• 21 Novembre 2024 14:07

Azione nonviolenta – Luglio-Agosto 1998

DiFabio

Feb 8, 1998

L’attualità
NASCE LA PAGODA DELLA PACE, MUORE LA BASE MILITARE
Mao Valpiana

L’argomento
IL MITO DI GANDHI AL SERVIZIO DEL COMPUTER
Salman Rushdie

UN MITO DEL ‘900 E L’IMPORTANZA DEL DIGIUNO
Adriano Sofri

GANDHI, L’UOMO NUOVO DI FINE SECOLO
Antonino Drago

L’obiezione
FORZE DI PACE: QUALE RUOLO PER I PACIFISTI
Roberto Minervino

Dal Nord al Sud
UNA FIRMA PER I LORO DIRITTI
UNA FIRMA PER LA TUA COSCIENZA

Pianeta India
IL BUDDHISMO E L’OPERA DI ASOKA
Claudio Cardelli

Campagna Nestlé
TANTE FIRME CONTRO LA NESTLE’
Paolo Macina

Il fucile spezzato
L’INDIFFERENZA GENERA GUERRA

Recensioni
LEGGERE IL KOSOVO

Ci hanno scritto

IL PROBLEMA DEL TEMPO LIBERO E DEL TEMPO OCCUPATO
Nasce la Banca del Tempo: ma per farci che cosa?

di Maria Luisa Terzariol

Il concetto di “Banca del tempo” è nato nei paesi anglosassoni con la dizione “LETS” (local exchange trade system, ossia sistema di scambio e commercio locale) per scambiare, su base volontaria, beni e prestazioni senza l’intermediazione del denaro.

Partecipare alla Banca del tempo (nel seguito BdT) significa mettere parte del proprio tempo a disposizione dei bisogni delle persone, delle famiglie, della comunità, ricevendo in cambio prestazioni equivalenti. Maria porta a passeggio il bambino di Giovanni; Giovanni lava l’auto di Luisa; Luisa fa la spesa per Patrizia e così via fino a che alla fine il cerchio si chiude.

La BdT funziona come un’agenzia di credito, dove non si deposita denaro bensì la propria disponibilità a scambiare prestazioni non professionali con gli altri aderenti, usando il tempo come unità di misura. Nasce dalla considerazione che ciascuno di noi ha una serie di abilità o di passioni che nel proprio lavoro non riesce a sfruttare, ma che metterebbe volentieri a disposizione di altri, così come ha dei compiti che non sa o non può svolgere al meglio. In questo senso va chiarito che la BdT non è una forma di volontariato, perché il tempo “investito” – anche se non frutta interessi – viene comunque accreditato a favore dell’ “investitore”, che potrà avere indietro prestazioni equivalenti. A seconda del tipo di BdT può esserci o meno una perfetta parità tra tutte le ore di lavoro. Nel primo caso, per esempio, un’ora di servizio di una baby-sitter equivarrà esattamente ad un’ora di consulenza di un avvocato.

Un problema: il valore di un’ora di lavoro

E’ un po’ come creare una società nella quale tutti i lavori, oltre ad avere la stessa dignità a parole, hanno anche lo stesso valore nei fatti. Utopia? Egualitarismo velleitario? O piuttosto riflessione sul risultato del lavoro inteso come valore d’uso, e non sul suo costo inteso come merce soggetta alla legge della domanda e dell’offerta? Perché se è vero che l’avvocato può pagare un’ora di baby-sitter con pochi minuti di una sua prestazione, questo è possibile solo perché ci sono tante ragazze in cerca di lavoro e pochi avvocati disoccupati. Esaminando più da vicino le due necessità, quella dell’avvocato di custodire il figlio e quella del suo cliente di avviare una lite col vicino, è probabile che sia l’avvocato ad avere più bisogno della baby-sitter di quanto il suo cliente abbia bisogno di lui, senza contare che la cura dei bambini è forse il lavoro di massima responsabilità cui si possa pensare.

Ma il punto centrale delle esperienze di BdT (che iniziano ad essere diffuse anche in Italia) è nella rete di contatti, relazioni e amicizie che si va formando attorno alla “Banca”, al punto che molti la considerano come di uno dei mezzi per far rinascere le comunità locali.

La progressiva riduzione dell’orario di lavoro, lo sviluppo del “terzo settore” ed il ritrarsi dello Stato, il crescente senso di isolamento e la diffusione delle tecnologie informatiche sono tutti fattori che sembrano a favore dello sviluppo di queste iniziative. Ma è proprio tutto da condividere, o è il caso di approfondire il concetto di “mettere il tempo in una banca”?

Accumulare il tempo?

L’idea di “accumulare tempo”, risparmiandolo da altre attività così da averne a disposizione una maggior quantità per poter fare altre cose, è esattamente il contrario di quella convivialità che Ivan Illich ha introdotto, a partire dalla metà degli anni settanta, nel dibattito sull’organizzazione sociale e sull’uso del tempo nella moderna società capitalistica e che tanta parte ha poi avuto nei movimenti di protesta di quegli anni e nella rivendicazione del diritto a riappropriarsi del proprio tempo.

Se la BdT, magari organizzata dal Comune con una struttura burocratica, un budget economico e una rete informatica per ottimizzarne le prestazioni, diviene il surrogato di quella gratuità e familiarità che ha da sempre caratterizzato il tradizionale “buon vicinato”, allora risulta perfettamente funzionale ad una organizzazione sociale dove dominano isolamento e competitività. Il senso di alienazione del lavorare-per-vivere-vivere-per-lavorare viene affrontato nei suoi sintomi, non nelle sue cause.

Non è possibile superare l’isolamento in cui l’individuo è costretto dall’attuale strutturazione del tempo e delle relazioni sociali, semplicemente organizzando scambi di servizi nella speranza che ciò da un lato copra i buchi che lo smantellamento dello stato sociale apre e dall’altro eviti frustrazioni e disagi, con i relativi costi in termini di ordine pubblico e di contenimento del malessere, che può sfociare anche in rivolte violente – basti pensare ai gravi incidenti verificatesi nelle periferie francesi -.

É certamente vero che, per esempio, le tecnologie informatiche “fanno risparmiare tempo”, ma il pagare la bolletta telefonica via terminale o fare la spesa su Internet non mi permettono di uscire dalla mia stanza e magari incontrare un amico, far due chiacchiere o semplicemente prendermi del tempo per fare una passeggiata. Il tempo liberato, ora che sono state distrutte tutte quelle reti di relazioni sociali che ne permettevano un uso conviviale, va impiegato, fatto “fruttare”; non è ammesso l’ozio, se non si ha nulla da fare ci si annoia e ci si sente inutili, ed ecco che c’è subito un’efficiente organizzazione che organizza questo tempo liberato per farlo divenire nuovamente tempo impiegato, produttivo, come se il non aver nulla da fare, il non produrre, fosse vuoto e non possibilità per pensare, creare, ” agire non agendo”.

C’è infatti un’altra riflessione da fare sull’uso del tempo: ogni tecnologia che promette di “far risparmiare tempo” produce una accelerazione globale dei meccanismi sociali che si ritorce puntualmente nel suo contrario, in una effettiva carenza di tempo da parte dei più svantaggiati. In altri termini, se tutti “vanno più in fretta” chi non se lo può permettere finisce per restare sempre più indietro: senza un telefono cellulare si è di fatto irrintracciabili; chi non ha un indirizzo di posta elettronica è stato definito homeless telematico.

Per fortuna alcune esperienze di BdT non sono ancora entrate nella logica del cercare occupazioni ai propri aderenti per impiegarne il tempo libero, ma la tentazione è sempre dietro l’angolo ed è tanto più forte se la rete informale di scambio si struttura in organizzazione burocratica.

Il tempo liberato dev’essere un’opportunità per recuperare e ricostruire una dimensione del vivere la cui centralità sia nella gratuità dei rapporti, nel superamento di una visione delle relazioni basata sullo scambio di prestazioni, per costruire un’alternativa al pensiero unico dell’economicismo come sola chiave e possibilità per costruire la società.
Quant’è buona la soia manipolata!

Volevo ringraziare il signor Pietro Poggi (AN, maggio 1998, pag. 20) per aver voluto stimolare il dibattito su un tema così importante come le manipolazioni genetiche, e rispondere brevemente ai rilievi che pone.

1) La stima del fatturato che il mercato mondiale delle biotecnologie raggiungerà nel 2000, pari a 83,3 miliardi di Ecu (circa 165 mila miliardi di lire), è del Sole/24 Ore del 22 luglio ‘97, il quale si è basato su una valutazione Cefic-Sagb e quindi diversa dal mercato italiano delle barbabietole da zucchero. Solo le multinazionali statunitensi hanno fatturato nel 1997 circa 20 mila miliardi di dollari (35 mila miliardi di lire, cfr. Sole/24 Ore del 24 aprile ’98 e del 13 maggio ‘98). Da diversi altri articoli comparsi nel corso del ’97 sul Sole/24 Ore provengono inoltre tutti i dati relativi alle produzioni mondiali;

2) Paragonando le biotecnologie ad atrazina, pesticidi e DDT intendevo dire che anche alcune invenzioni, presentate in questo secolo come salvatrici dell’agricoltura ed estirpatrici della fame nel mondo, si sono poi rivelate nelle applicazioni di massa estremamente dannose per la salute umana e per l’ambiente, per cui imparare un po’ dagli errori precedenti e tutelarsi in tal senso a mio parere non guasterebbe;

3) Aldilà del fatalismo che avverto nelle valutazioni, mi sembra che il lettore sia d’accordo nel constatare che la brevettabilità delle manipolazioni genetiche mette un’ulteriore e potentissima arma in mano alle multinazionali per costringere i paesi in via di sviluppo a legarsi all’acquisto dei loro prodotti. Quando ormai i semi geneticamente manipolati avranno eliminato tutte le altre varietà di semi presenti in commercio, a causa della loro migliore capacità riproduttiva (eliminando nello stesso tempo quella diversità biologica che potrebbe risultare determinante in caso di epidemie), sarà uno scherzo per i loro venditori stabilirne ogni anno il prezzo, in assoluta autonomia. Il brevetto impedisce infatti, agli agricoltori che usano sementi manipolate, di utilizzare il prodotto che ne deriva come semenza per l’anno successivo.

Concludendo, non intendevo privare il signor Poggi del piacere di provare un alimento geneticamente modificato (se vuole, può già cominciare a provare il gusto del Toblerone, che ad insaputa dell’opinione pubblica è già preparato con la soia Monsanto), quanto tutelare la salute mia e dei consumatori che sono tormentati dai miei stessi dubbi, almeno finché non sarà dimostrata con i fatti l’assoluta bontà dei nuovi prodotti.

Paolo Macina

(…)

città senza nessuno

ma di notte, c’è uno

che suona il piano

dalla finestra aperta

e lo ascoltiamo.

Quanto speriamo

che non lo paghi il Comune

(Stefano Benni, Estate musicale)

“Era sempre più nervoso e angustiato

perché accadeva una cosa inspiegabile:

di tutto il tempo che risparmiava

non gliene restava mai un po’.”

(Michael Endle, Momo)
Congresso LOC

Il 12 e 13 Dicembre 1998 si terrà il Congresso Nazionale della Lega Obiettori di Coscienza, in luogo da definire, come deciso nel seminario svoltosi a Milano il 18 e 19 aprile scorsi.

Nei prossimi numeri pubblicheremo un documento che servirà come base per la discussione congressuale.

La Segreteria LOC invita le sedi locali ad organizzare incontri locali (provinciali o regionali) di preparazione del Congresso e si dichiara disponibile a parteciparvi con propri membri per favorire lo scambio di informazioni e l’omogeneizzazione del dibattito.

INFO: Sede Nazionale LOC – Milano. 02/58101226-8378817.

Chieti: una Mostra storica
Il contributo dei Quaccheri alla ricostruzione 1945-1948

Nel 1947, il Premio Nobel per la pace venne assegnato alle due principali organizzazioni umanitarie dei Quaccheri: il Friends Service Committee, inglese, e l’American Friends Service Committee, americano. Quest’ultimo era stato fondato nel 1917 per portare avanti la testimonianza di pace, contro ogni guerra ed ingiustizia, al fianco delle vittime della prima guerra mondiale, senza alcuna distinzione etnica o geografica.

Tra il 1945 ed il 1948, l’AFSC partecipò – con iniziative proprie o in cooperazione con l’UNRRA (United Nation Relief and Reabilitation Agency) ed altri organismi – all’opera di ricostruzione nei comuni di Palena, Letto Palena, Taranta Peligna, Montenerodomo, Colledimacine, Casoli, Villa Santa Maria, Castel di Sangro, Capracotta, Orsogna, Ortona e Francavilla al mare. Inoltre, principalmente nella provincia di Chieti, svolse anche un’attività con i rifugiati e collaborò alla costruzione dei primi Villaggi del fanciullo, prima a Lanciano, poi a Silvi Marina e infine a Ortona.

In occasione del cinquantenario dell’assegnazione del Premio Nobel, la mostra intende ricordare l’attività dell’AFSC e di altre organizzazioni di volontariato nella provincia di Chieti, insieme ad altre iniziative storico-culturali che potrebbero avere luogo nei comuni che furono coinvolti in questa attività.

Sono previste visite guidate per studenti delle scuole medie superiori, in collaborazione con il Provveditorato agli Studi di Chieti.

Palena (Castello Ducale), 25 luglio – 8 agosto 1998

Alla inaugurazione della mostra saranno presenti rappresentanti e volontari dell’AFSC e di altre organizzazioni.

Comitato Scientifico: Marcello Benegiamo, Costantino Felice, Enzo Fimiani, Luigi Ponziani, Massimo Rubboli (coordinatore).

Collaborazione, contributo e patrocinio: Archivio di Stato di Chieti, Istituto abruzzese per la storia d’Italia dal Fascismo alla Resistenza, Provincia di Chieti, Provveditorato agli studi di Chieti, United States Information Service, Università “G. D’Annunzio” di Chieti.
LA MODERNITA’ DEL MODELLO DI SVILUPPO NONVIOLENTO
Gandhi, l’uomo nuovo di fine secolo
di Antonino Drag

Si può presentare Gandhi in svariate maniere: a) smentendo i molti pregiudizi (occidentali) su di lui; b) illustrando le opere da lui compiute: ne risulta un grande uomo; c) celebrandolo come l’eroe nazionale dell’India, il fondatore della Patria indiana; d) presentando quello che ha insegnato: ne risulta “il maestro della nonviolenza”; e) delineando ciò che egli rappresenta per la storia dell’umanità di questo secolo: al contrario di vari falsi maestri del 1900 che hanno trascinato masse enormi in avventure sciagurate, egli è stato certamente un vero maestro, che ha saputo indirizzare grandi masse su strade sicure e costruttive per tutti. E’ sempre da ricordare quanta ammirazione ne aveva A. Einstein (colui che aveva saputo conciliare le due precedenti teorie fisiche in una nuova); quando questi fu chiamato “maestro”, si schernì, dichiarando che l’unico grande maestro di questo secolo era stato Gandhi.

Seguirò quest’ultima maniera di presentare Gandhi, perché, secondo me, è la più illuminante per il nostro tempo. Premetto che la mia conoscenza di Gandhi viene dalla lettura dei suoi libri e dallo sforzo di applicare il suo insegnamento; ma soprattutto dalla testimonianza del suo discepolo italiano, Lanza del Vasto1), che ho avuto la fortuna di frequentare, come Alleato della Comunità dell’Arca, da lui fondata.

Per riuscire a comprendere Gandhi, occorre utilizzare un’idea guida, quella di “civiltà” (1° concetto chiave). Per comprendere questa dimensione, consideriamo una persona che può essere un termine di paragone per Gandhi. Perché S. Francesco è grande? Lo si comprende quando si considera che la nostra civiltà occidentale è stata dominata dal capitalismo; ma quando questo è nato, S. Francesco ha saputo subito indicare la via alternativa alle alienazioni nelle quali sarebbe caduta la civiltà occidentale nel seguire quel tipo di sviluppo e ha saputo suscitare un movimento alternativo (francescanesimo per la povertà volontaria). In sintesi, ha saputo cogliere sul sorgere una aberrazione strutturale della sua (e nostra) civiltà e creare la via d’uscita collettiva.

Non si capisce bene Gandhi se non lo si colloca dentro lo scontro di due civiltà, quella coloniale europea-britannica e quella tradizionale dell’India. Al tempo di Gandhi il superbo Occidente riteneva di avere il monopolio della civiltà, tanto da presentare la sua come l’unica civiltà superiore; cosicché si dava il diritto di cancellare le altre civiltà, colonizzandone, in quanto arretrate, le popolazioni. Gandhi è quel colonizzato che ha saputo indicare l’alternativa politica e culturale alla violenza dell’Occidente.

Notiamo che una popolazione che subisce il giogo coloniale di solito recupera una sua identità collettiva mediante la religione tradizionale, che allora viene rinnovata. Sotto il colonialismo più potente della storia umana, la religiosità indù è stata rinnovata da Gandhi; .che ne ha valorizzato una parte (nonviolenza, ecc.) e ha cercato di farne decadere un’altra (passività, intoccabili, ecc.). Lo ha fatto da laico, analogamente a come il laico Gesù, sotto la dominazione coloniale romana, rinnovò radicalmente la religiosità ebraica. E come laico, Gandhi è passato da una religione solo metafisica ad una religione attiva, rivolta a questo mondo e a questo tempo. In particolare, dall’idea che “Dio è la Verità” Gandhi è passato all’idea che “la Verità è Dio”: noi non esauriremo mai il nostro impegno di ricerca; per questo motivo l’uomo si deve indirizzare innanzitutto al ben fare (riforma della religione intendendola come etica; 2° concetto chiave). Il che suggerisce uno sviluppo educativo personale e sociale, e propone dal basso una società comunitaria ideale.

In quest’impegno Gandhi si è posto all’altezza delle migliori etiche delle due civiltà che lui ha vissuto; egli ha unito la legge morale indù (universalizzata all’amore per tutti) con la intelligenza della legge giuridica occidentale (nella tradizione meno autoritaria: la britannica, non quella dell’impero romano). Quindi Gandhi ha legato assieme l’idea che ogni uomo è figlio di Dio con l’idea che ogni uomo ha i suoi diritti inviolabili. Il risultato è stato che l’antico insegnamento religioso indù della nonviolenza è stato rinnovato profondamente ed è risultato leva di trasformazione sociale. La sua sintesi ha saputo trovare un metodo per superare, la grande violenza compiuta dalle strutture sociali, anche le più potenti e le più aberranti; e, in definitiva, un metodo per realizzare un programma di rinnovamento religioso-politico.

La sua sintesi ha per fulcro la nonviolenza (3° concetto chiave), una parola che riprende la antica parola “ahimsa” e che rappresenta quell’ideale che l’Occidente ha appena approssimato con la legge e i tribunali. La parola “nonviolenza” è una doppia negazione che non afferma, ma pone un problema (la violenza nel mondo) ed indica un metodo per superarla (cercare, da parte nostra, di evitarla sempre); indica la ricerca di un metodo che porta all’operare dal basso, dall’origine (in questo senso, la scelta spirituale della povertà dovrebbe essere chiamata “non ricchezza”).

Ma quale novità può mai rappresentare la nonviolenza di Gandhi per i cristiani, quelli che hanno già ricevuto l’insegnamento addirittura del Figlio di Dio (l’amore cristiano)? In realtà in Occidente l’influenza della religione cristiana sulla società è rimasta confinata all’ambito personale e piccolo-comunitario, senza intaccare la politica machiavellica e il bellicismo; invece Gandhi ha dimostrato che un rinnovamento etico religioso può essere espanso a tutta la società, generando una dinamica che va fino a saper liberare un popolo dai poteri più oppressivi. Cioè Gandhi ha dimostrato possibile quello che in Occidente non si era mai fatto in gruppo: realizzare politica efficace ai massimi livelli, pur senza seguire Machiavelli. Quindi Gandhi ha saputo estendere la vita spirituale anche nella vita sociale, ha saputo unire fede e politica, personale e pubblico, etica e gestione delle masse.

Tutto ciò si è basato chiaramente sulle doti del carattere di quest’uomo: tra esse la sua tenacia è proverbiale. Ma lo è anche la sua capacità di sapersi immedesimare nell’altro, che è l’arte della nonviolenza. Dal suo protagonista ho saputo un episodio non noto in Occidente. Una volta alcuni amici europei inviarono, con le massime buone intenzioni, un pacco di giocattoli per i bambini del villaggio dove viveva Gandhi. Gandhi era contrario a giocattoli fabbricati industrialmente, tanto più provenienti dall’Europa. Allora li nascose dietro l’armadio della sua stanza. Ma il figlio del suo segretario lo venne a sapere e ne discusse con gli amici. Questi lo nominarono loro rappresentante (anche perché era il più grandicello) e in delegazione si presentarono da Gandhi. Lì il ragazzo rivendicò il diritto dei ragazzi del villaggio ad ottenere quello che era stato inviato a loro e che lui non poteva permettersi di negare. Nulla di più grave che rivolgere un discorso sui diritti negati ad un avvocato che difendeva i diritti degli oppressi. La vittoria sembrava assicurata. Gandhi stette in silenzio a sentire il discorsetto; ma restò in silenzio anche dopo, il che era imbarazzante per i ragazzi, perché sapevano di averlo colpito duro. Ad un certo punto Gandhi rispose con tutta la serietà possibile; riconosceva il diritto dei ragazzi a giocare con quei giochi. Ma aggiunse: “Giochiamoci assieme!”. Gandhi si era immedesimato nei ragazzi; ma con quell’invito faceva immedesimare i ragazzi in lui. I quali conoscevano bene il sacrificio che Gandhi compiva per lottare contro la oppressione della civiltà europea; perciò non avevano l’animo di trascinare Gandhi a tradire i suoi ideali davanti a tutto il villaggio, giocando con i giocattoli europei assieme a loro. Si spaventarono e, senza proferire altra parola, si ritirarono.

Torniamo alla caratterizzazione strutturale dell’opera di Gandhi. Considerando l’evoluzione storica della popolazione occidentale, e quindi del mondo, verso l’ateismo, il rinnovamento religioso di Gandhi ha un contenuto universale per ogni tradizione religiosa, perché ha insegnato ad ogni religione come essa può fare politica dal basso, all’origine degli avvenimenti e risolvendo positivamente i conflitti che sopravvengono. Quindi Gandhi ha restaurato nella coscienza popolare mondiale l’importanza politica di tutte le religiosità tradizionali (pur di intenderle universalmente sotto l’aspetto etico della fratellanza generale), come tensioni popolari valide, perché nuovamente capaci di convertire la società, anche se questa oggi si è strutturata in maniera complessa e gigantesca in ogni parte del mondo.

Dal punto di vista sociale, Gandhi, che viveva il contrasto tra il mondo antico (la millenaria India statica) e il mondo moderno (la progressista Inghilterra), ha saputo individuare uno sviluppo sociale alternativo al progresso seguito per secoli dalla società occidentale. Invece del progresso scientifico e tecnologico, egli ha proposto soprattutto lo sviluppo illimitato dei rapporti umani, specie nella risoluzione nonviolenta dei conflitti; cioè, la scienza della pace. Il che costituisce la capacità di collegare armonicamente il personale e il pubblico, il naturale e l’artificiale, anche se questi aspetti delle vita si presentano divisi o addirittura stanno in opposizione. Con ciò ha lanciato il programma di un nuovo modello di sviluppo (4° concetto chiave); cioè, l’insieme di un tipo di società e di un tipo di sviluppo che assieme favoriscono di più la nonviolenza tra le persone. Questo modello è alternativo a quello dell’Occidente capitalista, perché è autogestionario (villaggi comunitari) e perché sviluppa i rapporti tra gli uomini (nonviolenza nei conflitti) e con la natura (ecologia). Notiamo che anche il marxismo aveva cercato una alternativa alla civiltà occidentale; ma l’ha fatto dal suo interno, senza cambiarne il tipo di progresso scientista e industrialista; e quindi senza volerne cambiare la oppressione sugli “arretrati”, cioè i sottoproletari interni all’Occidente e i popoli colonizzati esterni. Non si è accorto che la sua alternativa non era completa. Perciò è caduto, prima nelle stesse alienazioni borghesi (verticismo direttivo, guerre, alienazione tecnologica) e poi nella oppressione dei popoli da liberare.

Gandhi ha dato la prova storica della novità della sua proposta con la liberazione nonviolenta dell’India (380 milioni di persone, quasi tutte analfabete, separate da caste e da centinaia di lingue diverse, divise da più religioni irriducibili, senza tradizione nazionale, minate dall’alcolismo diffuso dai colonialisti. Trent’anni di lotta politica e culturale hanno portato alla liberazione dell’India, celebrata con una festa in comune con i colonizzatori. Dopo appena quarant’anni da questa prima liberazione, il colonialismo, nato quattro secoli fa, è scomparso dalla faccia della terra.

In questo secolo Gandhi ha rinnovato la politica tradizionale senza generare nessuna delle tante aberrazioni in cui le ideologie innovatrici hanno fatto cadere i popoli. Perciò è l’unico che ha saputo indicarci come arrivare alla civiltà del 2000: seguendo l’insegnamento della nonviolenza nel risolvere i conflitti, convincendo e non sopprimendo. Questa nuova civiltà nonviolenta è tipicamente pluralista nei rapporti individuali, perché non vuole la soppressione degli avversari, neanche nei conflitti fatali; è pluralista anche nell’ammettere la compresenza dei diversi modelli di sviluppo che i vari gruppi sociali vogliono perseguire. Egli ha fondato questo tipo di pluralismo, perché ha saputo individuare per primo il modello di sviluppo nonviolento e l’ha sviluppato e mantenuto, pur stando sotto l’oppressione di un modello di sviluppo totalitario, che lui non ha voluto sopprimere, ma solo contestare. Quindi egli ha saputo vedere la età matura della vita sociale (e quindi anche l’età matura del mondo7) e l’ha saputa realizzare con chi lo ha seguìto. L’invito di Gandhi è quello di realizzare una conversione da questa civiltà, che sia interiore e nello stesso tempo pubblica, al fine di realizzare un modello di sviluppo tipicamente nonviolento.

I luoghi comuni su Gandhi Dieci pregiudizi da sfatare

Era un ometto brutto

Aveva un bel portamento, agilità fisica e una voce possente

Era un uomo straordinario, un santo

Si è autodefinito: “un politico che cerca di essere un santo”

Nehru ed Indira Gandhi ne sono i seguaci

All’indipendenza, Gandhi rifiutò ogni carica pubblica; era contro il progresso occidentale, voleva lo sviluppo dei villaggi come villaggi comunitari, uniti in una federazione politica.

La nonviolenza è passività

“Meglio prendere il fucile che essere vigliacchi; il fucile darà il coraggio; per la nonviolenza ce ne vuole di più”

Gandhi ha inventato la nonviolenza

“La nonviolenza è antica come le montagne”. (Furono lotte nonviolente quelle delle conquiste sociali dei plebei nell’antica Roma; o quelle della rivoluzione Americana; o gran parte della Resistenza italiana)

Gandhi era un idealista utopico in politica

Ha saputo applicare al meglio la disobbedienza civile di massa, la non cooperazione di massa, sviluppare un programma costruttivo di massa

La nonviolenza funziona solo con le democrazie

Le ultime rivoluzioni nonviolente (Iran 1979, Filippine 1986, Polonia e Germania Est 1989) hanno dimostrato ampiamente il contrario

La nonviolenza è lenta

I tempi sono lunghi per tutti; è deviante vedere solo l’ora X, nel passato come nel futuro.

Quando la nonviolenza non funziona ci vuole la violenza

Vale proprio il contrario: quando la violenza non funziona solo la nonviolenza può.

La nonviolenza è una lotta di rivendicazione

La nonviolenza è lavoro per l’unità, da ottenere mediante il cambiamento delle persone (per primi se stessi) che sono in lotta.

(Libera sintesi di Antonino Drago da un articolo di Mark Shephard: “Mahatma Gandhi and His Myths”, Acorn, vol. 9 n. 1, 1997, 5-15)
Raccolgo l’invito al dibattito

Raccogliendo l’invito della segreteria del Movimento Nonviolento vi invio le mie considerazioni in merito alle tematiche e campagne nonviolente.

Sono ormai circa 15 anni che seguo le tematiche ecopacifiste e devo ammettere un certo distacco dai movimenti a carattere nazionale come MIR e MN a causa della mia difficoltà di partecipare alle riunioni fuori regione e in seguito ad una mia partecipazione più attiva ai movimenti politico-culturali locali. Nonostante ciò, ho continuato a pubblicare libretti per divulgare le tematiche nonviolente ed ecologiste. In merito alla nonviolenza in Italia devo dire che è stata sbandierata dalle forze politiche di sinistra, soprattutto dai Verdi, forze che una volta conquistata la poltrona hanno messo in secondo piano questi ideali (riduzione degli armamenti e spese militari, incentivazione del servizio civile, riduzione delle armi – giocattolo, educazione alla pace e nonviolenza, ecc.).

Per quanto riguarda il Movimento Nonviolento, il MIR, gli obiettori fiscali, ecc. devo dire che ho riscontrato molta filosofia e schematicità delle campagne, mentre localmente il problema non si tocca con mano e ci si disinteressa. Credo che si debba far crescere il movimento di base, specie attorno a dei problemi reali, come ad esempio vicino alle basi militari USA in Italia che si suppone custodiscano ordigni nucleari, senza farne una questione politica antiamericana. Un movimento di base fatto da semplici cittadini, senza colorazioni politiche, che sappia protestare contro la realizzazione di un inceneritore, contro la violenza sulla natura e sul paesaggio come sulle persone. In Italia si stanno progettando decine di inceneritori di rifiuti, dannosi all’ambiente ed alle persone, protestare è un metodo nonviolento per ottenere nonviolenza.

La nonviolenza non è solo una questione filosofica fatta di scritti e discorsi ma bensì una questione vitale alla portata di tutti e per questo bisogna spiegarla in parole povere per far crescere un movimento di base che non sopporti più violenze, armi, guerre, inquinamenti, ecc.

Michele Ferrante

Tortoreto
Forze di pace: quale ruolo per i pacifisti ?

Come perseguire il superamento del modello di difesa militare e la costruzione di una difesa altra, nei suoi variegati aspetti (protezione civile, difesa popolare nonviolenta, solidarietà, cooperazione, caschi bianchi ecc.)?

Questa la domanda iniziale del movimento degli obiettori alla quale, giunti all’approvazione della riforma della 772, quasi nessuno, nel movimento pacifista, pensa di dare risposta.

Ne consegue purtroppo che:

l’obiezione di coscienza diventa questione residuale rispetto al servizio civile e, con essa, si rimuove anche l’ipotesi di progettare e costruire l’alternativa agli attuali modelli di difesa;
la realizzazione del nuovo modello di difesa procede senza che i soggetti coinvolti nel servizio civile lo mettano in discussione, avallando l’idea di scindere la difesa degli interessi nazionali all’estero, affidata a militari professionisti, da quella sociale interna, affidata al servizio civile;
il liberismo, tendente all’abbattimento del welfare state, sfrutta l’idea di “dovere di solidarietà”, per giustificare il servizio civile nazionale; quale moneta di scambio, al posto di finanziamenti inerogabili, lo stato fornirà, ed enti pubblici o no profit, il lavoro coatto e gratuito un grande numero di giovani uomini e donne, causando così, tra le altre cose la dequalificazione dei servizi.

Ha ancora senso battersi per il diritto all’obiezione di coscienza?

E una volta ottenuto questo come utilizzarlo per realizzare almeno in parte un modello di difesa alternativo ?

Il diritto all’obiezione di coscienza sta nel nostro codice genetico ed è inutile motivare le ragioni di una scelta di lotta per tale obiettivo: è necessario però non perdere di vista gli obiettivi originari, verificando, ove possibile, le possibilità di costruire, da ora (malgrado il difficile periodo storico e l’estrema debolezza dei nostri movimenti), “pezzi” di difesa altra, collaborando da subito, senza inutili preclusioni dogmatico-ideologiche, con tutti coloro che già fanno, che potrebbero fare, che sicuramente faranno qualcosa in tal senso.

I terreni di lavoro/intervento post riforma sono a mio parere tre:

Organizzare un pressing esasperante sulle istituzioni affinché quanto previsto dall’art. 8 comma e della legge di riforma non resti lettera morta; spingerle ad avviare da subito un’esperienza di caschi bianchi dentro il Ministero della Difesa a partire dal servizio civile ma non solo; pretendere scuole di formazione con insegnanti “pacifisti” per questo futuro corpo; chiedere che i ricercatori della pace abbiano spazio e ruolo nei programmi degli Istituti di Formazione delle FF.AA e dei futuri peacekeeper militari; chiedere la possibilità di finanziare fin da subito le missioni pacifiste degli obiettori e di tutti gli enti e le ONG che operano in termini di interposizione, DPN, riconciliazione, recupero del dialogo ecc.. ottenendo detrazioni fiscali sui versamenti così finalizzati.
Lavorare con Enti e ONG per costruire da subito un network che: a) coordini l’intervento di pace all’estero di obiettori e volontari; b) studi progetti e percorsi di formazione ad hoc; c) si consorzi per chiedere al Ministero della Difesa un’apposita convenzione per obiettori/caschi bianchi; d) promuova e diffonda informazione per orientare e selezionare ragazzi/e disponibili ad interventi all’estero, sia nell’ambito della cooperazione internazionale, sia nel campo della prevenzione dei conflitti.
Costruire una rete d’emergenza (indipendente ma collegata fortemente a quanto si riuscirà a costruire per quanto riguarda il punto 2) di cittadine e cittadini italiani capaci di mobilitarsi e intervenire prontamente in zone di conflitto, sulla falsa riga di quanto fatto dagli scudi umani a Baghdad nel corso dell’ultimo “conflitto mancato”. Necessariamente questa rete dovrà usufruire di momenti di formazione permanente in un modo o nell’altro collegati alle altre esperienze. E’ importante anche prevedere fin da subito una rete di sostegno italiana che amplifichi qui quanto la rete d’emergenza fa all’estero prevedendo anche azioni informative o di protesta clamorose sul modello Greenpeace.

Su queste ipotesi va costruita la massima unità possibile tra pacifisti, nonviolenti e quant’altro disponibile all’uopo… Tra l’altro non dimentichiamo che in questi anni molto è già stato fatto da Volontari di Pace, P.B.I., Beati i costruttori, Associazione Papa Giovanni, Scudi umani Baghdad, Ambasciata di pace in Kossovo, Ambasciate di democrazia Locale, Campagna OSM per la DPN…. (mi scusino coloro che non ricordo)

La Campagna OSM per la DPN potrebbe essere un punto di riferimento poltico-organizzativo di tutto questo lavoro e costituire un buon volano finanziario anche se è irrealisitco ritenere che possa, da sola, fare da cassaforte di queste dispendiose esperienze.

Sogni, utopie, illusioni ??

Chissà, quello che è certo è che la storia va avanti anche senza di noi e sarebbe un peccato perdere questa particolare congiuntura in cui, malgrado i venti di guerra si moltiplichino e la situazione internazionale sia ben lontana dai sogni di pace e cooperazione internazionale che ci caratterizzano, si sono peraltro aperti importanti spazi di intervento di movimento e di riconoscimento legislativo e istituzionale. Al lavoro quindi !
Roberto Minervino

Campagna OSM per la DPN

MAESTRI DEL PENSIERO INDIANO / 6
Il Buddhismo e l’opera di Asoka

Il Buddhismo è nato nel VI-V secolo a.C. come riforma del Brahmanesimo, del quale non accettava l’eccessivo ritualismo e la divisione della società in caste. Il Buddha (circa 563-483 a.C.) pone al centro della propria meditazione il tema del destino dell’uomo e della liberazione dal dolore e dal ciclo delle rinascite.

L’esistenza terrena è dolorosa, sempre turbata dalle sofferenze, dalle malattie, dal timore della vecchiaia e della morte. Inoltre, l’uomo è continuamente pungolato dall’incessante ricerca di nuovi piaceri, che lo costringe a un’aspra lotta per la conquista della ricchezza.

La via della liberazione e l’attingimento del nirvana (dal sanscrito, “estinzione” delle passioni e delle future rinascite) sono possibili, attraverso il completo annientamento di ogni desiderio e la pratica ascetica (si noti l’importanza dello yoga). Come il Giainismo, anche il Buddhismo ha stabilito cinque comandamenti, per monaci e laici, che sono le premesse necessarie per la liberazione.

1 – Non uccidere alcuna creatura.

2 – Non prendere alcuna cosa, che appartenga ad altri.

3 – Non commettere adulterio. Per il monaco questo precetto si muta nel seguente: vivi in assoluta castità.

4 – Non mentire.

5 – Astieniti da bevande inebrianti.

Per i monaci c’è anche l’obbligo di non accettare denaro. Ascoltiamo ora un breve commento dal “Discorso della rete di Brahma”:

Gotama evita e detesta il far del male a ogni essere vivente, egli non tocca nessun bastone, nessun’arma, egli è pacifico e compassionevole. Lo preoccupa solo il benessere di tutti gli esseri viventi.

Gotama evita e detesta di prendere ciò che non gli è donato, egli prende e desidera solo ciò che gli è donato, egli è libero da brame di furto e di cuore nobile.

Gotama evita l’impurità e conduce una vita casta, vive nella rinuncia e detesta il piacere sensuale al quale è dedita la solita massa.

Gotama evita e detesta la menzogna, egli dice la verità e alla verità è dedito, fedele, leale e senza inganni verso gli uomini.

Gotama evita e detesta la calunnia. Se egli ha udito qui qualche cosa, non la riporta là, e se egli là ha udito qualche cosa, non la riporta qui, per suscitare malcontento in ambedue le parti. E se alcuni, per questo vicendevole riportare, sono divenuti nemici, egli è colui che li unisce, e tra quelli che sono uniti in amicizia, egli rinforza la loro amicizia. Egli trova la sua compiacenza nella concordia, il suo piacere, la sua gioia.

Egli dice parole che rinsaldano la concordia.

Gotama evita e detesta parole grossolane, egli dice parole buone, che risuonano gradite, piene di amore, che vanno al cuore, cortesi egli dice molte parole rallegranti, molto gradite.

Gotama evita e detesta le vuote chiacchiere. Egli parla solo a tempo giusto, egli dice solo ciò che è vero, ciò che serve a salute.

(Buddha, Discorsi, a cura di A.M. Pizzagalli, Utet, Torino, 1960, pp. 80-81)

Ancora una bellissima riflessione del Buddha: “Con la calma vinci l’ira, col bene vinci il male, vinci la miseria con la liberalità, con la verità la menzogna” (Dhammapada, 223).

L’imperatore Asoka

L’affermazione del Buddhismo fu favorita dall’imperatore Asoka della dinastia Maurya del Magadha, il quale regnò su gran parte dell’India dal 274 al 232 a.C. (anno della morte). Sconvolto dalla terribile strage, dovuta alla conquista del regno di Kalinga (261), si convertì al Buddhismo e svolse un’opera attiva per proteggere e diffondere la nuova religione.

Gli editti imperiali della Roccia e della Colonna possono darci un’idea della morale buddhista insegnata ai suoi giorni:

I commissari reali e gli ufficiali dei distretti devono ogni cinque anni proclamare la legge della pietà, vale a dire: l’obbedienza al padre e alla madre è cosa buona; il non far male ad esseri viventi è cosa buona; l’evitare il lusso e il linguaggio violento è cosa buona. Sua Maestà professa riverenza per i seguaci di tutte le sette. Col rispettare le setta degli altri si esalta la propria; coll’agire in modo contrario si danneggia la propria setta.

L’uomo vede la sua buona azione e dice: “Io ho fatto questo bene”; egli non vede la sua malvagia azione e non dice: “Io ho fatto questo male”.

Se uno è troppo povero per essere prodigo di doni, può almeno mostrare queste virtù: padronanza di sé stesso, purità di cuore, gratitudine e fedeltà; esse sono sempre meritorie.

(da E.W. Hopkins, L’etica nell’India, Bari, Laterza, 1927)

Il Buddhismo, anche per impulso di Asoka, varcò le frontiere dell’India, e riuscì nei secoli successivi a diffondersi nell’Asia orientale, dove costituisce ancora la religione di circa trecento milioni di persone. In India si è quasi estinto fin dall’ XI-XII secolo d.C. a causa sia delle invasioni musulmane, sia della ripresa dell’induismo.

Come il Cristianesimo ha permeato di sé l’intera civiltà occidentale, e si è continuamente rigenerato in nuove forme, quale perenne sorgente di ispirazione per la ricerca morale e la creazione artistica, allo stesso modo il Buddhismo si è fuso con le società asiatiche, dando origine a una grandiosa fioritura filosofica e artistica. Il Buddhismo non si è limitato a predicare la rassegnazione e la rinuncia; ha anche educato la mentalità orientale al rispetto della vita, della natura e delle immutabili leggi dell’universo.

I numerosi editti di Asoka, incisi su stele e sparsi per tutto l’impero, sono un documento fondamentale per lo studio della storia della civiltà. Si può consultare il volume: Gli editti di Asoka, a cura di G. Pugliese Carratelli, Firenze, La Nuova Italia, 1960.

LA POLVERIERA KOSSOVARA
L’indifferenza genera guerra

Mentre i pacifisti sostenevano la mobilitazione nonviolenta in Kossovo, i “potenti della terra” facevano finta di niente.

“Ma perché la comunità internazionale intervenga per il rispetto dei diritti umani in Kossovo occorre che il conflitto si esasperi e degeneri in guerra? Come mai la nonviolenza sembra non attirare l’attenzione della comunità internazionale? È proprio vero ciò che pensano i nazionalisti, ossia che solo con la guerra si può contare nelle trattative internazionale?”. Questi interrogativi sono oggi di drammatica attualità e pesano sulla coscienza indifferente dei capi di governo. Riportiamo una sintesi dell’appello della Campagna Kossovo per una soluzione nonviolenta del conflitto emesso a termine di un incontro nazionale che si è svolto a Bolzano.

APPELLO

NOI, Organizzazioni Non Governative e Associazioni di base, impegnate da molti anni per una soluzione pacifica e nonviolenta della questione del Kossovo, riuniti a Bolzano per esaminare la situazione in Kossovo, estremamente scossi dalle recenti azioni violente che hanno causato morti, feriti e l’arresto di cittadini inermi, che esasperano la tensione e provocano una reale minaccia alla pace regionale

vogliamo sottolineare che:

1. Non è possibile giustificare gli attacchi della Polizia serba e dell’Esercito che hanno avuto luogo a partire dal 28 Febbraio nella zona di Drenica come operazioni anti-terrorismo. Il cannoneggiamento di case private, l’uccisione di civili, compresa una donna incinta e persone dai 16 ai 70 anni, la mutilazione di cadaveri, sono palesi violazioni dei diritti umani.

2. Il prevedibile effetto di questa operazione non è l’eliminazione del cosiddetto Esercito di Liberazione del Kossovo (UCK), ma il rafforzamento delle simpatie popolari tra gli albanesi del Kossovo per una lotta violenta e armata. La politica nonviolenta perseguita per 10 anni ha sinora prevenuto l’estendersi della guerra nella regione del Kossovo. La mancanza di miglioramenti della situazione ed i recenti attacchi possono seriamente danneggiare questa opzione nonviolenta.

3. Ancora ci sono forze che possono continuare la politica nonviolenta, ma il loro compito è impossibile senza un radicale cambiamento dell’atteggiamento pratico, il supporto e l’effettivo

aiuto della comunità internazionale.

4. Le proteste pacifiche (violentemente represse) organizzate dall’Unione Indipendente degli Studenti dell’Università di Prishtina (UPSUP), sono un chiaro esempio di un movimento

non-violento per ottenere il ritorno negli edifici scolastici e universitari. Questo obiettivo è in effetti lo stesso previsto dall’Accordo Milosevic-Rugova sull’educazione, di cui molti governi e organizzazioni internazionali hanno chiesto l’implementazione per più di 18 mesi.

La questione del kossovo è una questione internazionale, che rischia l’escalation verso una nuova guerra nei balcani.

La comunità internazionale deve adottare le seguenti misure:

* Premere con la massima forza sul governo della Repubblica Federativa di Jugoslavia (Serbia e Montenegro) per fermare immediatamente le operazioni militari e la repressione poliziesca in Kossovo, anche tramite la reimposizione delle sanzioni economiche.

* Richiedere con la massima forza il ritiro delle forze poliziesche e militari recentemente dispiegate in Kossovo, e la smobilitazione delle organizzazioni paramilitari, di civili e profughi armati. Nello stesso tempo i partiti albanesi del Kossovo devono chiedere la fine immediata di ogni atto dell’UCK. La prospettiva dovrebbe essere di Un Kossovo smilitarizzato.

* Organizzare l’accesso delle organizzazioni internazionali umanitarie a tutto il territorio del Kossovo senza limitazioni, specialmente nelle zone dove è necessario soccorso medico d’emergenza.

* Creare immediatamente una commissione ad hoc delle Nazioni Unite per scoprire la verità sui massacri di Drenica, e incaricare il Tribunale Penale Internazionale per la ex-Jugoslavia di investigare su di essi.

*Assicurare una presenza internazionale (membri dei governi democratici, parlamentari, organizzazioni internazionali, associazioni della società civile e partiti politici, media internazionali) alle manifestazioni degli studenti

* Premere per il ritorno degli osservatori dell’OSCE, espulsi nel 1993, e ristabilire la loro presenza su tutto il territorio del Kossovo.

* Scegliere un Alto Rappresentante Internazionale per affrontare il problema del Kossovo, con un mandato forte per implementare misure di confidence building: normalizzazione nei campi dell’istruzione, della salute, della giustizia. dei media e della pubblica amministrazione.

* Organizzare una conferenza governativa internazionale per risolvere i problemi regionale dei balcani enunciando principi condivisi e applicandoli coerentemente.

Campagna per una Soluzione Nonviolenta in Kossovo (Italia) – Società per i Popoli Minacciati (Sud Tirolo, Italia) – Fondazione Bertelsmann (Germania) – Assemblea dei Cittadini di Helsinki – Movimento per un’Alternativa Nonviolenta MAN (Francia) – Pax Christi Internazionale – Peaceworkers (USA)

Per avere informazioni aggiornate sulla Campagna Kossovo:

Segreteria Campagna Kossovo

c/o Etta Ragusa

c.p. aperta 8

Grottaglie (TA)

tel.099/5662252-5661344

ginzburg@area.bo.cnr.it

Alberto L’Abate, Prevenire la guerra nel Kossovo per evitare la destabilizzazione dei balcani – attività e proposte della diplomazia ufficiale, Quaderni della D.P.N., Edizioni La Meridiana, Molfetta (BA), 1997, pp. 148, L. 15.000.

La prevenzione è sempre stata la cenerentola delle attività degli stati, che tendono a privilegiare gli interventi a posteriori, quando le distruzioni di tutti i tipi sono già avvenute. Questo problema assume caratteri drammatici in certe particolari situazioni in cui c’è un grande rischio di esplosione di un conflitto armato, come nel caso del Kossovo. Infatti in questa regione un tempo autonoma dell’ex Repubblica Federale Jugoslava, abitata per circa il 90% da albanesi, c’è una situazione gravissima che rischia di esplodere da un momento all’altro. E questo a causa: 1) dell’eliminazione nel 1989, da parte serba, delle autonomie concesse a questa regione dalla Costituzione del 1974; 2) del perdurare, anche dopo la fine della guerra in Bosnia, della legge serba di emergenza (o legge marziale); 3) delle continue violazioni dei diritti umani cui da anni il popolo albanese risponde con la nonviolenza; 4) della mancata attuazione, dell’accordo Milosevic–Rugova sulla normalizzazione del sistema scolastico nel Kossovo; 5) di episodi, di entità crescente, di reazioni armate da parte di frange albanesi che non accettano più l’azione nonviolenta del Governo di Rugova; 6) del rimpatrio forzoso di profughi, sottoposti, da parte della polizia serba, a gravi maltrattamenti (spesso si tratta di renitenti alla leva). La diplomazia ufficiale si è occupata poco della prevenzione anche nel caso del Kossovo, del quale invece si è molto più interessata quella che viene chiamata la “diplomazia di secondo livello”, o “non ufficiale”.

Questo quaderno analizza le attività e le proposte di sette Organizzazioni Non Governative (Transnational Foundation for Peace and Future Research, Svezia; La Campagna per una Soluzione Nonviolenta nel Kossovo, Italia; La Fondazione Greca per la Politica Europea ed Estera; la Comunità di S.Egidio, Italia; la Fondazione Aspen, Germania e Usa; il Centro per l’azione Preventiva, USA; la Fondazione Bertelsmann, Germania) che si sono occupate del problema del Kossovo cercando di prevenire l’esplosione del conflitto, ma nello stesso tempo di trovare delle soluzioni eque che possano portare ad una pace duratura. Il quaderno è una delle ultime attività portate avanti dall’”Ambasciata di Pace” a Pristina, promossa dalla Campagna per una Soluzione Nonviolenta nel Kossovo, e finanziata in gran parte dalla Campagna Italiana per l’Obiezione di Coscienza alle Spese Militari.

AA. VV. , Kossovo: conflitto e riconciliazione in un crocevia balcanico, da Religioni e Società, Rivista di Scienze Sociali delle Religione, Anno XII, n. 29, Settembre – Dicembre 1997; Casa Editrice Rosenberg e Sellier, Torino, pp. 176, L.25.000.

Gli studiosi di scienze sociali non sono riusciti a spiegare quella che può essere definita “l’anomalia Kossovo”, e cioè come mai, mentre tutta la ex-Jugoslavia è stata sconquassata da una delle più terribili guerre fratricide di questi ultimi tempi, che ha visto combattere tra di loro popoli appartenenti ad uno stesso gruppo etnico, non è successo lo stesso nel Kossovo dove la stragrande maggioranza della popolazione è invece di un gruppo etnico e di lingua completamente diversa: l’albanese. Non sicuramente perché i problemi erano meno gravi e le inimicizie storiche meno profonde. Al contrario il problema del Kossovo nel campo dei rapporti interetnici si può definire di reciproca minoranza (mentre gli Albanesi sono una minoranza all’interno della Serbia, i Serbi lo sono nel Kossovo) ed i rapporti tra questi due gruppi etnici non sono mai stati di fiducia reciproca e di collaborazione, ma piuttosto di conflitto e di dominio dei serbi nei riguardi degli albanesi. È in questa zona che per la prima volta è stato usato l’esercito federale per imporre, con la forza, la modifica della Costituzione di Tito che era tra le più avanzate nel campo del decentramento amministrativo, e che riconosceva al Kossovo lo status di quasi-repubblica. E da allora (1989/90) sussiste nel Kossovo una legge marziale che ha eliminato qualsiasi forma di autogoverno, ed ha posto la zona sotto occupazione militare poliziesca.

Come mai questa zona non è esplosa come le altre che pur avevano ragioni minori per infuocarsi? Ed il fatto che non sia esplosa finora dà qualche garanzia che non esploda anch’essa dando pratica attuazione al detto diffuso “la guerra jugoslava è iniziata nel Kossovo ed in questa regione finirà” ?

Questo numero nasce per cercare di rispondere a queste domande. Alla base c’è una chiara ipotesi di risposta su cui si sono cercati elementi di appoggio o di confutazione: quella che la non esplosione della zona sia stata in grandissima parte merito della scelta, da parte della popolazione albanese, di una strategia di lotta nonviolante; e che questa scelta sia stata possibile perché nella cultura albanese non c’è soltanto “la vendetta” come risposta a torti e ingiustizie subite, ma anche “il perdono” e “la riconciliazione”. Ma l’altra ipotesi alla base del lavoro è quella che la non comprensione, da parte della Comunità Internazionale, del linguaggio della “nonviolenza”, e l’accettazione solo di quello “delle armi” stia rischiando di far esplodere tutta la zona sud dei Balcani.

Alberto L’Abate

DEPOSITATE ALLA SEDE DI MILANO
Tante firme contro la Nestlé
di Paolo Macina

“Signorina, forse il dottore non ha capito. Sono arrivati quelli della campagna Boicotta Nestlé!”,

annuncia con enfasi alla reception il responsabile della sicurezza nel palazzaccio di Viale Richard 5, a Milano. E si comincia. Alle 16 di venerdì 15 maggio 1998, si è celebrato il consueto rituale di consegna delle firme degli aderenti alla campagna Rete Italiana Boicottaggio Nestlé. Sofia Quintero per il comitato scientifico, Monica Trabattoni in rappresentanza dello SCI, Aronne Galimberti per la segreteria nazionale ed il sottoscritto per conto del MIR/Movimento Nonviolento, hanno recapitato alla sede della multinazionale alimentare la bellezza di 23.200 firme, raccolte lungo l’anno ’97, ed elegantemente rilegate in sette volumi dall’Associazione Consumatori Utenti.

Massimo Rossi, direttore del marketing e fresco sostituto di Saverio Ripa di Meana, andato in pensione a dicembre, ci riceve in saletta sindacale; e già sentiamo dalla nostra parte il movimento dei lavoratori, rappresentato in parete da una copia del “terzo stato” del Pelizza da Volpedo. Piacente giovanotto sui 45 anni, fasciato nell’immancabile completo frescolana color grigio antracite e cravatta fantasia, ci intrattiene per più di un’ora con toni concilianti, dimostrando di essere al corrente della campagna e di averne abbastanza chiari i termini. Ma soprattutto è interessato a sondare il nostro grado di preparazione e la valutazione dell’impatto che le nostre iniziative stanno avendo.

Proveniente dalla Philip Morris (chissà come se la sarà cavata con le campagne antifumo?), il direttore marketing ci fa esporre gli obiettivi della campagna, le motivazioni che la sostengono e le istanze che porta avanti. Racconta che tra i primi documenti che gli sono stati sottoposti in lettura al suo arrivo vi sono i rapporti “Cracking the Code” e “Breaking the rule”, contenenti le violazioni al codice mondiale OMS che la stessa Nestlé ha firmato nel 1981, e la lettera che come comitato direttivo abbiamo inviato loro nell’ottobre scorso riportante le violazioni dell’azienda in Mozambico. La persona è nuova, il carattere cordiale, pensiamo di dovergli raccontare un po’ la storia di questa campagna che ha ormai raggiunto, in Italia, il quarto anno di vita. Ma quando il manager inizia a parlare, ricomincia la difesa d’ufficio già sentita in questi anni per bocca del suo predecessore: le violazioni al codice OMS non sono sistematiche come fate credere, siamo sempre stati disposti a valutare caso per caso le proteste purché documentate e circostanziate, perché ve la prendete sempre con Nestlé e non anche con Parmalat, Mellin, Abbott e Milupa che si comportano allo stesso modo?

Rispondiamo con una sola voce che Nestlé è di gran lunga la compagnia che più viola il codice di condotta, ed essendo leader di mercato, con una sua decisione positiva in merito, potrebbe trascinare anche le sue dirette concorrenti in una spirale virtuosa. Il discorso sembra incanalato in un rispettoso ma sterile colloquio quando, ad un tratto, alla richiesta di sostenere l’istituzione di una seria trattativa tra la casa madre di Vevey e la campagna internazionale per trovare una via d’uscita, il responsabile si lascia scappare: “Ma non è detto che noi non stiamo facendo nulla in proposito…”. E qui lasciamo i lettori ad una libera interpretazione. Come diceva il poeta, se sono rose fioriranno. Arriviamo quindi ai saluti. Accenniamo anche ad un invito alla manifestazione nazionale della campagna che si terrà il giorno dopo in piazza Duomo e per le vie del centro, quando, al momento di ritirare materialmente le firme, il nostro interlocutore ha un sussulto, si eclissa per un lungo istante e, al termine, ricompare dicendo sconsolato di non poter ritirare i volumi a causa della nuova legge sulla privacy.

Misteri della giurisprudenza! L’importante, per noi, è che ne abbia preso visione, si sia reso conto che la campagna, pur con i risicatissimi mezzi a disposizione, dispone di un largo seguito che aumenta a vista d’occhio (le ultime adesioni alla campagna conseguenti agli accordi che la Nestlé ha stipulato con la casa editrice Piemme e con il Festival del Cinema di Torino lo confermano ampiamente) ed abbia valutato la nostra disponibilità al dialogo, che non dovrà mai mancare.

Riparte il quinto anno di boicottaggio, quindi, avendo cura d’ora in poi di raccogliere firme in sintonia con quanto richiesto dal garante della Privacy. Buon lavoro a tutti quanti.
Sull’impiego degli obiettori

Ci viene chiesto, frequentemente, se sia lecito o meno, il distacco di obiettori presso strutture terze e/o fuori sede, per periodi più o meno lunghi (colonie estive, case vacanze, altri enti).

Il Direttore Generale dell’8° Divisione del Ministero della Difesa, Dr. Giuseppe Distefano, ribadisce che:

” … l’impiego di obiettori di coscienza è consentito presso la sede di assegnazione ovvero presso eventuali centri operativi, direttamente dipendenti dall’Ente, preventivamente segnalati a questa Levadife per l’autorizzazione. In particolare, i centri operativi possono sussistere nell’ambito territoriale del Distretto Militare di appartenenza della sede di assegnazione … “.

Riteniamo di estremo interesse riportare quanto sopra affermato poiché chiarisce due aspetti importanti:

a) non è consentito impiegare obiettori presso altri centri dell’ente, o presso altri enti, a meno che questi non siano stati preventivamente segnalati ed autorizzati dal Ministero;

b) è consentito l’impiego di obiettori presso altri centri operativi riconosciuti dal Ministero, solo se questi rientrano nell’ambito territoriale del D.M. cui appartiene l’ente.

Sono perciò irregolari tutti quei casi di impiego di obiettori presso strutture non autorizzate in Convenzione e, pertanto, è come sempre importante che gli obiettori:

1) all’inizio del servizio, prendano visione della Convenzione e del Piano di impiego per vedere se le strutture nelle quali sono impiegati sono autorizzate dal Ministero;

2) al fine di aprire un eventuale contenzioso con l’ente, pretendano un ordine di servizio scritto, nel quale il Rappresentante legale dell’ente si assume la responsabilità del distacco.
INAUGURATA IL 24 MAGGIO A COMISO, DA DOVE SE NE SONO ANDATI I MISSILI
Muore la base militare, nasce la Pagoda della Pace

Dalla collina si domina tutta la piana di Comiso. In lontananza si vede la base militare che doveva ospitare i missili nucleari Cruise: un monumento allo spreco con le scuole, la chiesa e le abitazioni già costruite per i cinquemila soldati americani, mai arrivati. Per una singolare coincidenza, proprio nei giorni in cui i militari abbandonavano ufficialmente l’ex base aeronautica, noi eravamo lì ad inaugurare la Pagoda della Pace. I tempi lunghi della nonviolenza anche questa volta hanno dato i loro frutti.

di Mao Valpiana

“Namu myo ho ren ge kyo”, il mantra, la litania, la preghiera intraducibile che vuol dire di volta in volta pace, grazie, lode, benvenuto, addio, o ciò che le parole non possono esprimere, si spandeva tutt’intorno.

Morishita, il piccolo monaco buddhista, un soldo di cacio che a vederlo non gli daresti cinque lire, è riuscito a fare il miracolo. Con il suo tamburello prega sempre; è una roccia, una formica, un bambino. E’ arrivato in Sicilia insieme all’annuncio dell’installazione dei missili. Non sapeva una parola d’italiano e non conosceva nessuno. Ogni giorno faceva il giro della base militare pregando. Si è unito ai pacifisti. Ha vissuto alla Verde Vigna, il terreno acquistato dal Movimento Nonviolento. E’ rimasto lì per quindici anni, senza mai perdersi d’animo, senza stancarsi. Si è fatto ben volere dai comisani: uno di loro gli ha regalato il terreno; tra mille difficoltà ha presentato il progetto al Comune, è riuscito ad avere la concessione edilizia, e poi pietra su pietra, facendo arrivare le cose più preziose direttamente dal Giappone, ha tirato su la Pagoda. Di fronte alla tua incredulità sfodera la sua risata disarmante e contagiosa e ti dice: “E’ stato Buddha”. Già, quel buddha raffigurato nella grande statua dorata che sorride dalla Pagoda, ha trasformato Comiso da simbolo di guerra a tempio di pace.

Domenica 24 maggio, per la festa d’inaugurazione, attorno a quella Pagoda c’era davvero tanta gente, venuta da ogni parte del mondo. C’erano i cinquanta monaci del Nipponzan Myohoji con il loro venerabile maestro, una delegazione dei monaci buddhisti tibetani e quelli dello Sri Lanka, una rappresentanza delle chiese evangeliche e degli ebrei, ed anche il Vescovo di Ragusa con i parroci della zona. Ognuno ha fatto la sua preghiera. Tra fiori di carta, incensi, campane, tamburi e decorazioni floreali, il momento più intenso della cerimonia è stato quando il reverendo Morishita ha umilmente portato sulla sua testa la reliquia di Buddha all’interno della Pagoda, da quel momento divenuta un luogo sacro.

E’ venuto poi il momento dei saluti delle autorità civili e dei rappresentanti dei movimenti invitati. Ho parlato a nome del Movimento Nonviolento dicendo che per noi Morishita in questi anni ha rappresentato cinque concetti chiave della nonviolenza: la fede, senza la quale non avrebbe potuto smuovere le montagne di difficoltà che ha incontrato; la forza necessaria per sostenere una lotta così ardua; il coraggio di buttarsi in un progetto “folle”; la leggerezza che caratterizza il suo modo di rapportarsi con gli altri; l’allegria che ha dentro di sé e che trasmette a chi gli sta vicino.

Musiche e danze hanno concluso la festa.

Ai luoghi simbolo della nonviolenza che abbiamo in Italia, ora possiamo aggiungere a pieno titolo la Pagoda di Comiso. Chi avrà modo di recarsi in Sicilia non perda l’occasione di visitarla.

DAL CENTRO DEL MEDITERRANEO
Una fonte di luce spirituale

Noi monaci del movimento Nipponzan Myohoji abbiamo marciato per la pace e costruito Pagode della Pace in diverse nazioni, per risvegliare il desiderio e la volontà dei popoli di lavorare per la pace. Noi consacriamo noi stessi verso questo sforzi anche grazie al profondo impegno del nostro maestro, l’ultimo venerabilissimo Nichidatsu Fujii, deceduto nel 1985 all’età di 101 anni e la cui vita intera fu totalmente dedicata a stabilire la pace nel mondo. Sinora il venerabilissimo maestro Fujii ed i monaci del Nipponzan Myohoji hanno sostenuto numerosi cammini di pace ed hanno costruito oltre settanta Pagode della Pace in tutto il mondo, di cui quattro in Europa: a Londra e Milton Keyenes, in Inghilterra, una a Vienna ed ora in Italia a Comiso.

Tutte le nostre differenze di nazionalità, religione e razza, non hanno importanza se affrontiamo insieme il difficile compito di salvare gli essere viventi da un destino che sembra malvagio. Crediamo che la costruzione delle Pagode per la Pace sia un modo di cooperare e di unire i popoli, perché le Pagode incarnano lo spirito della nonviolenza.

La Pagoda della Pace di Comiso è sorta in un luogo dove negli anni ’80 tanta gente di buona
volontà giunse da ogni parte d’Europa per manifestare con la nonviolenza contro la base missilistica nucleare; ora la base militare è stata disarmata ed una bellissima Pagoda della Pace è apparsa in cima ai monti Ibrei. La Pagoda è situata in un luogo molto significativo: è al centro del Mediterraneo e a metà strada fra il Sud ed il Nord.

Potrà dare luce spirituale e liberarci dall’oscurità del futuro.

Reverendo Gyosho Morishita
Pagoda della Pace
97013 Comiso (Ragusa)
Tel. 0932/721282
PETIZIONE POPOLARE
A NORMA DELL’ART. 50 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA
Al Presidente del Senato della Repubblica

Al Presidente della Camera dei Deputati

Oggetto: richiesta di una legge che istituisca un’Autorità Garante della qualità sociale dei prodotti e che obblighi le imprese a fornire informazioni su prezzi e fornitori come misure contro il lavoro infantile e la violazione dei fondamentali diritti dei lavoratori

Come cittadini e come consumatori siamo indignati per le continue denunce provenienti dall’Italia e dall’estero relative allo sfruttamento del lavoro dei bambini e al disumano trattamento dei lavoratori adulti.

Sappiamo che le responsabilità di questo fenomeno vanno ricercate a vari livelli, ma siamo anche consapevoli della costante responsabilità delle imprese sempre meno rispettose dei diritti delle popolazioni.

Riteniamo che la violazione delle leggi nazionali e delle convenzioni internazionali da parte delle imprese sia favorita dalla mancanza di controlli e dall’assenza di meccanismi che consentano ai consumatori di scegliere i beni in base alle condizioni sociali ed ambientali in cui sono stati prodotti. Condizioni che, naturalmente, devono tener conto anche del trattamento riservato ai lavoratori e della percentuale di ricchezza lasciata nel luogo d’origine del prodotto.

Ci rivolgiamo dunque al Parlamento affinché adotti un provvedimento legislativo che obblighi le imprese a fornire informazioni complete sul loro ciclo produttivo e distributivo e che istituisca degli strumenti che mettano i consumatori in grado di scegliere i prodotti in base alla loro qualità sociale.

Più precisamente chiediamo che il provvedimento legislativo preveda:

1 – L’istituzione di un’Autorità Garante della qualità sociale dei prodotti con il compito di verificare se i prodotti distribuiti in Italia sono stati ottenuti, in ogni fase della lavorazione, nel rispetto dei fondamentali diritti umani, economici, sociali e sindacali, indicati nelle Convenzioni sottoscritte dall’Italia. L’Autorità avrà pieni poteri di indagine in Italia, mentre all’estero si avvarrà dell’ azione investigativa di Istituzioni Internazionali competenti, di sindacati, di organizzazioni non governative, di enti di controllo indipendenti.

L’operato dell’Autorità nei confronti di prodotti provenienti da paesi a basso reddito procapite sarà accompagnato da accordi di cooperazione centrati sulla lotta alla povertà, sul rafforzamento delle organizzazioni della società civile, sulla lotta allo sfruttamento del lavoro infantile e sul riconoscimento di condizioni di lavoro dignitose per gli adulti.

L’Autorità Garante agirà autonomamente o sulla base di denunce circostanziate di cittadini singoli o associati, italiani o esteri.

2 – L’obbligo per le imprese produttrici e commerciali di redigere e fornire all’Autorità Garante un rapporto annuale sui loro fornitori e sulle aziende appaltate e sub-appaltate in Italia e all’estero.

3 – L’obbligo per le imprese produttrici e commerciali di segnalare all’Autorità Garante la composizione del prezzo dei loro prodotti, distinta per luoghi d’origine e componenti.

4 – L’obbligo per le imprese commerciali di indicare su tutti i prodotti il paese di origine. Nel caso di prodotti che incorporano componenti o fasi di lavoro avvenute in più paesi, si indicherà quello che, in ore di lavoro, ha contribuito maggiormente alla manifattura del prodotto.

5 – Il diritto dei cittadini ad accedere a tutte le informazioni raccolte dall’Autorità Garante.

6 – La creazione di particolari etichette, assegnate dall’Autorità Garante, per segnalare ai consumatori il livello di qualità sociale dei singoli prodotti sulla base delle condizioni suindicate.

7 – L’applicazione di sanzioni nei confronti delle imprese che non forniscono le informazioni richieste e l’obbligo di pubblicare, a proprie spese, i risultati dell’indagine dell’Autorità Garante qualora abbia accertato la violazione di una o più Convenzioni in una qualsiasi fase produttiva e distributiva.

NOME e COGNOME INDIRIZZO FIRMA

IN POLEMICA CON LA CAMPAGNA PUBBLICITARIA DELLA APPLE
Il Mahatma Gandhi ai tempi del computer
di Salman Rushdie

Un indiano esile, quasi calvo e mezzo sdentato, solo, seduto sul nudo pavimento, con indosso soltanto una fascia attorno ai fianchi e un paio di miseri occhialetti, esamina alcuni fogli di appunti scritti a mano. La foto in bianco e nero occupa un’intera pagina di un giornale britannico; e sull’angolo superiore sinistro c’è una piccola mela striata di tutti i colori dell’arcobaleno, con un invito dal tono slang americano: “Think different”. Pensa altrimenti. Ecco il potere che ha oggi il big business internazionale: quello di risucchiare disinvoltamente anche il più grande tra gli scomparsi per farne un’immagine da campagna pubblicitaria.

Mezzo secolo fa, quest’ometto tutto ossa ha dato vita alla lotta di una nazione per la libertà. Ma questa, dicono, è storia. Oggi Gandhi posa per Apple. Il suo pensiero non conta granchè in questa sua nuova incarnazione. Conta il “messaggio” che gli è stato attribuito, considerato in linea con la filosofia di Apple.

È una pubblicità abbastanza curiosa perché valga la pena di spendere qualche attimo ad analizzarla. È, ovviamente, ricca di ironia involontaria. Gandhi era, come del resto la foto sta a dimostrare, appassionatamente contrario alla modernità e alla tecnologia.

Preferiva una matita alla macchina da scrivere, una fascia intorno ai fianchi al doppiopetto e un campo arato alle eruzioni nere di una fabbrica. Se il computer fosse stato inventato mentre era in vita, lo avrebbe quasi certamente aborrito. Lo stesso termine “word processor”, dal suono super-tecnologico, difficilmente avrebbe incontrato il suo favore.

“Think different”. Effettivamente Gandhi, che in gioventù era stato un raffinato avvocato di formazione occidentale, cambiò il suo modo di pensare come pochi hanno saputo fare.

Ghanshyam Das Birla, uno dei principi mercanti che lo appoggiavano, ebbe a dire una volta: “Gandhi era più moderno di me; ma ha scelto consapevolmente di tornare al Medio Evo”. Probabilmente non è questa la nuova e rivoluzionaria scuola di pensiero che quella brava gente di Apple cerca di incoraggiare.

Ma certo, cavilli del genere non possono impressionare gli autori del messaggio pubblicitario. Hanno semplicemente adocchiato un’icona: un uomo tanto famoso da poter essere tuttora riconosciuto istantaneamente, mezzo secolo dopo essere stato assassinato. Fate un doppio clic su quell’icona e “aprirete” una serie di “valori” ai quali Apple desidera semplicemente associare la propria immagine: “moralità”, “leadership”, “santità”, “successo”, e così via. Nel “Mahatma” Gandhi, la grande anima, hanno visto la personificazione di virtù della categoria, diciamo, di Madre Teresa, del Dalai Lama o del Papa.

O forse si sono identificati per un attimo con quel piccoletto che ha battuto un grande impero. È vero che lo stesso Gandhi vedeva nel movimento per l’indipendenza un Davide in lotta contro i Filistei dell’impero sul quale il sole non tramontava mai; e ha parlato di “Right against might”, la battaglia del diritto contro il potere.

Apple, in lotta contro le corti dell’onnipossente Bill Gates, desiderava forse trovare conforto pensando che se “quel signore mezzo nudo” – come lo aveva definito il vicerè britannico Lord Willingdon – era riuscito a battere la Gran Bretagna, allora, forse, chissà, una mela ben assestata potrebbe anche abbattere il Golia Microsoft.

In altri termini, oggi Gandhi può andar bene dappertutto. È diventato ormai astratto, astorico, postmoderno, non più un uomo del suo tempo, coinvolto nel suo tempo, ma un concetto liberamente fluttuante, entrato ormai a far parte dello stock di simboli culturali a disposizione di tutti; un’immagine che può essere presa a prestito, usata, distorta, reinventata per servire a tanti scopi diversi – e al diavolo la verità storica.

Il film Gandhi di Richard Attemborough, che ha fatto il pieno di Oscar, mi ha colpito alla sua prima apparizione come un esempio di questo tipo di santificazione occidentale astorica. Qui Gandhi è il guru dispensatore di un prodotto alla moda come la saggezza orientale. Un Gandhi che muore come Gesù Cristo (non prima di avere inscenato numerosi scioperi della fame) affinchè altri potessero vivere. La sua filosofia della non violenza sembrava efficace, perché imbarazzava i britannici tanto da indurli ad andarsene; la libertà, come sembra di voler suggerire il film poteva essere conquistata battendo l’oppressore sul piano morale, constringendolo alla ritirata in nome del suo proprio codice etico.

L’efficacia di questo Gandhi simbolico è tale che il film, nonostante le sue semplificazioni Hollywoodiane, ha avuto un potente effetto positivo su molti contemporanei in lotta per la libertà: tante voci democratiche del Sudamerica, o di sudafricani impegnati contro l’apartheid, mi hanno espresso il loro entusiasmo per i suoi effetti galvanizzanti. Evidentemente il “Gandhi internazionale”, postumo ed esaltato è divenuto un totem dotato di una reale forza ispiratrice.

Il guaio di questo Gandhi idealizzato è di essere così maledettamente scialbo: poco più di un dispensatore di omelie o di panacee (“occhio per occhio vorrebbe dire accecare il mondo intero”), con soltanto qualche curioso lampo d’arguzia (interrogato su ciò che pensava della civiltà occidentale rispose con la celebre frase: “Penso che sarebbe una buona idea”). L’uomo reale, se è ancora possibile usare questo termine dopo generazioni di agiografie e reinvenzioni, era infinitamente più interessante, una delle personalità più complesse e contraddittorie del paese. Il suo nome completo, Mohandas Karamchand Gandhi, la cui memorabile e letterale traduzione è dovuta al romanziere Desani, ha un significato composito: Schiavo d’Azione Luna – Fascinazione Speziale; e la sua figura non era meno ricca, né meno tortuosa di quanto suggerisca questo glorioso nome.

Intrepido di fronte ai britannici, aveva il terrore del buio, tanto che dormiva sempre con un lume acceso accanto al letto. Credeva appassionatamente all’unità di tutti i popoli dell’India, ma il suo rifiuto di tenere il musulmano Jinnah nell’ovile del Congresso portò alla divisione del paese. (L’opposizione rifiutò a Jinnah la presidenza del Congresso, che lo avrebbe forse distorto dall’assumere la guida della Lega separatista musulmana; sotto la pressione di Nehru e di Patel, Gandhi rinunciò a un’ultima opportunità, quella di offrire a Jinnah la carica di primo ministro, e cancellò così l’ultima flebile speranza di evitare la scissione. Peraltro non aveva mosso un dito, nonostante la sua decantata modestia e assenza di ambizioni personali, per fermare gli attacchi contro Jinnah, che a una sessione del Congresso lo aveva interpellato semplicemente “Mr. Gandhi” invece di usare il più reverenziale appellativo di “Mahatma”).

Era determinato a vivere una vita da asceta, ma secondo una battuta del poeta Sarojini Naidu la nazione ha speso una fortuna per permettere a Gandhi di vivere in povertà. Mentre tutta la sua filosofia privilegiava lo stile di vita rurale rispetto a quello cittadino, era sempre finanziariamente dipendente dal sostegno di industriali miliardari come Birla. I suoi scioperi della fame non hanno potuto fermare i disordini e i massacri; ma in una occasione fece anche uno sciopero della fame per costringere i dipendenti del suo mecenate capitalista a interrompere un’agitazione di protesta contro le loro durissime condizioni di lavoro. Voleva migliorare la situazione degli “intoccabili”, ma nell’India di oggi questa fascia di popolazione, ora chiamata Dalits, che cosituisce un gruppo politico sempre più efficace e ben organizzato, si richiama alla memoria del suo leader, il dottor Ambedkar, i cui rapporti con Gandhi erano di antica rivalità. L’ascesa dell’astro di Ambedkar tra i Dalits ha ridimensionato la statura di Gandhi.

Il creatore della filosofia politica della resistenza passiva e della non violenza costruttiva ha trascorso buona parte della sua vita lontano dall’arena politica, affinando le sue più eccentriche teorie sul vegetarianismo, i moti peristaltici e le proprietà benefiche degli escrementi umani.

Traumatizzato per tutta la vita per aver appreso, all’età di sedici anni, che suo padre era morto mentre lui stava facendo l’amore con la moglie Kasturbai, Gandhi rinunciò al sesso; tuttavia, invecchiando cominciò a praticare quelli che chiamava “esperimenti brahmacharya”, durante i quali chiedeva a giovani donne, spesso mogli di amici o di colleghi, di giacere nude accanto a lui per tutta la notte per consentirgli di dimostrare il suo dominio sulle sue pulsioni fisiche. (Credeva che la conservazione dei “succhi vitali” approfondisse la sua capacità di comprensione spirituale).

A lui, e a lui soltanto si deve la trasformazione dell’aspirazione all’indipendenza in un movimento di massa dell’intera nazione, che mobilitò tutti i ceti sociali contro l’imperialismo. Ma il paese libero che doveva sorgere, diviso e impegnato in un programma di modernizzazione e di industrializzazione, non era certo l’India dei suoi sogni. Jawaharlal Nehru, suo discepolo per qualche tempo, era stato un acceso fautore della modernizzazione, e alla fine, forse inevitabilmente, fu la sua visione a prevalere su quella di Gandhi.

All’inizio, Gandhi credeva che la politica della resistenza passiva e della non violenza potesse essere efficace in ogni situazione, in qualsiasi momento, persino contro una forza feroce come quella della Germania nazista. In seguito fu costretto a rivedere la sua opinione, e giunse alla conclusione che se a causa della loro natura i britannici avevano risposto a queste tecniche, altri oppressori avrebbero potuto comportarsi in maniera diversa. Una posizione che non differisce poi tanto da quella espressa dal film di Attemborough, ed è ovviamente sbagliata.

È largamente diffusa l’idea che l’India abbia contestato l’indipendenza grazie al metodo della non violenza di Gandhi (un’opinione assiduamente promossa sia in India che fuori). Ma in effetti, la rivoluzione indiana divenne a un certo punto violenta: Gandhi ne fu profondamente deluso, tanto che per protesta rifiutò di partecipare ai festeggiamenti per l’indipendenza. Inoltre, il rovinoso impatto economico della seconda guerra mondiale sul Regno Unito, e (come ricorda lo scrittore britannico Patrick French in un suo libro recente) il graduale collasso del potere burocratico del Rajà a partire dalla metà degli anni Trenta, contribuirono al raggiungimento dell’indipendenza non meno di tutte le azioni promosse da Gandhi, e perfino dall’intero movimento nazionalista. Di fatto è probabile che le tecniche di Gandhi non costituissero gli elementi chiave della conquista della libertà da parte dell’India. Esse hanno conferito visibilità all’indipendenza: sono state alla sua origine in apparenza, ma a produrre l’effetto voluto sono state forze storiche più oscure e profonde.

Ai nostri giorni, pochi si soffermano a considerare la complessa personalità di Gandhi, la natura ambigua delle sue conquiste e della sua eredità e le stesse vere radici dell’indipendenza indiana. La nostra è un’epoca frettolosa, che ha tendenza a ridurre tutto al formato di uno slogan; ci manca il tempo, o peggio, l’inclinazione ad assimilare verità composite.

La più indigesta tra queste è che Gandhi conta sempre meno nella terra della quale è stato il Bapu, il piccolo padre. Come ha rilevato l’analista Sunil Khilnani, l’India è sorta come uno Stato secolarizzato, mentre la visione di Gandhi era essenzialmente religiosa. Egli si era comunque ritratto dal nazionalismo indù. La sua soluzione consisteva nel forgiare un’identità indiana partendo da un patrimonio comune, quello delle antiche leggende.

Ma non servì a nulla. L’ultimo gandhiano ad avere un ruolo politico importante in India fu J.P. Narayan, leader del movimento che depose Indira Gandhi alla fine del periodo delle sue leggi d’emergenza (1974-1977). Nell’India di oggi il nazionalismo indiano è rampante e ha assunto la forma del partito Baratiya Janata (Bjp) e dei gregari strangolatori dello Shiv Sena. Durante le attuali elezioni, Gandhi e le sue idee sono stati a malapena menzionati. La maggior parte di coloro che non sono sedotti dal settarismo politico sono ormai nelle mani di una forza non meno potente e non meno antigandhiana: il denaro.

Anche il crimine organizzato è penetrato ormai nella sfera politica. Nel cuore dell’India rurale cara a Gandhi, veri e propri gangster sono stati eletti a cariche pubbliche.

Ventuno anni fa, lo scrittore Ved Metha ebbe occasione si parlare con uno dei maggiori sostenitori politici di Gandhi, un ex governatore generale dell’India indipendente, C. Rajagopalachari. Il suo verdetto sul retaggio di Gandhi è disincantato; ma nell’India di oggi suona tuttora veritiero: “La capacità di soluzione della tecnologia moderna, del denaro e del potere è tale che nessuno, dico nessuno, può resisterle. I pochi gandhiani che credono tuttora nella filosofia della vita semplice in una società semplice sono per lo più degli stravaganti”.

Qual è, allora, la sua grandezza? In che cosa risiede? Se il progetto di un uomo fallisce, o sopravvive solo in una forma irrimediabilmente offuscata, può la forza del suo esempio meritare ancora un supremo abbraccio? Ecco, secondo Jawaharlal Nehru, l’immagine che meglio definisce Gandhi: “L’ho visto incamminarsi verso Dandi, un bastone in mano, alla Marcia del Sale, nel 1930: un pellegrino alla ricerca della verità, quieto, pacifico, determinato e intrepido. Doveva continuare in questa ricerca, in questo pellegrinaggio, senza curarsi delle conseguenze”. La figlia di Nehru, Indira Gandhi, ebbe a dire in seguito: “Il suo messaggio, più che nelle parole, è nella sua vita”. Ai giorni nostri, questo messaggio riceve maggiore attenzione fuori dall’India. Albert Einstein è stato uno dei molti ammiratori dell’opera di Gandhi; Martin Luther King, il Dalai Lama e tutti i movimenti pacifisti del mondo ne hanno seguito le orme.

Gandhi, che rinunciò al cosmopolitismo per conquistare un paese, in questa sua strana esistenza postuma è divenuto un cittadino del mondo. Il suo spirito può dimostrarsi tuttora capace di ripresa – acuto, tenace, sornione, e certo anche con qualità etiche capaci di sottrarlo all’assimilazione da parte della cultura globale dei vari Mac, della Mc – Cultura in genere.

Contro questo nuovo impero, l’intelligenza gandhiana è un’arma migliore della religiosità gandhiana. E la resistenza passiva? Staremo a vedere.

tratto da “la Repubblica” del 22/04/98

MASS MEDIA E PUBBLICITA’, SIAMO TUTTI FIGLI DI GANDHI
Un mito del nostro secolo e l’importanza del digiuno
di Adriano Sofri

Quando partì per andare a studiare legge in Inghilterra, Gandhi dovette giurare a sua madre di astenersi dall’alcool, dalla carne e dalle donne. Giurò, ma fu espulso lo stesso dalla sua casta. A Londra fu spaesato, cercò maldestramente di assomigliare a un gentleman azzimato, finché non entrò in contatto con circoli vegetariani e teosofisti. In quella “controcultura” londinese (animalismo, dietetica, medicine alternative) trovò, o ritrovò, il suo Oriente. Lesse lì, per la prima volta la Bhagavad Gita, e in inglese.

Tramutato oggi, come scrive Salman Rushdie, nel “guru dispensatore di un prodotto alla moda come la saggezza orientale”, il giovane Gandhi aveva buscato il suo Oriente attraverso l’Occidente.

Storia attuale; quanto la temperie in cui quella formazione avvenne, una New Age della scorsa fine secolo, così simile a questa per il catalogo delle aspettative e delle superstizioni.

C’è un libro molto bello su questo, scritto da mio fratello Gianni e, per la parte tolstoiana, da Pier Cesare Bori, sul carteggio fra il quarantenne Gandhi e l’ottantenne Tolstoj (Gandhi e Tolstoj, Il Mulino, 1985). Non bisognerebbe trascurare questo lato della figura di Gandhi, e tanto meno ridurlo a una eccentricità, quando ci si interroga sulla metamorfosi di Gandhi in un’icona planetaria. Lo conferma la nozione più largamente e immediatamente associata alla leggenda di Gandhi: la paternità sui digiuni. Essa è appena accennata nell’articolo di Rushdie. Sono persuaso che il digiuno (o nella più equivoca e diffusa dizione, lo sciopero della fame) si sia guadagnato un posto paragonabile a quello dello sciopero nella storia del movimento operaio. Svolgimento tanto più singolare se lo si accosti alla diffusione contemporanea dell’anoressia e delle diete.

L’attenzione maniacale di Gandhi alla cura del corpo mista di religiosità e di salutismo (e di bizzarrie torbide come il casto concubinaggio senile con le giovani nipoti nude) spiega la fortuna di Gandhi più dell’intera sua opera per l’abolizione dell’intoccabilità o per l’indipendenza dell’India. È un po’ come la riscoperta del Tolstoj moralista della “vecchiaia” (1880-1910), della non resistenza al male, e della compassione totale, del ripudio della civiltà moderna e delle droghe, dell’alcool, del tabacco: riscoperta spinta fino all’indifferenza, o alla condanna, per il Tolstoj che aveva scritto Guerra e pace. Dunque il “think different” che fa da slogan al ritratto di Gandhi per la campagna pubblicitaria Apple non è così arbitrario.

L’articolo di Rusdhie è stato pubblicato con risalto da Repubblica lo scorso 22 aprile: “Il mito di Gandhi al servizio dei computer”. (È comparso anche su altri quotidiani nel mondo). Se non mi sbaglio, esso non è stato ripreso da alcuno, e questo mi sembra sorprendente. Prima di tutto per il prestigio dell’autore, che è un grande narratore, reso più prezioso dalla fanatica persecuzione. Poi, per l’occasione che lo ha mosso: la trasformazione di Gandhi in un’icona buona per ogni uso, compresa la pubblicità di una marca di computer. Infine, per il giudizio sulla figura di Gandhi e sugli esiti della sua opera.

Rushdie mostra l’ironia del ritratto dell’omino seminudo e accoccolato nel suo ashram, con gli occhialetti antichi e l’arcolaio – un manifesto eloquente contro ogni modernismo tecnologico – diventato testimonial della Apple. “E al diavolo la verità storica”. Bisogna avvisare Rushdie che se Gandhi è diventato un’immagine astratta, “liberamente fluttuante” (un po’ come il Che Guevara delle magliette, del resto: condizione di queste metamorfosi è morire ammazzati), l’Italia ha prodotto un caso affatto peculiare in questa usurpazione.

Il successo italiano di Gandhi era relativamente recente. Una figura patronale grande come Francesco d’Assisi non è bastata a dare al pensiero non violento uno spazio meno che minoritario. Dopo esperienze come quelle di Capitini, o di Dolci, Gandhi è diventato il distintivo del Partito radicale da una parte, del pacifismo non comunista e poi dell’ecopacifismo dall’altra. (Il Partito radicale ha cercato una dubbia distinzione fra non violenza e pacifismo; il pacifismo ideologico ha immaginato di poter perseguire una non violenza assoluta). La riflessione su Gandhi ha trovato poi un posto nella riconversione della sinistra già comunista, all’interno di una generale quanto distratta accoglienza eclettica.

Fin qui il gandhismo cresce in una zona laterale dell’impegno politico, e contemporaneamente cresce una popolarità di Gandhi, sottratta a ogni precisione: una figura da hit parade, soprattutto dopo il film di Attenborough. La svolta è venuta, come una bestemmia, quando Bossi ha dichiarato Gandhi patrono strategico della Lega. Un partito forte di milioni di voti si proclama gandhiano. È un miracolo. Assai più dell’astrazione che permette alla Apple di far testimoniare Gandhi contro se stesso (e contro la Microsoft).

Con Bossi, la non violenza gandhiana diventa il furbo e ostentato ammiccamento a una scelta buona a sventare incriminazioni e ad aspettare tempi in cui la forza sarà dalla parte della Lega. Ancora, Gandhi diventa testimone di una vocazione separatista che aveva deprecato e osteggiato. Infine, la marcia del sale diventa il modello di un corteo pubblicitario sul lungofiume. Dei mille usi cui Gandhi è stato piegato, un uso del genere poteva capitare solo in Italia, temo. Almeno: altrove avrebbe fatto più scandalo (in India, il direttore di un giornale decise di occuparsene, e oppose le idee e la vita di Gandhi allo stile “ingiurioso e arrogante” di Bossi).

I cinquant’anni dell’indipendenza indiana hanno sollecitato un bilancio di quanto resta dell’eredità di Gandhi in quel gran paese. Commentatori e inviati sembrano aver scelto una risposta netta: niente. La risposta di Rushdie le somiglia. Questi giudizi rimettono coi piedi per terra le devozioni gandhiane più bigotte o illuse. Ma forse c’è, in un consuntivo così netto, un eccesso di zelo: troppa disgrazia. In un paio di punti, qualche fretta della traduzione di Rushdie l’accentua. Rushdie non dice che Gandhi “rifiutò di tenere il musulmano Jinnah nell’ovile del congresso”, provocando la divisione del paese. Gandhi non riuscì a superare l’opposizione del congresso per conservare, come avrebbe voluto, Jinnah al suo posto: che è un altro affare. Così, Gandhi volle offrire a Jinnah la carica di primo ministro. (Quanto al “poeta Sarojini Naidu”, è una poetessa).

È del tutto probabile che, come Rushdie argomenta, l’indipendenza dell’India sarebbe venuta anche senza Gandhi. Ma è difficile pensare che senza l’egemonia gandhiana l’India avrebbe raggiunto l’indipendenza con un costo di violenze e lutti così incomparabilmente inferiore a quello di paesi come la Cina, o l’Indocina, o la Malesia. La tragedia della Partition, la divisione fra indù e musulmani (un milione di morti, dieci milioni di profughi), non può pesare a carico del gandhismo in un bilancio. Gandhi si era battuto strenuamente per sventarla, spingendosi nelle concessioni ai musulmani, fino a diventare bersaglio e vittima del nazionalismo induista. Destino che richiama, con le enormi differenze, quello di Rabin. La stessa tenuta della democrazia in India, pur così in bilico, testimonia dell’influenza dell’esempio gandhiano.

Soprattutto mi sorprende che non abbiano suscitato reazioni certi accenni alla figura umana di Gandhi. Niente di nuovo, per chi abbia letto qualche buon libro: ma ai più generici devoti avranno pur fatto un qualche dispiacere. Così per gli esperimenti sessuali senili o per la suscettibilità di Gandhi che mal sopporta d’esser chiamato da Jinnah “Mr. Gandhi” invece che “Mahatma”.

Rushdie sembra cedere alla malignità quando parla di un digiuno di Gandhi, volto a far interrompere uno sciopero di dipendenti di un industriale suo amico. La vicenda, svoltasi ad Ahmedabad nel 1918, è stata meticolosamente studiata da Erik H. Erikson in La verità di Gandhi (Feltrinelli 1972). Nel suo profilo biografico di Gandhi (Giunti, 1996) mio fratello Gianni l’ha riassunta così: “Gandhi partecipò a una lotta per rivendicazioni salariali degli operai tessili di Ahmedabad, coi quali fondò un sindacato non violento. In questa occasione, Gandhi alternò l’attività di organizzatore sindacale con quella di mediatore tra gli operai e gli industriali del tessile, in una situazione che aveva aspetti paradossali. Il più potente ed autorevole tra gli industriali era infatti amico di Gandhi, e aveva concretamente aiutato il suo ashram. Si può capire come lo scontro, che a un certo punto si fece assai duro (fino a indurre Gandhi a intraprendere un digiuno a oltranza), potesse provocare nel Mahatma una crisi di coscienza, che però non riuscì a far prevalere i suoi sentimenti personali sul suo senso di giustizia”.

Rushdie concede qualcosa a un modo di guardare la vita minore e privata come con un cannocchiale rovesciato, com’è forse inevitabile di fronte al culto di una personalità. È un fatto che, di tutte le figure di culto della nostra equivoca fine secolo, quella di Gandhi autorizza una confidenza affabile, senza troppa soggezione.

(tratto da “la Repubblica” del 15/5/98)

Obiettori senza vitto e alloggio

Carlo Reggiani ha terminato il servizio civile il 09.11.97 e, da più di un anno, ha aperto un contezioso con il Ministero della Difesa in merito alla questione vitto e alloggio.

La Convenzione stipulata tra Levadife e la Soprintendenza per i Beni Ambientali ed Architettonici del Veneto Orientale (ente di assegnazione di Carlo), prevede che l’ente non sia tenuto, nemmeno a fronte di una richiesta avanzata dagli obiettori, a garantire vitto e alloggio.

Gli obiettori, assegnati ad enti con siffatte convenzioni, sono palesemente discriminati; non solo sono costretti a mantenersi a proprie spese per vitto, alloggio e trasporti, ma i loro genitori non possono nemmeno godere delle “detrazioni fiscali per figli a carico” perché, durante il servizio civile, gli obiettori sono considerati a “carico” dello Stato.

Su interessamento della LOC di Verona, il Sen. Russo Spena presentò, ancora all’inizio del 97, una interrogazione al Ministero della difesa per chiedere delucidazioni in merito ma, fino ad ora, nessuna risposta.

Carlo non si è dato per vinto e, sebbene abbia terminato il servizio, si è rivolto al Difensore Civico Regionale, Prof. Lucio Strumendo; anche lui attende chiarimenti dal Ministero della difesa.

Il caso sollevato da Carlo è interessante per due motivi:

a) indica, nel Difensore Civico Regionale, un nuovo referente istituzionale (la cui efficacia è tutta da verificare) per la difesa dei diritti degli obiettori;

b) sottolinea come la gestione ministeriale del servizio civile abbia creato uno stato confusionale; in materia di vitto ed alloggio, le Convenzioni Ministero-Enti prevedono ben 4 tipologie; vi sono infatti enti:

1) tenuti ad obbligare i propri obiettori ad utilizzare vitto ed alloggio dell’ente;

2) tenuti a fornire vitto e alloggio solo se gli odc ne facciano richiesta;

3) che dispongono di una situazione mista (p.e. vitto e alloggio obbligatorio solo per 4 odc sui 10 previsti dalla convenzione);

4) non tenuti, anche a fronte di una richiesta dell’obiettore, a fornire vitto e alloggio.

Per il Ministro è tutto normale; il Sottosegretario Rivera si è affrettato a ribadire (senza spiegare in base a quale norma) che gli odc hanno l’obbligo di rientrare a dormire entro le ore 23.00, ma latita di fronte alla rivendicazione di un trattamento economico degno di uno stato civile.

Ulivo, se ci sei batti un colpo!
Ultim’ora

SE 25 ANNI VI SEMBRAN POCHI…

Il 16 Giugno il Senato della Repubblica ha approvato il testo di legge per la riforma dell’obiezione di coscienza, precedentemente licenziato alla Camera dei Deputati, senza apportarvi nessuna modifica. Il testo passa ora alla firma del Presidente della Repubblica ed entro 15 giorni diventerà ufficialmente Legge dello Stato.

Il capitolo riforma, però, non può ancora considerarsi chiuso poiché nei prossimi mesi verrà istituito l’Ufficio per il Servizio Civile Nazionale e vi sarà la stesura dei regolamenti; su questi punti ci sarà ancora molto da dire per cercare di migliorare ulteriormente l’impostazione del servizio civile.

Nel prossimo numero tutti gli aggiornamenti.

6° CORSO INTERNAZIONALE
Diplomazia popolare, Nonviolenza e ricostruzione delle società post-belliche

Rovereto, 27 settembre – 18 ottobre 1998

PRIMA SETTIMANA (27 settembre – 4 ottobre)
La trasformazione del conflitto e la diplomazia popolare

Relatori: Simona Sharoni (membro del Comitato Scientifico dell’UNIP)

Mohammed Abu-Nimer (American University, Washington DC, U.S.A.)

SECONDA SETTIMANA (5 – 11 ottobre)
Teoria della nonviolenza, politica del perdono e futuro gandhiano

Relatori: Chaiwat Satha-Anand (membro del Comitato Scientifico dell’UNIP)

N. Radhakrishnan (Direttore, Gandhi Smirti & Darshan Samiti, Nuova Delhi, India)

TERZA SETTIMANA (12 – 18 ottobre)
Ricostruzione spirituale ed istituzionale di società postbelliche

Relatori: Jan Øberg (membro del Comitato Scientifico dell’UNIP)

Kishore Mandhyan (Capo della Sezione Affari Civili dell’ONU a Mostar – Bosnia)

Al Corso possono partecipare trenta persone, alle quali è richiesta la presenza e la frequenza di tutti i seminari. È richiesta una buona conoscenza dell’inglese scritto e parlato. Entro dieci giorni dopo aver ricevuto l’avviso dell’avvenuta ammissione al corso, ciascun corsista deve confermare alla segreteria dell’UNIP la sua partecipazione. Al termine del corso sarà rilasciato un certificato di presenza. Il corso dell’UNIP si svolge a Rovereto nel Palazzo dell’Istruzione.

INFO: Segreteria dell’UNIP, Palazzo dell’Istruzione, Corso Bettini, 84 – 30068 Rovereto (TN)

Tel. +39/464/424288, fax +39/464/424299 E-mail: iupip@inf.unitn.it

contributi sul c/c postale 1482564

War Resisters’ International 22.ma Conferenza Triennale
Scegliere la Pace Insieme
19 – 24 settembre, Porec (Parenzo), Croazia

I temi dei gruppi di lavoro:

Nonviolenza e radicamento sociale
Ricostruzione e democratizzazione
Identità e conflitti
Azione per la pace e Nuovo Modello di Difesa
Donne in prima linea
Le radici del movimento e processi di pace
L’economia nell’era della globalizzazione
Disobbedienza civile a azione per l’ambiente

INFO: W.R.I., 5 Caledonian Road, London N1 9DX, Britain.

Tel.: ++44-171-2784040, fax: +44-171-2780444

Di Fabio