiettino ragioni filosofiche e religiose di coscienza”, affermò: “gli obiettori di coscienza non sono degli irregolari, essi non devono confondersi con i disertori, essi chiedono di servire la patria in umiltà rivendicando il diritto di non tradire i principi spirituali ai quali sono legati, alle loro convinzioni umane.”
Quando nel 1948 Pietro Pinna effettuò la prima obiezione per motivi politici, gli anarchici si schierarono a suo favore. “Umanità nova” confrontò l’obiezione con la renitenza alla leva e optò per la prima, considerando la diserzione un modo per salvare solo la propria vita e la propria coscienza e invece valutando l’obiezione come un incitamento nei confronti di altre persone a trovare lo stesso coraggio di salvarsi e di lottare insieme.
Dopo la seconda guerra mondiale nel codice militare non esistevano norme che menzionassero l’obiezione di coscienza e gli obiettori venivano giudicati per il reato con il quale manifestavano il loro rifiuto: renitenza alla leva, quando non si presentavano alla visita; mancanza alla chiamata, quando dopo l’arruolamento non si presentavano alle armi; rifiuto di obbedienza, quando si presentavano per esprimere la loro obiezione, in genere rifiutandosi di indossare l’uniforme militare; o ancora diserzione in tempo di pace.
Nel 1950 venne rinchiuso nel carcere militare di Gaeta il ventunenne Mario Barbani di Ozzano Emilia, disegnatore edile. Il 23 giugno di quell’anno durante una rivista militare nel cortile della caserma dell’XI C.A.R. di Palermo il giovane, giunto con il suo reparto all’altezza della tribuna delle autorità, abbandonò le file e si presentò davanti al capo di stato maggiore dell’esercito generale Marras, deponendo ai suoi piedi il fucile e dichiarando: “Depongo le armi che mi sono state consegnate personalmente”. Fu subito arrestato e venne processato tre giorni dopo per direttissima. Il collegio giudicante era presieduto dal generale Menzio; la difesa fu affidata all’avvocato Pierfranco Bonocore che, pur essendo difensore d’ufficio, svolse il suo compito degnamente e con coraggio. Interrogato, Barbani affermò di non aver rivelato le sue convinzioni antimilitariste all’atto dell’arruolamento per aver voluto collaudarle con l’esperienza del servizio militare; le aveva in seguito espresse al suo tenente e al comandante di compagnia, ma senza effetto alcuno e allora aveva deciso di dimostrarle direttamente al generale Marras. A seguito di questo fatto il comandante della compagnia venne posto agli arresti. Il tribunale condannò il giovane a un anno di reclusione con le attenuanti generiche. Al termine del processo, quando Mario Barbani uscì ammanettato, una sessantina di giovani lo applaudì; fra di loro vi era anche un sacerdote cattolico che esclamò: “Non bisogna dare le armi a chi non le vuole usare”. Intervennero allora i carabinieri per disperdere il gruppo. Il giovane detenuto raggiunse gli obiettori Elevoine Santi e Pietro Ferrua a Gaeta, ma fu posto in un reparto separato. Un particolare: un gruppo di lavoratori disoccupati di Bologna gli inviò come forma di sostegno un vaglia di lire cinquecento. Barbani nel 1952 fu nuovamente posto in prigione e il 27 gennaio 1953 fu condannato per diserzione ancora a cinque mesi e dieci giorni di reclusione con le attenuanti generiche e anche quelle di particolare valore morale e sociale. Ma il pubblico ministero presentò ricorso e il tribunale di Milano riformò la sentenza, revocando le attenuanti e applicando altri tre mesi di pena. Per espiare questa residua detenzione Mario Barbani venne di nuovo arrestato a Bologna il 23 gennaio 1954 .
Nel 1963 Elevoine Santi, che nel 1951 era espatriato clandestinamente per non dover essere costretto a svolgere il servizio militare, rientrò in Italia per visitare la fiera campionaria di Milano e in un albergo di quella città due guardie di pubblica sicurezza gli fecero visita, contestandogli un mandato di cattura per diserzione. Ne seguì un processo ed egli fu difeso dagli avvocati Bruno Segre e Salvatore Barto. La sua accusa riguardava la diserzione con l’aggravante del passaggio all’estero per una durata superiore ai sei mesi, oltre alla recidiva, ma i contatti che tenne in Svezia con le autorità italiane nell’ansia di poter tornare presto a vedere il suo paese furono ritenuti dal tribunale come elementi che avevano interrotto il suo stato di latitanza. In considerazione di ciò il tribunale militare dichiarò di non doversi procedere per amnistia.
Nel mese di agosto ’93 i movimenti pacifisti organizzarono una marcia della pace a Sarajevo, denominata Mir Sada, alla quale parteciparono anche sedici obiettori di coscienza in servizio civile. Essi, non avendo ottenuto la necessaria autorizzazione al distaccamento temporaneo di servizio, decisero di partire comunque, anche a rischio di essere imputati del reato di diserzione. Con la loro presenza vollero affermare il diritto degli obiettori a partecipare, durante il servizio civile, a missioni di pace e solidarietà ovunque nel mondo, a sostegno di popolazioni i cui diritti umani venivano violati. Poiché la legge n° 772 non prevedeva che si potesse prestare servizio civile anche all’estero, l’autorizzazione auspicata dagli obiettori sarebbe potuta derivare solo da un decreto legge. I sedici obiettori, prima collettivamente con il supporto dei Parlamentari per la pace e poi individualmente, richiesero al ministero della difesa l’autorizzazione, specificando che il loro distaccamento era sollecitato per un servizio pienamente coerente con la scelta dell’obiezione di coscienza, nonché assolutamente in accordo con le finalità istituzionali e le necessità operative degli enti presso i quali stavano svolgendo il servizio civile. Il giorno della partenza, non avendo ottenuto le loro richieste esito positivo, notificarono ai distretti militari competenti la loro decisione di partire comunque. I rischi che correvano erano di due tipi: un procedimento penale per diserzione, che sarebbe potuto sfociare in una condanna da sei mesi a due anni di reclusione, oppure un procedimento disciplinare con sanzioni amministrative, come l’obbligo del prolungamento del servizio per un periodo corrispondente a quello dell’assenza o addirittura anche la perdita dello status di obiettore. Gli obiettori, riuniti in un coordinamento appositamente creato a cui venne dato il nome “Obiettori a servizio della pace”, decisero che avrebbero rifiutato un prolungamento del servizio, poiché ciò avrebbe neutralizzato il loro gesto di disobbedienza civile. Il ministero non operò poi alcun gesto di punizione nei riguardi dei sedici obiettori.
Molti furono i disertori nella guerra in Yugoslavia. Alexander Langer, per fermare il diffondersi degli scontri, propose di sostenere apertamente coloro che si sottraevano alla guerra: profughi, disertori e obiettori di coscienza.
Conclusione
Come abbiamo detto, alla diserzione è associato il concetto di codardia e di vigliaccheria, mentre per coloro che partecipano alla guerra è riservato l’onore e l’apprezzamento del coraggio. Ma è proprio così? C’è coraggio a bombardare da diecimila metri di altezza popolazioni inermi come facevano gli aviatori statunitensi in Vietnam? C’è al contrario disonore nel sopportare la carcerazione per aver scelto di non imparare a uccidere durante il servizio militare? C’è onore nell’aver fatto parte della Wermacht e nell’aver invaso paesi indifesi? E c’è vigliaccheria nell’essersi rifiutati di far parte dell’esercito nazista e nell’aver accettato di essere condannati a morte per questo? Dov’è l’onore? Dov’è la vigliaccheria? Da quale parte stanno i codardi? E dove sta invece il coraggio? Probabilmente dovremmo rivedere la scala valoriale su cui si basa la cultura della nostra società.

G. ROCHAT, Fascismo e società italiana, Einaudi, Torino 1973, pag. 95, cit. in D. PICCIOLI G. PICCIOLI, L'”altra” guerra, Principato, Milano 1974, pag. 18.
E. FORCELLA A. MONTICONE, Plotone di esecuzione, Laterza, Bari 1968.
D. PICCIOLI G. PICCIOLI, op. cit., pagg. 197-205.
E. RAGIONIERI, Storia d’Italia, Einaudi, Torino 1976, vol. 4, tomo terzo, pag. 2036.
Per capire l’allusione bisogna sapere che i “partigiani della pace” erano un’organizzazione sostanzialmente collaterale al P.C.I. che utilizzò spesso le iniziative pacifiste per scopi propagandistici.
“Il giornale del mattino”, 13 gennaio 1963.
Cfr. “L’incontro”, gennaio 1953.
Cfr. “L’incontro”, febbraio 1954.
Cfr. A. GARZENA, Sedici obiettori di coscienza hanno “disertato” per Mir Sada, in “Dialogo in valle”, n° 8/93, e A. GARZENA, Obiettori in Bosnia, in “Obiezione di coscienza”, n°1/93.
Cfr. B. Aleksov, Disertori nella ex Yugoslavia, Alfazeta, Parma 1995.
“Azione Nonviolenta”, ottobre 1994.
Ode al disertore

Franz Thaler nel marzo del 1944 fu dichiarato abile al servizio di leva e fu richiamato a fine maggio. Prese allora una decisione che segnò profondamente la sua vita: con il sostegno di alcuni amici decise di fuggire nei boschi della val Sarentino e di vivere in solitudine piuttosto che entrare a far parte dell’esercito nazionalsocialista.
Franz Thaler si diede dunque alla fuga e si rifugiò sulle irte pendenze della montagna. Conosceva bene la zona nella quale si muoveva ed era abituato a vivere a contatto con la natura; certo, dover sopravvivere nella solitudine e doversi procurare da mangiare come meglio poteva non fu un’impresa facile neppure per un montanaro come lui. “Sono rimasto nel bosco per quattro mesi vivendo come un animale selvatico”, dichiarò; “facevo attenzione a ogni più piccolo rumore; cucinavo quel poco che trovavo tra le pietre del bosco; i miei amici mantennero la promessa di aiutarmi: c’era chi mi faceva avere un po’ di latte, chi un po’ di farina o del pane”.
L’esercito tedesco non perse tempo a cercare il fuggiasco della val Sarentino; non appena un altro dei fratelli Thaler fuggì sulle montagne seguendo l’esempio di Franz le S.S. si rivolsero semplicemente alla famiglia: se i due fratelli non fossero tornati, i genitori sarebbero stati imprigionati e deportati. Ai due ragazzi invece, se fossero tornati, non sarebbe successo nulla: come previsto avrebbero seguito un corso a Silandro e poi si sarebbero recati in guerra. Così il 22 settembre terminò la permanenza di Franz sui monti: il padre riuscì a rintracciarlo e lo pregò in lacrime di tornare e di presentarsi ai nazisti. Il giovane Thaler racconta di non aver mai creduto alle promesse dei nazisti e di essere tornato solo per amore dei suoi genitori. Che cos’altro avrebbe potuto fare?
La sera in cui tornò a casa trovò i soldati tedeschi ad attenderlo e il giorno dopo partì per Silandro, una località altoatesina dove si svolgevano i corsi di addestramento per i soldati. Il corso durò due mesi. Prima di partire per la Germania per unirsi all’esercito del Reich ai giovani altoatesini veniva data la possibilità di trascorrere un breve periodo a casa; Franz Thaler si vide negare quella concessione: fu portato a Bolzano, dove dovette rispondere dell’accusa di diserzione davanti al tribunale di guerra. Normalmente i disertori venivano mandati a morte, ma visto che Franz Thaler era tornato “volontariamente” e che era ancora minorenne (la maggiore età era ancora calcolata dai ventuno anni) a lui fu concessa una condanna minore: dieci anni di prigionia da scontare nel campo di concentramento di Dachau.
Trascorse quindi tre settimane in carcere. Poi fu trasportato a Dachau. Durante il viaggio venne trattenuto per una notte nel carcere di Innsbruck, dove condivise la cella con un uomo di circa trentacinque anni, che era incatenato a un anello infisso nel pavimento. I suoi abiti erano lacerati, i capelli arruffati e il volto sfigurato da una smorfia di dolore e di paura. Tremava e i polsi gli sanguinavano. Aveva disertato, nascondendosi nei boschi intorno alla città, ma la polizia lo aveva scovato. Durante le ore in cui Thaler si fermò nella prigione ci furono due allarmi aerei. La cella dei due reclusi restò chiusa ed essi non poterono fuggire nel rifugio e temettero di fare la fine del topo sotto i bombardamenti. Durante la notte il compagno di Thaler continuò a gemere e ne aveva motivo: nella cella faceva freddo e non c’erano coperte; inoltre egli, a causa del suo incatenamento, non poteva cambiare posizione, né stendersi. Thaler lo riconobbe in una fotografia che vide dopo la guerra: lo stavano impiccando.
Con l’entrata nel campo di concentramento di Dachau cominciò la vita veramente dura. I disertori non vivevano insieme agli altri detenuti e anche la loro divisa era diversa: non indumenti a righe, ma un’uniforme militare italiana sulla quale era stato dipinto in colore bianco e in grandi lettere “KZ”. Gli alloggi erano costituiti da alcune baracche molto pulite, visto che compito principale dei detenuti era quello di fare le pulizie.
Dopo alcune settimane trascorse a Dachau, Franz Thaler fu trasferito a dicembre nel lager di Hersbruck. Poi di nuovo a Dachau, dove fu posto in un reparto formato totalmente da renitenti alla leva e disertori. L’esistenza di un tale reparto dimostra l’ampiezza del fenomeno del rifiuto dell’arruolamento nell’esercito nazista. Nonostante la vita disperata che le S.S. gli fecero condurre, Thaler riuscì a sopravvivere, anche se in quattro mesi passò da sessantanove a quarantacinque chili di peso. Giunta la liberazione, cadde prigioniero degli statunitensi, che lo scambiarono per un soldato delle SS. Nell’agosto ’45 poté finalmente ritornare dai suoi cari.

Sergio Albesano

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
Richard Nixon contro John Lennon per togliere una possibilità alla pace

Titolo: U.S.A. contro John Lennon (The U.S. vs John Lennon)
Regia: David Leaf, John Scheinfeld
Nazione: Stati Uniti d’America, 2006
Durata: 99′

Il film documentario (da vedere!) è una ricostruzione appassionata e attenta del travagliato decennio dal 1970 al 1980 quando John Lennon, conclusa all’apice la storia dei Beatles, proseguì la carriera solista affiancando al ruolo di rockstar quello di attivista politico. Prima era un musicista che cantava la pace, poi divenne un pacifista che faceva musica. Il lavoro svolto dai registi, con la collaborazione di Yoko Ono, è basato su incartamenti ed atti giudiziari che hanno visto i coniugi Lennon-Ono coinvolti in quella che è stata una vera e propria guerra ai danni del musicista da parte del governo degli Stati Uniti.
John, come si sa, era di Liverpool, ma dopo l’unione con Yoko e lo scioglimento dei Beatles volle trasferirsi a New York, città che amava moltissimo, nella quale si trovava a proprio agio “per il modo di vivere e di pensare”. Negli Stati Uniti aveva molti amici, e venne subito introdotto negli ambienti intellettuali e radicali americani. Partecipava alla vita politica del paese, coinvolgendosi in manifestazioni, concerti, iniziative pubbliche. Il governo non gradiva quella presenza, troppo visibile, troppo scomoda, troppo seguita dai giovani. La CIA e l’FBI (diretta dal famigerato e potentissimo Edgar Hoover, che riferiva direttamente al Presidente Nixon) iniziarono a raccogliere un dossier su Lennon, per documentare le prove di un presunto antiamericanismo dell’ex Beatle. Lennon si impegnò a fondo contro la guerra del Viet Nam, contro l’industria bellica, le spese militari, la politica imperialista, partecipò attivamente al movimento per la pace, anche con sostanziosi finanziamenti. Per fare gli auguri di Natale fece riempire le città americane e le principali capitali del mondo di manifesti con la scritta “War is over” (“la guerra è finita – se tu lo vuoi”, firmati “con amore, John e Yoko, da NY”). Insieme a Yoko comprò intere pagine dei giornali americani per pubblicare i suoi pensieri sulla nonviolenza. Durante la campagna elettorale in ogni angolo d’America dove c’era una manifestazione del partito Repubblicano con Nixon, lì John organizzava un concerto rock di protesta contro la guerra. Alla fine vinse John. Riuscì a stabilirsi definitivamente a NY, fece un figlio con Yoko, e si dedicò a tempo pieno alla paternità. Riconciliato con se stesso e con gli States regalò al mondo intero capolavori come “Working class hero” ed “Imagine”, il manifesto della nonviolenza. Poi, l’assassinio. Ma la parte migliore d’America ha accolto Lennon come un proprio figlio, dedicandogli dopo la sua morte quell’angolo di Central Park dove egli andava sempre a passeggiare con suo figlio, come un americano qualunque. “Dovesse accadere qualcosa a me o a Yoko in questo periodo, non sarà un incidente”, disse profeticamente poco prima di morire, l’8 dicembre 1980.

Mao Valpiana

L’attualità di quella musica e quelle parole

Perché realizzare un film su John Lennon adesso?
E’ sempre attuale parlare di pace. Il modo in cui il governo ha soppresso la libertà di parola, le azioni illegali dei servizi di Intelligence, consistenti nell’uso di intercettazioni telefoniche e pedinamenti, l’uso di agenzie governative per costruire prove false, il fatto che il governo fosse disposto a calpestare la costituzione per denigrare ed espellere un cittadino indesiderato, credo che siano questioni di grande rilevanza per gli Stati Uniti e per il mondo intero di ieri e di oggi.
Una delle cose più interessanti che emergono dal film è l’uso consapevole e coerente da parte di John Lennon del suo stesso mito per un messaggio di pace.
In effetti quando John e Yoko iniziarono la loro campagna mondiale erano già ricchi e famosi. Non avevano assolutamente bisogno di farsi pubblicità! Non avevano nulla da guadagnare dalla campagna in favore della pace, a parte rendere il mondo un posto migliore. Così la loro forte presa di posizione artistica nei confronti della pace era completamente altruistica, lui usava consapevolmente i propri fan per diffondere un messaggio importante. Non era mai accaduto prima, e non è più accaduto dopo. E credo che si debba dire che il suo grande capolavoro, al di là dei Beatles, è stata proprio la sua campagna per la pace e contro la guerra.
Da un’intervista al regista David Leaf.

EDUCAZIONE
A cura di Pasquale Pugliese
Nei conflitti ci sono rischi e opportunità

EDAP (Educare alla Pace):
Il Gruppo di Educazione alla Pace (EDAP) “Marilena.Cardone”, opera all’interno del Centro Studi Sereno Regis di Torino da più di 20 anni. Oggi conta circa una ventina di formatori che in modo più o meno assiduo, a seconda dei casi, offrono la propria esperienza e competenza per realizzare progetti e percorsi formativi rivolti a ragazzi, insegnanti ed educatori, genitori, gruppi di base e istituzioni con lo scopo di diffondere la nonviolenza e l’educazione alla pace. La sede operativa è presso il Centro Sereno Regis, Via Garibaldi 13, Torino
Tutti in teoria si dicono a favore della pace, ma ahimè le guerre continuano ad essere combattute…a tutti i livelli
A partire da questa considerazione il gruppo EDAP è impegnato nella formazione e diffusione di una cultura nonviolenta e nell’educazione alla trasformazione nonviolenta dei conflitti. Infatti, la sola buona volontà non basta per riuscire ad assumere atteggiamenti differenti da quelli violenti quando si è coinvolti in un conflitto. Per poter essere praticato, tale comportamento differente deve essere preparato.
Tutti abbiamo una percezione spiacevole e dolorosa del conflitto perché lo associamo automaticamente alla violenza, ma esso può essere definito molto semplicemente come situazione in cui emerge una contraddizione di scopi tra due o più parti. La lingua cinese mette in luce l’ambivalenza della parola “conflitto” composta da due ideogrammi che significano “rischio” e “opportunità”, esprimendo in tal modo la possibilità che esso possa essere distruttivo o costruttivo, a seconda di come viene agito.
La nonviolenza è allenamento continuo
Il gruppo di formatori che compongono l’Edap provengono da ambiti lavorativi talvolta anche molto diversi ma condividono le teorie e i metodi del training nonviolento proposti e promossi presso il Centro Studi Sereno Regis grazie ai corsi che ogni anno sistematicamente vi si organizzano (laboratorio della nonviolenza e seminari di approfondimento) e alla possibilità di attingere direttamente al vastissimo bagaglio documentale presente in sede, costituito dalla biblioteca composta di circa 20.000 volumi sul tema della pace e della nonviolenza e grazie anche al contatto diretto con i suoi soci fondatori (molti dei quali hanno lavorato a stretto contatto con i padri della nonviolenza italiana).
La nonviolenza considera il conflitto come centrale nelle relazioni tra le persone e i gruppi umani: una delle sue funzioni, se gestito in modo positivo, è quella di permettere la costruzione di relazioni più giuste, facendo valere e affermando i diritti-doveri di ciascuno. In età evolutiva il conflitto è visto come motore dello sviluppo. Se si è capaci di convogliare le energie coinvolte in un conflitto verso uno sbocco costruttivo, crescere significa entrare in conflitto ed entrare in conflitto significa crescere.
Da un punto di vista nonviolento, educare per sostenere la crescita è possibile solo nello sforzo costante di :
assumere uno sguardo critico che aiuti a comprendere ciò che accade
diventare capaci di individuare la violenza là dove c’è
riconoscere i meccanismi che ne sono alla radice
aiutare le persone a fare leva sulle loro stesse energie per contrastarne la carica distruttiva e disgregante, trasformandola invece in un’occasione di crescita.
I progetti educativi e il metodo
Partendo da questi presupposti il gruppo Edap ha elaborato negli anni una propria impostazione educativa e numerose proposte formative coerenti con essa rivolte a scuole di ogni ordine e grado (sia per gli insegnati che per gli studenti), a gruppi adulti (genitori, membri di associazioni, amministratori pubblici ecc.) e altri ambiti formativi quali università, master e i corsi di specializzazione ecc.
Queste proposte sono raccolte in un catalogo che è possibile consultare anche on-line sul sito: HYPERLINK “http://www.cssr-pas.org” www.cssr-pas.org (nell’area Edap – Formaz. Scuole/Corsi). Ci sono progetti rivolti all’ambiente scolastico come quello per contrastare il fenomeno del bullismo scolastico e quello sulla formazione di mediatori tra pari, altri rivolti a adulti come quello per operatori carcerari e per la gestione dei conflitti condominiali, ma anche progetti all’estero in aree colpite dalla guerra per sostenere la ricostruzione come quello per formare giovani formatori bosniaci e croati alla convivenza e al superamento dei conflitti inter-etnici. Inoltre, intendendo la nonviolenza nella vita delle persone nel senso più pieno e olistico del termine, alcune proposte educative hanno l’ambizione di educare alle pari opportunità e al rispetto dell’ambiente.
Il metodo utilizzato è prevalentemente quello del training nonviolento (il gioco, l’esercizio, il brainstorm, il video, role playing, lavoro di gruppo con produzione di schede e cartelloni ecc.) che permette la sperimentazione e l’azione.

Antonella Cafasso

Centro Studi Sereno Regis
Via Garibaldi, 13 – 10122 Torino (Italy) – Tel: (+39) 011 532824 – Fax: (+39) 011 5158000
E-mail: info@cssr-pas.org  – Indirizzo web: http://www.cssr-pas.org
EDAP edap@cssr-pas.org
Gruppo di Educazione alla Pace
codice fiscale: 97568420018
ONLUS iscritta nel Registro Regionale del Volontariato con D.P.G. n. 1035/95 del 2/3/1995

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina

Niente liti e cassa comune nel “condominio solidale

”Prendete nota di questo indirizzo: Via Farini 32, Torino, a due passi da famosa Piazza Vittorio. Qui ha preso forma il primo e finora unico esempio in Italia di condominio solidale. Che significa? Abbiamo preso spunto dalla festa di presentazione, avvenuta il 9 giugno scorso, per vedere un po’ più da vicino questa singolare realtà.
Era l’inverno del 1998 quando “un gruppo di reduci dei campi estivi MIR/MN piemontesi decise di riunirsi con la necessità di trovare uno spazio abitativo utile per condividere esperienze comuni, fatta salva l’individualità di ognuno di essi e la loro vita privata. Cose già sperimentate durante i campi, ma per un periodo limitato di tempo e in momenti non proprio comuni come quelli vacanzieri”, afferma Miria.
Dopo aver valutato diverse soluzioni, ed aver perso e guadagnato alcuni aderenti, una decina di essi decide di collegarsi, per questioni organizzative e per comunità di intenti, alla lombarda ACF (Associazione Comunità Famiglia); insieme presentano un progetto all’Assessorato per le Politiche della Casa di Torino, dove trovano personale sorpreso ma anche disposto a ragionare su alcune soluzioni comunitarie all’interno del perimetro della città. Nel 2005 si rendono disponibili 8 appartamenti (più l’ex locale portineria che fungerà da segreteria dell’associazione) presso un supercondominio di 180 appartamenti appartenente all’Agenzia Territoriale della Casa che gestisce le case popolari torinesi. “Ci hanno aiutato anche quando le pratiche da espletare erano complicate, ci hanno proposto affitti ragionevoli e probabilmente hanno anche valutato che potevamo essere dei buoni affittuari”, ricorda Luigi, il presidente regionale di ACF. “Tutti eravamo alla ricerca di qualche esperienza che dimostrasse la praticabilità dei concetti teorici sull’economia alternativa; io penso sia l’unico modo per dimostrare alle nuove generazioni che, se si vuole ottenere qualcosa di concreto, occorre mettersi in gioco personalmente e non aspettare sempre che qualcuno ti aiuti”.
Ad alcuni obiettivi di evidente rilevanza sociale, come l’accoglienza, presso uno degli appartamenti lasciato disponibile, di persone in stato di temporaneo bisogno, segnalati da associazioni amiche, il gruppo punta a raggiungere risultati che abbiano un impatto economico alternativo, per sé stessi e di riflesso per il mondo esterno. “Vivendo a stretto contatto, il condominio solidale riesce a mettere in atto politiche di mutuo aiuto in diversi ambiti”, afferma Miria, funzionando in pratica come una continua banca del tempo: si va dal sostegno in caso di lavori faticosi o di difficoltà, al mutuo prestito dei mezzi di trasporto (biciclette ed autovetture) per gli spostamenti quotidiani.
ACF ha voluto affermare anche in questa comunità tre punti che ritiene fondanti per l’associazione: la condivisione dell’esperienza, l’accoglienza di persone esterne in modo da socializzarla, e l’utilizzo di una cassa comune per operare scelte economiche condivise. Tutti gli aderenti versano il proprio stipendio, se lo percepiscono, nella cassa, ed ognuno può prelevare ad inizio mese la somma di cui ritiene aver bisogno per arrivare alla fine del mese stesso. Dopo aver pagato le spese comuni e le rate dei prestiti contratti per ristrutturare gli alloggi, l’eventuale utile di fine anno viene versato ad ACF nazionale, che provvede ad utilizzarlo per far nascere e crescere iniziative simili.
“La nostra intenzione è quella di arrivare al più presto ad effettuare una spesa collettiva con i soldi della cassa, in modo da renderla più conveniente per tutti”, afferma Giovanni. “Ho proposto anche di fare un solo collegamento internet ADSL, da piazzare nel locale della segreteria, in modo da ottimizzare il costo dell’allacciamento: nessuno rimane mai collegato più di un’ora al giorno” aggiunge. Probabilmente la condivisione potrà essere in futuro estesa a molte altre attività.
“Non abbiamo inventato niente, negli anni passati le famiglie allargate, soprattutto nei paesi, funzionavano già così. La nostra originalità sta solo nel fatto che la nostra esperienza avviene nel centro di una grande città, e senza alcun legame di parentela tra noi”, afferma ancora Giovanni. L’apertura verso l’esterno ha portato il condominio ad aderire al Servas (“in ogni caso quasi tutti ne facevamo già parte”, dice ridendo Miria) e a mettere a disposizione, per la sezione piemontese del MIR/MN e per il Centro Studi Sereno Regis che risiede in città, i locali per il pernottamento dei relatori che partecipano ai convegni da essi organizzati. Con un’offerta libera inoltre, chiunque può approfittare di una accoglienza praticamente in centro città per ammirare una Torino trasformata dagli eventi olimpici dell’anno scorso, e contemporaneamente conoscere un’esperienza di economia alternativa che speriamo possa affermarsi anche altrove.

PER ESEMPIO
A cura di Maria G. Di Rienzo
I sette valori nonviolenti per essere una “babaylan

”C’erano una volta le babaylan (“donne mistiche”), le specialiste della comunità filippina nei campi della cultura, della religione, della medicina e della conoscenza dei fenomeni naturali, chiamate ad istruirsi per rivestire questo ruolo onorato da un sogno, da un’esperienza traumatica o da una babaylan più anziana… Prima dell’invasione degli spagnoli nel sedicesimo secolo, queste donne erano il perno sociale e spirituale dei loro gruppi… Ma no, non vi sto raccontando una fiaba. Le babaylan, anche se in minor numero di un tempo, ci sono ancora. E il cuore del loro insegnamento, il centro di una visione olistica che non crea immagini del divino poiché “siamo tutti un unico respiro, e dio è in ciascuno di noi”, è la risoluzione nonviolenta dei conflitti.
Aperte a tutto ciò che è buono e che aiuta la vita, hanno incorporato il messaggio di pace cristiano nei loro canti di preghiera: traducendolo nei linguaggi nativi, perché “dio ci capisce se parliamo la lingua materna”. L’educazione alla pace fornita dalle babaylan comincia molto presto, diretta ai bambini. Ciascuna bimba o bimbo apprende a maneggiare il conflitto in modi appropriati a seconda che esso si dia tra i suoi pari, con le persone adulte e le babaylan stesse; violenza e guerra sono ovviamente escluse da questa visione, perché distruggono e non gettano ponti. Il concetto di base è che non potremo andare con grazia e gentilezza sul ponte che attraverseremo dopo la morte (“tumatawid”), ne’ trovare guida durante il passaggio, se non abbiamo amato e curato in questa vita, che è sacra.
E poiché tutta la vita è sacra proteggere gli animali, l’acqua, la terra, l’aria sono compiti irrinunciabili: le babaylan odierne sono ecologiste che hanno dato più di un filo da torcere a chi voleva e vuole deforestare o devastare i loro ambienti naturali. “Non può essere altrimenti”, ha detto una di loro, “Quando ci tolgono la foresta, strappano dio via da noi. Poiché tutto è interconnesso, la pace e la giustizia sono ingredienti indispensabili per la vita sulla terra.” Forse state immaginando un mucchietto di donne prive di vero potere, illetterate e confinate in remoti villaggi, ma le babaylan valutano l’istruzione quanto il bilanciamento, ed il mantenimento delle loro tradizioni non confligge con l’apprendere cose nuove. Una babaylan odierna è per esempio l’ecologista Kuntala Lahiri-Dutt, attivista di punta delle lotte ambientaliste delle comunità locali, esperta delle istanze relative all’acqua ed al mantenimento degli ecosistemi. Kunthala lavora per diverse università locali ed estere, ed è presente come specialista nel “Programma per il maneggio delle risorse naturali nell’Asia del Pacifico”. Il suo prossimo lavoro per il programma, una serie di studi e progetti sull’acqua, uscirà nel 2008.
La preparazione per diventare una babaylan è lunga, poiché abbraccia diversi campi, ed incorpora in una sola figura i ruoli di sacerdotessa, guaritrice, saggia e profetessa. I sette valori che un’aspirante babaylan deve conoscere e maneggiare, però, credo possano essere d’ispirazione anche a noi.
1) “Kalooban at patotoo”: imparare ad essere umani, a definire se stessi come umani. La manifestazione della verità e dell’integrità del sé, il piantare i semi della coscienza.
2) “Kabuhayan at kaalwanan”: imparare a fare, a nutrire l’intelligenza che in noi sostiene la vita. Il capire che il godere di salute e cose buone avviene per condivisione e inclusione, e che un’esistenza umana “sostenibile” per il pianeta basa sulla reciprocità.
3) “Karunungan at kaalmang-bayan”: imparare ad imparare! Il nutrire insieme la nostra conoscenza collettiva. La vita ci insegna come si fa, sostengono le babaylan, e ripete le sue lezioni sino a che non le comprendiamo.
4) “Kapwa at kapatiran”: imparare a vivere e lavorare insieme come un popolo compassionevole. E’ il riconoscimento delle differenze e del loro valore, il vederle all’interno del proprio gruppo.
5) “Pagkakaisa at pamathalaan”: imparare a realizzare una visione ed una missione collettive. Si tratta della capacità di interpretare la situazione politica in cui viviamo e di decidere che azioni intraprendere al proposito. “Nessuno di noi da solo è buono quanto tutti noi insieme”.
6) “Lakas at tibay ng loob”: imparare a sostenerci spiritualmente. In sostanza si tratta di coltivare una certa “forza di carattere”.
7) “Bathala na”: imparare a sviluppare il dono finale della perseveranza, della continuità. “Bathala” significa dio. “Bathala na” è la determinazione che si erge davanti all’incertezza, è il coraggio di dedicarsi alla pace ed alla giustizia. E’ il punto finale di una filosofia sistemica che vive la Terra come spazio sacro e casa di diversi popoli e gruppi, e dove chi è guida politica lo è fino a che lega i suoi atti al rispetto ed alla reciprocità.

SERVIZIO CIVILE
A cura di Claudia Pallottino
Analisi del nuovo Bando 2007, crescono gli Enti, calano le risorse

L’inizio dell’estate è stato salutato dal primo bando del 2007 per l’avvio di volontari in Servizio Civile, segno tangibile dello stato delle cose del sistema Servizio Civile Nazionale.
Un progetto su due è stato bocciato, i restanti sono stati avviati solo in parte. Tanti i motivi, tra tutti la diminuzione delle risorse, la faticosa attivazione delle Regioni, una partecipazione in fase progettuale di Enti a dir poco spropositata, tanto che il Sistema così com’è non è in grado di assorbirla.
A sei anni dalla nascita di questa Istituzione, giovane in tutti i sensi, si parla già di riforma della normativa senza avere ancora chiara e tantomeno condivisa la sua identità; ci si rende conto che il Servizio Civile, così com’è regolato, fa molta fatica a crescere.
Perché bisogna crescere e bisogna farlo con qualità.
Lo sviluppo esponenziale, si sa, è indice di successo, e ogni rallentamento è un campanello d’allarme che spinge a fare qualcosa, qualsiasi cosa, anche a cambiare direzione prima d’aver capito, o almeno concordato, qual è la meta da raggiungere.
Nel frattempo, mentre ci si consulta sulle regole per poter camminare, la realtà operativa – come sempre – ci porta le preoccupazioni quotidiane che ci fanno vedere i pochi passi fatti e i pochi altri ipotizzabili davanti al nostro naso: Ti hanno approvato il progetto? Avrai volontari anche quest’anno? Come funzionerà il prossimo anno senza quelle attività? Cosa devo aggiungere o cambiare nel progetto per poter avere punti in più?
Sono due dimensioni di riflessione più che legittime, ma non possiamo esimerci dal sognare una prospettiva di ben più lungo periodo, che ci aiuti a capire come lo vogliamo questo Servizio Civile, cosa dovrà essere, che valori dovrà smuovere, chi dovrà attivare.
Oggi più che mai c’è bisogno di arricchire il percorso culturale per garantire una prospettiva di vita a lungo termine a questa Istituzione civile di Difesa.
Spunti di riflessione
Il SCN e la sua evoluzione ci pone nella necessità di affrontare almeno quattro focus di riflessione:
La rivitalizzazione della Costituzione, per operare il “passaggio da una concezione individualistica della cittadinanza, come rapporto esclusivo tra cittadino e Stato, ad una visione sociale della stessa, nell’ambito della quale l’esercizio della libertà è finalizzato anche “alla realizzazione di valori sociali condivisi e fissati dalla Costituzione, per il perseguimento dei quali i cittadini hanno il dovere di attivarsi”. (cfr. Francesco Dal Canto, su “Il servizio civile tra Stato e Regioni. Bilancio e prospettive a cinque anni dalla legge 64/01”, atti del seminario svoltosi a Pisa il 27.10.2006 in corso di pubblicazione).
L’attualizzazione del concetto di “Difesa della Patria”, rielaborando le teorie nonviolente e non solo, approfondendo ancora di più il tema della transizione e delle integrazioni possibili e delle opportunità di sperimentazione, rendendolo un tema di facile accesso a quanti vengono coinvolti dal SCN.
La sopravvivenza del dialogo tra le generazioni. Oggi più che mai è necessario confrontarsi con i giovani, volontari e non, sui temi proposti dal Servizio Civile ma non solo: sulle prospettive future (la forte partecipazione al SCN dei giovani del Sud, non vorrà forse indicare che non è la voglia di lavorare che manca?), sulle esigenze (siamo sicuri che il raggiungimento dell’autonomia dalla famiglia dai 25 anni in su è desiderabile da tutti?), sui diversi punti di vista e vissuti in merito alla solidarietà, alle libertà, ai diritti e i doveri di un cittadino del mondo di oggi.
L’evoluzione delle Istituzioni, dei rapporti che le connettono, delle strategie di governo che assumuno. Istituzioni che sempre di più “esternalizzano” i servizi, sono autonome, convivono a suon di sussidiarietà e di piani triennali, nascono, crescono e non muoiono mai. Il SCN come si dovrà posizionare rispetto ai vari Ministeri, agli Enti Locali e rispetto all’Europa?
Provando a camminare anche solo su questi sentieri si può dire che – nonostante tutte le sue fatiche di oggi – il SCN ci sta implicitamente (o forse involontariamento) spingendo verso la ricerca culturale e progettuale di una Difesa Civile che non sia armata, che ponga le basi perché ogni cittadino faccia suo il motto di Don Milani “I care”, e vi si riconosca, lo ritenga desiderabile. Questo apre anche il tema di come comunicare con i giovani, che cosa di reale, tangibile e condivisibile abbiamo da offrire loro. Il confronto è spontaneo con le leve utilizzate per invitare gli stessi giovani ad una carriera militare (v. box).
Chi pensa che l’Istituzione Servizio Civile debba vivere a lungo è chiamato a prendersene cura in prima persona, senza deleghe.

PICCOLO ESEMPIO DI UNA DELLE MODALITA’ DI RIPRODUZIONE DI UN’ISTITUZIONE CHE HA IDENTITA’ E OBIETTIVI DEFINITI:
(Dal concorso del 19/12/06 per il reclutamento di 156 allievi al primo anno del 189° corso dell’Accademia militare di Modena)
Requisiti
essere un/a cittadino/a italiano/a
avere tra i 18 e i 22 anni
avere un diploma di scuola media superiore
non essere stato obiettore di coscienza
Prospettive
una carriera che ti darà prestigio e una preparazione ad altissimo livello offrendoti opportunità uniche
una professionalità che ti consentirà di essere padrone della situazione anche nelle circostanze più critiche
una vita di grandi soddisfazioni che ti deriveranno dal comando di uomini e dalle possibilità di giungere ai vertici dell’Istituzione Militare
una vita da protagonista
Vantaggi
L’Accademia ti offre una laurea in Scienze Strategiche, Ingegneria, Medicina o Chirurgia, Farmacia o Veterinaria con un elevato livello di qualificazione nel mondo del lavoro.

MOVIMENTO
A cura della Redazione
Energie pulite e rinnovabili per un nuovo modello di società

Malgrado sia opinione pubblica erroneamente diffusa da mass media e multinazionali del petrolio che occorra “più energia” per sopperire ai crescenti consumi, è necessario invece, come unanimemente concordano gli studiosi del settore, andare esattamente controcorrente, riducendo drasticamente il nostro impatto sull’ambiente e utilizzando fonti alternative, pulite e rinnovabili al posto dei combustibili fossili. Questo per tentare un’inversione di tendenza del processo distruttivo che sta portando conseguenze catastrofiche al pianeta, purtroppo già ampiamente percepibili come il rapido surriscaldamento degli ultimissimi anni.
Un dibattito interessante (“Energia. Opzioni positive per un nuovo modello di sviluppo”, organizzato dal Movimento Nonviolento di Livorno il 16 marzo scorso) si è inserito nel tessuto livornese oggi gravato da un’ipotesi di forte impatto ambientale e sociale: la costruzione di un impianto di rigassificazione al largo delle coste tra le città di Livorno e Pisa. Malgrado si tratti del primissimo esperimento al mondo nel suo genere (off-shore, ovvero galleggiante su nave), il peraltro costosissimo impianto, è stato presentato ai cittadini come necessario, transitorio, non inquinante e sicuro, mentre solleva enormi dubbi e notevoli perplessità in ordine a tali caratteri.
Dai contributi dei 3 esperti intervenuti al dibattito sono giunti dati a suffragio di tali ipotesi.
Giampietro Ravagnan (titolare della cattedra di microbiologia alla Facoltà di Scienze Ambientali di Venezia) ha trattato la questione energetica dal punto di vista dei “costi” sottolineando che è stata spesso decantata la competitività del nucleare rispetto alle altre fonti energetiche: è necessario invece sfatare questo assunto, perché non tiene assolutamente conto né dell’ammortamento nel tempo della costruzione delle centrali, né dell’impatto ambientale né di quello sulla salute umana e delle altre specie animali.
I sostenitori dell’economicità del nucleare considerano in sostanza soltanto il valore finale della produzione, trascurando – tra l’altro – che in nessuna centrale è stato ancora compiuto tutto il ciclo, ossia i costi di smaltimento delle scorie nucleari non sono stati ancora calcolati, e si presumono di impatto ambientale tanto più alto quanto maggiore è il valore ambientale del sito interessato. Dunque è tutt’oggi sconosciuto il costo finale del nucleare.
Una delle fonti di energia rinnovabile deriva dalle Biomasse, e l’ottimizzazione dell’energia derivante da queste fonti è, per il settore agricolo, una sfida di grande portata. Inoltre è da considerarsi un altro aspetto importante: la produzione di biomassa ha come positivo “effetto collaterale” di mimimizzare il cambiamento climatico. Si ha infatti una mitigazione dell’effetto serra perché la pianta agisce come una sorta di “spugna” assorbendo la CO2 eccedente.
Michele Boato (direttore della rivista “Gaia” e presidente dell’ “Ecoistituto Veneto”) ha sottolineato con forza come sia basilare comprendere che la terra non ha un problema energetico: non l’avrà per alcuni miliardi di anni: il problema è invece la schiavitù umana nei confronti dei combustibili fossili.
Soffermandosi in particolare sull’energia solare, Boato avverte che prima di affrontare il problema della produzione dell’energia è necessario tuttavia ricordare che fondamentale è il risparmio energetico, ad esempio con le cosiddette “case passive”, in Italia assai rare (soltanto 2-3 esemplari) costruite in modo da non avere bisogno di un impianto di riscaldamento e totalmente autosufficienti, anche grazie all’utilizzo di un’efficiente sistema di pannelli solari.
Proprio a proposito del solare occorre guardare con ottimismo alla nuova legge imposta dalla finanziaria che prevede ben il 55% di detrazione fiscale (con IVA al 10%) per i cittadini che vogliano istallare pannelli solari o simili (caldaie a condensazione ecc) detraibili in 3 anni.
Ali Rahimian (ingegnere esperto in tecnologie e impiantistica per le energie rinnovabili) ha sottolineato che per quanto riguarda l’energia eolica è evidente che è impossibile prescindere da un impatto visivo importante, deficit però ampiamente compensato dal rendimento altamente competitivo: basti pensare che con 2 mgwatt (corrispondenti ad un singolo aerogeneratore) si copre il fabbisogno energetico di ben 2400 famiglie.
Del resto in Danimarca, dove l’utilizzo dell’energia eolica è massiccio, quello che per noi – speriamo – sarà futuro prossimo, è già realtà: il governo si è posto infatti l’obiettivo di coprire, entro il 2015, il 50% del fabbisogno energetico soltanto con l’eolico.

Ilaria Nannetti

Di Fabio