Azione nonviolenta luglio agosto 1999
– L’opposizione alla guerra e’ seme: concreto e fecondo, di Daniele Lugli
– Sul pacifismo e sulla nonviolenza, di Pietro Pinna
– La finanza di Gulliver e noi lillipuziani, di Pasquale Pugliese
– Un sindaco non molto comune
– Un assessore fuori dal comune
– Il dolce far niente con il piacere della pigrizia, di Christoph Baker
– Suoneranno le nostre campane, di Paolo Predieri
– Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, di Claudio Cardelli
– Alcune considerazioni sul dopoguerra
– Alexander Langer: il pensiero della testimonianza, di Roberto Dall’Olio
– A Telves per ricordare Alex Langer, di Alberto Trevisan
– Ci hanno scritto
UNA RIFLESSIONE STORICA DOPO IL CONFLITTO
L’opposizione alla guerra è seme: concreto e fecondo
di Daniele Lugli
Il tema sempre attuale di come ci si possa efficacemente opporre alla guerra, il fascicolo curato da Enrico Peyretti nell’80° anniversario della prima guerra mondiale, la proposta di Pinna di porre come obiettivo importante del prossimo Congresso del Movimento l’effettuazione di una Marcia specifica, che raccolga tutte le forze che si ispirano ed operano per la nonviolenza, mi inducono a proporre un modesto ricordo di Giacomo Matteotti (1885 -.1924), riportando pochi brani di scritti, che spero stimolino una lettura integrale ed una più diffusa conoscenza.
“Siamo venuti in questo luogo, dove ebbe inizio il martirio di Giacomo Matteotti, per due ragioni connesse con il nostro lavoro e la nostra speranza. Una è che Matteotti nei primi mesi del 1915 condusse una campagna chiarissima contro la guerra auspicando che il proletariato italiano desse al mondo l’esempio della lotta nonviolenta per la neutralità; l’altra ragione è che egli veramente pagò con la vita la fedeltà assoluta al metodo nonviolento”. Con queste parole Aldo Capitini, a Roma davanti al cippo dedicato a Matteotti, concludeva la prima marcia specifica del movimento nonviolento nell’aprile del 1965.
Il carattere profondamente nonviolento di tutta l’azione di Giacomo Matteotti merita un’illustrazione ed un approfondimento che io neppure abbozzerò. Mi limiterò qui a richiamare il suo impegno contro la guerra. Si tratta di un aspetto, già sottolineato con forza da Pietro Gobetti, nel ricordo che gli dedicò, prima di cadere a sua volta, all’età di 25 anni, vittima della violenza fascista: “…Matteotti parlava contro la violenza con un linguaggio da cristiano: nella folla fremevano fascisticamente spiriti di dannunzianesimo e piccolo cinismo macchiavellico. Difendere la neutralità poteva essere la difesa di un errore: Matteotti parlò contro la guerra… “. La sua campagna contro la guerra è illustrata e documentata in modo esauriente da Stefano Caretti, ai cui scritti faccio quindi riferimento.
Ad opporsi all’intervento dell’Italia, come è noto, all’inizio sono in tanti: dalla Chiesa
( il Papa parla di “inutile strage”), alla maggioranza delle forze di governo e di opposizione. In particolare la Direzione socialista, d’intesa con i capi confederali, proclama la mobilitazione dei lavoratori contro la guerra nell’estate del 1914 ed afferma, il 29.7.1914, opposizione recisa ed implacabile alla guerra con ricorso a tutti i mezzi per impedire l’intervento italiano. Nel gennaio del 1915 il tono della Direzione è già cambiato: ” se il proletariato sarà costretto a subire la guerra saranno della borghesia le responsabilità storiche e politiche”.
Questo arretramento non sorprende Matteotti che, in una lettera alla fidanzata, inizio settembre 1914, scrive: “Il pensiero di coloro che stanno uccidendosi è terribile; e mi par giusta l’insurrezione se si volesse domani con assai poca lealtà lanciarci in guerra contro l’Austria. Ma tira il vento di piccole viltà anche nel mio partito.”
Matteotti si impegna a fondo perché il Partito socialista, nel quale milita con grandissimo impegno e straordinari risultati, dia concreta traduzione alla contrarietà alla guerra, così recisamente affermata. In vari articoli ribadisce la sua posizione di neutralità assoluta, respinge ogni accusa di astrattezza ed infecondità ad una opposizione spinta fino all’insurrezione, indica l’esempio del socialista tedesco Liebknecht che, anche contro la disciplina di partito, vota al Reichstag contro i crediti di guerra:
” Anche se, per dannata ipotesi, la nostra opposizione alla guerra non dovesse trionfare essa non resta, no, una posizione trascendentale, infeconda. Essa è la preparazione del nostro avvenire; e nulla vi è di più fecondo, di meno trascendentale, delle sementa. Noi dobbiamo essere oggi contro la guerra, magari anche inutilmente, purché domani sia possibile avere un proletariato educato all’avversione irreducibile contro la guerra” in La Lotta 31.10.1914 .
” Non i cattolici di Vienna o Monaco sono insorti contro la guerra; essi sono cristiani, ma intanto aiutano a sgozzare i fratelli cristiani di Francia e del Belgio. Contro la guerra è soltanto un socialista… Carlo Liebknecht non ha temuto il fucile e il capestro prussiano. Temeranno i socialisti d’Italia e del Polesine i fucili e i capestri nostrani, per non rivendicare l’unione dei lavoratori contro tutte le guerre, per tutte le libertà?” in La Lotta 12.12 1914.
“E’ permesso indicare al nostro partito il dovere di opporsi con tutte le armi possibili all’intervento, senza confondersi né con i miracolisti anarcoidi, né con i dogmatici che segnano sempre il passo sullo stesso piede di terreno…Un milione di proletari organizzati nell’Italia settentrionale sono sufficienti a far riflettere qualsiasi governo sulla opportunità di aprire una guerra; poiché non soltanto noi dovremmo preoccuparci di ‘aggiungere anche la guerra civile’; e non sappiamo sino a dove si possa temere uno spargimento di sangue, se altrimenti la grande guerra falcerebbe nel nostro stesso campo centinaia di migliaia di vite” in Critica sociale 1-15.2.1915.
” Noi non auguriamo e non desideriamo la vittoria di nessuno. Chiunque dei due raggruppamenti dovesse vincere vi sarà un popolo vinto che preparerà la rivincita per domani e quindi nuove guerre” in La Lotta 8.5.1915.
Con lo stesso tono prosegue con altri interventi fino all’articolo, amaro, sarcastico, profetico, intitolato L’ultima vergogna, del 21 maggio 1915, che si propone integralmente.
Già con estrema decisione si era schierato contro la guerra coloniale di Libia, con articoli, interventi e promuovendo diverse manifestazioni, sino a quella nella grande corte della sua abitazione, nel giugno del 1912, aggirando, creativamente, il divieto di manifestazioni in luogo pubblico del prefetto. Un’orgia di chiacchere antipatriottiche e volgari a Fratta titola in quell’occasione il Corriere del Polesine. E nel già ricordato articolo Socialismo e patria del 31.10.1914 era tornato a parlare dell’aggressione coloniale italiana: “Se vi è un luogo piuttosto dove oggi si lotti per la libertà della patria, quest’è in Tripolitania, e non di qua dalle prime dune di sabbia”.
Da deputato sottolinea, con dati incontestabili, l’esorbitante costo delle guerre, che ai cittadini in generale tocca sostenere, mentre una minoranza si arricchisce con sovraprofitti.
Nel partito, nelle leghe bracciantili, nei consigli comunali, ovunque propone un’intransigente opposizione alla guerra. Lo attestano, tra l’altro, numerosi ordini del giorno da lui proposti ed approvati in comuni del Polesine, dove Matteotti è consigliere ( a Villanova anche Sindaco). Secondo la legge dell’epoca infatti nel Comune dove hai immobili o paghi imposta sei elettore ed eleggibile. Nel Consiglio provinciale di Rovigo, siamo al 19 marzo del 1915, sostenendo un odg per la neutralità assoluta, afferma ” Una cosa soltanto è da deplorare da parte nostra: che il proletariato e il partito socialista italiano non sappiano in questo momento insorgere contro ogni guerra; perché soltanto così si preparerebbe la resurrezione dell’Internazionale, nella quale è la vera, l’unica libertà, del proletariato di tutte le patrie”.
Per questa attività è oggetto di intimidazioni ed aggressioni, che preludono alla persecuzione, che si concluderà con il suo assassinio nel dopoguerra per mano di sicari fascisti. Fin dal 5 febbraio 1915 il Corriere del Polesine, giornale degli agrari, profeticamente titola Il Dottor Matteotti deve scomparire.
Anche a guerra iniziata il suo atteggiamento non cambia. In Consiglio provinciale a Rovigo il 5.6.1916 gli viene tolta la parola per sue dichiarazioni disfattiste, e viene denunciato. Secondo il rapporto del Prefetto Matteotti intervenuto sulla proposta di erogazione di un contributo ai profughi, per fatti di guerra, della provincia di Vicenza “gridava ‘ Abbasso la guerra’ e rivolgendosi ai membri della maggioranza che emettevano espressioni patriottiche in favore della guerra gridava: ‘ Siete degli assassini’. Inoltre avendo qualche membro della maggioranza gridato: abbiamo il nemico alle porte! il Matteotti gridava : ‘ A noi non importa, noi siamo dell’Internazionale, sì, siamo, come dite voi, dei senza patria; siete dei barbari, dei barbari in confronto degli austriaci; le manifestazioni patriottiche sono delle provocazioni ai nostri sentimenti”. Nella lettera alla moglie Matteotti dà così notizia del fatto: “Ho detto loro quel che avevo nell’animo, contro la barbarie e inciviltà della guerra; ne è nato uno scandalo – minacce di arresto. Poi tutto è finito nel nulla”.
La cosa non finisce proprio nel nulla, ma in una condanna mite: un mese di carcere con la condizionale. Nella sentenza, del 5 luglio, il pretore di Rovigo cita Turati, secondo il quale è ” odioso e scellerato non cooperare alla vittoria a guerra guerreggiata”, ma deve prendere atto che “il dottor Matteotti ha rivendicato a sè il diritto alla più illimitata libertà di parola, considerando che, nel più dei casi, le dottrine giudicate aberrazioni in un’epoca appartengono a verità indiscusse in una più o meno lontana”.
Nel rapporto del Prefetto al Ministro degli Interni possiamo leggere:
” Il Matteotti nella sua autodifesa – era avvocato – premettendo che una condanna gli avrebbe fatto onore e che è sempre fermo nei suoi principi internazionali, contrari alla guerra, disse che le parole per cui oggi viene incriminato, ripetendosi le stesse condizioni di tempo e di luogo, egli le pronuncerà senza esitazioni; anzitutto perché esse non costituiscono reato, poi perché sono l’emanazione dei princìpi che professa. Parlando della vittoria delle armi italiane, disse che essa non ha nessuna importanza per i socialisti dato che per vittoria si intende la conquista di un tratto di territorio da parte di un governo, più o meno reazionario, oppure da un altro. Infine il Matteotti ripeté che le sue idee non le cambierà per l’effetto di una condanna; che se la direzione del partito ordinasse di fare la rivolta, sarebbe il primo ad andare nelle campagne a provocarla”.
Subito dopo il processo, Matteotti all’epoca ha trent’anni, viene richiamato alle armi, dal congedo illimitato come riformato, a prestare servizio, non in zona di guerra e sotto stretta e minuziosa sorveglianza, sino al marzo 1919. Pure in quella condizione di segregazione non attenua la sua opposizione. Ricorre contro la condanna, finché la Cassazione gli dà ragione il 31.7.1917, dettando una tassativa condizione all’avvocato che lo rappresenta: “Né esitazioni, né ripiegamenti – anche se potessero valere all’assoluzione; precisa e decisa riaffermazione dei nostri principi e dei nostri ideali. Unica tesi difensiva il mio diritto a dire quello che ho detto e a fare quello che ho fatto”. Scrive alla moglie ” Il giuramento è letto ad alta voce dal capitano, professa fedeltà al re e successori ecc., e i soldati poi alzando la mano gridano ‘Lo giuro’ tutti insieme. Devo a questa circostanza e alla facilità con la quale così ho potuto tacere in mezzo agli altri, di non aver provocato un incidente. Infatti a tutti i costi io non avrei giurato: possono pretendere da me un contegno esteriore, ma nemmeno l’ultimo lembo del mio pensiero e della mia coscienza”.
Anche a guerra finita si oppone a che il suo partito si associ, come scrive a Turati, a manifestazioni di esaltazione della vittoria ” di una vittoria che per un altro proletario si risolve in una sconfitta e in una oppressione. Perciò ti avevo sempre scritto nel senso di patria libera e mondo senza guerre. Ma mai più oltre” e contesta la serietà di leggi che propongono la confisca dei sovraprofitti di guerra: “Il profitto di guerra rappresenta, in sintesi, il profitto capitalistico: così come il cristallo fabbricato in due giorni nel laboratorio del chimico rappresenta, in sintesi, il cristallo creato dalla natura in anni e secoli: la borghesia che non sente l’ingiustizia del profitto e del sistema capitalistico, e che non comprende il socialismo, non potrà neppure colpire e confiscare il profitto di guerra”.
L’ultima vergogna in La Lotta, 21 maggio 1915
Doveva finire così.
Cioè doveva cominciare così: la povera bestia doveva andare al mattatoio gridando gioiosa, le bandierine multicolori infisse sul capo, e i battimani sollazzevoli della studentaglia in calzoni semicorti.
Non bastava loro un contadino, un operaio ancora incosciente, che lasciasse la casa con l’occhio mansueto ma triste per le lacrime nascoste; ci voleva ancora la grande ubriacatura, conforme lo stile francese, quando in Francia non correvano sulla via del ritorno i treni carichi di feriti sanguinanti e i morti non si disfacevano insepolti sulla vasta campagna.
I cultori dell’ordine hanno in questi giorni esaltato la piazza.
I costituzionali hanno stampato sui loro giornali che il capo dello stato trescava con i traditori.
I professori in palandrana hanno esaltato il monello che rompeva le vetrine.
Il teppista divenne eroe.
L’Italia ha voluto la guerra si è poi detto; e ognuno di voi infatti ha visto l’Italia nelle dimostrazioni di studenti che non si arruolano e di impiegati che si sono assicurati l’esonero dal servizio militare o la paga intera per tutto il tempo di guerra. Ognuno di noi ha visto l’Italia in quella masnada di gente che dopo aver per anni curvato la schiena a Giolitti, attendendone o ricevendone favori, ieri è uscita, per comando, sulle porte dei ministeri e degli uffici e ha esaltato il nuovo padrone, e ha ottenuto mezza giornata di vacanza pur che andasse a dimostrare.
Ognuno di noi ha visto il degno poeta d’Italia ( D’Annunzio ) in quel piccolo mantenuto di donne, fuggito in Francia per debiti, e restituitoci per porto affrancato dalla massoneria repubblicana.
Poiché oggi soltanto l’oro tedesco è per i traditori. L’oro francese o inglese fa brillare invece del più puro e più nobile patriottismo.
Chi è sorpreso a parlare per la strada a uno svizzero tedesco è un fedifrago; chi riceve l’articolo dattilografato e pronto dall’ambasciata francese è un patriota difensore del sacro egoismo.
Giolitti che preferiva contrattare con l’Austria, è il traditore, l’indegno mercante.
Salandra che ha contrattato per mesi con l’Austria e la Germania, che non s’è accordato soltanto per una differenza di prezzo, che infine ha contrattato territori e genti con la Triplice intesa, quegli è il rivendicatore dell’ideale.
Ah, perché non si è elevato in alto un terzo, un uomo che venisse su dal popolo, e rovesciando l’idolo della pavida neutralità giolittiana da una parte, rovesciando quello dell’interventismo salandriano dall’altra, ne mostrasse dietro tutti e due le impalcature borghesi, essenzialmente mercantili, fatte di truffa e di trucco – così che la grande folla, assente dalle dimostrazioni dei giorni scorsi, non dubitasse un istante per armarsi e distruggerle e piantarvi la bandiera della pace umana.
Troppo debole è stato il proletariato italiano; e mentre in molte città e in quasi tutte le campagne la folla operaia picchiò sodo sulle spalle interventiste in fuga e accompagnò i richiamati alla stazione gridando abbasso la guerra – essa si è lasciata piuttosto illudere da tutta la stampa radico-clerico-repubblico-agraria, che gonfiava le dimostrazioni interventiste nascondeva le altre – ha dimenticato che i poliziotti e i birri nelle città ammanettavano i gruppi socialisti, per far argine e corona agli interventisti d’ogni colore – e ha creduto che passasse la volontà d’Italia.
Così domani si presenterà alla camera il ministero Salandra ripulito di tutte le macchie mercantili; e la stampa democratica, che non è pagata perché l’oro francese non prende macchia, intesserà la laude e l’inno della vittoria.
Prepariamoci ormai a veder dilagare la menzogna; prepariamoci a leggere vittorie sopra vittorie; i socialisti sotto il bavaglio della censura o alla mercé di ogni revolver di birro non esisteranno più; il re amico di Guglielmo diventerà il gran re della Vittoria, e ogni piccolo savoiardo sarà un eroe incommensurabile; ogni borgo celerà al borgo vicino l’ospedale doloroso che ha raccolto dentro le mura al posto delle scuole; e Rapagnetta ( sempre D’annunzio) venderà una gesta per ogni decade.
Orsù, lavoratori che fate? Levatevi il cappello, passa la patria e ormai non ci sono più socialisti; passa la rovina, passa la guerra, e voi date ancora la vostra carne martoriata.
UN DIBATTITO PER NOI DECISIVO
Sul pacifismo e sulla nonviolenza
Questo articolo, redatto nei primi anni ’90 in prosecuzione del dibattito su pacifismo e nonviolenza divampato in occasione della Guerra del Golfo, non venne allora pubblicato. Quel dibattito, confuso e inarticolato, si spense poco dopo nel nulla, svanito il sussulto delle bombe. Torna oggi a riesplodere, mera reazione emotiva a quest’ultima ennesima guerra, sempre negli stessi inconcludenti termini. Da qui la determinazione di fornire il contributo di quelle riflessioni rimaste allora senza pubblicazione, pur ora pienamente attuali.
di Pietro Pinna
Nel fascicolo ottobre ’90 di Azione Nonviolenta avevamo già esposto il nostro pensiero sulle diverse posizioni pacifiste, anche “nonviolente”, che si erano espresse in merito all’intervento militare nel conflitto del Golfo. Successivi interventi di lettori ritornano a dibattere, con versioni contrastanti, sulla corretta interpretazione pacifista da dare alla nonviolenza, prendendo a riferimento la specifica posizione del Partito Radicale. Queste continue incertezze e malintesi sul modo di intendere e di praticare la nonviolenza, in cui si trovano a divergere tanti stessi nonviolenti dichiarati, ci inducono a proseguire il confronto con ogni possibile impegno, essendo la questione di importanza cruciale per l’acquisizione di un’immagine adeguata della nonviolenza e quindi per il suo esatto operare.
La vertenza sostanziale consiste nella distinzione tra la nonviolenza cosiddetta “assoluta” (di principio, mai derogabile) e la nonviolenza relativa, condizionata, pragmatica, che non esclude l’ammissibilità del ricorso alla violenza in determinate circostanze. Per chiarezza e concisione suddivideremo la questione in punti –con l’avvertenza che l’ambito della presente discussione è limitata al problema dei conflitti di gruppo, con particolare riferimento alla guerra.
1. Il pacifismo nonviolento.
Circa il modo autentico di intendere la nonviolenza, nella sua sintetica caratterizzazione basilare, ci eravamo già avvalsi della lucida definizione datane da Norberto Bobbio :” La nonviolenza, in senso stretto e storicamente appropriato, è quella che propone e difende l’uso di mezzi nonviolenti in quelle situazioni estreme (per esempio, nel caso di resistenza ad una oppressione intollerabile) in cui la violenza è considerata per comune opinione legittima (…). Ciò che caratterizza la nonviolenza è l’uso di mezzi nonviolenti anche quando le teorie tradizionali giustificano l’uso della guerra (…)”. Tale essendo dunque la nonviolenza, risulta allora priva di senso, un mero pleonasmo, l’imputazione di “assoluta” (o dogmatica, o metafisica) che le viene fatta. E’ nonviolenza e basta (se poi essa piaccia o no, la si consideri o no valida, è un altro discorso): è propriamente questo “assoluto” – dell’uso di mezzi nonviolenti anche nelle situazioni estreme, quale elemento e condizione essenziale e vincolante- che fonda e caratterizza la nonviolenza , senza il quale il concetto stesso di nonviolenza non verrebbe a porsi. Parlare di non violenza e poi derogare da quell’assoluto, significa uscire dalla nonviolenza, negarla. Per cui, più che improprio, incongruente e arbitrario è qualificarsi da nonviolento in questo atteggiamento di deroga (di departure, nell’espressione di Gandhi): se vogliamo non confonderci e confondere, sospendiamo in quella data circostanza di chiamarci nonviolenti; od al più, aspirando a tener vivo un qualche riferimento alla nonviolenza, diciamoci null’altro che nonviolenti relativi (o potenziali, parziali o quant’altro)- che è infatti la posizione dei vari pacifismi non antimilitaristi, ripudianti a parole la guerra ma che nei fatti la ammettono e la preparano continuando a tenerne in piedi lo strumento portante, ossia l’esercito. (Giusta pertanto è la critica fatta all’incongruente posizione del “nonviolento” Olivier Dupuis, elogiato da Marco Pannella come obiettore di coscienza belga, incarcerato perché rifiutava la divisa dell’esercito del Belgio, ma che indosserebbe la divisa di un esercito europeo”. E contraddizione in termini è, continuando a proclamarsi nonviolenti, condividere decisioni di guerra, come è stato fatto da esponenti radicali nel conflitto del Golfo).
2. Mistificazione della nonviolenza gandhiana.
Con una gran confusione e vero stravolgimento, a sostegno di una posizione di nonviolenza relativa che si vorrebbe legittimare come autentica nonviolenza, si cita Gandhi, laddove egli viene a immaginare situazioni di ammissibilità del ricorso alla violenza. Lo stravolgimento della posizione gandhiana viene compiuto non distinguendo l’atteggiamento del nonviolento, presentato da Gandhi come proprio ineludibile dovere, dall’atteggiamento di quanti, non impegnati per principio alla nonviolenza, non trovano altro mezzo che quello violento per fronteggiare il conflitto. Si viene così a citare solo in parte una frase di Gandhi in cui egli dice di preferire al codardo che si sottomette passivamente all’oppressione, colui che invece vi si ribella con la violenza. Presentata a sé stante, la parziale citazione riduce banalmente Gandhi ad assertore della morale tradizionale della “violenza a fin di bene” (con cui si viene giustificando e commettendo nei millenni ogni sorta di misfatti e di guerre). Con patente distorsione, finiamo in tal modo a cancellare il Gandhi della nonviolenza, la straordinaria novità della sua lezione politica, consistente appunto nel ripudio della vecchia morale e l’introduzione nella storia umana della nuova morale della nonviolenza. Ad uscire dalla mistificazione, non v’è che da leggere la citazione da Gandhi nella sua interezza: nella stessa frase infatti, egli ha cura di aggiungere –a scanso di equivoci- che alla risposta violenta all’oppressione egli preferisce la risposta nonviolenta.
A un’altra affermazione gandhiana si fa ricorso per ridurre il principio nonviolento ad una posizione di nonviolenza condizionata : “Il mio dovere è di astenermi da ogni violenza e di indurre quante più creature a seguire il mio esempio. Ma sarei insincero nella mia fede se rifiutassi di sostenere in una giusta causa degli uomini o dei provvedimenti la cui azione non coincide perfettamente con i princìpi della nonviolenza”.
Ora, esattamente a proposito dell’”assoluto” della nonviolenza viene ad esprimersi Gandhi nella prima parte della citazione, affermando il dovere per il nonviolento di astensione da ogni violenza. Una volta ben fissato e distinto questo suo proprio atteggiamento, nella seconda parte Gandhi non fa che esprimere la sua adesione mentale al comportamento di altri non aderenti alla nonviolenza. E dice –poiché il nonviolento non è un qualunquista e sa distinguere secondo ragione l’equo dall’iniquo- di non esprimersi dal “sostegno” a quell’azione pur imperfettamente nonviolenta per una giusta causa: sostegno non certamente pratico, di partecipazione personale, ma di “simpatia”, come in una circostanza reale si espresse Gandhi nei confronti degli Alleati visti come difensori della democrazia contro il totalitarismo nazista, ma che avrebbe voluto impegnati ad un contrasto con mezzi nonviolenti.
(Alla luce di questa considerazione, nulla v’è pertanto da eccepire all’iniziativa di fine anno ’90 di Pannella e altri radicali di recarsi da nonviolenti, disarmati, su uno dei due fronti combattenti nell’ex-Jugoslavia a dare il proprio sostegno, ideale, non militare, alla parte croata patentemente e proditoriamente aggredita dall’esercito serbo).
3. Distinzione tra violenza militare e repressione poliziesca.
Ancora a sproposito si cita Gandhi per sostenere, contro il pacifismo assoluto, la tesi della relatività della nonviolenza: ”Non ho il coraggio di affermare che potremo fare a meno di una forza di polizia come lo affermo riguardo all’esercito”. Non distinguendo tra la diversa funzione e modi di operare dei due enti, polizia ed esercito, si vuole far risultare che l’accettazione del primo ente induce all’ammissibilità del secondo. Ma sull’esercito le parole di Gandhi non possono essere più chiare, affermanti alla lettera il suo pacifismo assoluto nel rifiuto senza riserve di esso. La relativizzazione, invece, ammessa da Gandhi nei riguardi della polizia deriva dall’essere questo ente di natura qualitativamente diversa da quella dell’esercito. Mentre infatti l’azione violenta di quest’ultimo è proditoria e indiscriminata, comportante l’uccisione di moltitudini di persone, e non sottoposta a legge alcuna se non quella del più forte, l’operato della polizia è circoscritto, indirizzato in via specifica ed esclusiva alla repressione del diretto colpevole, e regolato da leggi prestabilite (“lontano da quegli eccessi di distruzione e di eccitazione psichica e di impersonalità che ci sono per gli eserciti e le guerre”, dice Capitini).
4. Il risvolto pratico dell’impegno nonviolento.
Se definitivamente chiarito sul piano concettuale questo punto del pacifismo assoluto della nonviolenza (opposizione immediata e integrale ad ogni apparato bellico), resterebbe tuttavia da discutere il problema del risvolto pratico di essa: qual è il valore, la portata da assegnare qui, nel presente, alla nonviolenza impegnata al superamento dei grandi conflitti che avvelenano la convivenza umana? (problema delicatissimo, tutto sotto giudizio perché in divenire – l’idea della nonviolenza politica è ai suoi primi passi nel mondo – , e che mai posseduto induce ai tanti tentennamenti e sviamenti da esso). Ci limitiamo, in questo articolo d’occasione, a farne appena un cenno (la letteratura e l’esperienza nonviolenta ha già un cospicuo patrimonio da offrire al riguardo), il semplice riferimento a quanto espresso per la circostanza dal Partito Radicale. Sentiamo Marco Pannella: ”Il nonviolento deve proporre qualcosa di altrettanto efficace della violenza, essere capace di fornire soluzioni altrettanto e più efficaci, se no è sconfitto come sempre è stato sconfitto in tanti anni. Non si può fare il pacifismo perdente, il pacifismo dei funerali”. Ci sarebbe da osservare, rieccheggiandone un attimo il lamento, che non si capisce se in questa sua critica Pannella non si riferisca, piuttosto che ad altri, a se stesso e al suo partito, visti gli ormai parecchi lustri di suo ingaggio politico nonviolento con l’effige di Gandhi a proprio emblema. Per ciò che riguardasse il Movimento Nonviolento, possiamo replicare serenamente di non sentirci parte degli sconfitti in quanto, essendoci deliberatamente posti in un campo di lavoro che usiamo definire pre-politico (inteso come non partitico, non concorrente in prima istanza alla conquista del potere istituzionale), non abbiamo mai preteso di poter misurarci ed esercitare nell’immediato un potere decisivo al livello dei grandi conflitti politici.
Sta qui appunto la nostra divergenza con il farsi della politica radicale: non sul contenuto (chi non vorrebbe esser capace di fornire già “qui ed ora” soluzioni efficaci “per il perseguimento di ideali di democrazia, di libertà, di giustizia e di pace, com’è nella tensione di Pannella?), ma sull’approccio, sul metodo.
La divergenza è oramai di vecchia data, precisamente da una quindicina d’anni, dopo l’intesa e la collaborazione – si veda proprio nel campo antimilitarista, ora dismesso dai radicali – attuata fino al periodo in cui il gruppo radicale operava come movimento e non, come poi dal 1976, come partito, tutto assorbito e confinato nell’attività parlamentare. Fin da quella data di svolta, Pannella si lusingava di portare la sua attività nonviolenta, dilà dalla semplice “testimonianza”, nel cuore della “polis”, qui ed ora partecipe e protagonista diretto della realtà politica, partitico-istituzionale, italiana. La nostra riserva era che non esisteva spazio – soggettivamente, visto lo scarso sviluppo della cultura e delle forze nonviolente; oggettivamente, data la soverchiante ed inossidabile presenza dei partiti di massa – per un’attività a quel livello. Soltanto pochi anni fa, dopo quasi tre lustri di annaspamenti, di frenetico attivismo alla rincorsa di chimerici successi elettorali (“sempre ai limiti dell’autochiusura per non rischiare di essere fiori all’occhiello del regime partitocratico”, secondo l’autodescrizione dello stesso Pannella), il Partito Radicale ha saputo riconoscere quella verità, e nella deriva delle sue fallaci pretese ha dovuto decretare la propria liquidazione quale partito politico italiano – trovandosi inoltre ad avere sperperato quel cospicuo patrimonio di credito e di preminenza tra le forze alternative che si era meritatamente conquistato quando operava come semplice movimento.
5. Il varco della nonviolenza.
Altro –noi dicevamo – è l’orizzonte a cui guarda la nonviolenza, e altro è il suo approccio, il metodo di intervento. Il compito della nonviolenza era in via preminente di portata educativa, di indispensabile aggiunta morale al mondo strettamente politico (senza cui non si danno ordinamenti e modi corrispondenti al bene generale): compito – attraverso l’affermazione di valori validi per tutti, “apertura all’esistenza, alla libertà e allo sviluppo di tutti”- di rinnovamento “religioso” nel segno dell’unità mondiale, che congiuntamente e semmai anteriormente agli angusti e settoriali problemi nazionali investiva l’orizzonte dei problemi comuni planetari; nonviolenza come esigenza e fatto di tutti, in ogni angolo e sistema sociale della terra (“varco attuale della storia”, secondo il richiamo di Aldo Capitini in sintonia con l’insegnamento gandhiano di portata universalistica). Compito storico straordinario e fondamentale, quello della nonviolenza, in una realtà di dilagante egocentrismo e materialismo, dove Stati, partiti, chiese, centrali sindacali, imprese, ossia tutti i centri dominanti della vita politica, sociale e culturale, dappertutto nel mondo, sono trincerati nel proprio esclusivo interesse, e sostengono come principio dirimente nei conflitti quello del privilegio corporativo, del prepotere e della violenza – così anche condizionando e determinando un pari atteggiamento culturale e pratico nelle moltitudini. In una parola, realtà totalitaria questa in cui la nonviolenza si trova ad operare.
Orbene, è mai pensabile che in una realtà siffatta la nonviolenza possa affermarsi di colpo, esser forza tale da poter vincere da un giorno all’altro in conflitti tencemente radicati, dominati da impulsi, forze e mezzi immani? Per noi la cosa è assolutamente illusoria, nell’attuale fase embrionale di costituzione organizzata della nonviolenza, come impreparati voler arrestare una piena con un setaccio (da qui la cronica deriva dei vari movimenti pacifisti, che senz’aver prima posto l’antimilitarismo a base del rifiuto della guerra, senza nulla cioè aver fatto in anticipo per costruire un fronte desto e lottante a deligittimarne e scalzarne lo strumento militare, si ritrovano poi investiti dal torrente della guerra sempre a mani vuote, ridotti a semplicemente esecrarla o vanamente contrastarla con gesti d’assoluta irrilevanza, o addirittura a caldeggiarla prendendo la parte dell’uno o dell’opposto belligerante).
6. La “testimonianza” della nonviolenza.
Ma che ci serve allora questa nonviolenza se non dà risposta nel presente all’oppressione che ci sovrasta? Non possiamo, non vogliamo relegarci ad essere semplice testimonianza – insiste Pannella. Ecco una sua recente enunciazione: “Il Partito Radicale si propone istituzionalmente di organizzare nella vita politica e sociale la nonviolenza come partito politico, cioè parte e forza nei conflitti, tale da poter vincere o esser battuta; e non più, come finora nella storia, costituire forza di testimonianza, di mera reazione, o di ripiegamento nel sostegno della “violenza degli aggrediti” o di quella “più vicina al diritto ed alla giustizia”.
Lasciamo stare il discorso sulle acquisizioni storiche della nonviolenza, che pur ci sono state e rilevanti. Ma se consideriamo l’ampiezza globale dei conflitti di fronte ai quali la nonviolenza dovrebbe costituirsi come forza politica alternativa, è vero che nell’insieme essa non rappresenta ancor oggi, per il posto di infima minoranza e finanche di ripulsa in cui la politica e la cultura dominanti l’hanno fin qui relegata, poco più che una mera forza di testimonianza. Ma era forse più che semplice “testimonianza” quella degli infimi duemila antifascisti (di cui Pannella si professa erede, e che ci viene reiteratamente additando come modelli per l’oggi) ridotti in carcere, al confino, all’esilio, alla clandestinità? Potevano essi presumere, di contro al regime totalitario fascista ed ai cinquanta milioni di concittadini ad esso plaudenti o sottomessi, di farsi diretti portatori a tempo breve dell’abbattimento del regime? Ma essi non dismisero pertanto da quel loro essenziale preminente compito, persuasi che l’insana pianta del fascismo era comunque condannata a perire, e venendo la loro “testimonianza” a costruire il punto di riferimento attorno a cui si coagularono tant’altre forze di rinnovamento nel maturarsi delle condizioni per il suo crollo.
7. Il procedere attuale della nonviolenza.
Altrettale è al presente, essenziale e fondamentale, la posizione e il ruolo della nonviolenza, di fronte al totalitarismo dominante. Occorre lavorare ad una fase preliminare di squalifica e depauperamento del vecchio ordine nei suoi valori e strumenti e regole di vita, e di riorientamento spirituale al nuovo ordine: sua premessa, condizione indispensabile di partenza, la rigenerazione individuale interiore, “di qualità assoluta”, che dia garanzia di rinnovamento autentico, saldo, duraturo al nuovo ordine esterno istituzionale, la cui conquista sarà piuttosto il risultato delle idee, forze ed iniziative messe anteriormente in campo, anziché l’inizio del nuovo assetto (perché se l’uomo non vi si è già preparato nell’animo e nei modi di vita, pur nei nuovi ordinamenti non farà che ripetere il suo vecchio modo di essere).
Acquisizione quindi di un nuovo animo, sentimenti, idee; istituzione di “centri di fede e di lavoro”, aperti a tutti; loro collegamento, e suscitamento di larghe intese e solidarietà in campagne su problemi implicanti la coscienza e l’interesse di ciascuno in quanto essere umano, di qua da ogni posizione divisiva di ceto sociale, di ideologia, di etnia, di patria (centrale e prioritaria, la lotta contro il sistema militare che in tempo di pace consuma come un cancro un mastodontico capitale di intelligenza e di mezzi sottratti al benessere sociale, e che poi dei conflitti si fa esasperatore potente inducendoli al baratro della guerra –“l’espressione più pericolosa e più offensiva per l’intera umanità del vecchio modo di fare la storia”).
Solo mediante questa opera paziente e tenace di diffuso rinnovamento culturale e di consolidamento di una forza nonviolenta organizzata, stabile e adeguatamente consistente- attuando intanto per quanto possibile in sé e con altri quel nuovo modo di sentire e di vivere auspicato in via generale-, sarà allora possibile porre la nonviolenza quale forza di partito, concorrente e vincente anche sul piano direttamente politico, di governo istituzionale.
Alla fine, onore a Pannella. Liquidato il Partito Radicale italiano, egli è approdato alla costituzione del Partito Radicale transnazionale e transpolitico, “che in nessun caso può partecipare ad elezioni di qualsiasi tipo, né partecipare al governo delle istituzioni”. E, finalmente collimante con l’approccio politico nonviolento, così configura il processo della nuova creatura: ”Non essendo più competitivo con gli altri partiti sul piano elettorale, il Partito Radicale può così più agevolmente essere luogo di incontro di persone impegnate a qualsiasi livello nei più diversi Partiti tradizionali, o meno”. Dopo tanto tempo perduto alla vacua ricerca prioritaria del potere diretto di governo, quello speso alla prima fase di costruzione del potere nonviolento senza governo, ma che già sa influire “manovrando il consenso ed il dissenso”, sarà un tempo preziosamente guadagnato.
SEMINARIO SU ECONOMIA E NONVIOLENZA
La finanza di Gulliver e noi lillipuziani
La casa per la Pace di Pax Christi all’Impruneta, sui colli fiorentini, ha ospitato, nei giorni 19 e 20 giugno, il Seminario del Movimento nonviolento sul tema
ECONOMIA E NONVIOLENZA DAL PROGETTO ALL’AZIONE
di Pasquale Pugliese
Dopo la definizione dei capisaldi teorici di un’economia nonviolenta e sostenibile delineati nel 1° Seminario di Maguzzano, con questo nuovo appuntamento si è cercato di mettere a punto una prima mappa ed una qualche griglia interpretativa delle campagne in atto sui piani nazionale ed internazionale.
Nanni Salio, Francuccio Gesualdi e Giorgio Cingolani hanno animato due giorni di intenso lavoro che ha consentito ai partecipanti una chiarificazione dei nodi teorici e pratici da sciogliere nel passaggio dal progetto all’azione nonviolenta in campo economico.
La violenza strutturale
Nanni Salio, ricordando che questo Seminario si svolge all’indomani dei bombardamenti sulla Jugoslavia, ha sottolineato il fatto che l’Occidente (e gli Stati Uniti in primo luogo) sia costantemente in guerra contro il resto del mondo, perché l’economia occidentale è un’economia di guerra.
Economia di guerra è l’economia di rapina che consente a 225 persone una ricchezza privata pari al reddito del 47% della popolazione mondiale; economia di guerra è la politica della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale che, per esempio, smantellando le strutture economiche della Federazione jugoslava ne ha preparato la disgregazione; economia di guerra è la produzione delle armi che, alimentando le guerre, è funzionale al sistema economico occidentale.
Ciò dimostra che la violenza diretta, strutturale e culturale sono legate in un terribile circolo vizioso.
La violenza diretta, rispetto alla durata nel tempo, ha la maggiore intensità; la violenza strutturale produce la maggior quantità di violenza diffusa; la violenza culturale alimenta le altre perché fornisce i paradigmi giustificativi. Per quanto le guerre raggiungano alti vertici di distruttività, nel mondo si va sempre più affermando la violenza strutturale che è una guerra permanente contro noi stessi, gli altri esseri viventi e la natura, e che, quando serve, usa la violenza diretta della politica delle cannoniere.
Per contrastare la violenza strutturale e costruire una economia nonviolenta, Salio ha indicato la necessità di agire su tre livelli: micro, meso e macro.
A livello micro si agisce attraverso il cambiamento degli stili di vita: dal consumismo alla semplicità volontaria;
A livello meso attraverso le iniziative di economia locale, fondate sul dono piuttosto che sulla moneta;
A livello macro attraverso le campagne.
La strategia lillipuziana
Proprio sulle campagne si è soffermato Francuccio Gesualdi che ha ripercorso in breve la storia del Centro nuovo modello di sviluppo di Vecchiano.
Il punto di partenza dell’impegno del Centro sull’economia è stato il domandarsi perché un mondo tanto ricco produca un così elevato numero di poveri, e la constatazione che la povertà non è un caso, ma è frutto dell’impoverimento scientificamente organizzato da un sistema che divide la gente in due gruppi: gli utili e gli inutili.
Il primo impegno è stato quindi la pubblicazione della Lettera ad un consumatore del Nord con le proposte di boicottaggio delle merci inique e di commercio equo e solidale.
Successivamente, dalla riflessione che del commercio equo non beneficano i lavoratori delle multinazionali e dall’accordo con alcuni sindacati del Sud, sono scaturite le campagne nei confronti di Nike, Reebook, Artsana-Chicco ed oggi Chiquita.
Queste campagne, delle quali alcune continuano ed altre sono terminate, hanno però evidenziato il limite che il fenomeno della delocalizzazione produttiva, con i suoi alti costi umani e sociali, non può essere affrontato impresa per impresa. Si è resa necessaria la ricerca del modo di obbligare le imprese a rispettare criteri unitari, quanto meno per ciò che riguarda la trasparenza e le informazioni.
Il Centro nuovo modello di sviluppo ha pertanto elaborato un progetto di legge, già presentato al Senato, che obbliga le imprese a redigere un rapporto annuale, collegato al bilancio, rispetto alla produzione delle merci (luoghi, subappalti, condizioni di lavoro ecc.) e che istituisca un’Autorità garante di controllo e di certificazione della qualità sociale dei prodotti.
Il Centro oggi, ha ricordato Gesualdi, collabora con altre associazioni che lavorano sugli stessi temi, con le quali ha costituito la “Tavola delle intercampagne”.
In prospettiva c’è in cantiere la proposta di una rete di base tra gruppi nazionali e locali, che pur mantenendo la propria identità, collaborino tra loro, come piccoli lillipuziani contro il gigante economico. Il Movimento Nonviolento è invitato.
Le campagne internazionali
Con il processo di finanziarizzazione dell’economia la violenza strutturale, negli ultimi venti anni, ha assunto un’efficacia mai vista prima.
Giorgio Cingolani ha mostrato come le possibilità di trasferire informazioni economiche in tempo reale e la liberalizzazione dei mercati abbiano trasformato l’economia al punto che la quantità di risorse spostate da un posto all’altro del pianeta per motivi produttivi è appena un decimo di quelle spostate per speculazioni finanziarie: ogni giorno si movimentano una quantità di capitali pari al PNL italiano di un anno.
Occorre dunque occuparsi della violenza economica anche a questo livello. Alcune campagne internazionali lo hanno fatto e lo stanno facendo.
Tra queste Cingolani ha ricordato le seguenti: DIRE MAI AL MAI, ATTAC, SDEBITARSI, CAMPAGNA PER LA RIFORMA DELLA BANCA MONDIALE, CAROVANA INTERNAZIONALE e ne ha proposto una mappatura attraverso quattro criteri di analisi:
partecipazione, ossia quale grado di coinvolgimento diretto dei cittadini consentono;
rilevanza immediata, ossia quanto vengono percepite rilevanti per la propria vita;
mutuo appoggio, ossia la misura in cui sono qualificate con azioni collettive;
incidenza, ossia quanto riescono ad incidere sulle cause che si vogliono affrontare
Ciascuna campagna si è dimostrata efficace per qualcuno di questi indicatori e inefficace per qualcun altro.
Questa ricerca ha mostrato pertanto la difficoltà di organizzare campagne che siano efficaci sotto tutti i punti di vista, sia a livello nazionale che internazionale.
Ciò significa che il lavoro da fare è ancora molto sia sul piano teorico che pratico, ma se i lillipuziani si mettono assieme….
RENATO FIORELLI
Un Sindaco non molto comune
Moraro, paese di 720 anime a 12 chilometri da Gorizia, ha un nuovo sindaco. Con 249 schede, alle elezioni del 13 giugno la “lista par Morar” è stata la più votata.
Sarebbe una trascurabilissima notizie del “profondo nord” se non fosse che il neo sindaco si chiama Renato Fiorelli. Molti lo conoscono come “quello del 4 novembre”, perché per tanti anni è stato l’instancabile animatore delle manifestazioni antimilitariste al sacrario di Redipuglia. L’abbiamo incontrato alle prime Marce antimilitariste, di cui era uno degli organizzatori, nei luoghi friulani più difficili e delicati per la forte presenza militare e fascista. E’ stato tra i fondatori della L.O.C., radicale “dei bei tempi” e poi convinto sostenitore del Movimento Nonviolento.
Schivo quanto determinato, ha sempre rifuggito la ribalta, ma se c’è da impegnarsi in prima persona non si tira mai indietro. Ha 53 anni e nella sua lunga militanza nonviolenta (davvero pochi i momenti decisivi in cui non era presente) ha collezionato denunce e processi per vilipendio alla forze armate, istigazione alla disobbedienza, manifestazioni non autorizzate, resistenza passiva… una volta ha letteralmente smontato una rete di confine tra Italia ed ex Jugoslavia…
Ma oggi Renato Fiorelli è soprattutto una figura di riferimento per la politica verde del “suo” Friuli. Profondo conoscitore delle questioni frontaliere con Slovenia e Croazia, è un super localista con animo mitteleuropeo. Consigliere comunale e provinciale per i Verdi di Gorizia dal 1985 al 1999. Tutti questi impegni riesce a conciliarli, non si sa come, con la passione e la dedizione per il suo lavoro di infermiere; l’altra grande passione è per la musica lirica: all’Arena di Verona Fiorelli non manca mai.
Morar significa gelso, il simbolo della nostra lista, e nel mio programma elettorale sono entrati alcuni morari secolari da tutelare; è entrata anche la vecchia filodrammatica del paese, in dialetto friulano, da recuperare e valorizzare; la filodrammatica da noi è importante, riunisce e avvicina le generazioni, una riscoperta delle proprie radici per i giovani, una piacevole nostalgia per gli anziani. E poi c’è la squadra di calcio, un club di tutto rispetto fondato 75 anni fa, che ha bisogno di spazi per giocare ed allenarsi, e gli spazi sportivi servono poi per tutti.
Il rischio di un paese come Moraro è quello di essere ucciso dalla strada provinciale che lo attraversa, le macchine passano veloci e vecchi e bambini non possono più andare nemmeno in bici. Penso alle soluzioni della “città possibile” che impongano agli automobilisti di passaggio il limite dei 30 chilometri orari.
Moraro è un paese contadino, storicamente appartenente all’Austria cattolica, quindi estremamente conservatore. Dal 1956 governato ininterrottamente da democristiani. I tuoi elettori erano consapevoli di votare un sindaco verde e nonviolento?
La mia militanza politica è nota, e anche le idee per il paese con il quale ho sempre mantenuto un forte legame. E’ prevalso forse un elemento di stima e di conoscenza reciproca. Dopo tanti anni sento ora una sintonia con questa mia comunità di origine. C’è la voglia di non vedersi trasformati in paese dormitorio, di recuperare valori di vicinato e convivialità. Durante la prima guerra mondiale a Moraro c’erano 18 osterie (da questo paese di retrovia partivano i battaglioni per il fronte San Michele), ora c’è qualche bar anonimo o il pub. Bisogna recuperare la nostra memoria storica. La precedente amministrazione ha voluto ristrutturare la piazza centrale: un lavoro che ci ha indebitati per 350 milioni e ha creato uno spazio freddo ed estraneo. L’assemblea popolare voleva mantenere il vecchio pozzo, e si è sentita violentata da questo intervento urbanistico…
E’ possibile una politica nonviolenta in un piccola paese come Moraro?
I due punti chiave del mio programma elettorale erano “sì alla buona manutenzione” e “no a nuove opere pubbliche”. In concreto questo significa dare priorità alla vivibilità del paese, puntare sulle nostre tradizioni culturali. Una volta a Moraro c’era la scuola, che ora ci è stata tolta e accorpata con un altro comune. Io vorrei recuperare lo spazio dell’edificio scuola per farlo vivere come “scuola del paese”: biblioteca per gli adulti, ludoteca per i bambini, spazio di incontro e dibattito per tutti. Il riferimento ideale è quello dei Centri di Orientamento Sociale di Aldo Capitini…
E dal punto di vista ambientale?
Purtroppo abbiamo un inceneritore che il Piano Regionale dei Rifiuti vorrebbe potenziare. Io vorrei riuscire a rendere il paese autonomo nel riciclo dei rifiuti e trasformare l’inceneritore in una ricicleria: questo tra l’altro aumenterebbe l’occupazione: i dipendenti locali nel settore dell’ecologia passerebbero da 4 a 8. E poi vorrei valorizzare la componente agricola del nostro comune.
Questi sono i programmi. Ci stai a fare una prima verifica fra sei mesi?
Benissimo. Appuntamento per il numero di Azione nonviolenta di gennaio 2000.
ALBERTO TREVISAN
Un Assessore fuori dal Comune
Alberto Trevisan vive a Rubano in provincia di Padova, dove è stato Assessore all’Educazione alla Pace e ai Diritti Umani; svolge la professione di assistente sociale, ha 51 anni. E’ uno dei “padri” dell’obiezione di coscienza in Italia: dal 1970 al 1972 detenuto nel carcere militare di Peschiera, ha subìto tre memorabili processi, difeso dall’avvocato Canestrini, per rifiuto del servizio militare. E’ uscito alla vigilia di Natale del 1972 grazie alla campagna “Natale a casa per gli obiettori”, usufruendo per primo in Italia della legge 772. Non ha mai smesso l’impegno antimilitarista e nonviolento e ancora oggi è un fedele collaboratore di Azione nonviolenta.
Politicamente impegnato nei Democratici di Sinistra (segretario della sezione locale e membro del consiglio federale provinciale), nel 1995 ha dato vita con altri alla lista civica “Vivere Rubano” che ha ottenuto il 58% dei consensi. Nominato Assessore alla Pubblica Istruzione, Educazione alla Pace e ai Diritti Umani, è stato attivissimo inventando iniziative molto apprezzate anche sul piano nazionale nel coordinamento degli Enti Locali per la pace.
Dopo quattro anni da assessore super attivo, alle ultime elezioni ha registrato un ottimo successo personale, raccogliendo il maggior numero di preferenze; “Vivere Rubano” supera il 64% ma Alberto Trevisan è stato lasciato fuori dalla nuova Giunta e il suo Assessorato sparisce, trasformato dal sindaco in semplice “delega”. Misteri della politica… calcolo, alchimie e spartizioni che premiano gli equilibri tra i partiti piuttosto che il lavoro svolto. Ma Trevisan, che non è uno che le manda a dire, ha preso carta e penna e ha scritto la sua lettera di dimissioni dal consiglio comunale.
La seconda “obiezione di coscienza” della sua vita.
La mia scelta vuole essere coerente, passare dalle parole ai fatti, dare voce alla mia coscienza. I sei milioni e mezzo di persone che il 13 giugno sono rimasti a casa, che rappresentano il partito più rilevante, sono lo specchio di una società che sta rinunciando allo strumento più importante: il voto popolare. Dire oggi no a questa forma di degenerazione e proporre l’altra scelta che mi rimane, lavorare nella società civile, nel volontariato, tra le vittime della guerra, mi pare l’unica alternativa che la mia formazione di pacifista e nonviolento mi chiedono in questo momento.
Un colpo di testa o una decisione meditata? C’è più rabbia o più delusione?
Ho molto pensato, mi sono confrontato, in tanti mi hanno chiesto di rimanere. Ho una sola preoccupazione, che non ci siano ombre in quello che faccio. Anche La Pira e Dossetti rinunciarono alla politica scegliendo la riflessione e la testimonianza. Non ho abbandonato il mio impegno, ho solamente scelto una strada diversa, forse più difficile e lunga, ma l’ho fatto in piena serenità senza ansia né angoscia.
Eppure il bilancio politico del tuo lavoro come Assessore era in attivo….
Sono stati quattro anni intensissimi: abbiamo coinvolto scuole, parrocchie, volontariato. Abbiamo realizzato gemellaggi con città della ex-Jugoslavia, portato aiuti a Tuzla; in occasione della Marcia Perugia-Assisi abbiamo ospitato rappresentanti dei popoli di Santo Domingo e Haiti. Poi abbiamo organizzato dei “Percorsi per non dimenticare” rivolti soprattutto ai giovani, un convegno su Don Milani e uno su La Pira, con diffusione nelle scuole dei libri con gli atti.
Abbiamo lavorato molto con i bambini, facendo insieme a loro e alle associazioni degli ex combattenti la celebrazione del 4 novembre come “Città della pace”. Il primo marzo di quest’anno, in occasione della ratifica del Trattato Antimine, sul quale abbiamo molto lavorato, per tre minuti le campane delle chiese e della torre civica hanno suonato mentre i bambini delle scuole lanciavano palloncini con messaggi di pace. Insomma, un lavoro straordinario che ha coinvolto attivamente la comunità locale.
Tutto questo lavoro fatto da solo?
No, certo. Ho istituito un “Ufficio per la pace” con segreteria e obiettori di coscienza; in servizio al Comune ne avevamo sei, che al mio arrivo ho trovato demotivati e scoordinati. Per questo ho lavorato tanto anche nella formazione degli obiettori.
Ma se questo lavoro ha sviluppato la partecipazione, perché ti hanno tagliato fuori? Sei entrato in contrasto con il tuo partito?
Il mio è stato un lavoro trasversale; molti non sapevano nemmeno a quale partito appartenessi. Appena eletto Assessore ho dato le dimissioni dalle cariche di partito, proprio per essere più libero e concentrato sull’attività istituzionale. Dopo le ultime elezioni nessuno ha voluto spiegarmi i veri motivi per cui è stata chiusa questa esperienza: ho chiesto perché si è voluto rinunciare all’Assessorato, ma non mi è stata data risposta pubblica. In mancanza di chiarezza e lealtà ho preferito lasciare; stando dentro non avrei più potuto portare avanti i valori in cui credo…
La consideri una sconfitta?
Affatto. Mentre maturavo le dimissioni mi è venuta alla mente la frase di Alex Langer “non siate tristi, continuate in ciò che era giusto”.
(Le interviste a Fiorelli e Trevisan, sono a cura di Mao Valpiana)
DECALOGO MEDITERRANEO / 6
Il dolce farniente con il piacere della pigrizia
di Christoph Baker
Non ci sono santi. Arriva il primo giorno di caldo feroce e io sorrido. Dentro. So già che comincerò a rallentare, che gli altri – anche loro – faranno fatica a mantenere ritmi cosiddetti efficienti, che la mente di ciascuno inizierà a navigare fra ricordi e voglia di mare (o di collina o di montagna), che sembrerà sempre più difficile inseguire traguardi faticosi. Arriva l’estate e dal profondo di noi cresce la voglia di non fare più un tubo. O sogno?
Qualche anno fa mi capitò di toccare con la pelle la grande provocazione della pigrizia.
Però prima, devo aprire una parentesi semantico-epistemologica. Da quel che mi risulta, la parola pigrizia in Italia gode di una pessima fama. Anni fa, scrissi in Azione nonviolenta un piccolo decalogo sul “diritto alla pigrizia” (con tanta e ovvia deferenza verso il mio nonno ideale, Paul Lafargue), e mi venne subito cambiato da amici ed editori in “diritto all’ozio”. Essendo da poco arrivato nel Bel Paese, non mi sembrava il caso di polemizzare. Tuttavia, pigrizia e ozio non sono la stessa cosa, pensai allora. E lo penso tuttora. Vedete, l’ozio tiene questo legame nobile con la cultura latina, ha dei connotati filosofici accettati pure dai borghesi più biechi. Mentre la pigrizia è figlia rinnegata, roba di fogna, bersaglio di tutti i moralismi. Essere pigri equivale ad essere delinquenti, il che è una contraddizione in termini. Infatti, per compiere qualsiasi atto illecito, ci vuole un piano minimo, una strategia, degli appostamenti, uno studio sulle conseguenze possibili (inclusa la fuga!). Insomma, una notevole preparazione. E chi dice preparazione, dice lavoro, giusto? Che c’entra questo con la pigrizia?
Probabilmente, la verità è che la pigrizia è la più profonda provocazione culturale a tutte le civiltà che hanno fatto del sudare e del faticare la loro leva per indottrinare i propri poveri suddetti. Dire che si potrebbe non fare un tubo, adesso in questo momento, piuttosto che inventarsi una qualche attività, una qualche frenesia, risulta una sovversione troppo pesante per l’ordine stabilito delle cose. E giù anatemi, punizioni, estradizioni, sottili guerre psicologiche (e la guerra psicologica funziona sempre contro il pensiero debole…), accanimenti dei familiari, dita puntate col naso tappato. Certo, è duro accettare una tale provocazione, perché la pigrizia rende il suo contrario immediatamente assurdo. Se puoi scegliere fra stare fermo e indaffararti, dimmi tu qual è la scelta più naturale? Ci sono voluti secoli di educazione nella famiglia e nelle scuole per farci dire – con una finzione che rasenta il verosimile – che è meglio lavorare che non fare un tubo. Sogno il giorno dove l’uomo avrà il coraggio di ammettere che se lavora è perché è costretto, non perché lo vuole. Non si può andare avanti con questa fatwa che vede in ogni difensore della pigrizia un nemico da eliminare. Sarebbe molto più saggio, umile e corretto invece levarsi il cappello davanti a chi riesce – anche se solo per un beato istante – ad essere pigro, a non barcamenarsi.
Dicevo di un giorno dove mi capitò di vivere il senso della pigrizia.
Immaginate un mezzogiorno infuocato. Il paese si chiama Saint Hilaire d’Ozilhan. Francia profonda del sud – lontano dalla Costa Azzurra. Due sedie davanti alla porta di casa. Di fronte un vicolo immerso nel bagliore eclatante di un pomeriggio di estate. Un sole che picchia, e che lentamente obbliga tutto e tutti a fermarsi. Infatti, per strada non c’è più nessuno, non vola una mosca, non si sente nemmeno un neonato piangere (forse la saggezza da queste parti non li fa nascere in piena estate…). Il mio amico ha chiuso gli occhi, ma immagino che non stia dormendo. Piuttosto si protegge da una luce così bianca. Le gambe distese davanti a me, la mano sinistra intorno ad un bicchiere di rosato (a pochi chilometri, c’è Tavel) posto sotto la sedia, gli occhi socchiusi, un senso di benessere primordiale invade il mio corpo. Non ci sono più impulsi, slanci, elucubrazioni. Tutto si spegne inesorabilmente. In un momento magico, cesso di esistere eppure non sono morto, semplicemente non conto più niente. Alla faccia degli ambientalisti eccitati, sono diventato tutt’uno con la natura. Per lunghi istanti di totale godimento, non succede più niente, niente ha più importanza. Il Tempo si è fermato e ha scelto di farlo proprio qui davanti a casa mia. Con una lentezza aristocratica, l’amico si gira verso di me, socchiude un occhio e sorride. In questa infinità sospesa, nel momento preciso in cui solo la vita può dare la giusta pennellata, nel raggio di sole plumbeo che lava la viuzza di fronte a noi, in questo momento dove non succede più nulla… lento, pigro, reale, un gatto attraversa la strada. Aaaaaaah………….
So che a pochi chilometri passa la statale con i suoi camion che portano roba che non serve in posti dove gente è convinta che invece serve. So che a quindici minuti da qui, ci sono città che ronzano lo stesso di attività umane incuranti delle stagioni. So che fra un po’ ci sarà un aereo che frantumerà la magia con quel sordo e sordido rombo di turbine. E vabbe’! Ma in questo preciso momento, non c’è niente che disturba, che interrompe, che distrae. In questo preciso momento, imparo la lezione della pigrizia e mi avvicino alla poesia del dolce farniente.
Per molti anni della mia vita, quando contava andare avanti a tutti i costi, quando seguivo le mie ragioni vincenti, la nozione di non fare niente era legata principalmente ai ricordi d’infanzia. Erano ricordi di pomeriggi sdraiato nell’erba dietro casa a viaggiare nelle nuvole. Ore sul letto della mia stanza appoggiato al muro a fissare un punto sospeso nell’aria a qualche centimetro. O la prima volta che ho guardato dentro il sole mentre tramontava sopra l’oceano mai addomesticato del Maine, e mia nonna che mi sgridava che così sarei diventato cieco. Ma anche seduto su un muro mentre una nevicata silenziosa copriva di bianco tutto il mondo intorno. E il gusto indimenticabile di un fiocco di neve che si scoglie sulla lingua. Per non dire delle volte in cui uno lascia che una formica o un ragno si faccia la sua santa passeggiata sul braccio. Che un uccello si posa inconsapevole a un metro di te, e non fare niente per spaventarlo. Ma sono stati anche momenti di ipnosi davanti al camino, davanti all’eterno perpetrarsi della materia che diventa luce. Sono cose che sembrano niente nel momento in cui uno le vive. Poi invece diventano compagni di strada, rifugi sicuri nei momenti di scoraggiamento, punti di riferimento sempre più nitidi, più ovviamente importanti, mentre navighiamo a vista in questa confusione che è la nostra vita.
Oggi, l’imperativo di fare qualcosa è diventato una specie di diktat. Quante volte il discorso del cambiamento si frantuma sulla domanda micidiale del “cosa si può fare?” Su questa questione condannata a rimanere senza risposta seria, si sono costruite alcune fra le più grande disgrazie della storia umana. Si sono fatto guerre, colonizzazioni, cooperazioni, opere di bene variegate. Si sono fatte colate di cemento, chilometri di autostrade e ferrovie, supermercati mostruosi. Si sono arresi affetti ed amori. Si sono sviluppate solitudini mai cantate, forse inenarrabili. Cosa si può fare? è una domanda perversa, perché fa il vuoto intorno a se. Si erige a valore morale, mentre è solo uno specchio della paura di accettare la nostra futilità, la nostra fragilità. Pensiamo che facendo qualcosa, riusciamo a dare un senso alla nostra vita. Ma quasi sempre – e questo lo sappiamo tutti dentro – è solo una scusa per non affrontare il grande punto interrogativo della nostra esistenza.
Allora mi chiedo: non sarebbe più saggio cominciare intanto a fare meno? Non sarebbe questo già un primo passo verso un approccio più tranquillo alla vita, questa meravigliosa cosa che ci è stata regalata, tutti i soprusi, tutte le ingiustizie, tutte le amarezze comprese? Non sarebbe un modo di mettere una sana distanza fra se e i compiti che bisognerebbe sempre portare a compimento? Questo condizionale del dovere che ci ha rovinato i sogni, che ci ha portato ad uccidere le proprie emozioni. Quando impareremo a cacciare con un rovescio della mano gli imperativi della bella figura? E avere il coraggio, o almeno l’audacia, di puntare il dito al ridicolo di tutto questo indaffararsi in continuazione, come se i nostri figli non vedessero – come è sempre stato – che il re, tutti i re sono nudi.
Facendo meno, potremo cominciare a pulire il nostro cervello dall’inquinamento mentale cui è stato sottoposto dalla più tenera infanzia. Ci potremo sbarazzare di tanti luoghi comuni che esistono solo per rafforzare lo status quo. Tipo: Prima il dovere, poi il piacere. Il lavoro nobilita l’anima. Prendi il destino nelle tue mani. Non guardare indietro. Per non parlare dei: Questo è uno che si è fatto da solo. Sarà pure antipatico, ma guarda dove è arrivato oggi. Ricordati che nessuno ti fa un favore. Mangia prima di essere mangiato. E così via.
Pulendo la nostra povera mente, intanto facciamo un favore al corpo. Un corpo che ha ritmi biologici che sfuggono ai nostri riduzionismi razionali, checché ne dicano i paladini dell’efficientismo. Quando hai mangiato, è normale che l’energia corporale si dedichi alla digestione. Tutti gli animali una volta che hanno mangiato, vanno a riposare. E anche gli umani, nelle società intelligenti che ancora esistono (per fortuna!), schiacciano un sano pisolino dopo avere pranzato. Siamo sfigati noi, quelli della modernità, che ce la sogniamo la siesta dopo pranzo. Eppure, ancora vent’anni fa’ nel Bel Paese, era la norma. L’eccezione era l’orario continuo. Come siamo caduti in basso!
Oggi – mentre scrivo – le cicale riempiono l’aria del loro canto aspro e tuttavia dolce. Allora penso a Jean de la Fontaine, lo scrittore dell’inno sciagurato alla formica costruito sulla condanna della cicala. Perché mentre quel minuto insetto nero raduna quantità immane di provvigioni per l’inverno, la spensierata cicala non pensa ad altro che cantare. Bene. Primo punto: non è vero che le formiche sono delle grandi lavoratrici. Studi antropologici (per di più portati avanti da studiosi svizzeri tedeschi – on aura tout vu!) sulle formiche hanno evidenziato come quel gran daffare non abbia viceversa un gran senso. Infatti, nella maggioranza dei casi, dopo essersi incollata, che so, un granello di riso tre volte le dimensioni del proprio corpo per decine di metri, la formica ad un certo punto se ne disinteressa completamente. Lo abbandona e riparte a caccia di un altra impresa altrettanto inutile. Quindi, l’inverno arrivato si troverebbe sprovvista esattamente come la cicala. Ma in verità, all’inverno una formica non ci arriva quasi mai.
Punto due: chi l’ha detto che cantare è antitetico con le provvigioni per l’inverno? Anche (forse soprattutto) l’inverno, il cuore ha bisogno di essere rassicurato, mentre il freddo di fuori lentamente invade anche le nostre emozioni più intime. Quante volte nel pieno di febbraio ho acchiappato la chitarra per suonare una ballata o un blues scaccia-depressione. Ma rovesciando la cosa, che ne sarebbe dell’estate senza il canto della cicala? Se anche la cicala stesse occupata tutto il tempo a raccogliere roba per l’inverno? Personalmente, sentirei un grande vuoto laddove oggi vivono ricordi dolci di estati mediterranee. Pini marittimi, palme, gelati, ombrelloni, strusci, tramonti seduti su sbiadite panchine di legno, aghi di pino che riempiono la strada, sabbia scottante e mare tiepido. Senza le cicale, tutto questo forse non sarebbe mai esistito…
Mi rendo conto che una divagazione di questo genere può far pensare ad un atteggiamento tutto sommato egoista o almeno individuale. Sarebbe riduttivo! Infatti la pratica del dolce farniente va goduta insieme ad altri. Vuoi mettere quattro amici intorno al tavolo di un caffè o sdraiati al mare? Senza programmi, senza “problemi”, senza rancori? Con silenzi maestosi che si frappongono a conversazioni demenziali (l’oggetto può variare dalla campagna acquisti della squadra di calcio alle ultime sciocchezze della politica, dalle raccomandazioni della suocera ai pettegolezzi d’ufficio, dal viaggio sognato tutta una vita all’Isola di Pasqua ad un amore troppo bello per potere durare, e così via…), dove si scopre che non abbiamo niente da invidiare alle più sofisticate pratiche di meditazione trascendentale?
Una cosa è sicura, starsene fermi a non fare niente ci consente di osservare il mondo intorno con un distacco affettuoso. Come sembrano smarriti questi nostri simili che ogni minuto del proprio tempo libero lo devono riempire di cose da fare, di sforzi da compiere, di imprese da realizzare. Mentre lentamente sorseggiamo un bicchiere di vino bianco magari del Collio, vediamo sfrecciare davanti a noi uomini sudati in pantaloncini e scarpe di ginnastica o su delle biciclette strane. Sappiamo che rispondono a “inputs” vari lanciati da mogli, colleghi, pubblicità e moda. Non possiamo quindi giudicarli più di tanto. Però fanno un po’ pena, questo sì. Vediamo altrettanto un nostro vicino di tavola che non smette di parlare al telefonino, e anche a lui vanno i nostri sentimenti di dolce disprezzo. Come se facesse paura lasciare scorrere il Tempo. Come se avessimo il timore che un Grande Gendarme venisse ad infliggere multe salate a chi non si fa trovare in qualche modo indaffarato in qualche cosa.
La verità sta invece dall’altra parte. La zappa sui piedi ce la diamo da soli. Ci auto-multiamo ogni volta che invece di starsene fermi, ci inventiamo qualcosa da sbrigare. Immagino qualche leggero mugugno da parte di donne (e uomini) casalinghe, che mi ricorderebbero che loro con i lavori domestici non “hanno tempo” per simili esercizi oziosi. Al grido di “scaglia la prima pietra tu che non hai mai peccato”, gli direi che sono convinto che è più facile prendersi un momento di vero onesto rilassamento fra i piatti da lavare e i letti da fare, che non in fabbrica o all’ufficio o allo studio. Comunque, come al solito, in questo discorso del dolce farniente, non è che ci sia una teoria vincente e convincente, basta provare per credere…
In fondo, il dolce farniente può essere l’occasione di un calmo viaggio all’interno di noi stessi. Ci si può dare il minimo di disciplina perché i pensieri brutti, i ricordi amari, le ansie più pressanti non vengano a disturbare, e addentrarsi piano piano nel mondo misterioso delle cose non fatte. Lasciare che vengano a galla i nostri buoni propositi incompiuti (dopo tutto anche Beethoven e Schubert qualcosa di incompiuto l’hanno lasciato dietro…), i nostri sogni impolverati, i nostri desideri rinnegati. Non fare niente ci permette di inseguire un pensiero passeggero, una musica sconosciuta ma familiare, contemplare il viso di un essere caro. E non trarne subito delle conseguenze. Troppo complicato. La pigrizia infatti è una grande lezione di semplicità.
Ognuno può avere il proprio tempo, il proprio spazio in cui non fare niente. Da quando sono piccolo, il mio spazio è l’orizzonte infinito del grande mare interno visto da un estesa di sabbia (preferibilmente). Alcuni anni fa, mi ritrovai a trascorrere un mese sul mare di Terracina. Era luglio e quindi ancora poca gente sulla spiaggia, soprattutto mamme, nonne e piccoli bambini. Scoprii il miracolo del mammismo all’italiana: alle dodici in punto all’improvviso si svuotava la spiaggia, tutti a casa per la pappa e il riposino. Nessuno sarebbe tornato prima delle quattro. Quattro ore di santa pace! Mi adagiavo allora nella mia sdraio, lo sguardo perso all’orizzonte fino ad indovinare le sagome di Zanone e Ponza in lontananza. Il bagnino era un napoletano dalla faccia vissuta e ironica. Pochi minuti dopo la transumanza dei rampolli e madri, mi versava un bicchiere di Falanghina dei Campi Flegrei fresca fresca. Mi bastava allungare il braccio per prendere quel liquido divino, senza mai staccare la vista dal mare blu. E come per magia, verso l’una mi sentivo invitare ad assaggiare due fili di spaghetti alle vongole…
In quella sdraio e per un mese (manco fosse un rituale proto-edonistico), ho praticato il vero dolce farniente. Sotto un sole bianco che picchiava il dovuto, gli occhi socchiusi, ho potuto dedicarmi in santa pace al più serio dei viaggi oziosi: il sogno. Ho sognato un mondo diverso, dove ognuno poteva esprimere la propria originalità ed inseguire la propria creatività. Un mondo che si prendeva il Tempo di vivere, di godersi ogni momento – anche i momenti tristi, anche la tristezza va goduta. Un mondo che stava più attento alle sfumature, ai dettagli, alle pause e ai silenzi, agli sguardi, ai suoni. Un mondo dove i ricordi hanno pari dignità con i progetti futuri. Ho sognato grandi tavole bandite a festa, con tutt’un ben di dio da mangiare e bere, con amici e sconosciuti a festeggiare il solo miracolo di essere vivi. E al crepuscolo, con le prime note di un bouzouki o di una chitarra, vedere alzarsi le prime coppie che fino a tardi avrebbero ballato sotto un cielo stellato. Ho sognato il passo di danza sul cavo teso sopra l’abisso. Ho sognato che la paura non era più una condanna a cercare rifugio nella prima teoria rassicurante, ma che diventava una compagna di viaggio. Ho sognato che l’assenza d’amore non era automaticamente odio o amarezza.
Con l’unica scadenza dell’alzare del sole e del tramonto, con nessun programma da implementare, con la pelle che si riscalda e così riscalda anche il cuore e l’anima, ho scoperto la fragilità, a volte la futilità, di tutte le imprese che portiamo avanti per cercare di dare un senso alla nostra vita. Ho scoperto che la vita – la nostra vita come quella di tutte il resto del mondo vivente, gli oceani e i ruderi di castelli catari inclusi – scorre maestosa intorno a noi, grande fiume generoso anche se spesso torrenziale, che malgrado tutti i nostri errori, le nostre presunzioni, le nostre misere arroganze, ci culla il tempo di un lungo sogno che è il nostro passaggio su questa terra. E al crepuscolo del nostro viaggio, se abbiamo imparato la lezione del dolce farniente, avremo con noi – dentro di noi – la ricchezza dei sogni, dei ricordi e della nostalgia che ci permetterà di chiudere tranquillamente gli occhi. E di avere paura un’ultima volta…
SONO SOLO CANZONETTE? / 1
Suoneranno le nostre campane…
Mentre ancora erano nell’aria gli echi delle trombe di guerra, l’imprevisto ed enorme successo di una canzone pacifista ci ha dato l’occasione per una riflessione sui rapporti fra musica-canzoni e pace-nonviolenza.
A cura di Paolo Predieri
Maggio 1999: mentre sui Balcani continuano a piovere le bombe Nato, in Italia i cantanti “scendono in campo per la pace e contro la guerra” e la più famosa cantante kossovara “combatte con le canzoni”.
Ancora una volta emerge il connubio fra musica e pace, fra canzoni e nonviolenza ? Non esattamente, anzi: i cantanti non si sono opposti direttamente alla guerra, ma hanno raccolto fondi per i bambini del Kossovo giocando a calcio, mentre Eleonora Jakupi, cantante kossovara di origine albanese, ha cantato addirittura per la guerra, tenendo concerti in tutta Europa a sostegno dell’Uck. “Solo quando avremo vinto la nostra guerra – ha detto – tornerò a cantare canzoni d’amore”.
Giugno 99: “Il mio nome è Mai Più” , scritta e cantata da Ligabue, Jovanotti e Pelù esce mentre vengono stipulati gli accordi che determinano la fine delle operazioni di guerra nei Balcani, vende 100.000 copie in due giorni e va subito al primo posto nelle classifiche dei dischi. E’ una canzone chiaramente contro la guerra e un successo così fulmineo sembra dimostrare che il pubblico, sooprattutto giovanile, aveva bisogno di un’operazione musicale di questo genere…
“La musica insegna a vivere, e quella sola civiltà sarebbe perfetta ove tutto quanto, uomini e cose, si muovesse a suon di musica” ha detto Alberto Savinio, ma l’impegno e l’opposizione alla guerra di musicisti e cantanti è un luogo comune o un fatto verificabile ?
Se la musica dà forma alle idee, incorpora melodicamente, ritmicamente, sonoramente i comportamenti, i gesti, gli atteggiamenti e attraversa i fenomeni sociali, coinvolgendo anche profondamente la vita di tutti, quando e come può dare un contributo importante all’affermazione della nonviolenza ?
Sicuramente molti lettori di An avranno qualcosa da dire e queste pagine vogliono, fra l’altro, sollecitare interventi e contributi che arricchiscano il quadro, per forza di cose incompleto e disorganico che tentiamo di offrire. Conoscenze e competenze diverse, molteplici punti di vista, svariate prospettive di ricerca, possono evidenziarsi se associamo la musica alla pace e alla nonviolenza.
Ogni oggetto e ogni fatto musicale hanno generalmente una forte carica di ambiguità: possono essere interpretati e usati con significati anche opposti: musica classica linguaggio universale che unisce i popoli o prospettiva individualista fonte di pesanti discriminazioni ? Gregoriano elevazione dell’anima o resto archeologico di un mondo passato ? New age espressione del rapporto con la natura o alienazione e banalizzazione della musica e della natura stessa ? Rock benefattore dell’umanità o diabolico corruttore dei giovani ?
Queste caratteristiche ambivalenti della musica hanno conseguenze di grande importanza dal punto di vista nonviolento: provocano il dibattito e aprono possibilità di dialogo basandosi su un’esperienza comune.
2.
Il collegamento fra musica e lotta, fra musica e movimenti popolari è facilmente verificabile. Se ci soffermiamo sul genere canzone: lotte di liberazione, movimenti sindacali e politici, momenti di protesta, sono spesso stati accompagnati da canzoni in abbondanza. Ad esempio, la Rivoluzione francese ha prodotto oltre 3000 canzoni (1) e, non a caso, Josè Marti, autore del testo di Guantanamera, è un eroe dell’indipendenza cubana, con tanto di monumento nella piazza centrale a L’Avana.
Quando si è manifestata un’opposizione diretta alla guerra, sono fiorite le canzoni antimilitariste(2), prima forma di obiezione in musica: contro la 1^ guerra mondiale (3), contro la guerra francese in Algeria, contro la guerra Usa in Vietnam…
Alcuni generi musicali sono stati, in particolari momenti storici, veicolo, rappresentazione e sostegno di una lotta politica o di un fenomeno sociale. Un esempio eccezionale è quello del jazz nell’Europa occupata dai nazisti, proibito come “musica degenerata” degli ebrei e degli zingari, era diventato motivo di aggregazione popolare e di disobbedienza, con un larghissimo seguito, anche fra gli ufficiali tedeschi(4); e poi il rock’n roll che si afferma a metà degli anni 50 come espressione liberante dei giovani nei confronti degli schemi vecchi e rigidi degli adulti; e ancora il rap come alternativa alla cultura bianca nei ghetti neri e il reggae come voce della liberazione afro-americana…
Abbiamo anche avuto l’uso di musica e canti in lotte nonviolente. Sharp presenta nove esempi storici avvenuti fra il 1901 e il 1968 in diversi Paesi e spiega come “ in condizioni adeguate il cantare può costituire una tecnica di protesta nonviolenta, ad esempio se si canta durante un discorso indesiderato o se si cantano canzoni o inni in contrapposizione a quelli, boicottati, organizzati dall’avversario; se si canta mentre si è impegnati in una marcia, in un gesto di disobbedienza civile o in qualche altro atto di opposizione”(5). Esiste qualche tentativo di analizzare precisamente la funzione del cantare e l’eventuale utilità di un repertorio specifico nella preparazione e nella realizzazione di azioni dirette nonviolente (6).
NOTE
1 – B.Brévan, Musica e Rivoluzione francese, Unicopli-Ricordi 1986
2 – esistono raccolte come: Non marcerò più (Mir PD, ’82), Canzoni per la Pace (a cura di C.Murtas, ed. Napoleone ’84), No war (Gammalibri ’91); dischi e spettacoli: “Le canzoni del no” di Maria Monti, “Non spingete scappiamo anche noi” dei Gufi (1968), “Gli allegri macellai” di Raffaella De Vita (1984).
3 – oltre a raccolte come quella di G.Vettori, Il folk italiano, Newton Compton 1976, va ricordato il disco “Maledetta sia la guerra e i ministri” del Duo di Piadena
4 – M.Zwerin, Musica degenerata, Edt 1993
5 – G.Sharp, Politica dell’azione nonviolenta, Ega 1987, vol.II le tecniche, cap. VI
6 – P.Predieri e G.Stefani, Canzoni e dpn, su: Una strategia di pace, ed. Fuori Thema 1993
P.Predieri, Ipotesi di costruzione di un repertorio funzionale alla formazione dpn, Firenze 1993
Bianco e nero, ebano ed avorio
C’è chi è riuscito ad utilizzare l’industria dello spettacolo come veicolo per sollevare un problema o addirittura per precise iniziative politiche o per campagne vere e proprie. Un esempio qui trattato a parte è quello del riconoscimento della nascita di Martin Luther King come festa nazionale Usa, mentre un interessante campionario di casi individuali e collettivi ci viene dalla grande lotta per l’abolizione dell’apartheid in Sudafrica che, in particolare nell’ultima fase, ha trovato fra gli artisti importanti appoggi:
la canzone = “It’s wrong (apartheid)” (=l’apartheid è sbagliata). Stevie Wonder pubblica nel 1985 una canzone molto esplicita che, per l’alto valore artistico, sfugge alla censura sudafricana lasciando quindi circolare liberamente un preciso messaggio.
il gruppo = Johnny Clegg, musicista bianco inglese che vive in Sudafrica dall’età di 6 anni, suona spesso con musicisti neri e, nel 1985, assieme ad altri 3 bianchi e 4 neri forma i “Savuka”, gruppo misto che propone in Sudafrica e nel mondo la musica e i balli sudafricani, superando nei fatti la divisione e creando canzoni-simbolo del movimento antiapartheid come “Asimbonanga”, primo tributo a Mandela proveniente dal Sudafrica, regolarmente pubblicata anche se proibita per le trasmissioni radio locali.
il fronte di boicottaggio = Sun City è la Las Vegas del Sudafrica, vero proprio insulto dei bianchi nei confronti delle misere condizioni della stragrande maggioranza del popolo nero sudafricano. L’Onu aveva chiesto agli artisti di boicottare Sun City. Chi non ha accolto questo invito come F. Sinatra, si è anche visto rifiutare l’ingresso in alcuni Paesi del nord Europa. Molti altri, rinunciando a lucrosi contratti, hanno risposto positivamente. Fra questi, nel 1985, un gruppo ben nutrito e qualificato si è espresso collettivamente realizzando un’eccezionale esperienza sia musicale che politica. La titol-track, che esprime i motivi dell’opposizione all’apartheid (“non andrò ad esibirmi a Sun City”), come l’idea di tutta l’operazione che ha formalizzato l’aggregazione Artist United Against Apartheid, è di Little Steven.
il disco-spettacolo 1 = Paul Simon non aderisce alla campagna di boicottaggio e nel 1986 va in Sudafrica a registrare “Graceland” , un Lp di enorme successo, con musicisti locali. Da una parte mette in primo piano i musicisti e la cultura dei neri sudafricani portandoli poi in giro per il mondo, dall’altra parte il messaggio resta molto ambiguo, sia nei testi , sia per la partecipazione di Linda Ronstandt, cantante dichiaratamente contraria al boicottaggio che ha continuato ad esibirsi tranquillamente a Sun City.
il disco-spettacolo 2 = Harry Belafonte, famoso alla fine degli anni cinquanta e poi emarginato anche a causa della partecipazione alle campagne di Martin Luther King, rimesso in gioco grazie allo spazio politico riaperto nel mondo musicale da “Live Aid”, dopo un silenzio di tantissimi anni, si ripresenta nel 1988 con “Paradise in Gazankulu”, un disco e uno spettacolo dedicati chiaramente alla lotta contro il razzismo e al ruolo politico della musica. La produzione ha dimensioni simboliche: le basi musicali sono registrate da musicisti neri in Sudafrica e le voci a New York. Il disco è un patchwork che prefigura un mondo senza confini, senza però fingere di ignorare che i confini esistono.
i megaconcerti con obiettivo dichiarato = “Mandela Day” allo stadio di Wembley a Londra. Il 18 luglio 1988, 70° compleanno di Nelson Mandela, si tiene un megaconcerto con l’obiettivo dichiarato di far liberare il leader dell’Anc entro un anno. L’obiettivo viene mancato solo per qualche mese: Mandela verrà liberato l’11 febbraio ’90, dopo 27 anni di carcere e sarà festeggiato dai musicisti in un nuovo concerto sempre a Wembley il 16 aprile ’90. Mandela dichiarerà poi: “perfino attraverso le mura dei penitenziari sudafricani sentivamo le voci dei grandi artisti che chiedevano la nostra liberazione. Così non abbiamo mai perso la fiducia di uscirne e di sconfiggere il sistema dell’apartheid”.
Buon compleanno Martin Luther King !
Il 15 gennaio (1929), data di nascita di M.L.king, è festa nazionale negli USA. C’è voluta una vera e propria campagna, durata circa 10 anni, per ottenere questo riconoscimento. La campagna non ha avuto solo un carattere simbolico, ma ha rivolto la lotta dei neri e degli emarginati nei confronti dei tagli alle spese sociali voluti dall’Amministrazione Reagan e ha ribadito la richiesta di un maggior impegno per i diritti civili, pur riconosciuti formalmente negli USA grazie alle lotte nonviolente degli anni ’60.
Il momento culminante della campagna fu una manifestazione alla Casa Bianca, il 15/01/1982, convocata da Stevie Wonder che, proprio per l’occasione, scrisse la canzone “Happy Birthday”, contenuta nel LP “Hotter than July”
HAPPY BIRTHDAY
(Stevie Wonder)
Davvero non ho mai capito perché
un uomo che è morto per il bene
non debba avere un giorno per ringraziarlo
Qualcuno può non vedere il sogno
cosi chiaro come lui lo ha visto
e allora lo considera un’illusione.
Ma tutti noi sappiamo che il tempo porterà avanti
Quello che lui sosteneva e rappresentava.
I nostri cuori in pace canteranno:
grazie a Martin Luther King
E buon compleanno a te !
Perché in ogni parte del mondo
non c’è mai stata una festa
per celebrare la pace?
Per noi è arrivato il momento di averla.
Tu conosci la via della verità:
l’amore e l’unità di tutti i figli di Dio.
Sarà un grande avvenimento
e l’intera giornata si dovrebbe impiegare
per un pieno ricordo di chi è vissuto e morto
per l’unità di tutti i popoli.
Perciò cominciamo tutti noi
sappiamo che l’amore può vincere:
lasciamolo uscire, non teniamolo chiuso in casa
Cantiamo il più forte possibile:
Buon compleanno a te !
LA NONVIOLENZA NELLA LETTERATURA / 6
La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso
di Claudio Cardelli
Il Tasso (1544-1595) celebrò, nel suo poema eroico in ottave, la prima crociata e la conquista di Gerusalemme da parte di cristiani (1099), in un’epoca che aveva visto riaccendersi il conflitto con l’Islam: la vittoria a Lepanto della flotta cristiana sui Turchi è del 1571. Eppure non fu un poeta integrato nell’austero programma della Controriforma: il suo spirito, assetato di gloria e di gioia terrena, fu tormentato da laceranti conflitti interiori che lo portarono alle soglie della follia.
Nato a Sorrento, dal 1565 al 1577 visse a Ferrara alla corte degli Este, prima al servizio del cardinale Luigi, poi del duca Alfonso II. È il periodo in cui compose il suo capolavoro, ma comparvero anche i primi segni di squilibrio e di mania di persecuzione. Nel 1579, avendo dato in escandescenze proprio durante le nozze del duca, il poeta venne arrestato e rinchiuso per 7 anni nell’Arcispedale S. Anna (ora sede del Conservatorio musicale).
Solo nel Luglio del 1586, per interessamento del principe Vincenzo Gonzaga, poté riparare a Mantova, da dove tuttavia fuggì l’anno dopo per recarsi a Roma. Qui visse gran parte degli ultimi anni fino alla morte prematura (25 aprile 1595, nel convento di S. Floriano). Pochi giorni prima aveva inviato all’amico A. Costantini l’ultima lettera:
Che dirà il mio signor Antonio, quando udirà la morte del suo Tasso? E per mio aviso non tarderà molto la novella, perch’io mi sento al fine della mia vita, non essendosi potuto trovar mai rimedio a questa mia fastidiosa indisposizione, sopravenuta a le molte altre mie solite: quasi rapido torrente dal quale, senza potere avere alcun ritegno, vedo chiaramente esser rapito (………)
Leopardi, che sentì molta affinità tra la propria vita e quella dell’infelice poeta, ne scrisse nei Canti (Ad Angelo Mai) e nelle Operette morali. Quando si trovò a Roma nel 1823, ne visitò la tomba:
Venerdì 15 febbraio 1823 fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l’unico “piacere” che ho provato a Roma (………). Molti provano un sentimento d’indignazione vedendo il cenere di Tasso, coperto e indicato non da altro che da una pietra larga e lunga circa un palmo e mezzo, e posta in un cantoncino d’una chiesuccia. Io non vorrei in nessun modo trovar questo cenere sotto un mausoleo. (lettera al fratello Carlo).
Le sofferenze causate dalla guerra
La Gerusalemme liberata, composta sulla traccia dell’Iliade e dell’Eneide, si propone di esaltare le imprese dei crociati contro gli infedeli; in realtà è una rappresentazione del dolore e delle sofferenze umane, derivanti dalla violenza della guerra. Vi è dominante il tema della infelicità amorosa: Tancredi, l’eroe cristiano, ama Clorinda, schierata sul fronte opposto; la maga Arminda viene abbandonata da Rinaldo, di cui si è innamorata; Erminia ama, non riamata, Tancredi.
Il poema è modulato su un’onda di struggente malinconia: la felicità vi appare come un miraggio irraggiungibile, poiché la guerra divide, contrappone, semina dolore. Erminia, dopo una fuga notturna a cavallo attraverso un’antica selva, si risveglia tra i pastori e un vecchio le parla, tessendo l’elogio dell’umile vita agreste:
………a me sì cara,
che non bramo tesor né regal verga;
né cura o voglia ambiziosa o avara
mai nel tranquillo del mio petto alberga.
Spengo la sete mia ne l’acqua chiara,
che non tem’io che di venen s’asperga;
a questa greggia e l’orticel dispensa
cibi non compri a la mia parca mensa.
Ché poco è il desiderio, e poco è il nostro
bisogno, onde la vita si conservi.
Son figli miei questi ch’addito e mostro,
custodi de la mandra, e non ho servi.
(VII, 10-11)
La morte di Clorinda
L’episodio più drammatico del poema è la morte di Clorinda, la quale, uscita da Gerusalemme con Argante per dar fuoco alle macchine d’assedio dei cristiani, rimane chiusa fuori, presa com’è dal furore guerriero. Tancredi, non riconoscendo sotto l’armatura la sua armata, la insegue e, dopo un accanito duello, la uccide. Le ultime parole di Clorinda sono dettate da un sentimento di perdono e di riconciliazione:
– Amico, hai vinto: io ti perdon……perdona
tu ancora, al corpo no, che nulla pave,
a l’alma si: deh! Per lei prega, e dona
battesmo a me ch’ogni mia colpa lave. –
In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave
ch’al cor gli scende, ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.
Poco quindi lontan nel sen del monte
scaturìa mormorando un picciol rio.
Egli v’accorse, e l’elmo empié nel fonte,
e tornò mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentì la man, mentre la fronte
non conosciuta ancor, sciolse e scopriò.
La vide, la conobbe; e restò senza
E voce e moto. Ahi vista! Ahi conoscenza!
(XII, 66-67)
Claudio Monteverdi musicò in un madrigale drammatico il Combattimento di Tancredi e Clorinda (1638). Franz Liszt compose il poema sinfonico Tasso, lamento e trionfo (1854), nato come “ouverture” per il dramma Tasso (1790) di J. Wolfgang Goethe.
LA NATO HA VINTO, I PROFUGHI RIENTRANO
Alcune considerazioni sul “dopoguerra”
Il conflitto con la Jugoslavia è arrivato ad una svolta ma, la scelta di risolvere il problema ricorrendo all’uso della violenza, lascia sul terreno problemi enormi:
i morti e feriti, indipendentemente dalla loro appartenenza etnica o sociale;
i profughi, il cui rientro è tutt’altro che semplice ed immediato;
la distruzione della struttura economica jugoslava;
la convivenza tra serbi ed albanesi;
la bonifica del territorio da mine, bombe inesplose e, forse proiettili radioattivi;
la ripresa del dialogo democratico;
i crimini di guerra, siano essi Jugoslavi, UCK o Nato.
Infine, non ultimo, il futuro del Kossovo!
Problemi che l’attacco Nato ha ingigantito o creato dal nulla.
Eppure, ad ascoltare politici e comunicatori, abbiamo vinto.
Chi poteva credere che una nazione di pochi milioni di abitanti ed economicamente debole, avrebbe potuto vincere o contrastare la potenza dell’alleanza atlantica?
Lo scontro era impari ed i fatti lo hanno dimostrato.
La guerra, però, ha avuto anche pesanti conseguenze all’interno del nostro paese:
Questo conflitto, che ha contribuito a radicare ulteriormente l’idea che le FFAA italiane debbano assumere un ruolo centrale nella politica estera italiana, ha rafforzato la lobby militare ed i sostenitori del Nuovo Modello di Difesa.
Con D’Alema al Governo si è creata una profonda spaccatura nella coscienza pacifista (pensiamo a come avrebbe risposto la piazza se al Governo vi fosse stato Berlusconi); tantissimi pacifisti “storici” hanno preferito le ragioni di governo o della governabilità, a quelle della pace.
La mobilitazione realizzata dal movimento è stata generosa ma ininfluente; malgrado la gravità della situazione, non abbiamo sfondato, perché pratica e cultura pacifiste sono ancora fortemente minoritarie, quasi testimoniali.
Dobbiamo cercare di allargare la nostra area di riferimento ed è indispensabile coinvolgere nuovi soggetti politici nella costruzione di un movimento permanente per la pace.
AD UN ANNO DALL’APPROVAZIONE DELLA LEGGE 230/98
Novità e problemi con i quali confrontarci.
Ad un anno di distanza dalla approvazione della Legge 230/98, possiamo dire che, dei due aspetti salienti di questa novità legislativa, solo il riconoscimento del diritto soggettivo all’obiezione di coscienza è un fatto acquisito, mentre la smilitarizzazione del servizio civile è ancora tutta da conquistare.
I tempi di legge, entro i quali sarebbe dovuto diventare operativo l’Ufficio Nazionale per il Servizio Civile, sono abbondantemente trascorsi ma, dell’Ufficio, ancora nessuna traccia ufficiale.
Siamo, perciò, profondamente insoddisfatti di come stanno andando le cose.
Punto nodale, della nuova legge, è la realizzazione di un servizio civile veramente innovativo, senza il quale il nuovo contesto giuridico, in cui si inserisce il diritto all’obiezione di coscienza, è una scatola vuota.
Sembra di essere tornati agli anni 70, quando i movimenti per la salute ottennero, con la riforma sanitaria e la riforma degli istituti manicomiali, due leggi quadro apparentemente positive che, però, non si realizzarono appieno e, in parte, fallirono, perché il potere politico, che aveva il compito di attuarle, in realtà le boicottò.
Era l’Italia democristiana, in cui si cambiava tutto, nella forma, per far sì che, nella sostanza, non cambiasse nulla.
Oggi, purtroppo, sembra che le cose siano rimaste come allora, malgrado Ulivi, DS, Prodi e D’Alema.
I più diranno: “Cosa avete da lamentarvi; avete avuto la legge e rompete ancora?”
Ebbene sì!
Malgrado la nuova legge, di motivi per rompere ancora, ce ne sono moltissimi e, dalla sua approvazione, se escludiamo gli aspetti di principio giuridico, è cambiato poco o niente.
Inutilmente, da un anno, si sta aspettando che l’istituzione dell’Ufficio determini:
la stipula di nuove convenzioni con gli enti;
la formazione rivolta agli obiettori;
un controllo effettivo su come gli enti impiegano gli obiettori;
la ricerca e la sperimentazione di forme di difesa civile non armata e nonviolenta;
la realizzazione di un servizio informativo permanente per i giovani di leva;
l’approvazione di nuovi regolamenti di gestione amministrativa del servizio civile e di disciplina per gli obiettori;
l’effettiva assegnazione degli obiettori agli enti che li richiedono;
la possibilità di svolgere il servizio civile in un altro stato;
la possibilità di partecipare a missioni umanitarie fuori dal territorio nazionale.
Purtroppo, senza Ufficio Nazionale, di tutto questo non se ne parla e la gestione del servizio civile rimane saldamente nelle mani dei militari che, come era facilmente prevedibile, continuano a gestire tutto come prima (se non peggio): tempi di attesa lunghissimi, precettazioni a distanza, enormi ritardi nel corrispondere paghe e rimborsi, niente informazione, formazione, controlli.
Oltre a ciò un’altra pesante ombra grava sul servizio civile: gli stanziamenti per la gestione del servizio civile, stabiliti dalla Legge Finanziaria per l’esercizio finanziario 99, sono irrisori.
Facendo dei conti banali è facile intuire che non siano sufficienti nemmeno a garantire le diarie degli obiettori e la copertura dei rimborsi per vitto ed alloggio dovuti agli enti.
Cosa succederà se, nel corso del 99, finiranno le disponibilità finanziarie per il servizio civile?
Manderanno tutti a casa e chiuderanno per indisponibilità di cassa?
Ribadiamo, pertanto, che l’attuazione di questa legge necessita di due condizioni indispensabili:
l’istituzione dell’Ufficio nazionale, senza il quale la gestione della legge rimane affidata nelle mani del Ministero della difesa, soggetto istituzionale ostile all’obiezione ed al servizio civile, che continua a dimostrare non solo di non volerla attuare in tutte le sue parti ma, addirittura, di volerla boicottare;
una dotazione finanziaria adeguata, indispensabile per poter mettere l’Ufficio Nazionale nelle condizioni di attuare tutti i punti sopra indicati; in modo particolare l’informazione rivolta ai giovani, la formazione degli obiettori ed il controllo sugli enti.
Non siamo mai stati affetti da facili ottimismi ma la situazione rischia di degenerare e, dopo 27 anni di lotte, non possiamo rimanere indifferenti ad osservare il fallimento di questa riforma a lungo pretesa.
Quando questa legge è stata approvata abbiamo segnalato immediatamente tutti i limiti ad essa connessi e abbiamo detto che questa legge non era la nostra legge, rendendoci disponibili, però, a collaborare affinché venisse attuata nella maniera migliore.
Oggi, però, a fronte di un attacco finalizzato a vanificare anche queste conquiste, lanciamo un grido di allarme, rivolto non solo a quanti sono interessati alle sorti dell’obiezione di coscienza e del servizio civile in Italia ma, principalmente, a chi, per carica istituzionale, dovrebbe preoccuparsi dell’attuazione delle leggi approvate dal Parlamento.
Chiediamo pertanto, al Presidente del Consiglio, On. D’Alema, da cui dipende, in misura principale, l’istituzione dell’Ufficio nazionale, di adoperarsi affinché si possa dire che, almeno per quanto riguarda l’attuazione di una legge, l’Italia è un paese normale.
Lettera aperta ai 190 Parlamentari per la pace
Carissimi,
abbiamo apprezzato la vostra presa di posizione a favore della pace presa in un momento assai difficile: il coinvolgimento del nostro paese nella guerra contro la Jugoslavia.
Anche noi, come voi, siamo convinti che, di fronte alla brutalità della guerra, debbano prevalere i valori di coscienza sulle convenienze politiche.
La fragile pace che si è raggiunta in Kossovo, però, non deve farci dimenticare che dobbiamo operare per raggiungere una pace giusta, solida e duratura, non solo in Kossovo, ma in tutto il mondo.
Attivarsi per la pace, solo quando scoppiano i conflitti, è importante ma poco efficace e, quanto successo in Jugoslavia, ci insegna, se ce ne fosse ancora bisogno, che il modo migliore per evitare la guerra è prevenirla, attraverso una politica che, ogni giorno, sia veramente attenta alle cause che possono generare una escalation nei conflitti che sono presenti a livello sociale, economico, politico, religioso, etnico.
Per questo è indispensabile un cambiamento delle coscienze di tutti e l’avvio di comportamenti concreti di pace che, se applicati su larga scala, possano condizionare le scelte politiche dei potenti.
Per questo vi chiediamo di unirvi a noi nel:
Promuovere e praticare l’obiezione di coscienza alle spese militari ed opporvi a qualunque ipotesi di aumento della spesa militare;
Promuovere l’istituzione di corpi civili di pace, formati all’intervento non armato, per intervenire a prevenzione dei conflitti;
Chiedere l’effettiva applicazione di quanto previsto dalla Legge 230/98 che, a quasi un anno dalla sua approvazione, rimane ancora lettera morta;
Promuovere un’iniziativa legislativa per riconoscere l’asilo a tutti i disertori obiettori dei paesi coinvolti nel conflitto che decidessero di rifugiarsi in Italia;
Sostenere progetti di cooperazione rivolti a tutte le popolazioni colpite dal conflitto (anche quella serba);
Porre sotto osservazione la ricostruzione affinché si riducano il più possibile gli inevitabili tentativi di speculazione a danno delle popolazioni, ulteriore atto di guerra;
Promuovere, con sempre maggiore attenzione, la riconversione, a scopi civili, dell’industria bellica.
Essere nonviolenti significa dare un risvolto concreto al nostro agire e, noi, ci stiamo provando, cercando di non limitarci ad una opposizione sterile, ma proponendo scelte e comportamenti che possano coinvolgere tutta la popolazione e, di conseguenza, essere efficaci.
La vostra adesione è fondamentale per dare riconoscibilità e riconoscimento istituzionale a ciò che gli obiettori propongono da decenni.
Attendiamo una risposta concreta!
Segreteria Nazionale LOC
Nel lager di Buchenwald per onorare gli obiettori
Nel Memoriale di Buchenwald, nei giorni 14 e 15 maggio 1999, si è tenuta una manifestazione del BEOC, Ufficio europeo per l’obiezione di coscienza in cooperazione con la Fondazione Heinrich Boll e il Centro protestante di formazione degli adulti della Turingia: l’obiettivo è stata la protezione e riconoscimento degli obiettori di coscienza. Al termine della manifestazione è stata approvata la seguente
DICHIARAZIONE DI BUCHENWALD
contro l’espulsione degli obiettori di coscienza e dei disertori
Il diritto all’obiezione di coscienza è ancora ben lontano dall’essere riconosciuto in tutti i paesi europei. Per molti il reclutamento nelle forze armate e il coinvolgimento nella guerra costituiscono una minaccia che tocca direttamente le loro convinzioni e la loro coscienza, costringendoli nell’illegalità col pericolo di essere incarcerati, torturati, o anche uccisi in azione di guerra.
In molti paesi, soprattutto quelli europei del Sud e del Sud-Est, l’assenza di una norma giuridica ostacola la soluzione del problema. In una tale situazione, numerosi sono quelli che vedono come unica via di scampo la diserzione e la fuga in Occidente, in quei paesi che pretendono di rispettare i diritti dell’uomo.
Tuttavia, poiché l’obiezione di coscienza e la diserzione –nonostante le raccomandazioni del Consiglio d’Europa e del Parlamento europeo- non sono ancora riconosciute come motivo per concedere l’asilo politico, a questi rifugiati viene generalmente negata la protezione . Rifiutati dal sistema giuridico, essi vengono espulsi e non di rado consegnati direttamente alle autorità dei loro paesi d’origine, dove rischiano la prigione, la tortura o anche l’immediato reclutamento per la guerra .
Così facendo, gli stati espellenti diventano essi stessi promotori del militarismo, mostrando di trascurare il diritto all’obiezione di coscienza e di essere incapaci di mandare un segnale atto a spezzare la spirale di violenza nelle regioni in conflitto . Ad essere perseguiti, da ambo le parti, non sono quelli che ordinano o impiegano la violenza, ma quelli invece che si oppongono alla guerra e alla violenza .
Noi chiediamo perciò di porre fine all’espulsione dei disertori e degli obiettori di coscienza in cerca di asilo . L’obiezione di coscienza e la diserzione devono essere riconosciuti in tutta Europa come motivo di asilo politico. A questo riguardo, la comunità internazionale degli stati ha l’obbligo di impegnarsi nell’effetto riconoscimento e in una democratica formulazione del diritto all’obiezione di coscienza.
BEOC Bruxelles
A QUATTRO ANNI DALLA MORTE
Alexander Langer
Il pensiero della testimonianza
di Roberto Dall’Olio
“I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, si tratta di trasformarlo”. Si esplica così, perentorio, il programma filosofico di Marx nella celebre 11esima tesi delle Tesi su Feuerbach. Trasformare il mondo, dopo averlo conosciuto ed interpretato Ma il processo di trasformazione non si è mostrato così consequenziale alle analisi della società industriale proposte da Marx; la lotta per il dominio della Terra si è fatta cruenta fino ad intaccare, nel secondo novecento attraverso usi scorretti della tecnologia, le riserve energetiche del pianeta. La questione ecologica è così diventata nelle migliori delle interpretazioni una priorità che tende ad elevarsi al di là delle conflittualità ideologiche di stampo manicheo e a proporsi nel pensiero contemporaneo come nuovo universale concreto, attento alle diversità e luogo delle coscienze in allarme, testimone del nostro essere tutti sulla stessa barca. Lo ha dimostrato il socialismo reale, purtroppo con il sangue anche: il capitalismo finanziario globalizzante si ferma o rallenta nella sua morsa totalitaria solo di fronte al pericolo, alla paura. Il pericolo comincia ad essere rappresentato, attualmente, dal disastro ecologico perpetrato quotidianamente.
Dopo aver conosciuto il mondo, dopo aver cercato di cambiarlo, qualcuno ha provato ad attraversarlo. Non sono stati in tanti a seguire questo sentiero; tra questi, negli ultimi decenni, Alexander Langer, “l’Empedocle dal passo leggero” come ha scritto di lui finemente Peter Kammerer. Una grande figura, quella di Langer, appartata e volutamente periferica eppure quanto mai viva ed attenta ai nodi problematici della modernità; un pensiero ed un agire trasversale il suo che si è confrontato con molte delle dissidenze del panorama culturale contemporaneo. Né conoscere, né cambiare, ma in primo luogo comprendere era il verbo che animava in lui il rapporto con l’altro da sé. Comprendere che i mondi sono più di uno, che le etnie, le culture, le storie sono plurime e tra loro anche antagoniste per cui l’unico vero passo verso il cambiamento è quello di gettare dei ponti tra di esse e provare ad attraversarli. Scegliere la convivenza, capire il fascino e la fatica di superare i confini, saltare i muri che separano. Cercare nessi e non rotture. E’ qui uno dei luoghi più fertili del pensiero di Langer e viene da pensare al suo San Cristoforo, il santo traghettatore e alle domande assillanti che Alex gli rivolgeva in una bellissima lettera presente nell’antologia dei suoi scritti. Ne riporterò una: “Qual è la Grande Causa per la quale impegnare oggi le migliori forze?”
La risposta sta nel riscoprire il senso del limite e nel provare a praticarlo. E’ il nocciolo del pensiero ecologico e della convivenza multietnica che rappresenta uno dei temi più originali del pensiero di Langer: le intime connessioni tra dimensione ecologica e relazioni inter-etniche. L’idea del limite, e dell’autolimitazione – virtù verde per eccellenza secondo Langer – suggerisce un ridimensionamento dell’idea di progresso che ha alimentato la corsa della nostra civiltà verso il “sempre di più” seppure in nome di prospettive egalitarie e trasformatrici come quella di Marx o di ispirazione marxista. Perché non si può non riconoscere che anche l’istanza di trasformazione perorata da Marx (oltre a tutti gli eurocentrismi di stampo liberale e conservatore) muovesse dal presupposto che il mondo fosse uno e tale presupposto è confluito poi nell’asfissiante presa dell’universalismo egalitario e libertario giacobino, vera dimora degli abusi di potere di questo novecento, delle dittature drastiche negatrici di ogni testimonianza della diversità etnica e culturale.
Sono queste le basi su cui poggia quella che Langer chiamava la tentazione dello stato etico. Quanti disastri in nome di questa tentazione! L’etica non riguarda primariamente le istituzioni, ma le personalità, gli individui, ha a che fare con l’agire individuale e legato alle personalità, alle relazioni, agli amori, agli slanci e ai rifiuti. L’etica parte dal sé: è persuasione per usare il linguaggio di Michelstaedter, è lavoro su di sé per usare il linguaggio di Alex. La persuasione come dono di sé, intesa come direzione, slancio verso gli altri sotto la forma dell’obbligo. L’altro è un obbligo prima che un elenco burocratico di diritti. L’obbligo non ha niente a che vedere con la “retorica” di palazzo o sociale da grandi numeri. E’ in quest’ottica che vanno viste le virtù verdi di cui parlava Alex (l’obiezione, il limite, o meglio l’auto-limitazione, la conversione ecologica, il pentimento, il valore d’uso piuttosto che il valore di scambio, riavvicinare costi e benefici…). Esse sono calate nel sé, alla ricerca di quello spazio situato tra politica e società civile: i piccoli gruppi, le piccole comunità; quasi una dimensione elitaria ma rovesciata, l’élite dei disertori e dei transfughi etnici, di uomini e donne che praticano anche il no.
Non si tratta di dandysmo ecologico, assolutamente, ma di un recupero della dimensione inter-individuale ed inter-etnica capace di avere efficacia anche politica, di saltare i muri e gli steccati, gli apparati su cui si fonda la logica del dominio e dello sfruttamento della Terra e dell’Occidente tecnologico verso il resto del pianeta. Langer aveva compreso la grande critica che Nietzsche aveva rivolto alla scienza occidentale capace non solo di oggettivare il mondo per l’uomo coloniale, ma anche di oggettivare l’uomo a se stesso. E dunque di rendere l’uomo schiavo di se stesso, diviso e straniero a se stesso rubando un’efficace espressione di Julia Kristeva. L’uomo vittima del proprio imperio tecnologico. Ma attenzione: nessuna demoniZzazione della tecnologia, nessuna assoluta nostalgia di un ritorno all’età della pietra, o allo stato di natura Langer proponeva, quanto invece un rallentamento, una radicale decisione sulla organizzazione della civiltà non in senso predatorio. Porre l’accento sulle modalità è essenziale; niente di per sé è distruttivo, dipende dall’uso che se ne fa. Quindi è chiaro che la tecnologia è e sarà importantissima in futuro per risolvere molti dei problemi ecologici, ma deve essere altrettanto chiaro che la questione ecologica è soprattutto un’emergenza culturale prima che tecnica. Ed è una questione politica che coinvolge, o dovrebbe coinvolgere, anche i governi, per sottrarre la politica alla schiavitù della finanza e modificare la rotta autodistruttiva dell’umanità. Langer davanti alla furia della nostra civiltà proponeva di rovesciare il motto olimpico del citius, altius, fortius di De Coubertain in un più sobrio lentius, profundius, suavius per trovare un rapporto più equilibrato tra uomini ed ambiente, natura e cultura.
Contro la logica dei blocchi, della guerra fredda, Langer scrisse pagine decisive, molte delle quali attendono ancora la pubblicazione. Né con l’Est, ma neppure con l’Ovest per praticare lo stare a sinistra alla ricerca di denominatori comuni capaci di parlare a cattolici e laici, rossi e verdi, alle varie tendenze religiose, tedeschi e italiani in Alto Adige, secondo una linea da “terza o Quarta via” di cui nell’immediato dopoguerra in Italia fu lucido e lungimirante interprete, tra gli altri, Giuseppe Dossetti.
Il riferimento è a una coscienza vigile ed inquieta, un cristiano vivo e Langer non ha mai smesso di pensare al verbo di Cristo come ad un grande contenitore di senso e ad una grande via per attraversare il mondo e la vita nonostante riconoscesse le aberrazioni di cui la Chiesa si è macchiata nei secoli.
Se in precedenza avevo sottolineato le tentazioni dello stato etico in tutte le sue forme comprese quelle socialiste, non va assolutamente dimenticata la critica serrata che Langer rivolgeva alla società dei consumi e alla forma politica che la sorregge e ne è espressione: la democrazia. ” La democrazia di quelli con la pancia piena… di chi amministra la parte relativamente avvantaggiata della società e del pianeta, spesso con criteri di scarsissima responsabilità ecologica verso l’insieme del pianeta e dell’umanità”.
Contro questo universalismo economico incapace di coniugare libertà e diversità, libertà e senso del limite, Langer il traghettatore, il costruttore di ponti, proponeva la sua vocazione viennese, il senso mitteleuropeo della convivenza nella diversità, il suo cambiamento di rotta sul piano economico, la sua visione dolce della vita, le economie bio-regionali, non snaturate da un mercato senza più stagioni, economie meno predatorie e rispettose dei luoghi, degli spazi della loro specificità. Langer, sudtirolese di nascita ed europeista di adozione, questo “italiano” atipico, non confuse mai il “suo Sudtirolo” con la patria delle bandiere e da tifo calcistico, ma lo identificava con la Heimat, la patria e la matria degli affetti e dell’origine. Un pezzo del vecchio impero asburgico in cui, in seguito alle decisioni prese a Versailles (1919) e al diritto all’autodeterminazione dei popoli in senso nazionale e monoetnico in quel luogo propugnata e astrattamente disegnata sulla carta dei potenti – ma non delle persone – i plurisecolari abitanti di lingua tedesca e ladina si erano trovati forzatamente a convivere con i nuovi abitanti di lingua italiana provenienti da varie zone dell’Italia e a subire una “italianizzzione” forzata che ha suscitato risentimenti e rancori ancora oggi non del tutto risolti e superati.
Da questa situazione di difficile convivenza prende le mosse la strategia langeriana della convivenza, un federalismo delle menti e dei cuori, delle coscienze, degli affetti che possa e voglia coniugare le varie periferie coi centri del mondo, una rete di identità bio-regionali e organismi sovranazionali in cui la pace, non la pace come quieto vivere, ma la pace inquieta e “battagliera” che non annichilisce le relazioni e le tensioni in nome dell’ipocrisia dell’indifferenza reciproca, possa trovare un posto, anche se non definitivo, nelle storie degli uomini. Perché è chiaro che si può stare assieme solo se lo si vuole, che si può essere bilingui o plurilingui solo se lo si vuole e se ci sono luoghi che invitano tale volontà. In questa prospettiva l’Europa, in nome delle sue storie “immense e terribili”, doveva per Langer svolgere un ruolo decisivo. Doveva perché l’Europa è in crisi ed è quasi solo un progetto finanziario.
D’altra parte come scrisse Camus l’Europa è stretta tra la menzogna dell’Est e l’ipocrisia dell’Ovest. Pur essendo mutata la geografia politica dell’Est il problema resta aperto. Alex da vero europeista lo sapeva; per questo scrisse il testo “L’Europa muore o rinasce a Sarajevo”. Lì era in gioco la posta della convivenza e dell’Europa della cultura dell’altro di fronte all’Europa della negazione dell’altro, dell’Europa di Auschwitz. Langer insieme a pochi altri aveva subito compreso l’orrore che si stava scatenando in Bosnia e nei Balcani e con lungimiranza avvertiva della situazione delicatissima del Kosovo. Sarajevo era la città simbolo delle relazioni perdute, della convivenza frantumata, della rapidità con cui l’odio organizzato distrugge ciò che stratificato nei secoli si riesce a costruire. Se la storia diventa una malattia non se ne guarisce fuoriuscendo nel mito, ma attraverso la storia stessa, parlando e riprovando sempre di nuovo.
Sarajevo 1914, l’inizio simbolico di questa crisi europea che è ben lungi dall’essere risolta, Sarajevo, che come scrisse splendidamente Joseph Roth “non dovrebbe essere una città, dovrebbe essere un monumento a terribile monito per tutti”.
Non so se valgano i monumenti a non seppellire la cultura della memoria. Noi uomini dimentichiamo…
L’altro! Langer era per me uno dei pochi ad usare correttamente la parola noi. Non quel noi crasso, ipertrofia della parola io; ma un noi coesistente di Io-Tu, intessuto di relazioni, alla Buber. Un noi fatto di parole, e di sguardi, di comunicazione ed azione per dirla con Hannah Arendt. Un noi “federalista” composto di mille e mille rigagnoli relazionali e intersoggettivi da non confondere con le grandi aggregazioni. E penso qui alle vicinanze con il pensiero di Simone Weil.
Arendt, Weil, Buber, Levinas: alcune gemme del giardino ebraico. Non va dimenticato che il padre di Alex era ebreo e che Alex pur non praticante conosceva a fondo la cultura ebraica.
Tali ascendenze le si possono riconoscere nel suo concetto e nella sua pratica della speranza, non come guadagno personale della salvezza, ma come percorso di vie comuni verso la realizzazione di una civiltà dolce rispettosa della natura e delle altre civiltà; e ancora nella concretezza e verifica storica delle utopie ecologiste; oppure nell’autoironia di riconoscere che in certe utopie proposte non ci sarebbe potuto stare e vivere neppure lui. Questa autoironia è fondamentale; so da molti che lo conoscevano bene della sua convivialità, della sua gioiosità e capacità di ridere di sé e (con molto rispetto) degli altri.
E’ la sua agenda a mostrare quanto sostenuto, come ha giustamente sottolineato Edi Rabini. Un’agenda che era sempre più fitta di nomi, indirizzi e non cambiava mai; Alex non dimenticava indirizzi del passato e di persone lontane, ma voleva comunicare con tutti, quasi disperdersi in tutti, dilatarsi, per poi ritrovarsi più ricco, “riciclato”.
In questa prassi degli affetti, in questo coprire le tante distanze della sua vita, in questo aiutare gruppi, persone, riviste, in questa sua inesauribile curiosità c’era tutta la sua consapevolezza, tragica consapevolezza, della fragilità degli affetti umani, come ebbe a scrivere del “troppo grande (..) carico d’amore per l’umanità e di amori umani che si intrecciano e non si risolvono, troppa la distanza tra ciò che si proclama e ciò che si riesce a compiere.”
Con un carico di disperazione che evidentemente pesava sulla sua mente e sul suo cuore Alexander Langer si è tolto la vita quattro anni fa.
Le sue intuizioni si fanno sempre più vere, la sua mancanza sempre più grande.
ITINERARI DI PACE
A Telves per ricordare Alex Langer
Di Alberto Trevisan
Peter Kammerer nel saluto portato ad Alex Langer alla Badia Fiesolana, ricordava quanto i luoghi contassero per Alex, per la sua ricerca, per il suo inesauribile impegno, per poter soprattutto collegare luoghi e persone, episodi e progetti.
Per questo ho voluto andare di persona nell’ultimo luogo toccato da Alex: il cimitero di Telves sopra Sterzig/Vipiteno.
Ci sono arrivato al termine di un lungo itinerario e di pace e di guerra: da Tuzla martoriata alla solitaria Barbiana, da St. Radegund (Austria), dove riposa il primo obiettore di coscienza durante il nazifascismo, sino a Telves.
Un percorso lungo, difficile compiuto in pochi giorni passando dall’inferno Bosniaco per rinfrancarmi sulle colline del Mugello accanto alla Scuola di Barbiana, dal piccolo e silenzioso cimitero di St. Radeund per arrivare, esausto ormai all’imbrunire sulla collina di Telves, dove ora riposa Alex Langer.
Sulla morte e sulle regioni di questo tragico evento di questo “uomo leggero”, Alex, “ di piede leggero, attento di non essere un peso per la terra” (P. Kammerer), ognuno di noi si sarà fatto una idea: a me basta raccontare ciò che ho vissuto a Telves, ciò che mi suggeriva il mio amico, ciò che ho sentito e ciò che mi sembra di aver imparato.…
Ebbene, se per molti di noi i luoghi assumono grande significato in riferimento alle storie, ai vissuti, il piccolo cimitero di Telves mi è parso, per Alex, il luogo naturale, scelto per finire questo suo cammino di uomo leggero, percorso con zaino leggero, con sandali francescani e pochissime cose da conservare, l’indirizzario, gli occhiali, le lettere, le cartoline, il suo cane, qualche libro, qualche biglietto aereo……
Telves l’ha accolto sulla terra accanto ai genitori, pianto da tanti amici vicini e lontani: ora riposa all’ombra di un albero forse troppo simile all’ultimo albero di Firenze, con i suoi frutti selvatici, così vicini alla natura, all’ecologia che Alex tanta amava.
Alex è accolto da un piccolo fazzoletto di terra all’ombra di un campanile che si erge maestoso proprio a metà, tra l’inizio di una valle sovrastata dalle montagne e l’ingresso dell’autostrada che attraversa l’Italia o che porta in Europa.
Sono i simboli della sua vita, di cinquant’anni vissuti tra la pace delle alte cime e il correre frenetico delle autostrade, degli aereoporti, delle voci dei palazzi del potere e della politica, strumenti che Alex aveva scelto, suo malgrado forse, per essere viandante e messaggero nei luoghi di pace e nei luoghi di guerra.
Brevi ma ripide curve ci portano a Telves, e ci fanno trovare al centro di questo scenario così simbolico e così naturale allo stesso tempo: quasi un invito a voler partire da qui e per le cime e per le città per ritrovare serenità, gusto della convivenza, della tolleranza, e della giustizia.
Telves è un piccolo cimitero, ben curato, con grande somiglianza al prato verde sulla collina di Tuzla in Bosnia, dove riposano tanti giovani falciati da una granata omicida, pochi mesi prima della dipartita di Alex.
Alex aveva scelto Tuzla, vi ha trascorso giorni, mesi forse, quasi innamorato di una realtà che da sempre aveva sognato, lui che, per primo, ci aveva mostrato i pericoli delle “gabbie etniche”, lì invece proprio a Tuzla aveva conosciuto il valore della convivenza, della pluralità, della municipalità interetnica, della strenua resistenza alla guerra.
Tra Tuzla e telves un legame c’è, e non solo simbolico: lega popoli e individui, progetti e speranze, persone, e idee, valori e passioni.
Anche i fiori di Telves, sempre freschi e naturali, non sono diversi dai fiori di Tuzla, presentano troppe analogie: l’angoscia di chi piange i propri cari caduti, la disperazione interiore, la fatica divenuta insostenibile, ma anche la speranza della vita, dell’incontro, dell’ospitalità, dell’integrazione tra i diversi, del “non essere tristi, del continuare in ciò che era (ed è) giusto”(A.Langer).
Sono certo che se Alex dovesse ripartire, sceglierebbe ancora le sue montagne e ancora le città, perché tra queste realtà così diverse ritroverebbe ancora il senso di coniugare natura e rapporti umani.
Ora l’impegno l’ha lasciato ad ognuno di noi e andandosene in silenzio, forse ci ha chiesto di continuare ad essere portatori di speranza.
La pagliuzza e la trave
Al Direttore dei Servizi Demografici
Al Direttore dei Servizi del Personale
Comune di Pordenone
Signor Direttore,
credo necessario rimanga traccia delle motivazioni che mi hanno portato ad utilizzare la posta elettronica l’11 maggio scorso: azione alla quale ha fatto seguito il suo provvedimento disciplinare del 28 maggio.
Il giuramento di fedeltà alla Carta Costituzionale, atto che ci accomuna come pubblici dipendenti, ci impone di intervenire quando la stessa viene ignorata e calpestata nei suoi valori fondamentali. E tra questi vi è sicuramente il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, stabilito dall’art. 11 della Costituzione.
Ed ecco che mentre da giuristi ed esponenti di associazioni eco-pacifiste presentano all’autorità giudiziaria denuncie penali nei confronti dei vertici dello Stato per attentato alla costituzione, a me viene contestato di aver invitato, tramite posta elettronica interna, i colleghi di lavoro ad aderire ad uno sciopero generale contro la guerra!
E questo avviene, sia detto per inciso, in una amministrazione comunale governata da un partito (Lega Nord) che pure si è espresso chiaramente e sin dall’inizio contro la partecipazione dell’Italia ai bombardamenti della Nato.
Ebbene sappia che ritengo legittimo e doveroso aver richiamato l’attenzione dei colleghi sulla proclamazione dello sciopero attraverso l’uso della posta elettronica, intesa come idoneo strumento per l’espressione del proprio pensiero e per rendere effettivo il diritto allo sciopero, indebolito da un colpevole silenzio dagli organi di informazione.
Ancora, Lei, riferendosi ad una lettera del Direttore dei Servizi Informativi, afferma che io avrei violato una disposizione ricevuta.
Ciò non risponde al vero: la comunicazione citata era indirizzata al coordinatore della RSU e verteva solamente sull’utilizzo della posta elettronica quale sorta di bacheca sindacale “virtuale”.
Nella stessa lettera veniva solamente detto che tale servizio non era utilizzabile da soggetti terzi, quale appunto h la RSU. Ma non veniva assolutamente specificato che non potesse essere utilizzato, come aggiunge Lei, dai dipendenti comunali singolarmente intesi.
Consideri inoltre che, al di la di quanto scritto dal responsabile del servizio informatico, non vi h nessun costo marginale per l’invio di messaggi di posta elettronica e che non vi era nessuna sorta di interesse “privato” (semmai pubblico, e questo lo rivendico) e le apparirà chiaro che il provvedimento da Lei adottato rimane privo di reali motivazioni.
Le chiedo quindi di voler procedere al ritiro dello stesso.
Resto in attesa di una sua risposta (anche per mezzo della posta elettronica: vagamond@tin.it ).
Cordiali saluti.
Tiziano Tissino Porcia (PN)