Azione nonviolenta maggio 2000
– Mai piu’ eserciti e guerre, di Mao Valpiana
– La prevenzione dei conflitti e la difesa dei diritti umani, di Daniele Lugli
– La prepotenza dei bulli, il disagio delle vittime, di Elena Buccoliero
– Sulle orme di Giorgio la Pira, di Alberto Trevisan
– Quando internet mette insieme il diavolo con l’acqua santa, di Alessandro Marescotti
– Appunti di viaggio a&r in Kossovo, di Franco Perna
– Islam Al-Hallàg, martire mistico dell’Islam, a cura di Claudio Cardelli
Rubriche
– Educazione, a cura di Grazia Honegger Fresco
– Esteri
– Libri
– Cinema
– Lettere
– Musica
Marcia nonviolenta Perugia–Assisi 24 settembre 2000
MAI PIÙ ESERCITI E GUERRE
In cammino sulla strada della nonviolenza
Noi riteniamo che esista negli esseri umani una sufficiente riserva di coscienza, intelligenza e scienza capace di affrontare e comporre con equità i grandi conflitti di gruppo, evitando così che questi giungano ad un grado di esasperazione incontrollata fino allo sbocco sanguinoso della guerra (da rifiutarsi sempre, anche quando venga eufemisticamente chiamata “umanitaria” e “giusta”).
Ci poniamo quindi in antitesi con la politica dominante che, in lacerante contraddizione col ripudio pressoché universale della guerra, ne mantiene ben oliato l’apparato portante: l’esercito. Talché, di contro alle ormai secolari trattative diplomatiche per il disarmo, ne è sempre sortito l’esatto contrario, la corsa al riarmo – da cui inesorabilmente, insieme con guerre mondiali, la sequela di “piccole” guerre sgocciolanti sulla scena terrestre come spiccioli da una tasca bucata.
Per uscire dal vicolo cieco di siffatta politica schizofrenica e bancarottiera, si rivela indispensabile che l’avversione puramente verbale alla guerra sia accompagnata dal rifiuto degli strumenti che la consentono e la producono, gli eserciti e gli armamenti. Siamo pertanto impegnati ad avviare una politica di superamento degli apparati bellici attraverso passi reali ed inequivocabili di disarmo unilaterale: una politica che contro l’idea nefasta dell’inevitabilità della guerra sappia costruire forme alternative di prevenzione e risoluzione pacifica dei conflitti (in linea con la sentenza della Corte Costituzionale n. 164 del 1985 che ha sancito la piena aderenza della difesa non armata al dettato costituzionale, e con la legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare n. 230 del 1998, che per la prima volta ha istituito la sperimentazione e l’addestramento alla Difesa Popolare Nonviolenta).
La Marcia intende convocare tutti coloro, singoli ed organizzati, che lavorano per costruire l’alternativa della nonviolenza e che vogliono contrastare ogni rassegnazione all’inevitabilità della guerra. L’occasione della Marcia, di evidenziazione del pacifismo nonviolento, che si oppone in modo assoluto alla guerra, potrà anche servire a chiarire e superare finalmente la via bloccata in cui ancora una volta si sono trovati irretiti i diversi pacifismi relativi, “sconcertati” e “spiazzati” di fronte all’Italia di nuovo lanciata in un’avventura bellica, contro le regole che si consideravano certe ed acquisite una volta per sempre (art. 11 della Costituzione).
Al contempo marciamo affinché la risoluzione delle controversie internazionali venga assunta non dalla NATO ma da un’ONU riformata e sia realizzata con veri interventi di polizia internazionale; anche per questo sosteniamo l’istituzione di un Corpo Civile Europeo di Pace e contrastiamo la nascita di un nuovo esercito comune europeo. Marciamo contro tutti gli eserciti, di leva o professionali, con o senza le donne, e per opporci al Nuovo Modello di Difesa.
In questo nostro impegno di sviluppo di una politica nonviolenta tesa ad ulteriori iniziative fra tutti i nonviolenti organizzati, siamo fin d’ora pienamente confortati dal Manifesto dell’Unesco per l’Anno 2000 (Anno Internazionale per la Cultura della Pace), che segue a sua volta la deliberazione ONU basata sull’appello lanciato nel 1999 dai Premi Nobel per la Pace, per la raccolta di impegni personali per la pace e la nonviolenza.
Auspichiamo infine che una qualche voce possa salire all’esterno della marcia e giungere ad essere intesa nel coro delle celebrazioni per il Giubileo: e che a suggello di questo, con preminenza sulle tante altre pratiche di contrizione e di remissione dei peccati, sia posto il pentimento e la remissione del crimine sommo, quello di continuare, da cristiani, a preparare con gli eserciti la guerra.
Come nel 1961 con Aldo Capitini, per aggregare tutti coloro che credono nella nonviolenza come scelta personale e politica, “aperta all’esistenza, alla libertà e allo sviluppo di ogni essere”.
Movimento Nonviolento
Via Spagna 8 – 37123 Verona
Tel 045 8009803 Fax 045 8009212
Movimento Internazionale della Riconciliazione
Via Belgatto 78 – 61032 Fano (Pesaro)
Tel. e Fax 0721 830265
La prevenzione dei conflitti e la difesa dei diritti umani
di Daniele Lugli
Nei proponimenti di inizio d’anno Kofi Annan, segretario dell’ONU, indicava come compito dei prossimi 20 anni quello della prevenzione dei conflitti, vista l’esperienza compiuta di “doverosi” interventi militari per la sicurezza internazionale e la difesa dei diritti umani. Sottolineava anche che la più costosa prevenzione costa comunque meno della guerra più economica. I costi in denaro delle guerre sono infatti altissimi, senza contare, naturalmente, quelli politici e umani. Ciò dovrebbe condurre, secondo il segretario dell’ONU, ad una comune volontà, ai livelli più alti della Comunità internazionale, per una strategia integrata di prevenzione, capace di vincere la riluttanza delle parti in conflitto nei confronti di interventi esterni.
Non sembra questo il cammino che la Comunità internazionale sta percorrendo o si accinga a percorrere. Come un grande re ha potuto in passato affermare “Lo Stato sono io” e meritare il nome di Re Sole, per il suo risplendere imparzialmente su tutti, così oggi gli Stati Uniti d’America parlano a nome della Comunità Internazionale e sono l’indiscusso leader mondiale. Sono gli USA a distribuire premi e castighi, associando i più fidi alleati, usando o non usando, secondo le convenienze, le istituzioni internazionali, rispettandone o non rispettandone le regole. La Pax americana, nella quale viviamo, è una proiezione esterna della sicurezza e degli interessi di quel Paese. Quel che va bene per l’America deve andare bene per il resto del mondo. Non vi è alcuna ricerca di un diverso concetto di sicurezza e di interessi comuni. Nè altri Paesi, o la Comunità Europea, o la stessa ONU, sembrano fare molto in questa direzione.
Eppure proprio di questo c’è bisogno, se continuano conflitti di ogni dimensione e natura, capaci di crudeltà che sembravano ormai superate nella coscienza e nella pratica umana. Delle decine di conflitti in atto nel mondo molti si svolgono in Africa, ma non risparmiano alcun continente. Sono quasi tutti, in qualche modo, interni, complessi ed, apparentemente, intrattabili. Forse i soli conflitti Eritrea – Etiopia e India – Pakistan sono riconducibili alla categoria dei conflitti tra stati. In tutti gli altri casi siamo in presenza di guerre sui generis, con attori diversi e talora indecifrabili.
Ogni conflitto va compreso nelle propria differente origine, motivazione, configurazione, evoluzione, se si vuole prevenirlo, intervenirvi efficacemente, contribuire a sanarne le conseguenze o, anche solo, non peggiorare la situazione.
Per seguire il classico schema di Thomas Hobbes i conflitti nascono principalmente dalla concorrenza per un bene materiale, dalla sfiducia negli altri, che mette in forse la propria sicurezza, dalla volontà di fama e reputazione. Vi sono cioè fattori economici: appropriazione di risorse scarse naturali ( come materie prime, terre fertili, acqua…) o indispensabili comunque allo sviluppo (come comunicazione, accesso ai crediti…). Vi sono fattori politici: conseguenza di processi di costruzione e disgregazione di stati, lotte di potere tra èlites regionali, nazionali, etniche, criminali per il controllo sul territorio, sulle sue risorse, per l’influenza sull’area. La crisi degli assetti precedenti induce una diffusa insicurezza e l’attacco preventivo è la miglior difesa. Vi sono infine fattori socio – culturali: connessi alla formazione delle èlites, ai rapporti tra generazioni, tra città e campagna, tra pastori e contadini, tra culture, tradizioni religiose ed etnie, riscoperte ed enfatizzate. Fama e reputazione, o almeno una qualche identità, può essere ricercata nel massacro del vicino, fino a ieri nostro concittadino, dal quale ci divide una differenza divenuta improvvisamente insopportabile.
La caduta dei sistemi cosiddetti socialisti, che non possono certamente essere rimpianti, ha prodotto un vuoto, presto occupato dal capitalismo totalitario, dal sistema di società multinazionali e transnazionali, che assumono volentieri il nome di Mercato. La competizione economica è senza limiti, il rischio dell’esclusione e dell’emarginazione è costante. La produzione e riproduzione di conflitti estremi, che, come si è visto, non risparmiano neppure l’Europa, è assicurata. Uno storico inglese. esperto di questioni militari ci invita a rivedere le nostre convinzioni sulla guerra. Dobbiamo accettare la guerra come un fatto normale e quotidiano, uno strumento, mai definitivo, ma utile per raggiungere obiettivi precisi e limitati. Occorrono perciò professionisti e mezzi sofisticati per colpire e controllare dittature, fanatismi e criminali internazionali, la presenza dei quali è inevitabile, quando questa si fa minacciosa per la sicurezza e lo sviluppo del mondo libero e civile. In altre parole ogni minaccia all’ordine economico – imprenditoriale che guida la globalizzazione è legittimo casus belli. E’ così che si riaccredita la guerra, ammessa dalla Carta dell’ONU solo come legittima difesa di fronte all’aggressione, travestendola da polizia volontaria internazionale, per la difesa dei più sacrosanti diritti umani, contro le dittature, il terrorismo, la criminalità internazionale.
Eppure vi sono altre lezioni che possono e, a seguire il Segretario dell’ONU, debbono essere tratte dalla storia. Pensiamo al conflitto medio orientale, che si protrae da oltre 50 anni con la formazione dello Stato di Israele. Tutti i fattori sopraricordati vi sono presenti in sommo grado, fino alla contrapposizione di due “mondi” irriducibili, ma la sua insolubilità in termini militari è chiara a tutti. Una possibile, anche se difficile, via d’uscita, attraverso l’intervento e la mediazione di terze parti autorevoli (in primo luogo gli USA) appare ora possibile. Ma se questa prospettiva è rimasta aperta ed è percorribile lo si deve principalmente a quanti, all’interno delle proprie comunità, hanno alimentato un prezioso dissenso (instancabile, insistente, coraggioso), non si sono arruolati in nessuna guerra santa, hanno costruito spazi di incontro e di fiducia tra le parti. E’ la stessa lezione che viene dal Sudafrica e che ha permesso di uscire dal più spietato e radicato apartheid. Già il precedente segretario dell’ONU, Boutros- Ghali nella Agenda della pace del 1992 e nel Supplemento del 1995 aveva compiuto una positiva valutazione degli strumenti civili di intervento nei conflitti e del loro rapporto con l’intervento, anche armato, dell’ONU, nella diverse fasi e forme di peacekeping, peacemaking, peacebuilding, cioè nell’interposizione, nella mediazione, nella prevenzione e conclusione dei conflitti. Ma gli strumenti civili, non meno dei militari, richiedono studi, sperimentazioni, risorse, volontà per essere approntati e migliorati. Il fatto che abbiano prodotto risultati considerevoli, pur in presenza di un’attenzione e di mezzi scarsissimi, è certamente incoraggiante. Ogni mille dollari utilizzati per spese militari, ce n’è uno che va all’ONU, e solo un cent per interventi civili, non violenti.
Eppure la nonviolenza ha molto da dire a proposito dei conflitti. Schematizzando al massimo, per nonviolenza intendiamo sostanzialmente tre cose, collegate, ma distinte: -un “credo” ed un atteggiamento di fondo della persona ( le cui radici possono essere molto differenti e variamente combinate: filosofiche, politiche, religiose ),
– un metodo di lotta e di intervento nel conflitto, alternativo alla violenza,
– una tensione verso una società libera da violenza, sia diretta, che strutturale, che culturale. Per dirla con Gandhi nonviolenza come ahimsa, satyagraha, sarvodaya. La nonviolenza non dà nulla per acquisito: è un orientamento ed una ricerca. Se portiamo l’attenzione sul metodo di lotta, che Gandhi ha chiamato satyagraha, cioè forza della verità, ci accorgiamo come possa costituire, nelle condizioni odierne, uno strumento prezioso nella prevenzione dei conflitti e nella loro conduzione, quando inevitabili, in forme che minimizzano violenza e sofferenza. Anche quando il conflitto è ormai scontro aperto ed armato vi sono esperienze importanti di intervento e di interposizione nonviolenti, di mediazione e diplomazia popolare. Tutti poi riconoscono il contributo di pratiche, orientate ed ispirate alla nonviolenza, nell’attività di ricostruzione della convivenza dopo i conflitti. E’ un campo nel quale, più all’estero che in Italia, non mancano studi e studiosi impegnati. Per limitarmi ad italiani, che hanno approfondito questi temi, i nomi che mi vengono in mente ( a parte l’inevitabile Aldo Capitini ), per diretta conoscenza ed anche perchè hanno spesso unito la ricerca teorica alla pratica più impegnata, sono quelli di Antonino Drago, Alberto L’Abate, Enrico Peyretti e Nanni Salio. Alle loro opere rinvio per ogni auspicabile approfondimento. Solo segnalo, come valida introduzione ad una teoria generale, il libro I conflitti di due giovani studiosi, Emanuele Arielli e Giovanni Scotto.
In un suo bel libretto, La personalità nonviolenta, Giuliano Pontara individua, ed analizza, le qualità del nonviolento sintetizzandole in dieci: 1) Ripudio della violenza,2) Capacità di identificarla, 3) Capacità di empatia, 4) Rifiuto dell’autorità, 5) Fiducia negli altri, 6) Disposizione al dialogo, 7) Mitezza, 8) Coraggio, 9) Abnegazione, 10) Pazienza. Persone così fatte sono certamente le più adatte ad essere portatori di pace e di liberazione. Aldo Capitini, che tali qualità pure possedeva in alto grado, piuttosto che nonviolento preferiva dirsi amico della nonviolenza. Per quello che mi riguarda io posso al più considerarmi un amico degli amici della nonviolenza. Promuovere la formazione di queste personalità è certo concreto ed essenziale lavoro per una pace vera. Inutile che io sottolinei l’importanza di un’attività educativa consapevole di ciò. Un contributo importante viene dalla concreta esperienza di azioni nonviolente condotte collettivamente. Esse, nella loro varietà (Gene Sharp ha illustrato 198 diverse tecniche), hanno comuni regole di conduzione, sulle quali esistono numerose ed approfondite analisi. Schematicamente si ricordano gli imperativi del non uso della violenza, dell’attenersi alla verità, della disponibilità al sacrificio, dell’impegno in un programma costruttivo, della disponibilità al compromesso sulle questioni non essenziali, della gradualità nell’uso dei mezzi. Si può rilevare che l’autolimitazione, consistente nell’assicurazione che non si userà violenza, tende a fermare l’escalation della violenza nel conflitto stesso e, nei casi migliori, ad avviare un processo di attenuazione e risoluzione. E ciò è vero anche quando sono le azioni nonviolente a provocare il conflitto, o meglio, a renderlo manifesto da latente che era. La disponibilità ad assumere su di sè il carico e le sofferenze che lo scontro comporta, l’impegno in un programma positivo, che tiene conto anche delle esigenze dell’altro, sono elementi che aumentano la resistenza nei confronti di pressioni ed ingiuste pretese. Resta sempre la disponibilità al dialogo, l’offerta della fiducia, la tensione a ritrovare ed allargare la dimensione cooperativa, gli interessi e valori comuni presenti anche nel conflitto. Più facile a dirsi che a farsi, certamente, ma non mancano gli esempi positivi.
Da Gandhi in poi, e volendo si potrebbe anche risalire, ci sono state infatti lotte nonviolente, condotte con risultati importanti, a vari livelli, in diversi campi, su differenti temi, da gruppi consistenti ed organizzati. Non si deve dunque vedere nell’azione ispirata alla nonviolenza solo il sacrificio del singolo, difficilmente proponibile ad altri, la pura testimonianza, destinata a scontrarsi, impotente, con la realtà dei fatti. Anche se non va sottovalutata l’importanza dell’azione individuale, dell’assunzione personale di responsabilità, del peso che si ha quando si agisce nella persuasione, mettendo sè stessi in gioco. Il pensiero va, ad esempio, all’attività di Libera, una rete di associazioni antimafia ed alla rottura dell’acquiescenza e dell’omertà, che costituiscono la base del potere della criminalità. Si può ricordare il successo di lotte nonviolente contro il razzismo e la discriminazione, condotte dagli Usa (M.L. King) al Sudafrica (Mandela e Luthuli). C’è stato un felice incontro, che non ha avuto il seguito auspicabile, del pacifismo occidentale, impegnato contro il nucleare, con il movimento del dissenso ed antitotalitario dei paesi dell’Est europeo, fino alla caduta del muro di Berlino. C’è stata, durante l’ultima guerra, una resistenza civile nonviolenta, poco conosciuta: qui basta ricordare quella straordinaria ed efficace, delle popolazioni danese e norvegese contro la deportazione degli ebrei, sotto l’occupazione tedesca. C’è stata, per venire all’oggi, una decennale resistenza nonviolenta delle popolazioni kossovare, private del loro diritto all’autogoverno, del lavoro, della scuola, dell’uso della loro lingua. A questa resistenza, che per anni ha evitato gli spargimenti di sangue già conosciuti nella ex Jugoslavia, la Comunità internazionale non ha prestato alcun ascolto e reale sostegno. Ha lasciato aggravare, ed anzi ha aggravato con i suoi comportamenti, la situazione, salvo poi, dopo un diktat, che sapeva inaccettabile, affidarsi ai bombardamenti. Il pensiero, per restare in Europa, va ancora alla difesa nonviolenta di Praga nel ’68, non inutile come il seguito ha dimostrato, e a quella di Vilnius nel ’91.
Ma il richiamo fatto in apertura al tema della prevenzione e dell’alternativa all’intervento armato nei conflitti, indicato come decisivo per i prossimi anni dal segretario dell’ONU, ricorda un altro ed impegnativo terreno sul quale il pensiero e la pratica ispirati alla nonviolenza hanno mostrato di poter dare un contributo. Si tratta cioè di forme di interposizione, riconciliazione, mediazione, diplomazia popolare, aiuti umanitari attuati da numerosi gruppi quali le “Peace Brigades International” (PBI), le “Balkan Peace Teams”, “Witness for Peace, i “Peaceworkers”, l’Assemblea dei Cittadini di Helsinki, Christian Peace Makers Teams, SIPAZ, Il Movimento Internazionale della Riconciliazione, War Resisters International e altri gruppi, che operano in numerosi paesi. Hanno dimostrato la loro capacità nel diminuire i livelli di violenza e nel sostenere i costruttori di pace locali. Si tratta di esperienze preziose nella linea di soluzioni nonviolente dei conflitti. Si possono ricordare, per quel che riguarda il conflitto nella ex Jugoslavia,
– l’operazione Colomba, condotta in Kossovo, dai giovani della Comunità Giovanni 23 di Rimini, che condividono condizioni di vita dei perseguitati e si prestano ad operazioni di scorta, secondo il modello delle PBI.;
– l’iniziativa del MIR SADA durante la guerra in Bosnia, che aveva mostrato la possibilità di apertura e tregua, in un conflitto particolarmente feroce, costituita da un gruppo disarmato di intervento;
– il Balkan Peace Team e la Campagna Kossovo, che avevano cercato e trovato i contatti con la parte migliore della società civile della ex Jugoslavia e dato preziose indicazioni per affrontare il conflitto nei balcani, tutte ignorate dalla Comunità internazionale. La loro opera comunque continua anche nelle nuova situazione;
– la Comunità di S.Egidio e la preziosa attività diplomatica condotta, dal Mozambico all’Algeria, allo stesso Kossovo, dove i primi risultati raggiunti furono disattesi e trascurati, per preminente responsabilità di Milosevic, ma anche di chi pensava ormai ad altre violente soluzioni;
– i Beati costruttori di pace presenti in Kossovo con iniziative particolarmente rivolte a giovani e giovanissimi.
Per quello che attiene in particolare questo ultimo conflitto raccomando due libri: Kossovo, una guerra annunciata di Alberto L’Abate e La guerra del Kosovo (anatomia di un’escalation) di Giovanni Scotto ed Emanuele Arielli.
Si può fare certo di più e di meglio da parte di quanti si ispirano alla nonviolenza, ma è essenziale che anche le istituzioni facciano la loro parte. Verità e coerenza agli impegni proclamati solennemente sarebbero il primo passo. Abbiamo visto come sia stato possibile invece portare il nostro Paese in querra, chiamandola “difesa integrata” in spregio della Costituzione, della carta dell’ONU, dello stesso patto della NATO. La nonviolenza ha dimostrato di poter dare un proprio contributo. Occorre che le istituzioni nazionali ed internazionali passino, almeno, dalle parole ai fatti. Per quello che riguarda il nostro Paese la legge sull’obiezione di coscienza ed il servizio civile, lungamente attesa, prevede sperimentazione di forme di difesa nonviolenta e intervento degli obiettori in missione di pace all’estero. Sarebbe una prima concreta traduzione del ripudio della guerra solennemente affermato dalla Costituzione. Ma non si vedono iniziative serie e concrete: la novità, la modernità sono le donne nell’esercito e la professionalizzazione del servizio militare. Alex Langer è morto da 5 anni. Lentamente una sua proposta si è fatta strada: il corpo civile di Pace europeo è stato finalmente, nel febbraio del ’99, proposto dal Parlamento europeo al Consiglio. Ma anche qui la priorità è un’altra: l’identità di sicurezza europea, l’esercito europeo, che si costruisce nell’ambito della NATO. Questo ci riconsegna alla Pax americana ed, in ultima analisi, alla precisione e potenza dei sistemi d’arma, nelle mani di eserciti di professionisti della guerra, che, comprensibilmente, pensano prima di tutto a proteggere sè stessi. Un tempo erano soprattutto i combattenti a morire in guerra e le vittime civili erano un deprecabile incidente. Oggi è esattamente il contrario. Formare un buon pilota costa molto. E’ un investimento che va protetto, in pace ( quando l’esuberanza lo porta a tranciare il cavo di una teleferica) e in guerra (quando viene recuperato con mezzi straordinari se abbattuto). Chi si scandalizza del massacro di civili, donne e bambini in particolare, si consoli. Non sono inermi: avremo sempre più donne combattenti e i soldati-bambini continueranno ad essere una realtà in tanta parte del mondo, se non si affrontano le cause dei conflitti. Ma per far questo occorre passare da armi intelligenti a donne ed uomini intelligenti. E’ un passaggio difficile.
La prepotenza dei bulli, il disagio delle vittime
Casi di violenza quotidiana nelle scuole
A cura di Elena Buccoliero
Paolo, 9 anni, costringe ogni giorno il compagno di banco a portargli 5.000 lire, che lui dovrà sottrarre di nascosto dal portafogli del padre.
Marcella, 10 anni, viene esclusa da tutti i giochi.
Federico, 13 anni, torna a casa ogni settimana con la schiena piena di lividi.
Enrico, 12 anni, è stato ustionato con l’accendino rovente e nella classe dicono che sia omosessuale.
Marcella, 17 anni è stata violentata da un compagno di scuola perché, lui ha detto, “ci stava sempre…”.
La casistica – tutto è rigorosamente veritiero tranne naturalmente i nomi dei ragazzi – potrebbe andare avanti ancora a lungo. Il fenomeno della prepotenza nella scuola – qualche volta violenza vera e propria, altre volte maldicenza, scherno, esclusione… – esiste forse da sempre, ma solo da alcuni anni è oggetto di studio a livello accademico. Si chiama “bullying”, in italiano: bullismo. Come si vede dagli esempi, niente a che vedere con i giochi di bulli e pupe.
“Il bullismo è una situazione radicata e ripetuta che si verifica tra pari, nelle scuole – non solo italiane – di ogni ordine e grado, e assume connotati diversi a seconda dell’età, del contesto culturale, delle competenze verbali e non verbali dei ragazzi. Gli studi più importanti a livello europeo, condotti dal norvegese Dan Olweus e dagli psicologi inglesi Sharp e Smith, hanno dato luogo a due scuole di pensiero: quella scandinava, che insiste sul rafforzamento delle regole istituzionali della scuola come contenimento della violenza, e quella britannica, basata sulla lettura delle dinamiche del gruppo-classe e sul coinvolgimento di chi sta a guardare”.
A parlarne sono Lucia Berdondini, dell’equipe del prof. Sharp presso il Roehampton Institut di Londra, e Federica Fantacci, collaboratrice esterna della cattedra di Psicologia dell’Educazione, presso la Facoltà di Scienza dell’Educazione dell’Università di Bologna. Insieme conducono ricerche, interventi educativi e corsi di formazione per insegnanti sul tema del bullismo a scuola. Le incontriamo a Ferrara, dove per Promeco, un ufficio comunale che si occupa di prevenzione, stanno svolgendo un corso di formazione per insegnanti di scuola media superiore, cui sono associati una ricerca, un progetto di intervento, forse un video…
Con loro, la nostra prima preoccupazione è quella di definire correttamente il fenomeno, sgombrando il campo da facilonerie o fraintendimenti.
“Il bullismo può manifestarsi in diversi modi, può essere diretto o indiretto, psicologico o fisico. Si definisce come abuso di potere da parte di qualcuno che si approfitta della debolezza altrui. Perché si possa parlare di bullismo, e non genericamente di prepotenza, devono esserci alcune condizioni: episodi ripetuti, mantenimento dei ruoli di aggressore e di vittima e, appunto, squilibrio di forze tra le parti. I giochi di lotta tra pari, ad esempio, non costituiscono bullismo, né altre manifestazioni di aggressività diffusa. Non per questo sono meno degne di interesse, semplicemente sono un’altra cosa”.
Chi sono il bullo e la vittima? E’ possibile tentare un identikit?
“Non ci sono caratteristiche tipiche, uno stesso individuo può essere bullo in alcuni contesti e vittima in altri. Il bullo a sua volta può affermarsi in quanto leader del gruppo, dotato di eccellenti capacità sociali e di cooperazione, mentre in altri casi è un reietto che reagisce con prepotenza alla sua esclusione. D’altra parte abbiamo osservato diverse tipologie di vittime: passive, aggressive, provocatrici… vittime che si riscattano e diventano bulli… E’ importante sottolineare quello che la ricerca evidenzia chiaramente, ovvero, non ci sono le basi per stigmatizzare il bullo o la vittima; chiunque di noi, in determinate situazioni o periodi, può essere stato bullo o vittima di altri. O magari astante, cioè spettatore di episodi di prepotenza”.
Che cosa può fare un bullo?
“I comportamenti sono i più svariati, dal furto della merenda alla puntina sulla sedia, alla colla nel diario. C’è chi minaccia la vittima per farsi portare dei soldi o delle cose, chi impone scherzi fisici pesanti, ma c’è anche l’esclusione. Per esempio, tutte le volte che c’è una festa di classe il tal compagno non viene invitato, oppure nella ricreazione viene lasciato da solo. E’ una forma di bullismo verbale anche il malignamento, “quello puzza”, o il mettere in dubbio l’identità sessuale. Certi nomignoli dispregiativi che vengono ripetuti fino a farne dei tormentoni”.
Hai parlato di identità sessuale. Il bullismo può svilupparsi in seguito a modelli sessuali sbagliati, esasperati, per cui per esempio l’uomo deve essere prevaricatore, e se non lo è viene trattato da femminuccia?
“Può essere così in alcuni contesti, ma non è detto. Le manifestazioni del bullismo dipendono dal contesto e dalle dinamiche che si creano nel gruppo, non ci sono caratteristiche assolute. Certo, dove i valori di fondo riguardano i modelli di genere, quello sarà un appiglio. Ma se le gerarchie interne al gruppo si basano su altro, per esempio sulla ricchezza, ecco che i bulli e le vittime sarano diversi”.
Il bullismo si verifica anche tra le ragazze?
“Sì, e quasi sempre in forma indiretta o verbale: pettegolezzo, esclusione, emarginazione. Negli ultimi tempi ci sono anche casi di aggressione fisica. Crescendo, anche i maschi si adeguano ad un bullismo meno palese”.
Dove e quando si verificano le prevaricazioni?
“Nelle situazioni sommerse. Può essere in cortile, sul pulmino, nei bagni, in corridoio o durante la ricreazione, comunque dove non c’è una figura adulta, istituzionale”.
Per questo motivo in alcune scuole vengono istituiti dei turni di controllo.
“Il controllo può funzionare come deterrente ma difficilmente risolve la situazione, perché sposta il problema da un’altra parte. Certo, se l’adulto, anche il bidello o l’anziano, non è solo un controllore ma è preparato come mediatore, può essere uno stimolo educativo importante, parte della rete degli interventi da mettere in campo”.
Ascoltando gli insegnanti, si ha l’impressione che il bullismo riguardi soprattutto istituti tecnici o professionali, meno i licei.
“Sono contesti diversi, per esempio negli istituti tecnici o professionali si sta meno nei banchi e di più in laboratorio, che è una situazione più libera e più fisica. E’ diverso maneggiare dei libri o dei pezzi al tornio. E poi il liceo in genere ha una struttura rigida e costrittiva, la disciplina è più sentita. Probabilmente negli istituti umanistici si verificano casi di bullismo verbale o indiretto, che però spesso non costituiscono grossi problemi per gli insegnanti, quindi non vengono rilevati. E poi in alcuni casi il bullismo può perfino essere funzionale ai modelli educativi”.
Vale a dire?
“I modelli culturali vigenti insegnano ai ragazzi che tutto è lecito, premiano la trasgressione, la prevaricazione sul più debole. Anche alcune famiglie trasmettono modelli di questo tipo, formano i ragazzi alla competizione e alla forza. Per superare questa fase occorrerebbe un intervento non solo sulla scuola, un’azione di tipo politico e sociale controcorrente e convincente”.
Dalla parte delle vittime
Abbiamo visto alcuni tipici comportamenti da bullo. Come reagiscono le vittime?
“Ancora una volta, dipende dai casi. Alcune tipiche manifestazioni di disagio sono il rifiuto di andare a scuola accusando strani mal di pancia, mal di testa. Spesso la vittima è una persona che non parla con i compagni, non comunica; a volte difende il bullo dagli insegnanti che cercano di difenderla, altre volte lo provoca. C’è da dire che, rispetto al gruppo, quello di vittima è pur sempre un ruolo: ci sono ragazzi che non hanno le doti per fare il prepotente ma non vogliono essere spettatori, e accettano di essere vittima perché in questo modo sentono di avere un loro posto all’interno del gruppo. E’ molto rischioso trarre conclusioni, spesso la ricerca non è rispettosa nei confronti di chi subisce”.
Che cosa vuoi dire?
“Studi recenti hanno cercato di dimostrare che le vittime hanno carenze cognitive rispetto ai bulli. In Svezia è comparso un articolo, “Bulli si nasce e non si diventa”, dove in sostanza si azzardava che chi subisce è in quella posizione perché, sotto sotto, se lo merita. C’è un grosso rischio di proiettare sulla classe delle categorie precostituite basate sulle differenze di classe, come c’è il rischio di ‘vittimizzare la vittima’. Se poi leggiamo attentamente quelle ricerche, scopriamo che sono state strutturate per poter arrivare a quelle conclusioni. Per esempio, se si chiede a venti ragazzi di scrivere un componimento sulle prepotenze nella scuola, è chiaro che chi le subisce sarà in difficoltà e avrà più problemi di altri ad esprimersi. Ma non vuol certo dire che è più stupido. E’ la scelta della prova ad invalidare i risultati”.
Fino a dove può arrivare il disagio di chi viene preso di mira?
“Si arriva all’abbandono scolastico, nei casi più gravi alla depressione e, talvolta, al suicidio. In genere la vittima mostra un netto distacco emotivo rispetto a quello che accade, una sorta di dissociazione. Interrogati su un fatto accaduto, minimizzano verbalmente, dicono che non è successo niente.
Durante l’attività di ricerca ci è capitato di videoregistrare episodi di aggressione accaduti nel gruppo. Li abbiamo rivisti insieme ai ragazzi e li abbiamo, ancora una volta, filmati per analizzare le espressioni che esprimevano, anche con il linguaggio non verbale. Di solito incontriamo rabbia, paura, aggressività. In alcune vittime ci ha spaventato osservare quella che tecnicamente si chiama ‘blank face’, cioè un atteggiamento di distacco assoluto. Come dire: Non sono io, non mi sta succedendo niente”.
E’ una reazione di difesa.
“Certo. D’altra parte, per chi non ha un’arma risolutiva, il ruolo è un fardello troppo pesante da portare. Si arriva alla negazione e, per questa strada, alla depressione. Per un bambino o per un adolescente, poi, essere preso di mira vuol dire essere rifiutato come persona. Il comportamento dei compagni riflette l’immagine di quello che sei, dell’accettazione che anche tu puoi avere verso te stesso. Sono esperienze durissime, se pensiamo che nella scuola si giocano le prime occasioni per mettersi alla prova nel rapporto con gli altri”.
Quali aspettative hanno le vittime verso l’esterno?
“Sperano di ricevere aiuto dagli adulti, docenti e genitori, ma difficilmente riescono a chiederlo e aspettano che qualcuno si accorga del loro malessere. In genere però proprio chi dovrebbe farsi carico della situazione risponde in modo inadeguato. Gli insegnanti intervengono poco, più dei compagni ma meno di quello che ci si potrebbe aspettare. Rimproverano il bullo e magari stimolano la vittima a rispondere a sua volta con la stessa moneta. Lo stesso accade con i genitori, che sottovalutano la situazione e dànno consigli inutili: “ridàgliele indietro!”, oppure: “fai finta di niente”. Se il ragazzo ne fosse capace, non sarebbe vittima di nessuno. Sono proprio quelle le reazioni più difficili, e la vittima si sente ancora più inadeguata, perché non è compresa e perché non è neppure all’altezza dei consigli espressi dalle persone che stima di più”.
La finestra sul cortile
Il bullo e la vittima sono in due: e gli altri?
“Gli astanti sono l’ago della bilancia. Dipende da loro se il fenomeno si radicalizza o se, al contrario, si evolve positivamente. Agli insegnanti che incontriamo nei corsi di formazione cerchiamo di spiegare che è fondamentale far capire al gruppo la responsabilità civile e morale di intervenire per interrompere queste spirali di prepotenze ripetute”.
In generale che cosa succede nel gruppo?
“La maggior parte dei ragazzi non interviene. Sono state fatte indagini a largo spettro in Canada, Norvegia e Gran Bretagna e, sorprendentemente, nonostante le differenze culturali, i dati percentuali sono gli stessi:
– l’85% degli astanti guarda ma non interviene, e magari rinforza il bullo con risatine, sgomitate, grida di incitamento… A volte tra gli astanti c’è anche il bullo vero e proprio, quello che provoca e fa sì che un altro, ai suoi comandi, si comporti da prepotente.
– il 10-11% è composto da outsider, quelli che nei momenti cruciali non ci sono mai, si allontanano, sanno tutto ma non stanno a guardare.
– il 4% viene in aiuto della vittima, intervenendo personalmente per separare i contendenti oppure cercando aiuto dagli adulti. Questa è l’indicazione che diamo a chi subisce: chiedere per quanto possibile l’intervento degli esterni”.
Ma perché i compagni non intervengono?
“Perché è divertente veder star male la vittima. Questa purtroppo è una delle risposte più frequenti. Poi per paura di andarci di mezzo oppure per menefreghismo: ‘non me ne importa niente, fa sempre così, io non c’entravo nulla, non c’era di mezzo un mio amico…’. Dobbiamo puntare molto, invece, sulla responsabilità civile e morale di chi si accorge che sta succedendo qualcosa di pesante e di ricorrente, perché solo i terzi possono essere davvero risolutivi. Gli insegnanti da soli non bastano, se non riescono a coinvolgere la classe”.
Su che cosa sono basati i corsi per insegnanti?
“Su un inquadramento teorico del fenomeno e sulla trasmissione di esperienze, tecniche di intervento, giochi cooperativi da proporre in classe per modificare i rapporti tra i ragazzi. Con l’attenzione costante a che i ragazzi prendano coscienza delle emozioni che vivono e di quelle che provocano negli altri, perché spesse volte il bullo è sinceramente inconsapevole della sofferenza che provoca, mentre la vittima tende appunto a negare il proprio disagio. Per le vittime in particolare, e dopo un buon allenamento finalizzato a rafforzare l’autostima, si cerca di insegnare a reagire in modo assertivo, cioè esprimendo le proprie convinzioni e sensazioni in modo deciso, ma senza aggressività verso l’altro”.
Ci sono esperienze positive al riguardo?
“Sì, certo. A Calenzano, dove abbiamo lavorato, una ragazza che era la classica vittima designata è riuscita a parlare con alcune compagne di classe e ad inserirsi in un gruppetto, e ora il suo ruolo si è trasformato completamente.
Su questi temi in Inghilterra si stanno sviluppando esperienze valide di peer support, vale a dire educazione tra pari, quasi in alternativa al lavoro di gruppo con gli insegnanti e con le classi che anche noi portiamo avanti in Italia. I ragazzini vengono formati ad assumere un ruolo che va da quello di mediatore nelle risse – cioè colui che cerca di capire la dinamica della lite e di riportare equilibrio tra il bullo e la vittima, restituendo responsabilità anche al gruppo di astanti – alla figura del counselor, incaricato dello sportello di ascolto
Anche nel nostro paese gli insegnanti dovrebbero rendersi conto che non serve a niente separare i ragazzini che si menano, qualunque messaggio è molto più credibile quando proviene da un coetaneo”.
Le possibilità di intervento
La scuola comunque rimane un contesto istituzionale, con delle regole precise. In che modo queste regole possono essere utilizzate?
“Le sanzioni possono e a volte devono scattare, il lavoro sul gruppo non significa lasciar passare qualsiasi comportamento, anche perché soprattutto nelle medie superiori si arriva a manifestazioni piuttosto pesanti e la scuola deve prendere delle posizioni. Purché quello non sia l’unico intervento. Nella scuola italiana di oggi un approccio legalistico o basato sul divieto non dà alcun risultato. E’ vero però che certe regole o atteggiamenti del vivere comune vanno mantenuti.
Il problema è sempre riempire di significato le regole. Se una norma è fine a se stessa, i ragazzi tendono ad ignorarla. Questo è un problema che ha radici profonde, perché spesso anche l’adulto crede poco nelle regole che impone, e come può avere credibilità presso gli adolescenti?
Insomma, le regole sono utili se vengono integrate e comprese. Uno degli esercizi cooperativi che si usano è stimolare ragazzi e insegnanti a trovare delle regole che siano valide in quella classe, legando ad esse delle sanzioni concordate, applicabili indifferentemente a studenti e insegnanti”.
E’ l’importanza di segnare un limite alle possibilità.
“Sì, assolutamente. Sono gli stessi ragazzi a chiederlo, a volte in maniera implicita. Senza limite non c’è conflitto, e senza conflitto con l’adulto non c’è crescita. Ricordo un caso che però era di devianza, non soltanto di bullismo, un ragazzino che derubava ripetutamente i compagni, ma davvero furbissimo, perfettamente capace di non farsi incastrare. Da un certo punto in poi ha fatto di tutto per essere colto con le mani nel sacco, come dire: Aiuto, fermatemi, non reggo più”.
E la valutazione scolastica può rappresentare una risorsa?
“Perché no? Andare a scuola vuol dire anche essere capaci di entrare in relazione con gli altri, e la valutazione può tenerne conto. Ma dovrebbe trattarsi di una politica scolastica condivisa e non del vecchio 7 in condotta, usato come deterrente.
Qui si sollevano altri problemi. Spesso la scuola non è capace di far capire che le nozioni servono nella vita – e quindi, che la valutazione c’entra con le abilità sociali. Penso a quanto ho detestato la geografia, e a quanto la rimpiango adesso che amo viaggiare. Da ragazzina non avevo mai avuto la sensazione che studiarla potesse servirmi a qualcosa…”
Qual è il problema principale per l’insegnante che si trova a gestire una situazione di bullismo?
“Il primo scoglio è prendere coscienza del problema. Tante volte l’insegnante sottovaluta la situazione perché non assiste alle prepotenze. Inoltre, spesso la vittima viene trascurata perché non disturba la classe, come se la passività o l’isolamento non fossero segnali preoccupanti…
Il passo da compiere è quello di assumersi appieno la responsabilità educativa nei confronti degli allievi e di dare dignità alla vittima”.
Sulle orme di Giorgio La Pira, nei luoghi segreti della sua Firenze
a cura di Alberto Trevisan
Dopo il convegno su Giorgio La Pira: costituente, Sindaco, messaggero di pace (Rubano, 8 nov. 1999) mi era rimasta una grande curiosità : ripercorrere una tipica giornata di lavoro e di impegno di Giorgio La Pira nella sua amata Firenze.
L’esuberanza e la poliedrica personalità hanno caratterizzato l’impegno di questo grande uomo di cultura e così, approfittando dell’aiuto di uno dei suoi ultimi stretti collaboratori, Giorgio Giovannoni, ho potuto realizzare questo percorso: Giorgio Giovannoni è lui stesso un “lapiriano” anche oggi, nel senso che oltre a continuare il suo impegno per “non dimenticare” l’opera di La Pira, si comporta sia nel modo di accogliere gli amici sia nel mettersi a disposizione dei giovani continuando il suo prezioso lavoro sia presso la Fondazione La Pira che presso l’Opera per la gioventù, ora intitolata a La Pira.
“e non si dica quella solita frase poco seria :
la politica è una cosa brutta ! NO !
l’impegno politico – cioè l’impegno diretto
della costruzione cristianamente ispirata dalla
società è impegno, umanità…” (G. La Pira)
E così chiesi proprio a Giovanni di accompagnarmi per Firenze in questo “viaggio della memoria” scoprendo che La Pira si aggirava soprattutto nell’ambito di un quadrato, il quartiere S. Giovanni, dove proprio in una casetta gestita da suore inglesi terminò la sua vita il 5 novembre 1977.
La giornata “tipo” che ho voluto rivivere, anche per conoscere di più l’attività di La Pira sulla pace, riguarda in particolare il periodo dopo il 1965 quando La Pira, se pur rieletto con il massimo dei voti, per giochi politici e distribuzione di seggi lasciò la carica di Sindaco passando la mano a Lelio Lagorio, ex Ministro della Difesa, che fece così poco che dopo pochi mesi il Comune di Firenze venne commissariato.
Al suo arrivo a Firenze, La Pira risiede dapprima al Convento di S. Marco, dove ci sono i famosi dipinti del Beato Angelico che lui non perdeva occasione di illustrare con tutta la sua immaginazione ; il suo sogno segreto era quello di rimanere ospite per sempre presso il Convento.
Le condizioni di La Pira, tuttavia, erano sempre state un po’ precarie, tanto che anche durante il suo mandato di Sindaco risiedeva presso la Clinica del prof. Montoni accudito in stanza dalle suore del nosocomio.
Ma era con i giovani che La Pira si trovava meglio : basti citare un episodio del ’68, quando un gruppo di studenti di Architettura assai agguerriti passano sotto le sue finestre. Lui li guarda e un attimo dopo, contro il parere dei suoi collaboratori, è già in strada e subito comincia a dialogare ; un gruppo di studenti si accalca intorno a lui, parla dei problemi più importanti dell’università, della politica, della classe operaia. Bene, poco dopo il corteo si scioglie e i ragazzi rientrano con le loro bandiere e i loro striscioni in facoltà : questo era il modo del Sindaco La Pira di affrontare le situazioni.
La giornata di La Pira iniziava presto al mattino, con la prima Messa presso la Chiesa dell’Assunta vicino a dove abitava, poi il rientro a casa e la lettura accurata di molti giornali, soprattutto sulle questioni internazionali ; quindi l’incontro con il collaboratore Giorgio Giovannoni che, in un ufficio poco distante, prendeva nota dei telegrammi da scrivere e delle lettere da preparare. Alla sera alle 20, poi, il nuovo incontro per la verifica del lavoro e per impostare le nuove iniziative.
Era il periodo in cui La Pira aveva fatto di Firenze il centro degli incontri e dei colloqui internazionali : dove non arrivavano i Capi di Governo lui riusciva comunque a far incontrare Israeliani e Palestinesi e così via : per questo era stato nominato Presidente delle città per la Pace.
La sua stanza al Centro Giovanile è rimasta come al momento della sua morte : ci sono i suoi numerosissimi libri, sistemati in modo che solo un miracolo li può far stare in piedi, una semplice poltrona per leggere e accanto una sala per discutere con i giovani e celebrare la Messa. E’ una religiosità così profonda, così rispettata e condivisa che non ho osato fotografarla : è un luogo che devo ricordare così, e già questo è un grande privilegio.
In tutto il lavoro svolto nell’Assemblea Costituente pesa tantissimo l’idea che La Pira e altri padri della Costituente, come Dossetti, avevano della persona umana.
Come Sindaco e Messaggero di Pace, poi, fece di Firenze un vero crocevia di culture diverse e di incontri che neppure i vertici nazionali riuscivano ad organizzare.
Come Professore universitario amava i giovani più di ogni altra cosa, perché riteneva che questi rappresentassero il futuro di una società unita dal sentimento della fratellanza e della pace.
Per questo, dopo il 1965 scelse di andare ad abitare in via Capponi, 28, ancora oggi sede dell’Opera dei Villaggi della Gioventù, ora intitolata allo stesso La Pira.
Lì non mancava di mandare i suoi messaggi e le sue riflessioni durante i seminari e i convegni che questi giovani tenevano durante l’anno : era come indicare la via dei valori forti, degli ideali da realizzare nella vita quotidiana.
Il carisma di La Pira era unanimemente riconosciuto : me lo ricorda Beppino Artioni, collaboratore e consigliere comunale durante tutta la gestione La Pira. Mi ha riferito che La Pira lo chiamò, gli chiese di interessarsi al problema dei disoccupati e – testuali parole – gli disse : “Tu devi rispondere solo a me e basta, e ogni sera alle ore 20 devi correre a Palazzo Vecchio (Comune, ndr.) e riferire del tuo lavoro.”
Al momento dell’elezione del sindaco Lagorio, socialista, Arpioni, Giovanni Giovannoni, fratello gemello di Giorgio – che mi ha accompagnato in questa emozionante avventura di ricordi – assieme a Vittorio Citterich, Danilo Zolo e Rosetta Mazzei (da poco scomparsa) votarono contro e poco dopo la maggioranza non resse, al punto che il Comune di Firenze venne commissariato. In quei tempi non c’erano dubbi: solo Giorgio La Pira poteva governare la città di Firenze.
La Pira aveva una grande capacità di iniziativa, sapeva coinvolgere ed entusiasmare quanti collaboravano con lui in tutti i settori della vita pubblica, sapeva affrontare la gente più disperata, più povera, per loro dava quasi tutto il suo stipendio, formando la famosa “Repubblica di S. Procolo” e numerose confraternite della S. Vincenzo.
A mezzogiorno abbiamo consumato un pasto frugale in una piccola trattoria dove La Pira soleva accompagnare i suoi amici senza eccessi e sfarzi : anzi, La Pira preferiva quasi sempre tornare a mangiare in comunità con i giovani.
E verso il tramonto il momento più vissuto, più toccante : il concludersi di un “itinerario della memoria” contro la logica attuale dell’oblio”.
Ci siamo diretti verso il cimitero di Rifredi, abbiamo visto la fabbrica della Pignone, che La Pira riuscì a salvare con l’interessamento di Giacomo Matteotti per non far pagare il prezzo della chiusura a migliaia di famiglie di operai ancora oggi residenti nei quartieri dell’Isolotto, costruito da La Pira proprio per loro.
Entriamo quasi in punta di piedi in una Firenze chiara e ariosa, e su un lato appartato del cimitero troviamo tre semplici tombe con delle croci di legno, all’ombra di un grande ulivo : Giorgio La Pira, Rosetta Mazzeo,…
Francesco Jori, il giornalista che ha coordinato il Convegno, credo abbia giustamente definito Giorgio La Pira come “l’uomo dell’Avvento”, inteso come tempo di preparazione e vigilanza oltre che di incontro e di presenza attiva.
La Pira fece suo il motto di S. Paolo, SPES CONTRA SPEM, la speranza malgrado tutto. Aldo Moro, ricordando la sua scomparsa, disse che La Pira “non ebbe mai secondi fini, non fece alcuna concessione, non si adattò a nulla”.
Di lui Mikail Gorbaciov ricorda che “La Pira era partito dalla convinzione che, senza dubbio, la guerra nucleare totale è – pena la distruzione del pianeta – impossibile; per questo la pace tra i popoli di tutta la Terra è, malgrado tutto, inevitabile” .
Forse per questo un piccolo uomo, disincantato, privo di mezzi e di denaro, riesce a recarsi dai potenti della Terra per chiedere la fine dei conflitti, come fece con Ho Chi Min, al quale presentò una proposta di pace che otto anni fa risultò identica all’accordo sulla guerra in Vietnam. Se gli avessero dato ascolto, ci sarebbero stati otto anni in meno di guerra e di vittime ingiuste, da entrambe le parti.
Per questo sono convinto che se oggi esistesse una classe politica in grado di svolgere soltanto l’1% della politica portata avanti da Giorgio La Pira, ci sarebbe più giustizia e pace tra i popoli.
Potranno (forse) zittire noi, ma non far tacere Internet
Intervista a XY, che vive in una paese dittatoriale e solo tramite Internet può consultare le informazioni censurate nella sua nazione. Le potenzialità e i limiti della comunicazione elettronica senza frontiere.
A cura di Alessandro Marescotti *
L’articolo 19 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo afferma: “Ogni individuo ha diritto alla libertà d’opinione e d’espressione, il che implica il diritto di non venir disturbato a causa delle proprie opinioni e quello di cercare, ricevere e diffondere con qualunque mezzo di espressione, senza considerazione di frontiere, le informazioni e le idee”. Nonostante i suoi 50 anni questo articolo sembra stato pensato e scritto da chi aveva già sotto mano una tastiera e un collegamento telematico. Ed invece nasceva in un’epoca in cui il controllo sulle notizie era ferreo e le radio delle nazioni libere non riuscivano a penetrare nel territorio delle nazioni con regimi totalitari per via dei disturbi elettromagnetici da essi creati ad hoc per non far filtrare informazioni diverse da quelle “autorizzate”.
Oggi invece con Internet un’informazione viene “zittita” in un luogo può rinascere in un altro e ciò che viene cacciato dalla porta ritorna dalla finestra. Poco può fare un governo dittatoriale: esso deve rassegnarsi all’idea che in altre nazioni altri siti Internet ospitino le informazioni censurate. Può scollegare tutta la nazione da Internet? No, tenterà di porre sotto tutela militare i collegamenti e di controllare fin dove può. Di fronte a questo nuovo squarcio di libertà come reagiscono i governi totalitari? Abbiamo realizzato un’intervista scoop a XY, una persona che usa Internet e che risiede in una nazione dominata da un regime militare che vìola sistematicamente i diritti umani. Per ragioni di sicurezza non possiamo rivelare l’identità e la nazionalità della persona intervistata.
Nella nazione dove lei vive c’è libertà di stampa?
No. Alcuni giornali che hanno criticato il governo sono stati chiusi.
Tramite Internet quei giornali hanno potuto far leggere le loro informazioni?
Sì, alcuni di questi giornali hanno “riaperto” le loro pagine in un sito Internet esterno alla nazione dove vivo. Il governo non le può censurare e così io continuo a leggere su Internet ciò che il governo mi proibisce nelle edicole.
Ma il governo della sua nazione non fa nulla?
Ha tentato di oscurare i siti che ospitavano quei giornali. Ovviamente non poteva intervenire su territorio straniero, ma ha imposto a tutti i nodi Internet della mia nazione di inibire i collegamenti ai siti “proibiti”. E così, se mi collego direttamente ad essi, ora non sono in grado di leggere più nulla.
Quindi i dittatori possono piegare Internet…
No, perchè io aggiro l’ostacolo… mi collego su siti internazionali che ospitano a loro volta i siti “oscurati” e così, giocando di sponda, posso consultare lo stesso i siti “oscurati”: è come il biliardo, se non puoi colpire direttamente, devi giocare di sponda. Attraverso un po’ di triangolazioni riesco ad aggirare il divieto e a giungere all’informazione desiderata. E poi se si conosce l’inglese si possono consultare su Internet quasi tutte le agenzie internazionali di informazione. Sono tante e non possono certo bloccarle tutte. Possono zittire i nostri giornali ma non possono zittire Internet.
La posta elettronica che lei riceve e invia è controllata?
Un giorno ho fatto una visita al mio Internet Provider, ossia all’ufficio che mi dà accesso ad Internet. C’erano dei monitor sempre accesi dove si potevano leggere i messaggi in partenza e in arrivo. Un altro giorno ho provato ad entrare ma… nella stanza dei monitor c’erano dei militari che leggevano i nostri messaggi di posta elettronica.
Allora è più sicuro comunicare con le lettere…
No, le lettere le aprono e le controllano. E’ normale trovare la propria posta aperta.
Fin qui l’intervista. Ma anche a questo proposito va detto che ci sono diversi mezzi per aggirare l’ostacolo: si possono inviare immagini elettroniche (ad esempio una bella cartolina turistica digitalizzata) in cui nascondere messaggi segreti mimetizzati con particolari accorgimenti. C’è poi la crittografazione dei messaggi per renderli illeggibili anche se intercettati. Un regime dittatoriale potrebbe imporre a chi gestisce i collegamenti Internet (ma solo gli Internet provider di quella nazione) di fornire una “traccia” dei siti consultati da ciascun utente per “spiare i dissidenti”, ma ci sono dei siti dentro cui si può entrare e uscire nuovamente facendo perdere le tracce dei successivi siti consultati. Internet sembra una gara fra chi vuole controllare e chi non vuole farsi controllare. Ha la particolarità di non essere “dominabile” da un solo stato: le leggi della nazione A possono essere imposte ai siti Internet della nazione A ma non quelli della nazione B che sono collegati in rete alla nazione A. Ma da solo lo strumento non basta: occorre fare accettare ai governi – anche ai più totalitari – l’idea che la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo è un impegno formale e sostanziale che tutti i governi hanno sottoscritto in sede Onu e che sono quindi obbligati a rispettare. Tutti i cittadini del mondo devono poter essere liberi di comunicare: con Internet e senza Internet. Non solo nel segreto digitale dei flussi elettronici ma anche all’aperto, nelle piazze, nelle fabbriche, nelle scuole, ovunque.
* Presidente di PeaceLink
http://www.peacelink.it
Un computer per sfidare i dittatori
Un governo dittatoriale censura o sopprime un giornale? Si può riaprirlo su Internet, in barba ai divieti dei regimi totalitari: oltrepasserà le frontiere di tutti gli stati. Un’ingerenza umanitaria e una fonte di libertà un tempo impensabile
Importantissimo: Internet è un mezzo che oltrepassa le frontiere. Non stiamo parlando dell’Internet pubblicizzata per fare soldi o stupire con effetti speciali ma di una tecnologia che può diventare strumento di difesa dei diritti umani. Se infatti un regime dittatoriale chiude un giornale d’autorità, quello stesso giornale può riaprire le proprie pubblicazioni all’estero e farle giungere via computer nella nazione dove è stato vietato. La rete Internet azzera le distanze. Tecnicamente è indifferente su Internet consultare un sito a dieci chilometri da casa o a diecimila chilometri di distanza: la connessione ad un sito informativo internazionale ha lo stesso costo della connessione ad un sito nazionale (in genere si paga solo lo scatto telefonico urbano). Se un cinese di Pechino vuole consultare via Internet informazioni americane paga lo stesso costo necessario a consultare un sito della sua città. Per questo in Cina limitano conoscenza dell’inglese ai soli quadri aziendali e controllano chi accede ad Internet. Chi ha intuito questa straordinaria innovazione avrà anche capito perché abbiamo incominciato dicendo: importantissimo. I dittatori lo hanno già capito, e noi? Continuiamo a perdere tempo a “giocherellare” su Internet o stiamo maturando una consapevolezza? Siamo infatti di fronte ad una potenziale rivoluzione. Se le nazioni dove c’è libertà di espressione del pensiero ospitassero nei loro siti Internet quelle informazioni censurate nelle nazioni a regime totalitario, ci sarebbe una pressione informativa non più contenibile con i tradizionali mezzi repressivi. E finalmente si disporrebbe di un mezzo internazionale su cui la singola nazione non potrebbe esercitare pressioni, inibizioni o intimidazioni: se io invio in Cina informazioni su Tien An Men o gli appelli dei dissidenti politici cinesi all’estero non mi possono fermare (terrorismo a parte).
Eppure gli esperti telematici dei dittatori stanno lavorando per “oscurare” i siti dei dissidenti. Ci riusciranno?
A. M.
Un computer per spiare i pacifisti
Echelon, la grande rete di intercettazione è sotto inchiesta. Le e-mail e i messaggi dei telefonini vengono catturati. Una storia che interessa da vicino anche i pacifisti.
“La CIA ci spia e non vuole più andare via…”, cantava Eugenio Finardi. Oggi tutto questo esiste veramente e si chiama Echelon.
“In tutt’Europa la posta elettronica, le comunicazioni telefoniche e quelle via fax sono intercettate sistematicamente dalla National Security Agency. Le informazioni intercettate vengono poi trasferite via satellite a Fort Meade nel Maryland, dopo essere state raccolte in un centro inglese”. Sono parole del magistrato Carlo Sarzana, vicepresidente dei Gip di Roma, tratte da un’intervista rilasciata all’Agi, dopo che la Procura di Roma ha aperto un’inchiesta su Echelon, il grande orecchio che intercetta tutti i messaggi, anche questo che invio ad Azione nonviolenta per posta elettronica.
Ma c’e’ di piu’: in una mini-inchiesta giornalistica del Televideo RAI emerge anche il dato del “pedinamento” tramite cellulare. Dove sarà in questo momento il signor X Y ? A Roma? A Milano? A Termoli? Sul treno a meta’ strada fra Milano e Roma? E con lui chi c’è? C’è quella tal persona che ci interessa controllare? Basta vedere il segnale del suo cellulare, verificare le coordinate del cellulare più vicino e sappiamo con chi si sta incontrando o chi sta viaggiando con lui.
Il tutto può essere complicato dai dati separati negli archivi delle reti informatiche Tim, Omnitel, Wind… Ma niente paura: con Echelon viene rimesso ordine nel disordine e ricomposto il puzzle se questa ragnatela globale di intercettazione e’ riuscita a carpire pure i file che abbinano ai numeri dei cellulari anche i nominativi degli utenti. L’intelligence anglo-americana ha sede a Morwenstow, nei pressi di Londra, che poi smista a Fort Meade nel Maryland. “L’investigatore privato munito di licenza non può assolutamente fare intercettazioni telefoniche, né ambientali, né di fax o di computer. E’ un reato punibile con 5 anni di arresto e ritiro e sospensione definitiva della licenza”. Lo spiega a Televideo Miriam Ponzi, della omonima agenzia di investigazioni private. Ma se a pedinarci e ascoltarci è Echelon, possiamo arrestare Bill Clinton e Tony Blair?
Magari accadrà il contrario: come previsto da piani NATO a suo tempo segnalati dal ricercatore scandinavo Esko Antola, in caso di crisi militare e di conflitto di alto livello, i pacifisti verrebbero neutralizzati. Basterà controllare i loro cellulari e intercettare le loro e-mail.
A. M.
Appunti di viaggio
A&R in Kossovo
di Franco Perna
Qualche settimana fa mi telefonò Alberto L’Abate chiedendomi di dare una mano alla “Campagna Kosovo” portando una Panda 4×4 a Pristina, dono del Comune di Riccione per il Kossovo, e riportando la sua in Italia. Il viaggio è durato due settimane (in tutto 4.500 km) in compagnia di Maria Carla Biavati di Bologna e, per qualche giorno, di Zef Chiaromonte, italo – albanese di Palermo.
Abbiamo potuto visitare varie città, tra cui Peja, Dakovica, Prizven, Viti, Kamenica e naturalmente Pristina, incontrando alcune persone, anche per caso, che potrebbero rivelarsi potenziali interlocutori – referenti della campagna, specialmente Padre Lush, carismatica figura cattolica, conosciuto anche all’estero. attualmente la Campagna opera da un piccolo appartamento in affitto a Pristina, e prevede l’attuazione di un programma di mediazione / conciliazione dal basso (tribunali civili) sotto l’auspicio dell’OSCE. Tale progetto vorrebbe basarsi, in qualche modo, sul successo di un’altra campagna che venne iniziata e condotta dal carismatico intellettuale – attivista Anton Çetta (1920 – 1995) tra il 1990 e il ’92, quando oltre 2000 casi di “feudi di sangue” furono risolti pacificamente (vedi anche Peace News, March – May 2000) con l’aiuto di circa 500 volontari – studenti e con la partecipazione attiva di molti capi / anziani di villaggio. Fu veramente un grande successo, che contribuì non poco anche all’alternativa nonviolenta promossa da Rugova a livello politico per l’indipendenza del Kossovo.
Spostandoci da un posto all’altro ci siamo resi conto della precarietà della vita in queste zone dei Balcani (ivi compreso il Montenegro, dove la possibilità di un conflitto non è da escludere), nonostante l’afflusso massiccio di soldi e di beni in seguito alla guerra NATO. In teoria, però, tutto dovrebbe funzionare bene, dopo un periodo transitorio efficacemente – sempre in teoria – gestito da quattro principali organizzazioni e agenzie internazionali sotto la guida del dr. Konchner, rappresentante speciale del Segretario Generale dell’ONU. L’intera operazione è suddivisa in quattro settori:
Assistenza umanitaria (UNHCR), che dovrebbe concludersi a metà 2000;
Amministrazione civile, sotto la responsabilità diretta dell’ONU;
Democratizzazione e ricostruzione del tessuto sociale (OSCE);
Sviluppo economico (Unione Europea).
Naturalmente c’è anche la presenza militare (K – FOR), ma questo è un capitolo a parte e molto complesso. Vengono poi le oltre 400 ONG (organizzazioni non – governative), molte delle quali hanno un notevole potere finanziario e peso economico, ma senza abilità / volontà di collaborazione tra loro, soprattutto a livello istituzionale – decisionale, benché abbiano formato un consiglio ONG che si riunisce regolarmente nei locali dell’UNHCR.
Ad uno di tali incontri (cui partecipai come osservatore accanto al rappresentante del Balkan Peace Team, non essendo la Campagna Kossovo ufficialmente riconosciuta) la figura di Konchner venne severamente criticata, con l’accusa di voler ignorare il ruolo e i bisogni degli operatori non – governativi.
A margine di tutto questo occorre sottolineare la modestissima presenza di alcuni gruppi, con scarsi mezzi finanziari, orientati verso un lavoro per la pace dal basso eseguito da volontari/e. E’ bene ricordare qui i Beati i Costruttori di Pace, Balkan Peace Team, Balkan Sunflowers, Conflict Resolution Catalysts, Operazione Colomba, con cui io ho avuto contatti diretti e personali. La Campagna Kossovo potrebbe, in teoria almeno, coordinare le attività di tali gruppi, ma amministrativamente è troppo debole per farlo, ammesso che ce ne sia la volontà da parte di tutti. Infatti, manca addirittura una buona conoscenza reciproca, nonostante saltuari contatti – alcuni dei quali molto belli – sul terreno, com’è avvenuto per esempio con volontari/e di BCP e OC. Grazie a tali incontri abbiamo potuto visitare due famiglie sospettate di collaborazionismo coi Serbi e conseguentemente minacciate di morte (il capo di una di queste famiglie fu ucciso qualche mese fa). Da sei mesi queste persone non osano mettere piede fuori casa e i loro unici contatti sociali avvengono grazie alle visite di volontari/e, nonché alla presenza in strada di un blindato K – FOR dell’E.I.
Ci si chiede che cosa sarà del Kossovo quando la massiccia presenza straniera – internazionale andrà via, se nel frattempo i Kossovari non saranno riusciti a crearsi le proprie strutture sociali, economiche e politiche per ricostruire le loro comunità dilaniate dall’odio e dalla vendetta. Tutto l’apporto dall’esterno, per quanto grande possa essere, rischia di creare un benessere temporaneo e caratterizzato da dipendenza. Certo, occorre dare una mano a chi è in difficoltà, come segno di solidarietà, ma senza pretendere di risolvere i loro problemi.
ISLAM
a cura di Claudio Cardelli
Al-Hallàg, martire mistico dell’Islam
La vita e la tragica morte di al-Hallàg segnano una svolta nella storia del Sufismo: mentre i suoi contemporanei esprimevano le loro idee in cerchie ristrette con circospezione, egli le comunicò apertamente al popolo, suscitando la reazione ostile dei teologi musulmani e della classe dirigente. Di origine persiana, era nato a Tur nella provincia del Fars (Iran) nell’857 (o 858). A sedici anni lasciò la famiglia per seguire l’insegnamento dei grandi mistici del suo tempo; tale noviziato durò 24 anni presso tre successivi maestri, di cui l’ultimo è Gunayd a Baghdad, allora capitale dell’impero islamico sotto la dinastia degli Abbasidi.
A quarant’anni iniziò un cammino indipendente e originale, essendo giunto all’intuizione dell’unione con Dio nell’amore reciproco; egli avvertiva la presenza di Dio nella propria interiorità, presenza che gli permetteva di dire la Parola di Dio allo stesso titolo del sacro Corano. Esaltato da questa scoperta, volle annunciarla al mondo e percorse, in circa dodici anni di viaggi, vaste regioni , soprattutto l’Iraq e la Persia, spingendosi fino all’India e ai confini della Cina. Tornato a Baghdad, predicò in tutti gli ambienti, a tutte le classi sociali: sui mercati, nei cimiteri, nei convegni di dotti e fin nel palazzo del Califfo.
La condanna e la morte
Contro di lui sorsero varie opposizioni: i teologi musulmani gli rimproveravano la dottrina dell’unione mistica, che a loro avviso, fondendo il divino e l’umano, portava a una sorta di panteismo. I politici lo accusavano di turbare gli spiriti e lo trattavano da agitatore. Arrestato per due volte dalla polizia abbaside, fu condannato, come eretico, ad avere le mani e i piedi tagliati alternativamente e ad essere appeso al patibolo.
La sentenza fu eseguita e al-Hallag venne messo a morte il 27 marzo 922: il suo corpo fu bruciato e le ceneri disperse al vento, per evitare che divenissero oggetto di culto. In uno dei suoi poemi aveva previsto il destino che lo attendeva:
Vai ad avvertire i miei amici che mi sono imbarcato per l’alto mare e che la barca ha fatto avaria. E’ nella religione del patibolo che morirò, non voglio più né la Mecca né Medina.(p.154)
La dottrina mistica
Al-Hallàg era partito dal sacro Corano, ma poi aveva percorso un lungo cammino spirituale, teso ad una unione profonda col Dio amore.
Sentiva la presenza di Dio nella propria anima, tanto che giunse a scrivere (con scandalo dei musulmani ortodossi):
Sono divenuto Colui che amo, e Colui che amo è divenuto me. Siamo due spiriti che abitano in un solo corpo. Dunque, se tu mi vedi, tu Lo vedi e se tu Lo vedi, tu ci vedi.(p.156)
Un altro aspetto che lo differenzia dall’Islamismo è il valore attribuito alla sofferenza e alla morte sul patibolo:
Uccidetemi, miei cari amici, poiché la mia morte è la mia vita. La mia morte è di sopravvivere e la mia vita è di morire.
Sento che ridurmi al nulla è il più bel dono che mi si possa fare.
E lasciarmi vivere così il peggiore dei torti.
La mia vita ha cessato di piacermi, tra queste rovine che crollano.
Uccidete dunque queste ossa periture.
In seguito, quando passerete vicino alla mia tomba, troverete il segreto del mio Amico (Dio) nei recessi delle anime che sopravvivono.(p.151)
La conoscenza di al-Hallàg in Occidente
Nessun islamista aveva approfondito la vita e la dottrina del mistico persiano prima di Louis Massignon (1883-1962), illustre islamista francese, che gli ha dedicato molti anni di studio, conclusi con la pubblicazione dell’opera: La passione di al-Hallàg, martire mistico dell’Islam, ed .postuma in 4 volumi, Gallimard, Paris, 1975. Magnisson ha sottolineato in particolare le affinità tra il tragico destino del martire persiano e quello di Gesù. Grazie agli studi di Massignon, al-Hallag è entrato nella cultura mondiale. In Italia l’islamista prof. Alberto Ventura ha curato la traduzione in italiano del Diwan (canzoniere) del mistico-martire (Editrice Marietti, 1980), già tradotto in francese dal Massignon nel 1955.
Le citazioni del presente articolo sono tratte da: Autori vari, Le grandi figure dell’Islam, Cittadella editrice, Assisi, 1989.
EDUCAZIONE
a cura di Grazia Honegger Fresco
Dov’è finito il gioco libero dei bambini?
Sommerso da attività programmate e computer!
Che il gioco infantile sia attività serie e formativa, oggi non lo mette in discussione più nessuno e tuttavia è facile osservare quanto esso sia progressivamente ridotto e svalutato soprattutto negli anni della scuola elementare.
Indubbiamente hanno influito su tale inversione i forti cambiamenti avvenuti negli ultimi trent’anni : da un lato i bambini passano tempi sempre più lunghi fuori casa affidati a terzi, dato che i genitori sono sempre più freneticamente occupati e lontani. Al tempo stesso è cresciuta nei confronti dei piccoli anche prima dei sei anni la pretesa di precoci conoscenze di base – i prerequisiti – come se la vita fosse sempre – e dunque anche l’infanzia- preparazione a qualcos’altro.
Eccoci allora al pre-grafismo, al pre-calcolo, alle schede che danno simboli pre- costituiti dagli adulti, ovvero stereotipati e non creati dai bambini stessi attraverso il gioco, le esperienze sensoriali, le attività liberamente scelte e liberamente continuate. Fin dai primi anni nelle istituzioni infantili – private o di stato, rette da suore o da maestre laiche – i bambini entrano in ruolini di marcia programmati per cui il giorno X all’ora Y i soggetti A B C D E F G H – e speriamo che non siano più di otto – vanno a fare l’attività Z. Sta all’abilità degli educatori convincerli che è bello farlo, che è divertente, ci viene anche Luigi, poi lo facciamo vedere alla mamma, ecc., ecc. I mezzi di seduzione sono tanti. Si va lì e si esegue quanto previsto nel tempo previsto.
Tutti fanno la stessa cosa con l’illusione – per l’adulto – che, nel confronto tra pari, la valutazione sia più obiettiva: in definitiva è questa che conta ai suoi occhi.
Dall’altro lato sempre più si osserva una confusione tra educazione e animazione. La prima dovrebbe partire dal riconoscimento delle ricchezze potenziali di ogni individuo, la seconda presuppone individui passivi che appunto devono essere ”animati”: coordinati, organizzati, stimolati.
Gli animatori, professione alquanto recente, riempiono con livelli variabili di esperienza le sale-gioco dei reparti pediatrici, le ludoteche, i dopo-scuola, gli oratori e, là dove é possibile, anche le classi. Si fa animazione sul campo sportivo come all’ora di religione. Tutto è confuso e mescolato e la coerenza tra obiettivi e mezzi è assai lontana.
Un esempio.
10 aprile 2000: la Tv regionale della Lombardia mette in risalto l’iniziativa di un giovane parroco di Busto Arsizio che sfida a pallone (calcio) i ragazzini: se perde lui, vanno tutti a messa; se perdono loro, paga a ciascuno un gelato. I bambini allegri battono le mani.
L’animazione è entrata nelle attività cosiddette “espressive” della scuola (ma che cosa esprimono, se sono fatte a comando?), spolverando di moderno i “lavoretti” di buona memoria: pacchi di carte, pennarelli, colle, ecc. vengono profusi in prodotti spesso di dubbio gusto, copiati da testi o da giornali, con i bambini sempre lì a eseguire cose che a casa non ripetono mai più da soli. Nel campo vuoto, che fare se non tirare calci alla palla? Al chiuso, che fare se non quanto è proposto, secondo modelli e tecniche previste, dal materiale messo a disposizione?
D’altra parte non ci sono angoli quieti o cantucci in cui stare da soli o giocare con un amico. Tutto è pianificato per agire insieme, in grande gruppo, intorno a un grande tavolo.
Guai a chi si isola, a chi vagabonda.
La regola è l’intrattenimento; dunque l’adulto è il protagonista, il primo attore. Il gioco libero, l’invenzione autonoma sono tenuti lontani perché in fondo trasgressivi. Siamo alla mistificazione, non si sa quanto consapevole: viene chiamata gioco un’attività fortemente condizionata dal fatto che l’adulto – anzi i vari adulti con cui il bambino ha a che fare – predispongono fino all’esasperazione gli oggetti “per i momenti ludici” . (Mi si perdoni il linguaggio!).
Manipolare? C’è il Di-dò. Costruire? Duplo o Lego. Guardare libri? Disney a profusione. Giocare alla casa? Coloratissime cucinette di indistruttibile e inquinante plastica dove tutto è finto o le case miniaturizzate delle Barbie che riportano a una netta divisione tra giochi maschili e femminili. I piccoli hanno le collezioni della Fisher Price e, appena crescono, i vari mostri, Power Rangers, Robot trasformabili in auto alla Diabolik e così via.
Quanto alle armi / giocattolo , vige anche qui la regola dell’imitazione perfetta, ma un ragazzino di mia conoscenza che – giusto ha ricevuto in regalo una mitraglietta (!!!) – mi dice: “Non mi piace tanto; gioco meglio con la spada di Zorro e il mio mantello”. Il fatto che questo sia un ampio telo rosso aggiunge forza al personaggio che snida mostri dagli armadi e da sotto i letti.
Poi c’è il computer che sta diventando più invadente della tv perché ridotto a giocattolo per i più piccoli e quindi estremamente seduttivo, funzionale a una dipendenza precocissima. (Una riflessione: ci angoscia l’idea della droga data con bibite o caramelle ai ragazzini all’uscita delle scuola, ma non ci preoccupiamo di ciò che mettiamo in atto per sopprimere precocemente il gusto di giocare e di inventare. Eppure, una droga tira l’altra!).
Nelle nostre case extrapulite, nelle scuole dove gli inservienti spesso sono più potenti del direttore, non c’è più spazio per attività proibite in quanto sporchevoli come terra, sabbia, acqua, legni, conchiglie o altri tesori trovati dai bambini: Non c’è posto per trasformarli – così facilmente, se li si lascia fare – in occasioni e in compagni di gioco.
Osservo un bambino di sette anni che, nel tinello dei nonni, pesca da un cesto castagne matte e mandorle troppo vecchie per essere mangiate ma ottime per diventare una mandria di bisonti minacciati da un dinosauro (una pigna lunga e stretta intorno a cui ha arrotolato uno spago rosso). Che cosa inventa? Che cosa esoricizza?
Domande indiscrete in fondo: quello che conta è la felicità dell’invenzione e il senso di libertà che gli permette di trovare un suo spazio malgrado gli adulti vicini, nessuno dei quali però si permette di interferire, consigliare, suggerire.
Un bambino fortunato perché le persone di casa tollerano con paziente buon umore quel tanto di sano disordine provocato da orde di briganti e da macchine rovesciate in fondo a precipizi.
E invece preferiamo bambini con l’antennina in testa, che non osano salire non dico su un albero, ma nemmeno su un muretto e che mai si leverebbero le scarpe per entrare in un prato o in una pozzanghera, bambini che non hanno mai scoperto come trarre spunto dalla sagome banali degli oggetti quotidiani per trasformarli in brillanti personificazioni, in situazioni avventurose che spaziano per monti e per mari.
Eppure i bambini hanno diritto a questa loro autonoma stagione: non perdono tempo, ma si costruiscono; non raccontano stupidaggini, ma rafforzano ed esplorano con la loro forza immaginativa; non operano a vuoto, ma attraverso la felice invenzione entrano in contatto con le cose vere. Bambini che non possono essere pienamente bambini nei loro desideri, nei loro giochi, come faranno domani ad essere adulti in equilibrio con se stessi, audaci e sognatori, concreti realizzatori di un mondo migliore?
ESTERI
a cura di Stefano Guffanti
CINA
Dopo il tentativo attuato dalle autorità cinesi, nel febbraio scoro, di impadronirsi con la forza e con il ricatto, dei 20 milioni che la Fondazione aveva destinato ai coniugi Ding Zilin e Jiang Peikun, ai quali era stata assegnata l’edizione 1999 del Premio internazionale “Alexander Langer”, ora il New York Times e l’associazione Human Rights in China riferiscono di un nuovo atto repressivo.
Sabato 1 aprile, a Lois Wheeler, alla vedova 79enne del famoso giornalista Edgar Snow, autore di diversi saggi sulla Cina contemporanea, è stato impedito di consegnare a Ding Zilin un libro ed un importo di 1000 dollari, a sostegno della sua azione a favore delle vittime di Tienanmen.
Un’altra “madre di Tienanmen”, Su Bingxian, che cercava di mettersi in contatto con la stessa Ding Zilin è stata arrestata e non ancora rilasciata.
La signora Lois Wheeler Snow, che da tempo è impegnata a fianco della dissidenza cinese e per il rispetto di universali diritti umani, ha minacciato di chiedere che le ceneri del marito, un tempo molto onorato in quel paese, vengano tolti dalla capitale Pechino dove attualmente riposano. Human Rights in China, chiede che l’opinione pubblica internazionale si mobiliti perché sia garantito in Cina il rispetto dei diritti umani e che a Ding Zilin e ai familiari delle vittime di Tienanmen venga assicurata la libertà di proseguire la loro ricerca di verità e giustizia.
IRAQ / 1
La 6° edizione del Premio “Oscar Romero per la dignità – 1999” è stata assegnata al popolo irakeno, da 10 anni assediato da embargo, bombardamenti e bombe radioattive. Il premio, che sarà consegnato a breve dai promotori dell’iniziativa, consiste in una macchina di potabilizzazione d’acqua ad osmosi inversa (capace di potabilizzare 100 litri l’ora), che verrà installata in un ospedale o in una scuola di un villaggio nella zona di Bassora.
INFO: Pasquale Ranghelli, Gruppo Mission, Roma. E-mail: maxalone@libero.it
IRAQ / 2
“Rompere l’Embargo, Campagna per la dissociazione unilaterale dalle sanzioni economiche all’Iraq”, prosegue le proprie attività e continua a raccogliere nuove adesioni importanti, tra cui quelle di molti professori universitari, responsabili di associazioni nazionali, rappresentanti istituzionali. Molti gruppi locali hanno realizzato e realizzeranno iniziative sul territorio, per sensibilizzare e invitare l’opinione pubblica a pretendere l’interruzione di questo genocidio che sta facendo centinaia di migliaia di morti (soprattutto bambini e anziani) tra la popolazione civile irakena. La Campagna invita i gruppi locali, le associazioni ed i singoli ad impegnarsi per raccogliere ulteriori adesioni all’appello “Rompere l’embargo” (disponibile anche su Internet www.petitiononline.com/s343/petition.html). La campagna è riuscita anche realizzare banchetti per la raccolta firme nella giornata del 9 aprile, in occasione dell’iniziativa “Vivicittà”, una corsa competitiva di 12 km e non competitiva di 2 km, organizzata dall’UISP in 50 città italiane e 20 città estere (tra cui anche Bagdad). Chi volesse avere maggiori e costanti informazioni, può chiedere l’invio, tramite E-mail, di un bollettino in formato elettronico.
INFO: “Un Ponte per …”, Via della Guglia 69/a. 00186 Roma. T: 06.6780808, f: 06.6793968.
E-mail: rompere-lembargo@libero.it www.unponteper.eu.org
TURCHIA
Tre volontari dell’associazione Papa Giovanni XXIII sono partiti, il 18 marzo, alla volta della Turchia, nell’ambito di un progetto avente l’obiettivo di supportare gruppi e persone che stanno conducendo una lotta nonviolenta per il riconoscimento ed il rispetto dei diritti umani. I volontari nel corso della loro missione, hanno svolto il ruolo di osservatori durante il capodanno Kurdo (Nevroz), solitamente represso dalle forze turche. Quest’anno per la prima volta, è stato possibile celebrare liberamente il Newroz in alcune città ed è stata data la disponibilità ad aprire un centro culturale curdo a Diyarbakir. Malgrado questi timidi segnali di apertura (favoriti dal cessato il fuoco unilaterale attuato dal PKK) i segnali della repressione contro i kurdi sono ancora evidenti e, a subirne le spese, sono soprattutto i bambini: il tribunale di Diyarbakir ha condannato a morte 68 bambini, commutando poi la pena in 20 anni di carcere; spesso, quando vengono arrestati, subiscono interrogatori che possono durare fino a 15 giorni, nel corso dei quali non vengono risparmiate torture con scariche elettriche, denudazioni ed altre forme di pressioni psicologiche. Durante la loro permanenza in Turchia i volontari hanno incontrato anche:
Nadire Mater, giornalista turca sotto processo (rischia una condanna a 12 anni di carcere) per aver scritto un libro di testimonianze di militari turchi che hanno combattuto nel sud est della Turchia;
Osman Murat Ulke, perseguitato dal regime con una lunghissima carcerazione per aver scelto la via dell’obiezione di coscienza.
INFO: Associazione Papa Giovanni XXIII, Servizio Obiezione e Pace. T: 0541.751498 o 0348.2488126
FRANCIA / 1
La Campagna francese “Sortir du nucleaire” denuncia il rischio che in Francia venga applicata una direttiva europea di Euratom (13 maggio 97), che permette il “riciclaggio” delle scorie nucleari per la produzione di beni di uso comune. Se questa direttiva venisse applicata ci si potrebbe ritrovare ad utilizzare, nella vita quotidiana, oggetti che espongono costantemente le persone e l’ambiente alle radiazioni nucleari, con conseguente aumento di malattie ed inquinamento. Sortir du nucleaire, al fine di scongiurare l’applicazione di questa direttiva, sta promuovendo in tutta la Francia una grande campagna di sensibilizzazione ed informazione, invitando tutti i cittadini ad inviare, al Ministro della Sanità e dell’Inquinamento, cartoline postali nelle quali si chiede di fare chiarezza sull’applicazione di tale direttiva e interdire l’utilizzo di scorie radioattive riciclate nella produzione di beni di uso comune.
INFO: Sortir du nucleaire, 9 Rue Dumenge 69004 Lione (Francia). www.sortirdunucleaire.org
FRANCIA / 2
“Eurosatory” è una mostra internazionale d’armi che si terrà a Bourget (Francia) dal 19 al 23 Giugno. Il Coordinamento dell’Azione Nonviolenta dell’Arca di Lanza del Vasto (CANVA) sta promuovendo una vasta mobilitazione contro tutti i saloni nazionali ed internazionali d’armi, la promozione ed il commercio d’armi. La protesta si articolerà in varie forme: presenza silenziosa all’entrata del Salone, rinforzata dall’esposizione di una mostra sulle conseguenze derivanti dal commercio di armi e l’organizzazione di un “Contro-salone”, con stage di formazione all’azione nonviolenta, conferenze e dibattiti: La CANVA invita tutte le associazioni ed i singoli ad aderire alle giornate di mobilitazione, impegnandosi a mantenere un comportamento strettamente nonviolento e collaborare per la fattiva riuscita dell’iniziativa. Oltre alla sospensione delle mostre d’armamenti, i promotori chiedono:
l’instaurazione di una commissione mista di controllo composta da parlamentari e rappresentanti delle ONG, avente il compito di definire le regole etiche per il commercio di armi, di controllare il traffico d’armi alla luce di questi criteri, di rinunciare pubblicamente ai contratti che non rispettino i criteri etici, di ridurre considerevolmente l’utilizzo del “Segreto militare”, al fine di far luce sulle vendite occulte di armi e sulle triangolazioni.
l’attivazione di un Servizio Civile di Pace, la formazione di collegi di mediatori ed osservatori internazionali, al fine di prevenire l’inizio dei conflitti.
la presa in esame degli studi, già realizzati, inerenti la riconversione dell’industria bellica a produzioni civili.
INFO: Jean Luc Bremond, c/o CANVA, La Borie-Noble, 34650 Roqueredonde.
T: 0467440989, f: 0467572020
STATI UNITI
La Campagna statunitense “Moratoria ora – nessun altra esecuzione”, realtà tra le più attive contro la pena di morte, ci comunica che, negli ultimi tempi si sono verificati importanti novità: George Ryan, Governatore repubblicano dell’Illinois, ha dichiarato che vuole imporre una moratoria a tempo indeterminato nel suo Stato; 4 importanti città (San Francisco, Philadelphia, Baltimora e Pittsburgh hanno ratificato una risoluzione per chiedere l’applicazione di una moratoria ne rispettivi stati; Jesse Jackson ha presentato una legge in cui si chiede una moratoria di 7 anni e anche il Presidente Clinton concorda con l’idea di valutare l’introduzione di una moratoria federale. Soprattutto pare che vi siano dei grossi cambiamenti in seno all’opinione pubblica, determinati anche dalle Campagne delle associazioni che lottano contro la pena di morte e da dozzine di quotidiani che hanno cominciato una campagna di stampa per segnalare l’urgenza di una moratoria.
“Moratoria ora”, che si sta impegnando per formare attivisti, produrre materiale e chiedere sostegno alle proprie attività, invita tutti i cittadini ad inviare fax e cartoline al presidente Clinton, per chiedere l’applicazione di una legge che preveda una moratoria federale.
INFO: Quixote Center: P.O: Box 5206, Hyattsville, MD 20782. T: 3016990042, f: 3018642182.
E-mail: ejusa@quixote.org, www.quixote.org/ej/ejuusaform.html
LIBRI
A cura di Silvia Nejrotti
Perdere la guerra, per vincere la pace
Enrico Peyretti, Per perdere la guerra, B.Grandi, Torino, 1999
Avevo già letto quasi tutti gli articoli, le argomentazioni, le prese di posizione che Enrico ci passava, via via che li scriveva, nel periodo della guerra del Kossovo. Ma rileggerli tutti insieme, raccolti nel volumetto Per perdere la guerra, edito da una piccola casa torinese, offre l’opportunità di riprendere la riflessione sulla guerra e sulle alternative ad essa, riflessione condotta con lucidità e passione da Enrico in quei tragici giorni, che a tutt’oggi non ha perso nulla della sua attualità.
“Te ne fai una malattia!”, “Infatti, non vedi che questa è la peste più spaventosa, malattia che ci sfigura il volto e ci azzanna il cuore?” (p.60). Queste brevi battute, riportate al termine di uno degli articoli, potrebbe essere la chiave di lettura per comprendere lo stato d’animo di fondo, l’intento etico ed intellettuale che anima queste pagine, intento dichiarato e ripetuto più volte, declinato in diversi modi, ma sempre caparbiamente uguale: dire un NO forte, esplicito, irreversibile alla guerra, a quella guerra come ad ogni altra. Basta scorrere alcuni titoli: “E’ la guerra l’impero del male”; “L’Italia è in guerra! Io no, noi no!”; ”25 aprile 1999, per la liberazione dalla guerra”; “Nelle difficoltà un orientamento: non uccidere”; “Non uccidere è un diritto”…
Questo suo punto fermo di partenza si scontra con le varie forme di legittimazione e giustificazione, con i “distinguo” e le obiezioni , alle quali risponde con determinata convinzione che “Un pensiero maledetto, incarnato nella storia, obbliga a pensare che alla guerra non c’è altra risposta che la guerra. Menzogna dogmatica che imprigiona menti e cuori, uccide la politica e la storia. O ci libereremo da questo diavolo o non diventeremo umani” (p.56). Ma il discorso, a partire da questo NO preliminare, si articola poi in alcune importanti acquisizioni, che rappresentano ormai il patrimonio comune del pensiero e della strategia nonviolenti sull’argomento e che Peyretti in questo agile libretto sintetizza in modo mirabile ed efficace.
Tra di esse, le più significative mi sembrano, schematicamente, le seguenti:
1-la distinzione tra guerra e conflitto;
2-la distinzione tra guerra e intervento di polizia internazionale (“La polizia non è la guerra”);
3-le proposte di alternative alla guerra (“Contro la guerra e per una risoluzione nonviolenta dei conflitti nei Balcani”; “Pacifismo? No grazie!”…)
In particolare, nell’articolo significativamente intitolato “Invece della guerra” si possono trovare stralci che si riferiscono a tutti questi aspetti.
A proposito di guerra e conflitto, infatti, e a come umanizzare i conflitti si afferma: “Un conflitto non è una guerra, fino a quando non lo si pensa risolvibile soltanto con la distruzione o sottomissione dell’avversario.” (p.89); “Non cercare né prospettare un risultato a somma zero, cioè con tutto il guadagno da una parte e tutta la perdita dall’altra…bensì un risultato a somma inferiore per ciascuno, ma positivo per entrambi….” (p.90).
A proposito di esercito e polizia internazionale: “Gli stati hanno il dovere giuridico e morale di rendere autorevole ed efficace la funzione dell’ONU contro le minacce alla pace, anche mettendo ad immediata disposizione i contingenti necessari all’azione coercitiva internazionale (art.45). Questa azione di polizia dell’Onu è un’azione diversa dalla guerra nella sostanza, nei fini e nell’etica: deve usare il minimo di forza necessaria, deve far calare la violenza, deve operare nei limiti della legge, mentre la guerra usa una forza crescente ed una violenza maggiore, eleva il tasso di violenza complessiva, opera fatalmente fuori dalla legge.” (p.91).
Infine, in merito alle alternative: “L’Europa non si affidi solo alla difesa militare, ma realizzi il Corpo di Pace Civile Europeo proposto a suo tempo da Alex Langer, secondo la raccomandazione votata il 10 febbraio 1999 dal Parlamento Europeo. L’Italia non si affidi solo alla difesa militare, ma attui l’art.8, punto 2, comma e, della legge 8 luglio 1998, n.230, Nuove norme in materia di obiezione di coscienza , per il quale l’Ufficio nazionale per il servizio civile ha il compito di “predisporre…forme di ricerca e di sperimentazione di difesa civile non armata e nonviolenta”…” (p.90).
Il libro contiene anche, al termine, due interessanti “annotazioni” di Renato Solmi e Domenico Gallo.
Purtroppo la distanza tra il senso comune sull’inevitabilità della guerra e la cultura nonviolenta proposta da Peyretti è ben esemplificata da un piccolo aneddoto .
Il quotidiano “La Repubblica”, presentando il 27/9/99 un dibattito sul libro di Enrico svoltosi a Torino così “correggeva” il titolo: “Per non perdere la guerra”. Già, come si fa a scrivere un libro “Per perdere la guerra”? Ciò ci dà la misura precisa del grande lavoro che resta da fare.
Angela Dogliotti Marasso
CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
Tanti conflitti, dentro al conflitto
BEAUTIFUL PEOPLE, di Jasmin Dizdar
Soggetto e sceneggiatura Jasmin Dizdar
Fotografia Barry Ackroyd
Montaggio Justin Kirsh
Produzione BSkyB/BFI/British Screen/Tall Stories/Channel Four/Merseyside Film Production Fund
Durata 107’
Origine Gran Bretagna, 1999
Festival di Cannes 1999
Miglior Film – sezione Un certain regard
Sgombriamo subito il campo dagli equivoci: Beautiful People non è un film sulla guerra di Bosnia. Non ha la pretesa di spiegare le ragioni sociali e politiche che hanno portato, nell’arco di un decennio, alla disintegrazione della ex–Iugoslavia. Il conflitto di Bosnia è sì presente, ma sullo sfondo. Se lo si intende come guerra civile, scontro interetnico, odio “folle e disperatissimo” tra ex vicini di casa (il serbo e il fascista che se le danno di santa ragione per quasi tutto il film) inculcato da innominabili signori della guerra che predicano la giustezza dell’”arte” di uccidere, razziare e stuprare, allora si può affermare che sì, la Bosnia c’è, si sente e si vede, pure. Una dimostrazione di ciò la si può trovare nell’unica sequenza veramente bellica del film, ambientata fuori Londra (nel cuore di una macchia balcanica talmente decontestualizzata da poter apparire una qualsiasi boscaglia di un qualsiasi neanche troppo remoto punto sulla terra), in grado di cogliere e raggelare sulla pellicola un assurdo quanto straniante attimo di quotidiana violenza ed ordinaria guerriglia.
Ma sono altri, in realtà, i conflitti centrali all’interno della narrazione filmica: le dispute interpersonali, le fratture che si aprono tra le diverse generazioni di padri e di figli, tra eccentrici mariti e mogli affamate di ordine e di una tutta borghese quiete familiare, tra hooligans eroinomani e il mondo attorno a loro che li schiaccia e li opprime nel dramma della disoccupazione. C’è del marcio, insomma, tra la bella gente di Inghilterra, tra le vie costellate di negozi hi-tech di una Londra sorvegliata dal pugno di pietra di Churchill e governata dal conservatorismo dei suoi diligenti nipotini.
L’anglo–bosniaco Jasmin Dizdar a circa una decina d’anni dallo statunitense-macedone Manchewski di Prima della Pioggia, e costruendo una struttura narrativa ad incastro in tutto simile a quella del Paskalijevic de La Polveriera, mette in luce quanto la pioggia dei conflitti intestini che stava per piovere sui Balcani sia stata torrenziale e quanto possa essere dirompente per una società occidentale non ancora educata al rispetto delle differenze. Con uno stile tutto videoclip e macchina a mano (il Von Trier del Dogma e dell’estetica della videoripresa ha già cominciato a far proseliti anche fuori dalla tranquilla Danimarca) cavalca l’onda tellurica della disgregazione etnica, sottolineando come solo attraverso la capacità di accettare il Caos (così viene chiamato non a caso il bimbo figlio dello stupro etnico, prima respinto e infine accolto da una coppia di giovani profughi bosniaci) e la “Diversità” come i principi costitutivi di una ri-nascita etica e culturale per la “vecchia” Europa, si possa ri-costruire un “Cosmos” nuovo, fondato sul valore della convivenza civile all’interno del quale anche la figlia di un Ministro del governo Major possa felicemente convolare a nozze con un ex miliziano bosniaco. Se il film risulta quindi, nel complesso, di notevole qualità formale e dotato di un pregevole “tessuto” contenutistico, coerente e coraggioso come pochi altri film usciti di recente, una lieve critica permettetemi di muoverla ad un finale un pò forzato e “furbetto”, all’insegna del “pane e nutella” e della ricomposizione dei buoni sentimenti (e del resto come avrebbe fatto altrimenti ad aggiudicarsi il premio come Miglior film nella sezione Un certain regard al Festival di Cannes?!). Alcune soluzioni appaiono un po’ sbrigative e semplicistiche, come ad esempio il “tossico” brutto, sporco e cattivo che, in un idillio familiare tutto “tarallucci e vino”, folgorato sulla via di Damasco, si ingentilisce e legge le favolette al bimbo bosniaco diventato cieco in seguito allo scoppio di una granata…
Gianluca Casadei
Cooperativa FuoriSchermo–Cinema & Dintorni
LETTERE
Viva John Lennon
Caro Direttore,
leggo con piacere l’articolo su John Lennon e Albert Einstein, soprattutto perché sono un fan del primo e il secondo mi è molto simpatico (per il suo anticonformismo, come avete sottolineato).
John Lennon ha scritto una canzone intitolata “I don’t wanna be a soldier mama I don’t wanna die”, che musicalmente non è bellissima, ma rende molto bene, a mio avviso, il disagio e la protesta che viene dalla coscienza.
Per inciso, tutto l’album “Imagine” è cosparso di impegno politico e di obiezione…
C’è un altro bellissimo brano, molto “contro”: si intitola “Gimme some Truth”, ed è davvero disarmante perché Lennon dice di essere stufo di leggere cose di tutti questi politici un po’ psico-nevrotici, di tutte le “prime donne” schizzofreniche, egocentriche e paranoiche (e penso a tutti i personaggi che girano da una canale all’altro della tv in cerca di notorietà).
E’ tutto quello che dobbiamo chiedere noi cittadini: solo un po’ di verità nelle cose!
E poi c’è “Imagine” che nella sua semplicità fa venire la pelle d’oca, che nei suoi 3 minuti rende possibili tutti i sogni delle persone, ma soprattutto li mette lì a portata di mano (“it isn’t hard to do” che ricorda quell’ “if you want it” di “War is over…”). In “Imagine” c’è tutto quello che il nostro mondo può sperare, l’essenza della vita(“a brotherhood of man”), e tutto è lì spiegato e raggiungibile…
A presto,
Luca Bresciani
lucabresciani@iol.it
Abbasso John Lennon
Con una qualche sorpresa vedo presentare nel numero di gennaio di Azione nonviolenta, Albert (Einstein) e John (Lennon), come i due grandi antimilitaristi del secolo appena terminato, senza alcun accenno alle ambiguità delle loro posizioni.
Che il padre dell’atomica sia stato un “uomo di pace” è se mai la più grande beffa del secolo !
Certamente Einstein fu promotore di molti appelli per il disarmo, ma tutti sanno che egli nel 1939, su pressione dei fisici Fermi e Sziland, scrisse una lettera a Roosevelt sulla necessità di precedere la Germania nazista nelle applicazioni belliche dell’energia nucleare. E’ vero che Einstein passò il resto della sua vita a pentirsi di aver “premuto il bottone” (parole sue !), ma la sua vicenda dimostra implicitamente la debolezza di certo pacifismo sentimentale, non fondato sulle basi forti dell’anima, che non regge poi all’impatto con la dura realtà. Einstein, infatti, di fronte alla minaccia nazista, smise di credere nel pacifismo e preferì affidarsi alla bomba atomica.
Anche John Lennon (di cui però so poco) mi lascia perplessa come modello di pacifismo cui ispirarsi. “Immagina – egli scrive – che non ci sia la proprietà”. Immagina, appunto ! Nella realtà mi risulta che i Beatles, oggetto di deliranti fanatismi di massa, fossero ricchissimi. Si ripete l’incongruenza fra le idee professate e la vita vissuta.
Non varrebbe la pena forse di soffermarsi su questi personaggi, se la loro ambiguità non fosse emblematica di un’ambiguità che cova nei movimenti nonviolenti stessi e che invece è assolutamente necessario chiarire o almeno tentare di chiarire.
Innanzitutto occorrerebbe chiarire la differenza tra pacifismo e nonviolenza e le loro diverse matrici : radicale illuminista per il primo, religiosa tolstoiana e gandhiana per la seconda. Spesso i due termini vengono usati quasi indifferentemente.
E bisognerebbe chiarire quale tipo di nonviolenza, atea o religiosa, come tattica o convinzione profonda, ciascun militante o gruppo segua. Se io credo, come John Lennon, che solo se non ci sono religioni la gente starà in pace, oppure se io credo, come Tolstoj, che la religione è assolutamente necessaria agli uomini ed essi devono cercarne i principi comuni, diversi saranno i miei programmi e le mie azioni per arrivare alla pace.
Non si tratta di decidere (sia ben chiaro !) quale tipo di nonviolenza è migliore, ma solo qual è la propria identità. Partendo da questa identità, si possono poi anche concertare azioni comuni. Occorre il confronto, non la confusione. Ciò che io temo non è la differenza, ma il caos.
Gloria Gazzeri
Amici di Tolstoj – Roma
Non c’era, da parte nostra, nessuna pretesa di indicare Lennon ed Einstein come campioni di nonviolenza. Abbiamo semplicemente voluto far notare come i due “personaggi del secolo” (secondo Time e secondo i critici musicali) siano stati attivi antimilitaristi ed abbiano dedicato il loro talento all’impegno per la pace. Non è poca cosa. Potevano non farlo e diventare ugualmente ricchi e famosi. Pur con qualche incoerenza, li preferiamo così!
Un bambino ingenuo ma saggio
Qualche giorno fa davanti al supermercato ho incontrato un bambino albanese che chiedeva l’elemosina. Essendo io, economicamente, in condizioni di dargli qualche soldo, non ho esitato. Però non mi sono saputo trattenere dal fargli una domanda: “Cosa ne pensi della guerra?”, lui ingenuamente mi ha risposto: “Non occorre fare la guerra!”.
La risposta che mi ha dato, per quanto semplice, è ricca di significato. Certo, detta da un bambino di soli 13 – 14 anni è indice di un’esperienza vissuta non da trascurare. Questa frase successivamente mi ha stimolato molti pensieri, ma uno sovrasta gli altri. Possibile che un ragazzino cresciuto in strada tra mille bruttezze e vedendo cose che non dovrebbe vedere alla sua età, si sia reso conto che la guerra è orribile, mentre molti adulti non se ne rendono conto?
Purtroppo devo assicurare che è vero e posso portare anche l’esempio della nostra nazione tanto devastata dalla guerra nella prima metà del secolo scorso. Pare però che non gli sia bastata la lezione ricevuta in passato. Infatti, si sta cercando di creare un esercito di (chiamiamoli) professionisti nell’arte di ammazzare e fare la guerra con la scusa di utilizzarlo solo per difenderci “perchè l’Italia deve avere un esercito”. Ma chi lo dice! Geograficamente non siamo in una posizione felice, abbiamo una potenza di fuoco che si esaurisce in pochi minuti e soprattutto non ci attaccherebbe nessuno perchè si tirerebbe dietro tutta l’Europa e gli U.S.A.. Con il nostro trascorso dovremmo ignorare la possibilità di crearci un qualsiasi esercito. Allora, invece di sprecare miliardi così inutilmente, perchè non compiamo un’azione (forse l’unica) che ci gratifichi agli occhi del mondo? Usiamo tutto questo denaro per migliorare le strutture, creare forza lavoro e per costruire e fare andare avanti gli organismi di pace che già lavorano con molto sforzo in Italia. Impegnamoci per formare gente che porti la pace nel mondo e non per difenderci da una presunta guerra che probabilmente non ci sarà mai.
Quello che mi chiedo spesso è: “Possibile che nel nuovo secolo si debba ancora parlare di violenza e ancora fare la guerra?, Possibile che stia cambiando la vita dell’umanità ma che si basi sempre sulla violenza?, Possibile che non riusciamo a dare, alle nuove generazioni, il buon esempio?, Possibile che ci siano persone che pensano di dover ancora ammazzare un loro fratello per vivere meglio? Mi è difficile crederlo!!! Forse sono ingenuo tanto quanto quel bambino che al supermercato mi ha detto: “Non occorre fare la guerra”.
Daniele Saliceto
Torino
Sete di indipendenza: che fare?
Sulla scena mondiale ancora assistiamo a guerre per l’indipendenza: la Cecenia, il Kashmir, il Kurdistan, il Tibet, popoli sconosciuti che alzano la testa per rivendicare la gestione del proprio territorio. C’è sete d’indipendenza, di democrazia nel vero senso della parola, mentre parole come “repubblica popolare” sbandierate dalle grandi nazioni come la Russia e la Cina significa governare con i carri armati ed essere poco tolleranti verso le varie etnie, culture, razze presenti nel territorio. C’è anche un grande organismo mondiale che è l’ONU, costituito da buoni propositi, e buoni fini … ma l’ONU di fronte ai vari conflitti cosa sta facendo? Nel famoso romanzo Fontamara di Ignazio Silone i fontamaresi si chiedevano: che fare? Il popolo pacifista, nonviolento si chiede: che fare?
In nome della mondializzazione e globalizzazione si sta distruggendo la cultura, l’economia e le tradizioni locali, in nome dell’Europa e delle unioni di Stati si sta distruggendo la democrazia, la partecipazione di tutti alla gestione del proprio territorio. Sta risorgendo il vero concetto di democrazia dove ogni cittadino è partecipe alla gestione politica del proprio territorio. I “cafoni” di Fontamara cominciarono a ragionare contravvenendo all’ordine del podestà che proibiva tutti i ragionamenti e così protestarono contro l’impresario che si appropriava dell’acqua sorgiva, contro le camicie nere che governavano con la forza. Oggi i cafoni di Fontamara potrebbero essere gli stessi abitanti della Cecenia, del Kashmir, del Kurdistan che si ribellano agli impresari ed alle camicie nere o rosse che siano.
I pacifisti e i nonviolenti stanno con i deboli, con i “cafoni”, condannando ogni uso di violenze ed armi per conquistare l’indipendenza. Ci sono metodi non violenti come lo sciopero, il boicottaggio, la non-collaborazione, la disubbidienza civile, l’obiezione di coscienza per manifestare la propria protesta contro un governo antidemocratico, imperialista, intollerante e violento.
Michele Ferrante
Tortoreto TE
MUSICA
a cura di Paolo Predieri
Non solo Sanremo
Curiosando nella cronaca
“Un giorno il debito dei poveri verrà azzerato e si dirà che tutto è partito dal Festival di Sanremo”. Così Agostino Sacca, direttore di Rai Uno, ha voluto sottolineare l’esempio più clamoroso, in questi ultimi anni, di intervento politico musicale. In quel caso abbiamo visto in azione diversi elementi significativi : musicisti e persone di spettacolo che si organizzano per sostenere una campagna (Jubilee 2000 – Sdebitarsi), una canzone scritta ad hoc (Cancella il debito, di Jovanotti) e un evento (Festival di Sanremo) utilizzato come cassa di risonanza.
Dibattito e polemiche, soprattutto a livello politico – partitico, si sono sprecati e non è il caso di ritornarci su, indicando agli eventuali interessati i commenti usciti sul numero di aprile 2000 di Altreconomia. Il fatto ci conferma potenzialità e limiti della musica che interviene in modo spettacolare su grandi obiettivi.
Ma non c’è stato solo Sanremo. Qualche esempio :
Concerti
L’aggregazione dei musicisti per lanciare l’obiettivo del debito dei Paesi poveri si è verificata ben prima di Sanremo, nell’ottobre ’99 con il Net – aid, concerto a Londra, Ginevra e New York trasmesso in diretta su Internet, Bbc e Mtv, con raccolta di aiuti per le popolazioni di Kossovo e Sudan.
In Italia, sempre nell’ottobre ’99, a Milano c’è stato un concerto per sostenere il Dalai Lama e la lotta per la libertà dei Tibetani, “un segno di solidarietà e affetto nei confronti di un popolo che vive nel rispetto della Nonviolenza” ha detto Beppe Carletti dei Nomadi, tra i protagonisti della serata.
Boicottaggi
Nel marzo scorso diversi musicisti hanno annullato i loro concerti in Austria o nelle ambasciate austriache, dopo la nomina del governo comprendente la destra di Haider : ad esempio Lou Reed, Franco Battiato e, tra i “classici”, Zubin Metha, Andreas Schiff, Pavarotti e l’orchestra sinfonica di Lisbona al completo. Qualcosa del genere era accaduto in Italia con il “solito” Jovanotti, che aveva rinunciato a fare da testimonial alle manifestazioni Bologna 2000 dopo la vittoria della nuova giunta di centro – destra guidata da Guazzaloca.
Dischi
Quanti testi interessanti ci saranno sfuggiti ? Chi ne avesse da segnalare si faccia sentire immediatamente in redazione ! Intanto partiamo da questi :
– SOS con rabbia e con amore dei Nomadi, gruppo ben noto per l’impegno serio e costante in iniziative di solidarietà a tutto campo ;
– Peace degli Eurithmics, impegnati con diversi mezzi su temi come la pace e la raccolta fondi per Amnesty International e Greenpeace ;
– L’infinitamente piccolo di Angelo Branduardi, con testi basati su fonti francescane e canzoni portate in giro per l’Europa nelle vie dei pellegrinaggi e nei luoghi francescani, da Assisi a Santiago de Compostela, con tappa anche a Betlemme ;
– Culture degli Open Arms, sicuramente i meno conosciuti tra gli artisti citati. Canzoni orecchiabile e brillanti in quattro lingue (inglese, francese, spagnolo e italiano) con particolare attenzione a tematiche come la guerra, l’Africa e le divisioni nord – sud.
E’ disponibile il nuovo CD di Tony Schito, musicista impegnato a sostegno degli emarginati, degli sfruttati e delle etnie (Kurdi, Rom e Sinti) vittime degli eventi bellici; la sua musica canta la pace, l’amicizia tra i popoli, l’amore come un valore universale fatto di fratellanza, uguaglianza e solidarietà. T: 0338.2396016. E-mail: tonyschito@lycosmail.com