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Azione nonviolenta – Maggio 2004

DiFabio

Feb 3, 2004

Azione nonviolenta maggio 2004

– Verso il 21° Congresso del Movimento Nonviolento “La nonviolenza è politica”, di Daniele Lugli
– Dobbiamo demistificare il conflitto fra Israele e Palestina. La sola, unica speranza è ridare fiato alla politica,
Elena Buccoliero intervista Jeff Halper
– Come i pacifisti israeliani, palestinesi e internazionali evitano la demolizione delle case con la nonviolenza, di Elena Buccoliero
– Europa latitante in Cecenia. La guerra nascosta di Putin. Una tragedia nascosta da un silenzio interessato,
Paolo Mozzo intervista Olivier Dupuis.
– La cultura della fiducia e della reciprocità nelle economie senza denaro, di Maurizio Pittau.
– Norberto Bobbio, amico e compagno di Aldo Capitini. “Perplesso” della nonviolenza, maestro della democrazia civile, di Alberto L’Abate.

Rubriche

Alternative: La catastrofe irakena e le elezioni europee (Gianni Scotto)
Economia: Il Ministro Tremonti e la finanza etica (Paolo Macina)
Educazione: Spunti per una pedagogia nonviolenta (Gabrielle Favati)
L’Azione: Formazione nonviolenta per Guardie di Finanza (Andrea Cozzo)
Lilliput: Una campagna lillipuziana smuove Banca Intesa (Andrea Baranes)
Musica: Canzoni e nonviolenza da Viadana all’Europa (Paolo Bergamaschi)
Storia: 1997 un anno positivo per l’obiezione (Sergio Albesano)
Libri: Caffè e banane nel carrello (Ivan Bettini)
Lettere: Veli e croci; la passione di Gesù

Verso il ventunesimo Congresso del Movimento Nonviolento

Di Daniele Lugli*

La nonviolenza è politica. Lo è nella costitutiva esperienza e riflessione gandhiana, lo è, nel nostro paese, a partire almeno da Capitini, lo è nella pratica e nel pensiero di donne e uomini “al lavoro negli interstizi del disordine globale, per riannodare i nodi, ricucire le lacerazioni, elaborare il male”, ricordati da Marco Revelli, a conclusione del suo La politica perduta, come “l’unico embrione, fragile, esposto, di uno spazio pubblico non avvelenato o devastato nella città planetaria”. A questo tema abbiamo voluto intitolare il nostro prossimo Congresso.
Due anni ci separano dal Congresso di Ferrara, nel quale indicavamo nella nonviolenza il varco della storia. In questi due anni sono successe molte, non positive, cose nel mondo e nel nostro paese: in primo luogo la guerra, che continua e dilaga. Non solo continuazione della politica con altri mezzi, ma addirittura sostituto della politica. Allora, in Afghanistan, l’abbattimento del regime dei talebani non aveva dato prospettive di pace e ricostruzione materiale e civile a un paese riconsegnato ai signori della guerra e dei papaveri da oppio. Ora, in Iraq, la scontata, vittoriosa conclusione dell’aggressione con l’occupaziome militare, alla quale anche l’Italia partecipa chiamandola missione umanitaria, moltiplica resistenza e terrorismo, dentro e fuori il paese. La guerra, anche quella preventiva, rende il mondo sempre più violento, insicuro, pericoloso. L’intreccio di guerra e terrorismo è l’aspetto, più grave e brutale, della violenza diretta, che è quasi violenza minore se rapportata a quella strutturale, che uccide nel silenzio, con fame e malattie, nonostante abbiamo tutti i mezzi per ridurle, farle sparire. Una cultura che accetta supinamente la violenza e l’oppressione, quando attivamente non la promuove, completa il quadro.
La speranza di un ruolo positivo dell’Europa si attenua. Si sono mancati obiettivi istituzionali che sembravano a portata di mano. L’allargamento, in sè buono, non si accompagna all’approfondimento e democratizzazione di questa importante, forse decisiva, sperimentazione di Unione Europea. Un continente ricco, nel quale i diritti umani sono rispettati un po’ più che in altre parti del pianeta, dove la parità uomo – donna, pur non realizzata, non è solo uno slogan, un continente aperto allo scambio economico, civile e culturale con il resto del mondo è una risorsa straordinaria per la costruzione di una convivenza planetaria migliore e ben diverso dall’attuale. Ma occorre una visione capace di superare meschinità e interessi di corporazioni ristrette e privilegiate, la messa in discussione del modello di sviluppo dominante, un progetto altro da quello del dominio militare, economico, culturale, istituzionale, al quale tende la politica dell’attuale governo degli USA.
Nè ci consola il quadro nazionale. Non è un accidente o il predominio mediatico, pur importante, ad aver portato all’attuale disastroso governo – e alla sua degna opposizione – impegnato a smantellare stato sociale e scuola pubblica, ad asservire cultura e ricerca, a stravolgere istituzioni democratiche e di garanzia dei diritti, a dissipare uno straordinario patrimonio naturale, storico e artistico. E’ anche l’esito di un processo di degenerazione dei partiti, libere associazioni dei cittadini “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, secondo il dettato costituzionale. Il loro progressivo trasformarsi in centri clientelari, corrotti e corruttori, incapaci di un progetto che non fosse la spartizione di privilegi e potere, ha aperto la strada all’attuale assetto padronale, autoritario e populista, che bene esprime egoismo e volgarità presenti e diffusi nella popolazione.
Non c’è solo questo fortunatamente. Ma è importante sapere che non siamo le vittime incolpevoli di un perfido sistema mondiale, europeo, nazionale, locale. Siamo complici di quanto avviene e in buona misura responsabili della nostra situazione. E’ una cosa buona questa. Vuol dire che possiamo incidere positivamente nella realtà, sulla quale invece spesso negativamente graviamo, con i nostri atti e con le nostre omissioni. E’ il punto di partenza dell’azione nonviolenta, che permette di “pesare” di più perchè mettiamo tutto noi stessi sulla bilancia, o quanto di noi più possiamo. Il nostro pensiero, la nostra azione debbono alla nonviolenza ispirarsi per trovare una via d’uscita dalla situazione attuale, che si fa sempre più insostenibile dal punto di vista sociale ed ambientale. Innumeri sono le prove che non il fine giustifica i mezzi, ma questi pregiudicano il fine. La violenza che impieghiamo per prevenire, combattere altra, maggiore, intollerabile violenza non vale quasi mai a moderarla, a ridurla. Di solito si somma e contribuisce all’imbarbarimento complessivo.
Nel tempo che ci separa dall’ultimo congresso abbiamo offerto una riflessione, con un appuntamento mensile, sulle varie dimensioni della nonviolenza, attraverso le 10 parole, in molte delle quale l’aspetto politico era determinante. Abbiamo concluso quel percorso con l’iniziativa dell’Assisi – Gubbio, una proposta rivolta a tutti gli amici della nonviolenza. E’ stato un modo per indicare la necessità di “riannodare i nodi, ricucire le lacerazioni, elaborare il male”, aprire il dialogo con chi ci è lontano, nemico apparentemente irriducibile, dal linguaggio incomprensibile. Che incomprensibile non è se si porge ascolto, sia che si tratti della lingua del businnes sia che sia quella del Corano.
Ci aspettiamo manifesti con su scritto TACI IL NEMICO TI ASCOLTA. Non ne siamo lontani. Già ora si chiede di abbassare i toni per essere vicini ai “nostri ragazzi” in Iraq. Vicini a loro sarebbero dunque quelli che ce li hanno mandati e ce li tengono, non quanti li avrebbero voluti, e li vogliono, a casa. Invece bisogna scrivere: PARLA, IL NEMICO (FORSE) TI ASCOLTA. Se abbiamo valori da proporre, buone pratiche da insegnare non è con le armi che possono essere trasmessi, ma con il dialogo, l’esempio, la coerenza. Per far questo diventa essenziale l’attitudine nonviolenta, cioè l’apertura alla vita, alla libertà, allo sviluppo dei viventi. E perchè sia vero dialogo occorre ancor prima scrivere: ASCOLTA, IL NEMICO TI PARLA. Possiamo allora sentire l’angoscia, la paura, la disperazione, l’assenza di prospettive che portano alla scelta terroristica, magari con un richiamo a una religione che ha perso la compassione, sua componente costitutiva, e si riduce a odio, esclusione, violenza senza limiti. Possiamo distinguere l’internazionale lingua degli affari, dietro la retorica, ripetuta in tutte le lingue, dall’arabo all’italiano, del dovere di difendere, in armi, i nostri valori contro i disvalori, il bene contro il male.
A Gubbio abbiamo parlato dell’Europa: potenza di pace, costruzione di convivenza da rendere esemplare, contributo essenziale per relazioni differenti tra i popoli, alternativa a un mondo di privilegiati, asserragliati, insicuri e anche perciò violenti e di una maggioranza consegnata allo sfruttamento, quando non all’esclusione, facile preda di ideologie oscurantiste. Abbiamo ripreso questo discorso con amiche ed amici. Lo abbiamo approfondito e articolato in incontri a Verona e a Venezia. Cercheremo di darne un’ulteriore espressione il 22 maggio, con una manifestazione internazionale nonviolenta per “un’Europa militarmente neutrale, solidale, nonviolenta” al Ponte Europa in territorio austriaco. Nella stessa giornata saremo anche a Sterzing/ Vipiteno, o meglio nella frazione di Telves dove è sepolto Alexander Langer. Dai suoi scritti, dalla sua attività, anche in questo campo ci sono molti insegnamenti da trarre. Ponti e non muri ci ha insegnato Alex a costruire. E’ quello che, in modo certo inadeguato, ci sforziamo di fare.
Altro appuntamento importante sarà, l’11 settembre a Verona, una giornata per i primi quaranta anni di Azione nonviolenta. Proponiamo un momento di attenzione sulla situazione dell’informazione: televisione, radio, carta stampata, internet. Con interlocutori esperti discuteremo del suo ruolo nella formazione dell’opinione pubblica, dei suoi condizionamenti strutturali, della situazione a livello globale e nel nostro paese. Dedicheremo anche attenzione alle forme di possibile collaborazione con le pubblicazioni che dedicano una particolare attenzione ai temi della nonviolenza ed ai possibili rapporti con i grandi strumenti di informazione. E’ un problema fondamentale se si vuole, come noi vogliamo, dare un’espressione più adeguata alla presenza di una componente, non solo aviolenta ma nonviolenta, capace di iniziative e proposte coerenti.
L’impegno nella rete Lilliput, segnatamente nel gruppo di lavoro tematico della nonviolenza, ma non solo, è stato notevole e qualche buon frutto ha prodotto. La riproposizione dei Gruppi di Azione Nonviolenta ne è un esempio. Si sono attuate e diffuse sul territorio iniziative caratterizzate dalla proposta della nonviolenza, come risposta alla violenza strutturale, diretta e culturale. Sono ancora piccola cosa, ma ci pare la strada giusta, l’aggiunta necessaria alle grandi, pur significative, manifestazioni di massa. Si sono consolidate anche collaborazioni tra gruppi impegnati sul tema del disarmo. Si è data espressione, in forme non aggressive, semplici, ma di sia pur piccolo impegno personale, al sentimento di pace con le bandiere arcobaleno dalle finestre e dai balconi. Una campagna più ambiziosa, Scegli la nonviolenza, non ha dato forse i risultati attesi, ma ha mostrato, in vari incontri, l’interesse che la proposta nonviolenta può trovare. Rete Lilliput resta comunque un luogo importante di confronto e collaborazione.
Si è venuta consolidando, e non è mancato il contributo del Movimento, l’iniziativa Verso i corpi civili di pace. E’ un aspetto importante nella costruzione di un’Europa, seconda gli indirizzi prospettati. La diffusione di corsi ispirati ai temi della pace, e talora esplicitamente della nonviolenza, in varie università, testimonia di un interesse all’approfondimento. Si sviluppano anche iniziative “dal basso” di scuole per la pace e la nonviolenza. Nostri iscritti ed amici vi sono impegnati in vario modo. E’ necessario un lavoro di qualificazione dei contenuti, di pratica di scambi, di costruzione di collegamenti. Così è importante riportare l’attenzione sui campi estivi, luogo d’incontro di giovani, in situazioni significative, nelle quali il messaggio della nonviolenza avrebbe le migliori condizioni di ascolto e condivisa riflessione.
E’ stata costituita la commissione per la Difesa popolare nonviolenta, promessa dalla legge di riconoscimento dell’obiezione di coscienza. Ne fanno parte nostri amici, particolarmente competenti. Ne attendiamo i primi frutti. Altra novità istituzionale di rilievo è quella del nuovo servizio civile volontario. Alla legislazione nazionale si sommeranno le normative regionali. Già ora appaiono incongruenze e pesantezze burocratiche. Per quello che già si è sperimentato, e si può vedere, si tratta comunque di una cosa interessante, nella quale riportare i contenuti e le pratiche migliori della precedente esperienza di servizio civile, in molte realtà spesso svolto in modo ben poco soddisfacente da tutti i punti di vista. Anche a noi spetta contribuire a che l’esperienza avviata non si riduca a un pre salario per chi non trova di meglio.
Tutti i partiti si proclamano contro la violenza. E’ circolata la notizia che perfino Forza Italia voglia organizzare un suo convegno sul pensiero di Capitini. Immaginiamo il suo sorriso. Il richiamo di forze, diversamente schierate in Parlamento, all’intangibilità della vita umana si arresta però spesso alla tutela del feto e ora dell’embrione. La generale contrarietà all’intervento in Iraq è usata da partiti, ora all’opposizione, non per riconsiderare quanto si è fatto in Kossovo ed i suoi esiti, ma per esaltare quell’intervento. C’è stata però una ripresa di interesse ai temi della nonviolenza anche nel mondo politico. L’attenzione l’ha riportata a modo suo Marco Pannella. In altri casi siamo stati anche direttamente coinvolti. Si è svolto un incontro nazionale a Livorno dei Verdi, nell’ambito di un’iniziativa su vari temi intitolata I verdi ascoltano. Sulla nonviolenza hanno ascoltato principalmente noi. L’incontro è parso di un qualche interesse, ma non risultano sviluppi particolari. Più vicino, preparato e accompagnato da un forte, impegnato dibattito è l’interesse manifestato da Rifondazione comunista. Ha trovato in un seminario nazionale un momento molto significativo di non generico approfondimento. La diffusione alla base di quel partito, e anche oltre quel partito, del pensiero e della pratica ispirati alla nonviolenza è cosa che ci interessa molto. Fa sperare che anche altre forze seguano l’esempio e si interroghino in profondità sul rapporto fini / mezzi e sulla loro pratica politica.
Anche a ciò si darà spazio nel nostro prossimo Congresso a Gubbio nei giorni 30, 31 ottobre e 1 novembre. Sarà un Congresso di amici della nonviolenza, sostenitori e promotori di una società basata sul potere di tutti, dove il potere viene dal basso e non cala dall’alto, dove tutti, ci dice Capitini, è plurale di tu.

* Segretario nazionale del Movimento Nonviolento

Dobbiamo demistificare il conflitto tra Israele e Palestina
La sola, unica, speranza è ridare fiato alla politica

Nostra intervista a Jeff Halper, leader israeliano dell’ICAHD

A cura di Elena Buccoliero

Jeff Halper, antropologo israeliano, insegna presso l’Università “Ben Gurion” e, parallelamente, anima l’ICAHD, Israeli Committee Against House Demolition (Comitato Israeliano Contro la Demolizione delle Case). Lo incontriamo in una delle tappe del suo viaggio in Italia. Una successione di incontri e appuntamenti per far conoscere la realtà del conflitto israelopalestinese e soprattutto, come dice Jeff Halper, per “demistificarlo”.

“Non ci dobbiamo far prendere dall’emozione quando si parla di ebrei e arabi, di chi ha ragione e chi ha torto, e neanche di questioni riguardanti l’Olocausto o l’antisemitismo. Non ne abbiamo bisogno. Possiamo invece parlare di questo conflitto in termini di diritti umani universali, su cui tutti siamo d’accordo. La lotta al terrorismo da parte di Bush e Sharon è un modo per giustificare le continue negazioni dei diritti umani, per deviare l’attenzione dalle ingiustizie che stanno commettendo e mantenere intatta la loro immagine: stanno combattendo il terrorismo per noi.
I diritti umani, che si sono affermati universalmente negli ultimi 50’anni, possono essere il nostro standard per giudicare i comportamenti di tutti gli Stati. La loro violazione è qualcosa di specifico e deve essere condannata sia che avvenga in Cina, in Colombia o, appunto, in Israele”.
Eppure, dopo i fatti di Madrid, in Israele alcuni importanti esponenti governativi hanno detto che “finalmente in Europa capiranno che cosa stiamo vivendo”.
“Sicuramente ci sono elementi di terrorismo nel conflitto mediorientale, anche se non esclusivamente palestinese. Ma è importante comprendere che le grandi potenze stanno cercando di mascherare come risposta al terrorismo la loro politica imperialista. Il terrorismo in Israele e Palestina è un effetto dell’ingiustizia, non una causa. Però, estrapolato dal suo contesto, diventa senza senso in Israele come a Madrid. La differenza vera è che in Israele c’è Occupazione, invece Madrid non sta bombardando nessuna città all’interno della Spagna”.
Tu sostieni che, fin dal principio, il conflitto tra Israele e Palestina poteva essere evitato. Puoi dirci di più?
“Tutto ha inizio con l’idea dell’esclusività. Se gli ebrei fossero arrivati in questo paese 100 anni fa con la nascita dei nazionalismi europei e avessero detto: “Vogliamo tornare nel nostro paese”, sostenendo di sentirsi un popolo e quindi di volere una patria dove ricostruire la loro cultura, le loro istituzioni, per sfuggire alle persecuzioni e trovare finalmente rifugio… Insomma, se avessero fatto tutto questo, riconoscendo però che un altro popolo viveva già in questa terra – e c’erano persone che ragionavano in questi termini – la situazione sarebbe diversa adesso. Invece gli ebrei rientrati con il movimento sionista sostengono che questo è il loro paese, esclusivamente loro, e che non c’erano altri popoli in quelle terre quando loro sono arrivati”.
Eppure sembra difficile negare la presenza di milioni di persone…
“Per avere un conflitto bisogna che ci siano due parti in causa, mentre Israele ne riconosce soltanto una, la propria. Quindi, dal punto di vista israeliano, quando i palestinesi fanno resistenza, a che cosa stanno resistendo? Il fatto è che ci sono arabi nel paese. Forse non costituiscono un gruppo nazionale secondo la nostra concezione, non hanno diritti collettivi, ma sono 5 milioni di persone!”
Le leadership palestinese e israeliana sono all’altezza del compito?
“Al governo israeliano non interessa risolvere il problema con i palestinesi perché comunque ha l’appoggio dell’America. Non ha neppure bisogno dell’appoggio dell’Europa, delle Nazioni Unite, nemmeno del Presidente americano perché ha una grande rappresentanza nel Congresso degli Stati Uniti. Per questo è estremamente difficile fare pressione sul governo israeliano, e senza pressione non c’è speranza.
L’Autorità Palestinese è ovviamente molto debole. È sicuramente una questione di tempo, a mio avviso, prima che si dimetta. Quello che adesso sta passando è la legittimazione dell’Occupazione israeliana.
Israele vuole addossare sulla controparte tutta la responsabilità del conflitto. Solo se i palestinesi rifiuteranno di far parte di questo gioco, allora sì Israele si troverà in una situazione difficile”.
Quale prospettiva vedi per Israele e Palestina?
“ La situazione è agli sgoccioli. La risposta attuale del governo israeliano è la creazione di un mini stato, una specie di bantustan come ai tempi dell’apartheid, nella minor superficie possibile, dove concentrare il maggior numero di palestinesi. Questo è ciò che sta succedendo oggi. A mio avviso l’unica soluzione potrebbe essere un unico stato democratico inserito in una Unione Mediorientale che comprenda Israele, Palestina, Libano, Siria…Ma poi c’è il paradosso che Israele non può pensare di costituire un unico paese perché, se tutto fosse Israele e i palestinesi avessero la cittadinanza, Israele smetterebbe di essere un paese ebreo. La metà degli abitanti è palestinese. Se poi si costituisse il grande Israele e ai palestinesi non fosse data la cittadinanza, si avrebbe un regime di apartheid, difficile da accettare per il resto del mondo”.
Credi che sia ancora possibile avere speranza?
“Credo che possiamo risolvere questo conflitto, ma piuttosto che parlare di speranza, preferisco vedere la situazione in termini di lotta. È semplicemente una parte di una più grande lotta globale che comprende nuovi elementi di razzismo in Europa, la divisione tra nord e sud del mondo, la distribuzione delle risorse… Per Israele e Palestina non si tratta tanto di avere speranza, ma di capire di che cosa stiamo parlando e di preparare una strategia, un piano d’azione. Per questo sto cercando di demistificare il conflitto, far capire che non si tratta solo di terrorismo. Dobbiamo vedere tutto questo come un conflitto politico che ha una soluzione. Sharon sta cercando di rendere la situazione senza speranza. Con le uccisioni mirate a Gaza sta trasformando questo conflitto in una guerra tra due popoli. Un popolo di solito sovrasta l’altro, presto o tardi, e questo è il pericolo che stiamo correndo. La situazione che Bush ha in mente, lo scontro tra civiltà, è veramente una situazione senza speranza. Solo mantenendo questo conflitto nei termini della politica possiamo riuscire a risolverlo.

Cos’è l’ ICAHD

L’Israeli Committee Against House Demolitions (ICAHD, Comitato Israeliano Contro la Demolizione delle Case) è un gruppo di azione nonviolenta costituito per opporsi alla demolizione delle case palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, da parte degli israeliani. Comprende membri di molte organizzazioni israeliane per i diritti umani e lavora in stretta collaborazione con gruppi palestinesi, in particolare il Comitato Palestinese per la Difesa della Terra.
Dal 1967 ad oggi sono state distrutte qualcosa come 7000 case palestinesi in Ciosgiordania, Gaza e nella parte araba di Gerusalemme, oltre 2000 dal 1987, lasciando senza casa 30.000 persone, costrette a vivere nella paura e nell’angoscia per ciò che hanno subito.
Il lavoro dell’ICAHD e di altre organizzazioni ha avuto efficacia: nel 1999 “solo” un centinaio di case sono state demolite, rispetto alle 277 dell’anno precedente. Eppure ci sono ancora 2000 ordini di demolizione che pendono sulla Cisgiordania, altri 2000 per Gerusalemme Est. Nell’insieme minacciano circa seimila famiglie. Anche la popolazione beduina, minacciata e costretta in piccole “riserve”, è colpita.
Con le sue attività, l’ICAHD resiste ad ogni forma di Occupazione: le violazioni dei diritti umani; le espropriazioni di massa delle terre palestinesi a favore dei coloni israeliani; la riduzione del territorio in “cantoni”; le chiusure con i posti di blocco; le forme di guerra economica, come lo sradicamento di centinaia di migliaia di ulivi e alberi da frutto palestinesi, da parte del governo israeliano; lo sfruttamento delle risorse naturali palestinesi; il degrado crescente (poiché Israele sta trasferendo le sue industrie a più alto tasso di inquinamento in Cisgiordania); e naturalmente la demolizione delle case.
Tra le sue attività principali, organizza forme di resistenza all’esercito israeliano durante la demolizione delle case e ricostruisce case “illegali” insieme ai palestinesi residenti. Quest’ultimo in particolare è un efficace strumento di costruzione della pace, poiché fa lavorare insieme centinaia di israeliani e palestinesi per settimane e settimane di lavoro.
L’ICAHD ha stretti contatti con la stampa internazionale e con gruppi che all’estero sono impegnati per la pace e i diritti umani, per far conoscere quello che sta accadendo in Israele e Palestina. Ricordiamo in particolare un progetto di collegamento tra famiglie che mette in contatto le famiglie palestinesi che hanno ricevuto un ordine di demolizione della loro casa con famiglie israeliane o straniere.
Il lavoro dell’ICAHD si sostiene solo attraverso donazioni.

Per contatti:
The Israeli Committee Against House Demolitions (ICAHD)
Rehov Tiveria 37, Jerusalem, Israel
Tels: (+972-2) 624-8252; 050-651425
Fax: (02) 623-6210
e-mail: icahd@zahav.net.il

Come gli attivisti israeliani, palestinesi e internazionali
evitano la demolizione delle case con la resistenza nonviolenta

Due bulldozer dell’esercito israeliano, accompagnati da una quindicina di soldati, hanno demolito una abitazione nel villaggio di Kharbata Bani Harith, a nord-ovest di Ramallah. Dopo avere intimato alle otto persone residenti nell’abitazione di allontanarsi dalla casa entro 30 minuti, allo scadere del termine i soldati hanno avviato i lavori di demolizione.
L’intera famiglia ha cercato di mettere in salvo i beni più importanti. Al termine del lavoro delle ruspe è rimasto solo un cumulo di macerie di cemento e di armature contorte, tra le quali si poteva riconoscere quel che restava di qualche gioco da bambino. La motivazione addotta dall’esercito è che nella casa viveva la famiglia d’origine di un militante di Hamas, in prigione da tempo.
Dopo la demolizione soldati e bulldozer si sono diretti verso una casa in costruzione destinata alla moglie e ai figli dell’attivista. Ma quest’ultima non è stata demolita; infatti i soldati si sono trovati di fronte l’altra faccia d’Israele rappresentata da un gruppo di giovani attivisti israeliani i quali, sdraiatisi sul tetto dell’edificio in costruzione, hanno opposto resistenza passiva ai militari. A quel punto, davanti agli abitanti del villaggio che manifestavano la loro opposizione alla demolizione con slogan di protesta alternati ad applausi di sostegno agli attivisti sul tetto, e davanti ad un nutrito gruppo di reporter e fotografi, i responsabili della demolizione hanno deciso di abbandonare il campo e ritirarsi. Fondamentale è risultata la presenza degli attivisti israeliani, i soli a poter esporsi così tanto verso l’autorità israeliana senza incorrere con certezza nell’arresto, e nella espulsione per chi è cittadino straniero.
Non va dimenticato che il muro definito “di separazione” è attualmente in costruzione attorno a Gerusalemme, a nord ovest di Ramallah e a sud nella zona di Hebron e si discosta spesso e volentieri dalla “linea verde”, che delimita il territorio dello Stato di Israele, penetrando per diversi chilometri dentro ai territori della Cisgiordania ed isolando in tal modo la popolazione di molti villaggi dalle proprie terre.
A questi episodi hanno partecipato anche alcuni volontari dell’Operazione Colomba, progetto di condivisione della vita con le vittime delle guerre dell’Associazione Papa Giovanni XXIII. I volontari dell’Operazione Colomba continuano la loro quotidiana presenza a fianco delle vittime, palestinesi o israeliane che siano, coscienti che solo un intervento internazionale potrà aiutare l’avvio della stagione del dialogo per la convivenza in questa Terra. (e.b.)

Per contattare i volontari in Terra Santa: tel. 00972 67382452
Segreteria Operazione Colomba in Italia: tel. 0541 751498
e-mail: opcol@apg23.org

Selim, un padre umiliato

La famiglia di Selim Shawamreh è composta da 9 persone: papà, mamma e 7 bambini. Marito e moglie provengono da famiglie di rifugiati: prima del 1948 le loro famiglie vivevano nel deserto del Negev. Negli anni Ottanta sono andati a lavorare in Arabia Saudita e dopo aver raccolto un po’ di soldi sono tornati indietro per costruirsi una piccola casa. E, siccome il campo profughi da cui provenivano era troppo affollato, hanno comprato un piccolo pezzo di terra lì vicino, nei pressi di Gerusalemme.
Per quattro volte hanno chiesto il permesso di costruire la loro casa ma non l’ha mai ottenuto. Israele non dà permessi ai palestinesi per costruire sulla loro terra perché – questa è la ragione formale – tutta la Cisgiordania è classificata come terreno agricolo, quindi per legge non si può costruire. È chiaro come la pianificazione del territorio sia per Israele un sistema per fare politica.
L’unica soluzione possibile, per Selim come per molti altri, è stata quella di costruire abusivamente. Hanno vissuto in questa casa per 5 anni anche se fin dall’inizio c’era un ordine di demolizione dall’Amministrazione Civile israeliana, che in sostanza è il governo militare all’interno dei Territori Occupati. Gli unici civili che possono lavorarvi sono i coloni, che quindi si trovano in posizione di potere di fronte ai palestinesi.
Selim e i suoi stavano pranzando quando qualcuno ha bussato alla porta. Erano gli ufficiali dell’Amministrazione Civile. Il loro compito è consegnare gli ordini di demolizione delle case palestinesi e farli eseguire. Vestono abiti civili per dimostrare che le loro non sono operazioni militari ma di amministrazione civile, come in qualsiasi altro paese.
Selim sente bussare, apre la porta e vede questi due signori accompagnati da un gran numero di soldati. Gli dicono: “Questa è casa tua?” Selim risponde: “Sì, è casa mia”. I coloni ribattono: “No, questa ora è casa nostra. Hai un quarto d’ora esatto per portare fuori tutto quello che possiedi perché sarà demolita”.
I soldati circondano la casa.
Ovviamente Selim cerca di impedire la demolizione, chiede di vedere dei documenti, di capire, e immediatamente questo diventa resistenza, e finisce in un violento confronto con i soldati. Selim viene picchiato e tirato fuori di casa. Per far uscire la moglie e i figli vengono lanciati dei lacrimogeni.
Quando tutta la famiglia è uscita, gli Amministratori Civili buttano fuori tutto quello che trovano in casa, i mobili vengono presi e accatastati alla meno peggio. Poi arrivano i bulldozer e demoliscono tutto.
Una tragedia all’interno della tragedia: l’autista del bulldozer è palestinese. L’amministrazione civile israeliana incarica delle compagnie per effettuare le demolizioni. Gli operai, un giorno vengono mandati a costruire una strada, il giorno seguente a demolire una casa. In quella compagnia lavora un palestinese che conosce personalmente Selim. Lui stesso proviene da un villaggio che è stato demolito nel 1948. Ma questi sono piccoli dettagli…
La casa di Selim viene distrutta.
Selim non è un terrorista, non è mai stato accusato di nessun crimine, non è impegnato politicamente. È semplicemente un uomo che un giorno ha costruito una casa sulla terra che lui stesso ha comprato, e non stava interferendo in alcun modo con l’occupazione israeliana.
In casi come questi, l’ICAHD va e ricostruisce le case che sono state demolite. Israeliani, palestinesi e volontari internazionali si ritrovano insieme per ricostruire queste case. La casa di Selim è stata demolita quattro volte ed è stata ricostruita per la quinta volta circa un paio di mesi fa, perché non si può permettere che l’Occupazione abbia la meglio.
È difficile immaginare quello che succede dopo la demolizione di una casa. Selim dice che equivale alla demolizione della famiglia. Per un uomo è una terribile umiliazione, vuol dire che non è in grado di proteggere la sua famiglia, non può dare alla sua famiglia una casa.
Per una donna è una doppia tragedia perché ha perso tutto il suo mondo domestico. Mentre l’uomo lavora fuori casa e ha modo di confrontarsi più facilmente con quello che gli accade, per una donna che non lavora la casa è tutto il suo mondo. Dopo una demolizione, le donne restano senza punti di riferimento, si sentono disorientate. Quando le è successo per la prima volta, la moglie di Selim non ha parlato per un mese.
La seconda tragedia è che la famiglia deve andare a vivere presso altre famiglie, in questo caso con la madre di Selim. Risultano piccole case molto affollate. Ora la moglie di Selim vive nello spazio domestico di un’altra donna. Anche se è con i propri figli non può rivestire il suo ruolo, perché questa non è la sua casa.
Per i bambini tutto questo è molto traumatico. Ashraf, il figlio di Selim, al tempo della prima demolizione aveva 16 anni. Ha dovuto abbandonare la scuola per aiutare la famiglia a causa delle difficoltà economiche. Ancora oggi svolge lavori occasionali, stagionali, in Israele.
Una figlia di Selim durante una delle demolizioni è rimasta cieca per due ore. I dottori hanno detto che la sua mente si è chiusa, non riusciva a confrontarsi con quello che stava succedendo.
Quando la casa è stata demolita la famiglia è andata a vivere in un appartamento a nord di Gerusalemme, vicino a Ramallah. Quando Israele ha attaccato Ramallah, i jet, i carri armati israeliani e americani erano molto vicini alla casa. Sappiamo quanto fastidio può dare il volo di un aeroplano anche a due, tre miglia sopra la testa. Si può immaginare come può essere averlo 20 metri sopra il tetto della propria casa. I bambini erano terrorizzati, tremavano. Selim è andato dai suoi figli e ha detto: va tutto bene, non preoccupatevi, ci sono io, vi proteggo io. E Waffa, 12 anni, un’altra dei figli di Selim, ha risposto a suo padre: “Tu non puoi proteggerci. Abbiamo visto che cosa ci hanno fatto i soldati quando ci hanno demolito la casa. Tu non puoi fare niente”. (e.b.)

Europa latitante in Cecenia. La guerra nascosta di Putin
Una tragedia nascosta da un silenzio interessato

Nostra intervista a Olivier Dupuis, eurodeputato ed attivista radicale

A cura di Paolo Mozzo

Il segnale è debole. O forte, secondo le interpretazioni. I deputati dell’Unione Europea lo riconoscono: fu genocidio la deportazione dei ceceni, nel 1944, da parte di Stalin. Un gesto politico. Inedito, al punto di spingere Olivier Dupuis, parlamentare belga del gruppo radicale, eletto in Italia nella Lista Bonino, a interrompere uno sciopero della fame.

Nel nulla che circonda questa tragedia anche una presa di posizione serve. Ma da parte di chi cita sempre il diritto internazionale e il ruolo delle Nazioni Unite ci si aspetterebbe uno scatto, sul modello dell’impegno per Timor Est e il Kosovo. La Cecenia è una guerra nascosta, più che dimenticata. E un’Europa piuttosto vigliacca, ha paura di dire e dirsi che, come altri staterelli del Caucaso , quel Paese dovrebbe entrare nell’Unione, nel cui Dna c’è la convivenza delle piccole entità….
Ma tra il dire e il fare, accogliendo Grozny nel ‘gruppone’ (non si sconvolgerebbero gli equilibri), c’è di mezzo Mosca, un presidente di nome Vladimir Putin, la disperazione di un popolo, affari di euro e petrolio. E un pesante, inscalfito silenzio: il nemico peggiore.
Guerra dimenticata, quella in Cecenia?
Guerra nascosta, piuttosto. L’Occidente punta sulla “nuova Russia”. Un Paese, però, di incompleta democratizzazione che oggi sta andando decisamente fuoristrada.
Lo si vede anche nel modo di affrontare il nodo indipendentista nel Caucaso?
La Cecenia ha un valore “pedagogico” per 150 milioni di russi: la repressione è un segnale. Chi volesse sfidare l’incipiente autocrazia putiniana è avvertito. Accade già nei mass media, nella giustizia, nella società.
C’è la repressione russa. Ma anche gli attentati. È guerriglia, resistenza, terrorismo?
C’è una resistenza armata, partigiana, di gruppi leggeri e mobili, come per i partigiani europei della seconda guerra mondiale. E c’è un piccolo gruppo di fanatici….
Aiutati da chi?
I sostegni vengono da Paesi del Medio Oriente. Ma, secondo esperti ed analisti, anche dagli stessi servizi segreti russi: che li usano come “innesco”, per una strategia della tensione permanente.
Ma ci sono state stragi, centinaia di vittime…
Il conflitto si calcola abbia provocato 200 mila morti. Ma gli attentati, i più gravi, sono stati 3 o 4: ripeto, forse manipolati dai stessi servizi segreti di Mosca…
Compresa l’azione nel teatro Dubrovka?
Un mistero destinato a restare tale. I cadaveri degli assaltatori sono spariti, nessuno li ha visti. Ho presentato un’interrogazione, in proposito, ma senza avere risposta. Qual è la verità sui ceceni nella vicenda Dubrovka?
Appunto, qual è?
Un altro segnale di Putin: ecco ciò che accade a chi si mette di traverso. Vale per i ceceni e per chiunque.
Un messaggio autoritario…
Putin non ha sensibilità democratica e vuole una Russia forte. Ha tratto dalla Storia il fallimento economico sovietico e ora mira a sposare un’economia rampante a una gestione “vecchio stile” del potere, facendo leva anche sul mai sopito nazionalismo.
Eppure la Russia paga un prezzo alto di vite, di militari, per controllare la Cecenia…
Già, ma controllando l’informazione e inviando nella regione molti orfani o coscritti di lontani paesini siberiani si riesce a non far detonare il problema nell’opinione pubblica.
Che rapporto esiste tra i gruppi di resistenza armata ceceni e il terrorismo?
L’Islam di quella terra è sufista, alieno dagli estremismi. Ma da 10 anni i wahabiti dell’Arabia Saudita hanno preso a finanziare moschee, poi a fornire denaro per le armi a gruppi della resistenza. Formazioni che hanno assunto, grazie al “rapporto privilegiato” con i patròni mediorientali un peso mediatico e un impatto sproporzionato al loro numero. Il loro reale peso sociale, in una condizione di guerra, è oggi difficile da valutare.
Si è parlato di “terroristi ceceni” anche in Afghanistan, Iraq, Pakistan…
Nessuno però li ha mai mostrati, nessun nome o volto. Anche ciò è parte dell’opera accurata dei servizi segreti russi (l’Fsb in particolare, nuovo volto dell’ex Kgb, ndr), rilanciata dalle agenzie di Mosca e ripetuta acriticamente da quelle occidentali.
Non c’è via d’uscita, politica e nonviolenta, dall’impasse-tragedia della Cecenia?
C’è il piano Akhmadov (il ministro degli Esteri ceceno, ndr) che prevede un’amministrazione provvisoria dell’Onu, per un periodo di alcuni anni, seguita da un referendum che decida tra un’autonomia ampia, una sorta di “Alto Adige” caucasico, o l’indipendenza.
Chi sostiene tale ipotesi?
Per i ceceni è difficile ora anche mobilitarsi, raccogliere firme: anche se di recente da là ne sono arrivate 1500. È un record, viste le condizioni. Pesano assai di più delle 20 mila messe insieme in Occidente.
L’Europa?
Manda un segnale, nel riconoscere il genocidio del 1944.
Ma potrebbe fare di più?
Potrebbe appoggiare il piano. E spingere per un impegno come nel Kosovo e a Timor Est. Ma Germania, Austria e Italia hanno in Russia una fonte importante di approvvigionamento energetico e molti prestiti legano le capitali europee a Mosca. L’America non fa meglio: Bush ha avuto l’assenso di Putin per la sua guerra al terrore e si guarda bene dal contestare l’”antiterrorismo” del collega in Cecenia.
Spazi chiusi per l’Europa?
L’Unione soffre di una vigliaccheria tradizionale su questo argomento. È come se non osasse dire, nè confessare a sé stessa, che molti piccoli Paesi, la Cecenia come altri del Caucaso, non possono sperare in un sano federalismo in seno al gigante russo. Ma avrebbero un futuro in un’Europa che, per vocazione, accoglie realtà anche minime.
Con Mosca, nell’era Putin, il dialogo non è facilissimo…
Ma bisogna prendere atto dei fatti: la Cecenia è un segnale autoritario: diretto all’interno quanto all’esterno. Se l’Europa si facesse invece strumento attivo in questa crisi, aiutando la Russia a ritrovare la via della democrazia, farebbe soprattutto un piacere a sé stessa.

La cultura della fiducia e della reciprocità nelle economie senza denaro

Di Maurizio Pittau*

Le economie senza denaro sono esperienze in cui gli aderenti, su base volontaria, si scambiano beni e servizi senza l’intermediazione del denaro, secondo un rapporto di reciprocità. Generalmente il denaro istituzionale è sostituito con monete particolari o con il tempo. In questi sistemi di scambio i partecipanti possono offrire o chiedere servizi d’ogni tipo, in cambio di un accredito o di un addebito del proprio conto in un’unità di scambio valida solo all’interno del sistema, che ha una dimensione locale. Il fine ultimo è cercare il benessere sociale e individuale attraverso le relazioni interpersonali, piuttosto che con il consumo di beni. Ciò che vale non è più la consistenza del conto in banca posseduto, ma la capacità acquisita nelle proprie esperienze di lavoro, le attitudini perlopiù sconosciute o disconosciute, le abilità tecniche maturate o semplicemente la disponibilità di offrire a terzi il proprio tempo. Le economie senza denaro sono situazioni all’interno delle quali si tende all’incremento della reciprocità e della fiducia fra gli individui e rappresentano luoghi di riconoscimento sociale delle proprie capacità indipendentemente dalla collocazione definita dalla società salariale.
Non bisogna però commettere l’errore di pensare che le varie forme d’economie che fanno a meno del denaro siano un’alternativa alle economie di mercato, le economie senza denaro sono infatti complementari ai sistemi monetari tradizionali e non alternative. Non si tratta dell’abbandono dell’economia mercantile e del ritorno ad un’economia pre-moderna, ma di concepire l’attività economica non solo in una logica individualistica, ma anche di reciprocità al fine di favorire dinamiche di socializzazione. Per gli scambi effettuati in questo modo non esistono intermediazioni e sono rinsaldati i rapporti di buon vicinato.
I sistemi di scambio non monetario non nascono per raccogliere le vittime della competitività, ma per conciliare iniziativa e solidarietà. L’originalità di queste esperienze consiste anche nel fatto che esse non riducono il cittadino né ad un lavoratore, né ad un consumatore. Nelle società post-industriali in cui domina l’interconnessione planetaria non si riesce più a riconoscere il proprio vicino, i luoghi della socializzazione diminuiscono o perdono di senso, cresce l’isolamento degli individui. Il mercato nella sua evoluzione ha certamente premesso il raggiungimento d’importanti traguardi come alti livelli di sicurezza materiale e di libertà, oggi però non favorisce i legami sociali. I sistemi di scambio non monetari possono compensare questa carenza e questa è la loro caratteristica più importante e positiva.
I sistemi economici fondati su scambi non mediati da denaro non sono una novità, ma sono una delle esperienze più radicate nel patrimonio storico e culturale della civiltà umana. Prima ancora delle economie di baratto, nelle quali prevale pur sempre l’intento puramente commerciale, molto più significative ai fini di questa riflessione sono tutte le forme d’economia domestica, che hanno sostenuto ed ancora sostengono, in molte aree del pianeta, comunità locali più o meno estese.
Uno dei principi cari alla maggior parte delle esperienze d’economie non monetarie è quello della reciprocità, che mira a recuperare modalità di relazioni sociale dimenticate e a promuovere una rete di solidarietà concreta e responsabilizzante. In base a tale principio, chi dà non ottiene restituzione dal suo stesso beneficiario ma dal sistema (di volta in volta rappresentato da uno dei suoi membri) e pertanto chi riceve è chiamato a restituire ad un terzo assolutamente estraneo allo scambio originario, in un circolo di reciprocità indiretta. Uno degli elementi di frizione tra i vari modelli è la questione del giusto rapporto di scambio. Come stabilire l’esatta correlazione tra la potatura di una siepe ed un servizio di baby-sitting? Ogni sistema di scambio non monetario ha sviluppato un suo metodo creando una moneta complementare più o meno legata alla moneta formale attraverso la quale misurare gli scambi oppure utilizzando l’unità di tempo come indicatore. Gli scambi così pensati nascono e si consolidano in comunità dove normalmente domina il mercato, ma che con questi sistemi diventano laboratori in cui vivono esperienze concrete di solidarietà sociale, partendo dal proprio quartiere, villaggio o gruppo informale.
Nel 1990 c’erano meno di 100 esperienze di scambio non monetario, ma oggi si possono contare oltre 4.000 comunità che usano sistemi di scambio non monetari per risolvere una vasta gamma dei problemi che variano dalla cura degli anziani alla trasmissione di saperi. Queste esperienze riguardano piccoli gruppi di 50 persone in Australia, una città di 2,3 milioni di persone in Brasile o prefetture di 10 milioni di persone in Giappone. In Italia dalla metà degli anni novanta ha avuto grossa diffusione la Banca del Tempo. Aderendo alla Banca del Tempo si ottengono servizi, ed oggi anche oggetti, che permettono di soddisfare piccoli bisogni immediati ed al contempo concorrono a potenziare le reti di relazioni e la solidarietà sul territorio. Il tempo è l’unità di misura: il valore del servizio è determinata dal tempo impiegato nel trasferimento. Esiste un’esperienza, a Guspini in provincia di Cagliari, che ha coinvolto quasi l’intero paese nella Banca del Tempo con i suoi settecento associati; la reciprocità instaurata con il Comune promotore dell’iniziativa ha portato a una presa in carico degli spazi verdi abbandonati da parte dei partecipanti, in cambio della sede, del telefono, della possibilità di utilizzare il fax e la fotocopiatrice. Il risultato, evidente a tutto il paese, è stato un complessivo abbellimento dovuto al recupero delle aiuole spartitraffico o di altri spazi prima abbandonati all’incuria. In questo caso si è manifestato un fenomeno di cittadinanza attiva da parte d’aderenti di diverse età, sesso e condizione
Le economie senza denaro hanno un ruolo diverso nelle società moderne rispetto a quelle tradizionali, dove rappresentano spesso una forma di sopravvivenza. Varie forme di scambio non monetario nel Sud del mondo incidono positivamente sullo sviluppo di interi Paesi. Grazie ad esse molte persone riescono a sopravvivere e molte società si mantengono unite e possono conservare almeno in parte le loro culture.
Le economie senza denaro permettono di rafforzare la comunità e la sostenibilità sia a livello locale sia a livello globale. Le importanti trasformazioni in atto nel mondo richiedono una riflessione sul rapporto tra economia e società avendo presente che insieme al mercato possono convivere economie senza denaro, perché l’uomo è in primo luogo un essere di relazione e non un essere di produzione.

*Operatore della cooperazione internazionale, lavora come economista per organizzazioni non governative e agenzie delle Nazioni Unite. Ha recente pubblicato il libro “Economie senza denaro. I sistemi di scambio non monetario nelle economie di mercato”, EMI, Bologna, 2003.
www.utopie.it

Il denaro rende l’uomo indifeso, perciò propongo il mio consiglio: che si provi a vivere spogli di denaro. La gente danarosa continui pure a guadagnare le sue decine di milioni di rupie (s’intende solo onestamente) ma in modo da dedicarle al servizio di tutti, e questo è perfettamente legittimo.
Mohandas K. Gandhi

Il denaro, possedendo le caratteristiche di comprar tutto, di appropriarsi di tutto, di appropriarsi di tutti gli oggetti, è dunque l’oggetto in senso eminente. […] il denaro fa da mezzano tra il bisogno e l’oggetto, tra la vita e i mezzi di sussistenza dell’uomo. Ma ciò che media a me la mia vita, mi media pure l’esistenza degli altri uomini per me. […]. E se il denaro è il vincolo che mi unisce alla vita umana, che unisce a me la società, che mi collega con la natura e gli uomini, non è il denaro forse il vincolo di tutti i vincoli? Non può esso sciogliere o stringere ogni vincolo? E quindi non è forse anche il dissolvitore universale? Esso è tanto la vera moneta spicciola quanto il vero cemento, la forza galvano-chimica della società.
Karl Marx

Naturalmente nella vita ci sono tantissime cose più importanti del denaro, ma costano un mucchio di soldi!
Groucho Marx

Vivere senza denaro.
Cosa è il denaro? Cosa rappresenta? Cosa produce?
Training nonviolenti condotti da Maurizio Pittau

Tema: Il denaro. Cosa rappresenta nel mondo post industrializzato e nel Sud del mondo? E come sarebbe la vita dell’uomo se si potesse in alcune occasioni fare a meno del denaro? Analizzando i sistemi di scambio non monetari si sperimenterà che l’assenza del denaro comporta un aumento di fiducia, d’altruismo, di cooperazione e di reciprocità. Le importanti trasformazioni in atto nel mondo richiedono una riflessione sul rapporto tra economia e società avendo presente che insieme al mercato possono convivere economie senza denaro.
Obiettivi: Analizzare e comprendere i processi attraverso i quali il denaro da semplice strumento tecnico è divenuto la base stessa della nostra esistenza. Accrescere le potenzialità umane e migliorare la capacità di comunicare e di mettersi in contatto con gli altri. Facilitare l’analisi della fiducia, della cooperazione e dell’altruismo che il denaro ostacola. Capire il diverso valore del denaro tra mondo ricco e mondo povero. Conoscere le esperienze di economie senza denaro esistenti nel mondo. Progettare nuove forme di cooperazione internazionale e sviluppo locale.
Destinatari: Il training si rivolge a chi è interessato al ruolo del denaro, ai nuovi stili di vita, alla solidarietà internazionale e allo sviluppo locale. In particolare a ONG, Banche Etiche, Botteghe del commercio equo, Banche del Tempo, associazioni.
Informazioni: training@utopie.it

In memoria di Norberto Bobbio, amico e compagno di Aldo Capitini
Perplesso della nonviolenza, maestro della democrazia civile

Di Alberto L’Abate

Il sistema politico italiano sembra essere inflazionato di nonviolenza. Il partito radicale ha addirittura messo l’effige di Gandhi nel suo simbolo. Il segretario di Rifondazione Comunista, Bertinotti, parla come un convertito alla nonviolenza, il suo giornale, Liberazione, ha aperto un dibattito su questo tema che è andato avanti per vario tempo ed ha coinvolto anche altri giornali come il Manifesto, la Repubblica ed il Corriere della Sera e di cui ha pubblicato anche gli attii, e questo stesso Partito ha organizzato un seminario a Venezia per confrontarsi con alcuni esperti su questo temaii. Ed i politici di molti altri partiti continuano a sostenere l’importanza di questo comportamento ed ad esaltarlo.
Peccato che spesso a queste dichiarazioni di principio non seguano azioni coerenti con questa impostazione, per cui spesso la nonviolenza viene equiparata al riformismo, senza comprenderne le esigenze rivoluzionarie (di quella “rivoluzione permanente ed aperta” di cui parlava Aldo Capititiniiii); che si dimentica che un aspetto fondamentale della nonviolenza è il “progetto costruttivo”, per cui si continua a chiedere, da parte della sinistra, sia pur con notevoli differenze interne sui se ed i ma , il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq, senza proporre l’invio, al loro posto, di “Corpi Civili di Pace”, non armati e nonviolenti, per aiutare il processo di costruzione democratica e di sviluppo economico e sociale di questo paese, come hanno proposto i movimenti nonviolenti italiani; che si continua a confondere movimento per la pace e movimento nonviolento come se non ci fossero differenze tra di loro (eminentemente reattivo quello della pace, proattivo, in quanto molto impegnato nella prevenzione dei conflitti armati, quello nonviolento); che non si riesce a distinguere tra “non-violenza”, come semplice negazione della violenza, e cioè come non-violenza generica o tattica, e “nonviolenza specifica”, che non è una semplice negazione della violenza ma un tentativo di “superarla” con strumenti più validi di prevenzione, intervento e risoluzione dei conflitti, e sulla base della accettazione in un certo numero di regole o di principiiv.
Norberto Bobbio è l’intellettuale italiano che si è confrontato più seriamente con la nonviolenza, sia studiando a fondo le idee di Aldo Capititini, sia contribuendo in modo notevole ai due dibattiti su “Marxismo e Nonviolenza nella transizione al socialismo” organizzati, dopo la scomparsa di Capititini, dal Movimento Nonviolento, da lui stesso fondato. Magistrali sono i due interventi di Bobbio su Aldo Capitini considerato, come detto dallo stesso Bobbio, sia come suo maestro, sia come suo amico e compagno, e pubblicati nel libro “Maestri e compagni”v. Nel primo dei suoi saggi Bobbio mette in luce i collegamenti tra le idee capitiniane ed altre filosofie del suo tempo (esistenzialismo, idealismo, storicismo) e mostra l’originalità del pensiero di Capitini che pur influenzato da queste scuole le supera in una sua visione personale che oltrepassa sia il trascendentalismo, tipico dell’idealismo, che l’immanentismo delle altre due scuole. Scrive Bobbio “Il problema fondamentale di Capitini, dalla prima all’ultima pagina delle sue opere, fu quello di recuperare il senso escatologico della trascendenza, dopo aver accettato la filosofia dell’immanenza che non riconosce nessun altro mondo fuori di questo mondo della storia…Ma il trascendimento non è rinvio alla trascendenza, non è l’attesa della liberazione dal di fuori o dall’alto, bensì liberazione in atto attraverso l’apertura infinita a tutti, morti e viventi, cose e persone” (p.247). Giustamente Bobbio, in questo e nel saggio successivo, che era stato già pubblicato come introduzione al libro più politico di Capitini stampato dopo la sua morte “Il Potere di Tutti”vi, mette in luce che questo è stato possibile, per Capititni, grazie alla sua “aggiunta nonviolenta”, che si accompagna da una parte ad una critica sia verso la chiesa che verso lo stato. Scrive Bobbio: “La battaglia contro la chiesa e contro lo stato si confondono, si sovrappongono, confluicono spesso l’una nell’altra,….il nemico è sempre lo stesso: il potere che viene dall’alto….potere dall’alto importa obbedienza dal basso…. o per indottrinamento o per paura. E dall’obbedienza derivano il conformismo, la passività, l’inerzia spirituale, la rassegnazione al male, il senso dell’aridità della storia, della gratuità degli eventi, o peggio della crudeltà invincibile di tutto ciò che vive e si perpetua senza mutamento” (p.283). Per contrastare questo è necessaria la rivoluzione aperta della “nonviolenza” “In quanto rovesciamento di tutto quello che è avvenuto nella storia – scrive Bobbio – la nonviolenza è rivoluzione, e non potendo essere mai attuata sino in fondo è rivoluzione permanente. Una rivoluzione violenta non può durare perché destinata a generare altra violenza: ‘La violenza, anche rivoluzionaria, prepara la strada ai tiranni’ (Capitini, Le tecniche della nonviolenza, p.40vii). Solo la nonviolenza è destinata a cambiare la storia, anche se nessuno sappia quando e come. E la cambia perché tende ad eliminare definitivamente il mezzo principale ed ultimo cui gli uomini sono sempre ricorsi per edificare la loro storia di sangue” (pp.288-289). Scrive infatti Capitini, in una citazione riportata da Bobbio: “La fiducia nei mezzi violenti è ingannevole e distoglie dal cercare febbrilmente dei modi preventivi che scendano alla radice ultima” (Capitini, Elementi di una esperienza religiosa, p. 118viii). E scrive Bobbio, precisando le ragioni della scelta capitiniana: “La nonviolenza, infatti, è dire tu a ogni essere concreto, è un atto di amore che non si ferma a due, tre, dieci, mille esseri, è amore aperto, fa vivere l’Uno-tutti, è tramutazione della realtà, dove i forti schiacciano i deboli, i prepotenti i mansueti, è lotta contro se stessi, le proprie tendenze, i propri sogni di quiete, ha come guida instancabile la presenza di tutti, e il principio che ogni singolo essere è insostituibile; educa alla partecipazione omnicratica del potere. Attraverso la nonviolenza acquista la massima evidenza il nesso tra il momento religioso ed il momento politico-sociale dell’azione, perché il nonviolento tende allo stesso tempo al regno di Dio ed alla pace del mondo, all’unione di tutti gli esseri e al potere di tutti” (pp.287-288). E sempre parlando di Capitini Bobbio mette in dubbio che nel suo caso si possa parlare di pacifismo: “il fine della nonviolenza non è la pace, sia pur la pace universale, che è fine puramente negativo, ma la ‘liberazione’ (e la pace semmai come conseguenza). Di contro alla massima del politico realista: ‘Se vuoi la pace, prepara la guerra’, la massima del ‘persuaso’ non è quella del pacifista: ‘Se vuoi la pace, prepara la pace’, bensì: ‘Se vuoi la pace, prepara la liberazione’” (p.291). E questo richiamo alla persuasione ci permette di concludere qui la citazione dei due saggi di Bobbio su Capitini, richiamando la distinzione fatta da Bobbio stesso nella sua conclusione a questo saggio, di Capitini come di un ‘persuaso’ della nonviolenza e di lui stesso, invece, come di un ’perplesso’(p.294) .
Sarà questa sua perplessità che lo porterà, in seguito, a vedere la nonviolenza più come una speranza per un futuro desiderato, che come una scelta radicale da fare ora e subito. Scrive infatti Bobbio, a proposito della speranza: “Non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza attuale della teoria e della pratica della nonviolenza attiva. In un mondo in cui l’accresciuta potenza degli apparati statali sembra non lasciare di fronte ad un regime tirannico altra alternativa che quella dell’obbedienza passiva o del sacrificio, l’invenzione, l’applicazione e la verificazione di tecniche della nonviolenza possono aprire nuove vie alle lotte per la libertà….La nonviolenza attiva è una strada aperta verso l’avvenire, anche nei rapporti internazionali, : dove l’antica tecnica per la risoluzione delle controversie tra stati, la guerra, può condurre allo sterminio indiscriminato ed appare sempre più improduttiva, l’invenzione di nuove tecniche non cruente per piegare i superbi o per scoraggiare i temerari o per ridurre all’obbedienza i recalcitranti, appare come una delle forme più alte della saggezza e dell’intelligenza umane” (Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, ix). Ma il suo scetticismo lo porterà, nella prima guerra del golfo, ad accettare l’intervento militare degli alleati ed a non riconoscere le possibilità di risoluzione non armata del conflittox. E lo aveva portato, durante i convegni su “marxismo e nonviolenza” su citati, da una parte a riconoscere l’importanza della tesi di fondo di questi, in particolare, sulla possibile complementarietà tra questi due movimenti, dall’altra però anche a non accettare la tesi di una terza via, come rivoluzione nonviolenta, legata ad un terzo modello di società, tra la socialdemocrazia da una parte, ed il comunismo totalitario dall’altra, ritenendo, invece, che il modello di società nonviolenta, da costruire, dovrebbe rientrare all’interno del sistema democratico, e perciò all’interno delle socialdemocraziexi. Il tentativo di Giuliano Pontara, filosofo col quale Bobbio ha avuto intensi ed importanti scambi di opinione, di chiarire che la “nonviolenza specifica” non può rientrare del tutto all’interno del sistema democratico, almeno quello che conosciamo noi (potrebbe invece bene rientrare in un sistema di democrazia partecipata, dal “potere di tutti”, come quella auspicata e promossa da Capitini che, come dice lo stesso Bobbio, non rifiuta il parlamento ma lo integra con tanti altri centri di potere dal basso) perché ha tra le sue armi fondamentali la disobbedienza civile, che non rientra ancora tra i principi accettati dalle odierne democrazie, non avrà risposta da parte di Bobbio, che considererà questo come un quesito di fondo cui si debba ancora trovare rispostaxii.
Ma l’attrazione di Bobbio verso la nonviolenza ritornerà nella scelta da lui fatta, in un convegno a Milano al quale erano stati invitati vari filosofi chiedendo a loro di scegliere la loro virtù preferita, della “mitezza”, che considera il mite come colui che “lascia esser l’altro quello che è” ( N. Bobbio, Elogio della mitezza, p.16xiii); ma che però non è né remissivo, perché non rinuncia alla lotta né per debolezza, né per paura o rassegnazione, né bonario, perché troppo credulone, ed è il contrario dell’arroganza “intesa come opinione esagerata dei propri meriti, che giustifica la sopraffazione. Il mite non ha una grande opinione di sé, non già perché si disistima, ma perché è propenso a credere più alla miseria che alla grandezza dell’uomo, ed egli è uomo come tutti gli altri” (ibid. p. 15). Ma Bobbio confessa di aver scelto questa virtù non perché si senta tale: “Lo confesso candidamente. Mi piacerebbe avere la natura dell’uomo mite. Ma non è così. Sono troppo spesso in preda alle furie (dico ‘furie’ e non ’eroici furori’) per considerarmi un uomo mite. Amo le persone miti, perché sono quelle che rendono più abitabile questa ‘aiuola’ (Ibid. p. 20). “Avete capito: identifico il mite con il nonviolento, la mitezza con il rifiuto di esercitare la violenza contro chicchessia. Virtù non politica, dunque, la mitezza. O addirittura, nel mondo insanguinato di grandi (e piccoli) potenti, l’antitesi della politica” (ibid. p. 21). Ma Pontara non accetterà del tutto questa identificazione tra nonviolenza e non politica, annoverando la mitezza tra le caratteristiche della personalità nonviolenta, ma sostenendo invece che “una personalità nonviolenta non è fuori dalla lotta politica, ma è piuttosto una persona che vi partecipa in certi modi; non è una persona che rifugge dai conflitti, anzi, in certe occasioni ne può creare o portare in superficie di quelli che sono latenti; non rifiuta necessariamente né il potere né la forza, perché ritiene sia perfettamente sensibile distinguere tra potere e forza violenti e potere e forza nonviolenti; rifiuta la dicotomia vincitore-vinto, come rifiuta la dicotomia amico-nemico, e le rifiuta perché sono esse stesse produttrici di mentalità, atteggiamenti e azioni violente; preferisce parlare di oppositori, e delle parti coinvolte nel conflitto, e, come accennato, mira sempre ad impostare, sin dall’inizio, i conflitti in modo tale che non vi siano né vinti né vincitori. Gandhi era un mite, ma non era solo un mite; era anche un nonviolento” (G. Pontara, La personalità nonviolenta, pp-62-63xiv). A queste critiche e precisazioni di Pontata Bobbio risponderàxv (Però non ho tempo, ora, di procurarmi questa risposta, che, come al suo solito, sarà sicuramente molto precisa ed appropriata).
Vorrei solo concludere che anche nei suoi rapporti con la nonviolenza Bobbio è stato un grande maestro, non accettandola a priori, fideisticamente, ma sottoponendola ad una serrata critica, ma dopo averla bene studiata, cosa che non fanno spesso né tanti critici né tanti sostenitori, e dopo averne apprezzate le importanti qualità. Il suo atteggiamento, di pessimismo di fondo sulla natura umana, gli ha impedito di diventarne un “persuaso”, ma come dice lui stesso “cultura è equilibrio intellettuale, riflessione critica, senso di discernimento, aborrimento di ogni semplificazione, di ogni manicheismo, di ogni parzialità”. Anche nei riguardi della nonviolenza egli ha mantenuto fede alla sua definizione di intellettuale come di “colui che incarna o dovrebbe incarnare lo spirito critico…il seminatore di dubbi, l’eretico per vocazione”xvi. E questo è un ruolo fondamentale per crescere e far crescere anche la nonviolenza. Per questo dobbiamo ricordarlo con gratitudine annoverandolo, con Aldo Capitini, tra i grandi maestri del nostro paese e della “democrazia civile”.

ALTERNATIVE
A cura di Gianni Scotto
La catastrofe irachena e le elezioni Europee

Raramente l’uso della violenza da parte di una grande potenza militare ha condotto in maniera così rapida e chiara esattamente alla situazione che i fautori della guerra dicevano di voler evitare a tutti i costi: una proliferazione del terrorismo, la creazione di una zona franca nel quale radicali violenti di diverse connotazioni si combattono a vicenda e combattono con tutti i mezzi contro gli invasori.
Chi ci governa è stato bugiardo nel presentare un esercito di occupazione come “forza di pace”. Una bugia del quale il governo in carica non si è pentito, visto che a marzo ha presentato un decreto per il rifinanziamento di tutte le missioni militari all’estero, non distinguendo tra quelle di peacekeeping e quella irachena di occupazione militare.
L’attacco di Nassiriya costato la morte a 19 italiani (tra cui due civili) è stato facilitato enormemente dal fatto inaudito che questa confusione non è stata solo un’operazione di cosmesi politica: le truppe italiane in Irak operavano infatti con le stesse procedure dei contingenti presenti in Bosnia-Erzegovina o in Kosovo. La bugia era grave dal punto di vista politico, è diventata criminale dal momento in cui ha favorito l’attacco alla base di Nassiriya.
In altri paesi la strage di Nassiriya e le evidenti responsabilità dei decisori politici e dei comandi militari avrebbero portato a una catena di dimissioni. Così purtroppo non è stato, ci toccherà subire questa “classe dirigente” ancora per diverso tempo, e possiamo solo augurarci che la situazione internazionale non peggiori ulteriormente. Le bombe di Madrid, dopo gli attacchi di Istanbul, vengono a dirci che gli attacchi terroristi possono colpire in ogni momento tutta Europa. Ed è facile prevedere che la cattura di ostaggi italiani e l’uccisione di uno di essi non sarà l’ultimo anello di questa catena di violenza.

La catastrofe irachena potrebbe avere almeno un risvolto positivo nel prossimo futuro: la delegittimazione della guerra come strumento per affrontare i problemi internazionali. Per questo è importante che oggi gli amici della nonviolenza approfondiscano il tema delle alternative costruttive agli eserciti e agli interventi armati.
Rafforza l’idea della necessità di risposte non militari alle minacce contemporanee una fonte insospettabile: qualche settimana fa il Pentagono ha pubblicato un rapporto nel quale si afferma che il riscaldamento globale va considerato una grave minaccia che pende sul futuro degli Stati Uniti (e del pianeta nel suo complesso). Ma se le minacce più gravi sono di tipo non militare, è evidente che la risposta non può essere data dalle armi e dagli eserciti.
Nel campo della politica ufficiale, fa ben sperare il fatto che in Spagna il governo Aznar, sostenitore della guerra in Irak, sia stato sconfitto alle recenti elezioni. Anche negli Stati Uniti lo sfidante democratico Kerry ha una posizione assai critica sulla guerra condotta dall’amministrazione Bush. Il voto alle elezioni europee di giugno sarà anche un voto a favore o contro la nuova visione del mondo basata sulla guerra preventiva, propagandata dall’odierno governo statunitense.

Occorre sviluppare strumenti alternativi di prevenzione dei conflitti armati, gestione delle crisi, mediazione e ricostruzione nei paesi sconvolti dalla guerra. Finora l’impegno degli Stati membri dell’Unione europea per una diversa politica della sicurezza e della prevenzione dei conflitti armati ha lasciato alquanto a desiderare. Le proposte per rendere più incisiva l’azione europea nel campo degli strumenti civili di gestione e trasformazione dei conflitti non mancano. L’EPLO, l’organismo che rappresenta a Bruxelles diverse organizzazioni dedicate alla trasformazione costruttiva dei conflitti, ha proposto la creazione di una Agenzia europea per il peacebuilding, parallela alla costituenda Agenzia europea per la difesa. La proposta ha suscitato molto interesse all’interno della società civile europea, ma non sembra che attualmente gli stati e gli organi dell’Unione intendano procedere spediti per questa strada.

Le elezioni europee sono alle porte: sarebbe bello vedere di nuovo moltiplicarsi sui balconi le bandiere arcobaleno. Questa volta non si tratterebbe più di una risposta spontanea ad una drammatica emergenza, ma di dare un segnale visibile ai “professionisti della politica”: il popolo della pace c’è ed è attento alle vostre scelte. Sarà importante sapere cosa pensano i candidati al Parlamento europeo delle principali questioni che l’Unione ha di fronte nel campo degli armamenti e della trasformazione nonviolenta dei conflitti.

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Il Ministro Tremonti e la finanza etica

La legge che ha favorito il rientro dei capitali dall’estero, altrimenti detta “scudo fiscale”, varata in questa legislatura dal ministro delle Finanze Tremonti, verrà probabilmente ricordata come la legge più lontana dai principi della finanza etica mai partorita dal mondo politico italiano.
Nata nell’inverno 2001, la legge prevedeva la possibilità, per chi negli anni passati aveva nascosto all’estero somme di danaro di qualsiasi provenienza, di pagare una misera sopratassa del 2,5% per riportare tali capitali in Italia, protetti in questo modo da qualsiasi indagine della Guardia di Finanza e della Magistratura. Una pacchia per chi, allo scopo di evadere semplicemente le tasse o peggio ancora nascondere agli inquirenti scomodi capitali derivanti da traffici illeciti, aveva accumulato fortune nei paradisi fiscali al di là degli oceani o più agevolmente al di là delle Alpi.
Quanti italiani avevano intrapreso la strada della fuga, di fronte ad un fisco considerato esoso, oppure spaventati dall’imminente fallimento dell’azienda Italia? Moltissimi, a giudicare dalle cifre: in soli sei mesi la legge ha portato alla luce del sole capitali detenuti illegalmente per un totale di 54,6 miliardi di euro: di questi, 33,2 miliardi sono stati materialmente trasferiti in Italia, mentre 21,4 sono stati regolarizzati sul posto (immobili, opere d’arte, partecipazioni societarie non dichiarate).
Nell’operazione la Svizzera, tristemente famosa per il suo segreto bancario, ha fatto la parte del leone, con circa il 60% dei capitali che hanno potuto godere dello “scudo” dell’impunità; ma secondo stime attendibili questo piccolo tesoro rappresenta solamente il 10% dei capitali italiani gestiti in Svizzera e ignorati dal nostro Fisco.
Il fenomeno ha avuto una così vasta eco nel paese elvetico che alcune banche, pur di non perdere la gestione dei patrimoni dei facoltosi italiani miracolati dalla legge, hanno deciso di aprire filiali in Italia, situandole nei pressi delle residenze di lorsignori: Sondrio, Lecco, Milano. In questo modo, circa la metà dei quasi 20 miliardi di euro effettivamente rimpatriati è approdata a filiali italiane di istituti di credito elvetici.
Banca Etica è stata l’unica banca italiana a rifiutarsi di applicare questa legge iniqua che premia tra gli altri furbi affaristi, trafficanti di droga e mafiosi vari, mentre lascia ai risparmiatori onesti l’amaro in bocca di aver fatto ancora una volta la parte degli ingenui, in triste compagnia di chi non ha potuto, successivamente, beneficiare del condono fiscale e di quello edilizio partoriti sempre dalla fervida mente del nostro ministro. Agli altri istituti di credito invece non è parso vero di poter gestire una tale valanga di denaro che fino a quel momento era dominio indiscusso degli gnomi della finanza mondiale.
Tremonti ha invece potuto leccarsi i baffi di fronte ad una entrata extra di 1,4 miliardi di euro, vitale per lo sgangherato bilancio statale, e felice come un bambino ha replicato il provvedimento nell’anno successivo, stavolta per beneficiare le aziende colpevoli dello stesso illecito. Altri 8 miliardi di euro sono così comparsi per incanto da fumosi paradisi fiscali, pronti per essere perdonati come si fa con chi, persa la retta via, si ravvede alla vista del divino.
Ma probabilmente neanche l’intuito da stimato commercialista è riuscito a valutare due effetti distorcenti derivanti dalla applicazione della legge. Il primo si è verificato prontamente nei mesi successivi al rientro dei capitali prima menzionati: buona parte di essi, dopo essere passata nel lavacro dello scudo, diventando così più pulita del bianco, ha allegramente ripreso la strada dell’estero, per essere impiegata in chissà quali altre attività. In un anno, il 15% dei denari provenienti dalla Svizzera erano già tornati tra le valli più impenetrabili d’Europa, lasciando a bocca asciutta chi sperava nell’utilizzo di tali risorse per far ripartire l’economia nazionale.
Il secondo fenomeno è venuto alla luce nei mesi scorsi: aiutati da valenti promotori finanziari, diversi risparmiatori italiani sconosciuti al nostro Fisco hanno portato astutamente i loro capitali in Svizzera, facendoli ritornare subito dopo in Italia coperti dall’ormai famoso “scudo”, ben felici di pagare la tassa del 2,5% pur di pulire coscienza e quattrini. Davvero un altro bel miracolo italiano, per chi ancora crede nei miracoli dell’ “Unto” del Signore.

EDUCAZIONE
A cura di Angela Dogliotti Marasso
Spunti per una pedagogia nonviolenta
Esperienze concrete in classi elementari

Le esperienze qui raccontate fanno parte del materiale nato dai percorsi di educazione alla pace fatti nelle scuole elementari di Vecchiano e Migliarino, in provincia di Pisa, tra il 1999 e il 2003.

Pace è un concetto che richiama bontà, armonia, eliminazione del conflitto. Concetto da cui nasce l’equivoco che l’educazione alla pace serva a diventare più buoni, più obbedienti, più disciplinati. Questo equivoco, che è ancora molto diffuso, nasce da una idealizzazione della realtà. La realtà è conflittuale. Il conflitto è lo spazio in cui le diversità si scontrano e si confrontano. Lungi dal dover essere eliminato, il conflitto è una opportunità per apprendere nuove modalità di convivenza. In questa ottica l’educazione alla pace diventa ‘alfabetizzazione al conflitto’ (1) e la nonviolenza offre strumenti per operare una scelta pedagogica profondamente rinnovatrice.
Propongo sempre momenti di silenzio alla classe e, dopo l’imbarazzo iniziale, la proposta è accolta con piacere. Insieme al silenzio, propongo semplici esercizi di rilassamento e di consapevolezza sul respiro (2). Nelle attività, che comprendono visualizzazioni, disegno, scrittura collettiva e drammatizzazione, do molto spazio al gioco, in quanto momento essenziale sia per la socializzazione che per lo strutturarsi delle relazioni. Ma ciò che faccio essenzialmente è pormi in ascolto, e non esito a interrompere l’attività che stiamo facendo per raccogliere gli spunti che nascono durante il lavoro.
Ascoltare è innanzitutto dare spazio al disagio, al bisogno di riconoscimento –quante volte frustrato -, alla rabbia, alla tenerezza, insomma alle emozioni. Un lavoro delicato, che richiede sensibilità, disponibilità a mettersi in gioco, pazienza soprattutto, perché l’ascolto non finisce mai. Ciò che è incoraggiante è sapere che un vero ascolto è sempre fruttuoso, e non solo per il gruppo-classe oltre che per i bambini e le bambine singolarmente, lo è anche per chi è nella posizione di educatore, perché si resta contagiati dalle risorse creative di cui i piccoli , i giovani sono capaci.

Tra i tanti episodi di cui ho fatto esperienza in questi anni, ne ho scelti alcuni che mi sembrano significativi per chiarire cosa intendo per ascolto.

Le montagne verdi
Sono in una terza. Chiedo ai bambini di chiudere gli occhi, di portare l’attenzione al respiro e di visualizzare un colore. Finito il rilassamento, chiedo quale colore è stato visualizzato. La maggior parte dei bambini ha visualizzato il verde. Chiedo di collegare il colore a un’immagine. M. un bambino timidissimo, molto sensibile, dice che ha visualizzato montagne. L. un bambino sicuro di sé, lo rimbecca, dicendo che le montagne sono marroni. M. non reagisce, anche se è evidente che è rimasto male. Vengo in suo aiuto. Faccio notare che le montagne possono essere di tanti colori –bianche, se c’è la neve, nere-rossicce se c’è stato un incendio, verdi se c’è vegetazione – e aggiungo che le montagne sono marroni sulle cartine geografiche. L. a malincuore, ammette che è vero. Gli costa riconoscere le ragioni del compagno, rispetto al quale si sente intellettualmente superiore. M. si sente sollevato e rincuorato. E’ stato sostenuto e riconosciuto. Il riconoscimento dato a M., oltre che a rafforzare lui – la crescita in autostima è essenziale allo svilupparsi di relazioni autenticamente non violente – può servire all’intera classe, che viene incoraggiata a rispettare le diversità di opinioni e a uscire dagli stereotipi.

Di che colore è la pace?
Sono in una quarta. Chiedo “di che colore è la pace?” La maggior parte dei bambini risponde “bianca”, risposta che rimanda al concetto di pace come neutralità, dissoluzione dei contrasti. A. un bambino spesso assente, poco partecipe, da’ la sua risposta “la pace è di tutti i colori”. “Bella risposta” dico e, per la prima volta lo vedo meno sonnacchioso, quasi contento, la cosa non passa inosservata. P., che ha capito benissimo la domanda, chiede “ma che domanda avevi fatto”? Dietro la sua domanda colgo lo stupore per il successo di A. e insieme un po’ di invidia per lui. Dietro la sua domanda ‘asettica’ ci sono emozioni che non trovano le parole per essere espresse. Raccolgo la domanda, che offre un buono spunto per lavorare sull’invidia, sul riconoscimento, sulla frustrazione. E’ importante che P. riconosca la propria invidia e possa trasformarla in un sentimento di riconoscimento per A., senza per questo sentirsi sminuito.. processo che non solo rafforza A., ma libera P. dall’atteggiamento di competitività che alimenta l’invidia. E qui credo che ci sarebbe da capire meglio quanto l’invidia sia un sentimento che crea competizione e quanto invece non sia una cultura fondata sulla competizione che induce l’invidia.

La chiave dell’amore
Sono in una terza. Iniziamo in cerchio, dicendo come ci sentiamo. M., uno dei tre bambini nuovi nella classe e, come gli altri due, ancora non ben inserito, dice “voglio essere aperto”. Colgo la palla al balzo e dico “bene, vediamo cosa possiamo fare”. Lo prendo per mano e, immediatamente, uno dopo l’altro, anche gli altri due bambini dicono “anch’io, anch’io”. Anche loro vogliono essere “aperti”. Qualcosa si sta muovendo e mi lascio guidare da loro e dalla classe. I due bambini si uniscono spontaneamente a me e a M. e così iniziamo a formare un cerchio più piccolo all’interno del cerchio più grande. Dico “ e ora come facciamo ad aprirci?” M. chiama un compagno, poi un altro e poi un altro ancora e il cerchio piccolo cresce. Le bambine protestano perché vengono chiamati solo i maschi. I bambini, senza volerlo, hanno ricreato un gioco antico, semplice e insieme complesso “oh che bel castello”, che era fonte di gioia e di frustrazione – chi veniva chiamato per ultimo non era proprio felice. I bambini hanno ormai preso le redini del gioco e io esco dal cerchio – che ora si è chiuso – pur continuando a sostenerli. M. fa ancora una richiesta “come faccio ad aprirmi?” Davvero coraggioso! Dico “proviamo a chiedere aiuto”, senza avere nessuna idea su come fare. So che i bambini troveranno la soluzione. S., che è nel cerchio esterno, propone “con la chiave dell’amore”. Quale miglior aiuto di questo! Intanto i bambini nel cerchio interno, senza che io dica niente, si chiudono a riccio, si accovacciano stringendosi l’uno all’altro, con le teste vicine. Ora ci vuole “la chiave”. Prendo un pennarello e dico “questa è la chiave, proviamo ad aprire”,lo do a M. e lui, senza esitare va ad “aprire” uno dei compagni. Il gioco funziona e funziona anche perché si sentono loro i protagonisti. In fondo il gioco sono stati loro a inventarlo. Qualcuno dice “bisogna aprire il cuore”. Si è creata un’atmosfera di grande empatia. Il pennarello-chiave passa di mano in mano, i bambini fanno a gara per poter usare “la chiave dell’amore”. Ogni bambino che viene “aperto” si alza dal cerchio, chi stiracchiandosi, con una mimica molto efficace, chi più imbarazzato. Non è così facile aprirsi all’amore. Il riccio, poco a poco si apre e, quando l’ultimo bambino è stato “aperto”, formiamo un unico cerchio. M. ci sorprende ancora dicendo “stavo meglio chiuso, stavo più caldo” e ci offre lo spunto per riflettere sul bisogno di proteggersi. La paura di amare e di essere amati, insieme al bisogno di calore e al desiderio di aprirsi sono stati messi in scena con la spontaneità di cui i bambini sono capaci. Incoraggiarli nell’esprimersi, sostenerli quando si esprimono è il compito che spetta a noi adulti. E non dobbiamo temere di commuoverci ogni volta che sono loro a insegnarci qualcosa.

Credo proprio che il valore educativo di questi episodi stia nel fatto che i bambini li hanno vissuti in prima persona, coinvolgendosi direttamente. Una cosa è parlare della ricchezza delle differenze, della giustizia, dell’accoglienza, altra cosa è farne esperienza concreta.. l’esperienza è trasformativi e sedimenta cambiamenti molto più di tante parole, perché l’esperienza va a toccare la persona nella sua interezza, che è fatta di ragione e sentimenti, di mente e cuore.
L’ossessività del programma da svolgere, l’assillo degli obiettivi strettamente scolastici, impediscono spesso, anche agli /alle insegnanti più motivati/e, di aprirsi alla sperimentazione di una nuova modalità pedagogica, nella quale i bambini e le bambine siano visti come la novità che può portare mutamenti. Bisogna avere il coraggio di sperimentare relazioni educative nuove e la scelta pedagogica nonviolenta, ponendosi come l’alternativa tra un’educazione autoritaria che nega il conflitto e un’educazione permissiva che lo rimuove, offre gli strumenti per liberare le energie soffocate sia degli educati che degli educatori, in un processo in cui si dia spazio alla creatività. Mi piace concludere con le parole di Pat Patfoort : “Un modo elementare di incoraggiare attivamente la creatività è quello di aumentare la nostra forza nel fare le cose che sentiamo che è bene fare, anche se sono ‘diverse’. Una affermazione positiva della creatività degli altri può essere una forma di sostegno a questi” (3).

Gabriella Favati

Note
1.Questa ridefinizione di educazione alla pace è di Daniele Novara. Nei suoi scritti ho trovato alimento e strumenti per la mia ‘rigenerazione formativa’. Per alcune riflessioni sulla sua prospettiva pedagogica si può vedere Azione nonviolenta, gennaio-febbraio 1997.
2.Ho trovato molto utile, nella mia pratica, l’insegnamento di Thich Nhat Hanh, in particolare Essere pace, Il miracolo della presenza mentale, Discorsi ai bambini, pubblicati da Ubaldini.
3.Pat Patfoort, Costruire la nonviolenza, Bari, La meridiana, 1995 (2 ed.), p.67.

L’AZIONE
A cura di Luca Giusti
Formazione alla nonviolenza per la Guardia di Finanza

Una buona notizia da Palermo. A volte la “teoria” (semplici dialoghi intorno alla nonviolenza) “forma” l’altro mondo possibile nel modo concreto ed immediato che solitamente è associato alle azioni “dirette” nonviolente. Il mondo migliore è già bell’e pronto, desideroso di uscire allo scoperto, magari proprio da dietro la visiera scura di un assetto da guerriglia.

Sulla base del disegno di legge 882/2001 e di tutte le informazioni che l’amico Peppe Sini mi aveva gentilmente fornito, e in quanto docente di un modulo istituzionale (laboratorio di 3 crediti) di “Teoria e pratica della nonviolenza” presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo, alla fine dell’anno scorso ho presentato al Questore della mia città un progetto di formazione alla nonviolenza per forze dell’ordine, su cui attendo ancora risposta. Ma intanto, pubblicata sulle pagine locali de la Repubblica la notizia di quel progetto, mi erano pervenute immediatamente di seguito richieste, da parte di singoli operatori della Guardia di Finanza, di preparare un analogo corso di formazione per loro. Così ho presentato il mio programma di formazione al Comando interregionale Sicilia della Guardia di Finanza e poche settimane dopo mi sono visto arrivare i primi finanzieri desiderosi di iscriversi al corso (24 ore, divise in 8 incontri), specifico per loro, sulla Gestione creativa delle situazioni di tensione: fondamenti e tecniche della nonviolenza.
Il corso si è svolto dal 15 marzo al 7 aprile presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo. Si erano iscritti 35 operatori, alcuni hanno poi gentilmente avvertito subito di non potere frequentare per motivi di servizio (indagini in corso che li obbligavano a spostamenti ecc.), sicché al primo incontro se ne sono presentati 25, ed hanno poi continuato il corso in 21.
I partecipanti, di vario grado (da finanziere semplice ad ufficiale), appartenevano ai settori più disparati, da quello amministrativo a quello dei Baschi Verdi, ma erano tutti persone estremamente interessate, benché in parte inizialmente scettiche, a possibili alternative all’uso della violenza in casi di tensione (risse, cortei, stadio, contrasti verbali con i cittadini, ma anche situazioni di tensione tra colleghi).
Il corso, ritagliando un percorso nonviolento intrecciante sociologia, psicologia, linguistica e teoria della comunicazione, ha toccato argomenti prima generali (diverse teorie del conflitto e specificità di quella nonviolenta) e poi sempre più particolari. A questo secondo livello, dopo avere esposto ed analizzato i principi che regolano l’escalation e la deescalation, ho presentato i diversi stili di approccio al conflitto, i fondamenti del pensiero nonviolento, l’arte del negoziato e della mediazione, le regole di trasformazione nonviolenta, le modalità comunicative verbali e non verbali e le questioni relative alla diversità di genere, la gestione delle emozioni e le fasi dell’ascolto attivo; ho inoltre insistito molto sull’aspetto creativo e non dicotomico della nonviolenza e sui modi in cui si possono eliminare quei pregiudizi e stereotipi, innanzitutto quelli propri, che contribuiscono spesso a far sentire oppositivo il rapporto tra forze dell’ordine e cittadini. Mi pare che la dimensione dialogica e maieutica in cui il corso si è svolto abbia permesso una reale espressione di tutti: in tal modo, l’articolazione degli incontri è stata scandita all’inizio anche da obiezioni o perplessità dei partecipanti (“questo è impossibile!”), ma poi sempre più da curiosità e domande desiderose di comprendere o di ascoltare proposte di ‘soluzioni’ diverse da quelle violente che in determinate occasioni loro stessi si erano sentiti costretti a prendere -così abbiamo svolto tutti insieme anche un vero e proprio “studio di casi”-, e di tanto in tanto anche da loro racconti di esperienze confortanti la validità di ciò che andavo dicendo. Il clima, da formale e in qualche modo guardingo, si è fatto via via sempre più bello e cooperativo, fino al raggiungimento di una fiducia piena ed affettuosa (pensate che alla fine del corso mi hanno perfino regalato una targa con il simbolo della Guardia di Finanza) e alla persuasione dell’efficacia pratica della nonviolenza.
Posso dire con pressoché totale certezza, anche per l’esplicita valutazione fatta per iscritto dai singoli partecipanti alla fine del corso, che si è raggiunta una piena soddisfazione di tutti. Per parte mia, è stata un’esperienza bellissima, ricca sia sul piano umano sia su quello della conoscenza. Nei corsisti è emersa una sincera esigenza di ulteriori approfondimenti e una richiesta, a me, di proporre a tutti i corpi delle forze dell’ordine analoghe iniziative di formazione: qualcuno è arrivato a dire che “Dovrebbe essere un corso obbligatorio per chiunque si arruoli”.
Andrea Cozzo

LILLIPUT
A cura di Massimiliano Pilati
Una campagna lillipuziana smuove Banca Intesa

Banca Intesa ha dichiarato lo scorso 19 marzo il proprio impegno, con effetto immediato, a non fornire più finanziamenti al commercio delle armi, tranne alcune precise eccezioni. In questi ultimi casi, qualunque ulteriore finanziamento nel settore sarà inoltre preso direttamente dall’Amministratore Delegato ed i dettagli dell’operazione saranno pubblicati sul sito internet dell’istituto.
Sicuramente un risultato importante e positivo, ed un grande passo in avanti sulla strada di una maggiore responsabilità del più grande istituto di credito in Italia, sperando che una tale decisione dia il buon esempio all’intero settore bancario italiano.
Allo stesso tempo questo è solo un primo passo nella giusta direzione. Oltre alla necessità di continuare a monitorare con attenzione i futuri comportamenti della banca in materia di armi, sono molte altre le decisioni che Banca Intesa dovrebbe prendere. Ad esempio sarebbe essenziale che la banca iniziasse ad effettuare una valutazione delle conseguenze sociali ed ambientali di tutti i finanziamenti da realizzare e si attivasse per minimizzare questi impatti promuovendo attivamente il principio precauzionale in materia ambientale ed il rispetto dei diritti umani e dei lavoratori. In secondo luogo la banca dovrebbe attivarsi per contrastare il fenomeno del riciclaggio, della criminalità e della speculazione finanziaria, prima di tutto dismettendo qualunque partecipazione sua e delle proprie controllate nei cosiddetti paradisi fiscali o in paesi considerati tali. Ricordiamo ad esempio che a tutt’oggi la banca possiede tra le altre, la Intesa Bank Overseas Ltd. con sede nelle Isole Cayman.
Anche circoscrivendo il discorso unicamente alla responsabilità in materia di guerre e conflitti, questi non sono però legati unicamente alla vendita di armi. Dopo avere finanziato oleodotti e gasdotti dalle conseguenze pesantissime sul piano sociale ed ambientale, in Africa come nella Foresta Amazzonica, solo due mesi fa Banca Intesa ha accordato un finanziamento di 67 milioni di Euro al controverso oleodotto Baku-Tbilisi-Cehyan (BTC), che con i suoi 1.760 km di tubi dovrebbe portare il petrolio del Caspio al Mediterraneo, attraverso Azerbaigian, Georgia e Turchia. Al di là delle possibili conseguenze sul piano sociale ed ambientale, quali inadeguate compensazioni per le terre sottratte e rischi di sversamenti di petrolio, questo oleodotto attraverserà una regione già martoriata da ben sette conflitti armati nei soli anni ’90, molti dei quali tutt’altro che risolti. Ad esempio l’oleodotto passa a poche decine di chilometri dalla Abkhazia, dal Nagorno-Karabhak ed attraversa zone nel nord-est della Turchia dove le minoranze curde subiscono quotidiane e pesanti violazioni dei loro più elementari diritti umani.
La stessa Turchia ha affidato la sicurezza dell’oleodotto proprio alla Gendarmeria, un corpo statale di sicurezza che si è macchiato di tali violazioni dei diritti umani delle minoranze curde da portare il Consiglio di Europa a richiederne sin dal luglio 2002 lo scioglimento. La Georgia, paese che appare sull’orlo di una guerra civile e l’Azerbaigian, considerato una delle nazioni con il maggiore livello di corruzione al mondo, hanno invece chiesto l’intervento delle truppe della Nato e statunitensi per militarizzare il percorso dell’oleodotto. A questo va aggiunto che a giudizio di numerosi osservatori internazionali l’instaurarsi di nuovi governi nei due paesi ha ricevuto pesanti interferenze esterne, nonché ha generato diffuse tensioni nell’area.
Non è purtroppo difficile immaginare, in queste condizioni, che ricordano molto qualcosa di già visto in altre parti del mondo, come la prossima guerra per il controllo del petrolio e di aree strategiche possa scoppiare proprio nel Caspio ed in diretta conseguenza della costruzione di opere faraoniche quali l’oleodotto BTC, che Banca Intesa ha deciso di finanziare. In questa sciagurata evenienza, riterremmo le banche finanziatrici, in Italia appunto Banca Intesa e San Paolo IMI, corresponsabili dei conflitti.
Per questo è necessario, dopo il primo importante passo in avanti compiuto da Banca Intesa, rilanciare i nostri obiettivi. La recente decisione di uscire dal commercio delle armi testimonia anche l’importanza delle iniziative e della partecipazione della società civile, come avevano già dimostrato i risultati raggiunti in questi anni dalla campagna “banche armate”. La pressione, la denuncia pubblica e le campagne di informazione possono avere un ruolo fondamentale nell’indirizzare le scelte delle imprese, anche di quelle di maggiori dimensioni, che basano il proprio successo in gran parte sull’immagine che trasmettono al pubblico ed ai consumatori.

Andrea Baranes
Campagna per la Riforma della Banca Mondiale/Campagna Banca Intesa

MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Canzoni e nonviolenza da Viadana all’Europa

Paolo Bergamaschi è un cantautore emergente con all’attivo tre cd e risultati interessanti come il secondo posto a “Duemila e zero watt”, concorso per canzoni sui temi della pace e della solidarietà e la partecipazione al recente MantovamusicaFestival. Per il Movimento Nonviolento è invece una conoscenza di vecchia data, dalle lotte antinucleari di Viadana degli anni settanta, alle esperienze di amministratore locale, fino all’approdo al Parlamento Europeo dove da alcuni anni lavora come consigliere per gli affari esteri. Il suo ultimo cd In Europa (che fa seguito a Profondo Nord e Uomini senza terra) è il viaggio in musica in un continente in cerca di identità e si pregia delle prefazioni di Giorgio Celli e Demetrio Volcic e della postfazione di Romano Prodi.

Vuoi sintetizzare il filo che per te collega l’Europa, la musica e la nonviolenza?
La mia è la generazione che alla fine degli anni settanta e negli anni ottanta andava nelle piazze a manifestare per il disarmo nucleare e contro l’equilibrio del terrore con lo slogan “non ho mai visto la guerra e non voglio vederla”. Oggi questo non è più valido. Come altre decine di migliaia di persone ho vissuto in diretta le guerre di Croazia, Bosnia, Kosovo, Cecenia e gli altri micro-conflitti del Caucaso per non parlare di quel braciere che è il Medio Oriente che continua a sprigionare scintille impazzite. Il processo di integrazione europea è un grande progetto di pace che ha, però, una grave lacuna: l’Unione Europea ha saputo garantire la pace al suo interno ma è stata incapace di proiettare la pace al suo esterno. Questa è la sfida e la scommessa che cerco di portare avanti con tanti altri. La musica per me è uno dei tanti fili che collegano l’Europa alla nonviolenza. La percezione di ciò che avviene a Bruxelles è molto sfumata o confusa. Ho sempre paura che prima o poi si verifichi una crisi di rigetto per incapacità di comprendere i processi in corso. Con il disco “In Europa” ho cercato di fare il punto della situazione utilizzando questo straordinario veicolo di comunicazione, avvalendomi di alcuni fra i migliori musicisti italiani.

Come amico della nonviolenza da anni hai saputo trovare spazi per un impegno concreto a vari livelli: qual è oggi il tuo punto di vista sulla nonviolenza?
C’è ancora moltissima strada da fare, forse troppa. La mia personale frustrazione, che è anche un’amara constatazione, è che l’occupazione dell’Iraq ha generato un grande movimento contro la guerra incapace di crescere e diventare un vero movimento per la pace. Purtroppo non vedo una piattaforma pacifista credibile oltre al no alla guerra in Iraq. In questi giorni si sta per concludere l’ormai trentennale conflitto fra la comunità greca e quella turca a Cipro nel silenzio totale dei pacifisti europei che non hanno saputo creare un’azione forte e credibile a livello internazionale per sostenere il processo di pace nell’isola promosso dalle Nazioni Unite sotto la spinta dell’Unione Europea. Addirittura alcune frange del movimento pacifista si sono schierate contro il piano di pace di Kofi Annan. Nove anni fa, nei primi mesi di lavoro a Bruxelles, ho avuto l’onore e l’onere di lavorare con e per Alexander Langer. Manca oggi nelle istituzioni europee una figura della caratura di Alex in grado di produrre risonanze di nonviolenza.

Arrivato al terzo cd quali obiettivi ti dai?
Peter Gabriel in una recente intervista ha affermato che la musica si è ridotta ad un fenomeno commerciale per gente con meno di trent’anni. Ma della musica non vanno colti solo gli aspetti commerciali o di costume. Io vorrei continuare a dire cose che altri non hanno ancora detto in musica, provare a raccontare i contrasti e le diversità che ci fanno crescere, affrontare nel contesto più gradevole delle note argomenti tradizionalmente ostici che appartengono convenzionalmente solo alla carta stampata. Questo disco è nato per caso, da una telefonata di Simone Guiducci, uno dei più interessanti musicisti jazz italiani, che dopo aver ascoltato il mio secondo CD mi ha telefonato per i complimenti e per chiedermi se ero disponibile a fare un disco con lui. Non potevo non approfittare dell’occasione. Fra i tanti pezzi che avevo nel cassetto, alcuni erano congeniali ad un “concept” sull’Europa nell’anno dell’allargamento a venticinque. Guiducci ha rielaborato le musiche e ha chiamato a collaborare alcuni altri straordinari musicisti.

Cosa ti preme dire ai lettori?
Chi avrà la bontà, la voglia ed il tempo di ascoltare “In Europa”, spero riesca a mettersi sulla mia stessa lunghezza d’onda e viaggiare con me per scoprire cos’è l’Europa, quanto è importante mettere insieme valori ed ideali per un progetto comune e quanto è importante, invece, evitare l’omologazione, l’appiattimento e la standardizzazione in nome delle leggi di mercato.

STORIA
A cura di Sergio Albesano
1997, un anno positivo per l’obiezione di coscienza

Il 30 gennaio 1997 la Consulta accettò la richiesta di undici referendum, tra i quali uno sull’obiezione di co­scienza proposto dai radicali. Il referendum chiedeva che fosse abolito il parere della commissione di valutazione, che vagliava le domande di coloro che facevano obiezione al servizio militare, e che fosse sostituito da un’autocertificazione (1).
Il 18 febbraio si tenne un dibattito tra i deputati della commissione Difesa e i rappresentanti dell’A.O.N. volto a conoscere, nell’ambito di un’indagine conoscitiva sulla riforma della leva e il nuovo strumento militare, le posizioni delle associazioni che si occupano dei diritti degli obiettori. In tale occasione Massimo Paolicelli, portavoce nazionale dell’A.O.N., ribadì le perplessità su alcuni aspetti dell’ultima proposta governativa in materia di obiezione di coscienza. “Vi sono anche disincentivi economici”, fece tra l’altro notare “tanto che il giovane che presta servizio civile nel comune di residenza percepisce metà della paga prevista, cioè settantacinquemila lire anziché centocinquantamila, mentre chi sceglie il servizio militare, a partire dal sesto mese, percepisce una paga vera e propria superiore al milione di lire. E’ chiaro quindi che in questo modo i due tipi di servizio non sono sullo stesso piano” (2).
A fine marzo la Direzione Generale della Leva fornì i dati relativi agli obiettori di coscienza del 1996. Risultava che le domande presentate erano state 47.824, con un incremento rispetto all’anno passato del 7,85%, mentre le domande accolte erano state 29.315 e quelle respinte 578; infine gli obiettori impiegati erano stati 31.062 con una variazione del 15,91%. Levadife forniva però anche altri dati. Ad esempio si veniva a sapere che nel 1995 66.959 giovani erano risultanti eccedenti al fabbisogno; il numero degli esuberi era dunque più del doppio del numero di ragazzi che nello stesso anno avevano presentato domanda di obiezione. Ritornando agli obiettori, nel 1996 su oltre 31.000 ragazzi in servizio civile circa 27.000 furono impiegati nella stessa regione e oltre 22.000 nella stessa provincia, mentre 4.273 furono destinati a regioni diverse da quella di residenza. Un’ultima tabella riguardava i volontari a ferma breve, che nel corso del triennio 1994-96 erano passati da 7.291 a 1.162, quindi un vero e proprio crollo (3).
Il decreto legge che autorizzava la partecipazione italiana alle iniziative internazionali in favore dell’Albania, pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale” del 25 aprile 1997, prevedeva che anche gli obiettori di coscienza potessero prendere parte alla missione della forza multinazionale in tale Paese. L’art. 1 chiariva che gli enti convenzionati potevano essere autorizzati dal Ministero della Difesa a inviare obiettori che ne facessero richiesta, limitatamente alle zone di massima sicurezza, senza oneri aggiuntivi per lo Stato e sotto la totale responsabilità degli enti presso cui gli obiettori prestavano servizio. Massimo Paolicelli commentò positivamente l’iniziativa, facendo però rilevare l’assurdità che le spese fossero mantenute a carico degli enti, a fronte dei centoventi miliardi che sarebbe costata la missione (4).
La Corte Costituzionale con sentenza dell’11 dicembre 1997 dichiarò l’illegittimità dell’art. 8 della legge n° 772 nella parte in cui sanzionava con pene diverse (due anni invece di sei mesi) il rifiuto del servizio civile e il rifiuto del servizio militare. Il tutto era nato con il caso di Marco Cerda di Vignole Barbera AL, che aveva chiesto al Ministero della Difesa di prestare il servizio civile. Nell’attesa di una risposta, Cerda maturò le proprie convinzioni religiose, aderendo alla congregazione dei testimoni di Geova e, quando gli pervenne l’assenso del Ministero e la sua assegnazione al Comune di Manta CN, egli rifiutò il servizio civile sostitutivo e fu pertanto denunciato al pretore di Saluzzo, essendo incompetente per materia il tribunale militare. Il suo difensore, avv. Bruno Segre, propose nell’udienza preliminare il consueto patteggiamento nella misura di tre mesi di reclusione, applicata generalmente dai trinunali militari agli obiettori totali. Il pretore però non accolse tale richiesta, poiché nella fattispecie si trattava del comma 1 dell’art. 8, che prevedeva per il rifiuto del servizio civile una pena minima di due anni, e non del comma 2, che prevedeva invece la pena minima di sei mesi per il rifiuto del servizio militare. L’avv. Segre formulò allora un’eccezione di incostituzionalità, ma il pretore, avendo appreso che analoga istanza era stata trasmessa dal pretore di Pavia alla Corte costituzionale, rinviò più volte il processo, sino alla sentenza di quest’ultima. Pertanto, all’udienza del 28 aprile 1998 il pretore di Saluzzo, applicando la sentenza della Corte costituzionale, accolse le richieste del difensore, limitando la condanna di Cerda alla pena di due mesi e venti giorni, con doppi benefici di legge.

LIBRI
A cura di Sergio Albesano

N. ROOSEN F. VAN DER HOFF, L’avventura del commercio equo e solidale, Feltrinelli, Milano 2003, € 13,5.Nico Roosen, economista, e Frans van der Hoff, prete-contadino, sono i fondatori di Max Havelaar, organismo olandese che svolge un ruolo pionieristico nel campo del commercio equo e solidale.
Questo agile libretto, di carattere autobiografico e di taglio divulgativo, rappresenta un ottimo strumento per conoscere più da vicino il commercio equo e per riflettere sulle sue prospettive future.
Un primo elemento di interesse del libro risiede nella capacità degli autori di spiegare in modo semplice e chiaro qual è l’obiettivo del commercio equo e solidale.
Obiettivo è quello di mettere fine allo scandalo rappresentato dalla povertà di cui soffrono almeno duemiliardi di abitanti del pianeta. Povertà che, è bene ricordarlo, non è frutto del caso o della fatalità, ma di una situazione di ingiustizia e di un sistema economico mondiale che si configura come una vera e propria economia di rapina. Alla radice del commercio equo vi è dunque una critica lucida del modello di sviluppo occidentale, del tentativo di imporlo a tutto il mondo e delle tradizionali politiche di aiuto allo sviluppo.
Questa critica dello sviluppo è a sua volta radicata in un’antropologia profondamente umanistica e libertaria (l’uomo come essere comunitario, la cui libertà cresce nella misura in cui cresce quella delle persone con cui entra in relazione) e, per i credenti, in una teologia della liberazione incentrata sulla figura del Cristo sofferente, perseguitato dal potere, povero tra i poveri, compagno nel loro cammino di emancipazione.
Lo strumento attraverso il quale il commercio equo persegue il proprio obiettivo è un patto tra produttori del Sud e consumatori del Nord fondato sul criterio economico del prezzo integrale, che consiste nel calcolare anche i costi sociali ed ecologici della produzione. Costi che invece le grandi multinazionali del settore agroalimentare, così come tutte le aziende che agiscono secondo i criteri del libero mercato scaricano sui lavoratori e sull’ambiente con conseguenze nefaste per la società e per le generazioni future. Applicare il criterio del prezzo integrale significa pagare ai produttori un prezzo che consenta loro di vivere in modo dignitoso praticando un’agricoltura rispettosa dell’ambiente.
Il secondo elemento di interesse risiede nel racconto appassionato delle vicende che hanno portato alla nascita e allo sviluppo di alcune tra le più importanti esperienze di commercio equo. Gli autori descrivono in modo documentato e preciso i meccanismi che regolano la produzione e il mercato mondiale delle materie prime, in particolare di caffè e banane, e mostrano i miglioramenti nelle condizioni di vita e di lavoro ottenuti dai contadini e dalle loro famiglie attraverso l’autorganizzazione in aziende autogestite e il loro inserimento nel circuito del commercio equo e solidale. La lettura di queste pagine ci consente di apprezzare maggiormente prodotti come il caffè Uciri e le banane AgroFair in vendita anche in Italia nelle botteghe del mondo e in alcuni supermercati.
Un terzo elemento di interesse è dato dalla riflessione sul contributo che il movimento del commercio equo può dare al più generale movimento contro gli eccessi della globalizzazione. Contributo che per gli autori consiste, in primo luogo, nel rifuggire da schematismi ideologici e da romantiche astruserie per concentrarsi sull’analisi dei concreti meccanismi del mercato mondiale e, in secondo luogo, nella capacità di prospettare un’alternativa praticabile, economicamente efficiente, socialmente ed ecologicamente sostenibile. Nella capacità cioè di unire alla protesta la proposta e di accompagnare la critica con un programma costruttivo. Una capacità di cui il movimento contro gli eccessi della globalizzazione ha assolutamente bisogno se non vuole consumarsi in una sterile contrapposizione simbolica ai santuari del potere.
”Non possiamo sconfiggere in un solo colpo la miseria, ma possiamo operare in modo responsabile, e persino visionario, nel luogo in cui viviamo.
Possiamo giungere a risultati concreti in alcune aree e poi in altre. E’ la somma dei risultati che conta.”
Dalla lettura di questo libro esce rafforzata la convinzione che principi come l’autorganizzazione dei lavoratori in aziende autogestite, il rapporto orizzontale, diretto e trasparente tra produttori e consumatori, il criterio del prezzo integrale possiedano un grande potenziale di trasformazione della società e non debbano quindi restare confinati nell’ambito del commercio equo e solidale.
La creazione di reti di economia solidale che colleghino, su scala locale e planetaria, produttori biologici, piccoli artigiani, gruppi d’acquisto, botteghe del mondo, cooperative sociali, banche del tempo, finanza etica potrebbe infatti, in prospettiva, rappresentare una via d’uscita dalla crisi economica ed ecologica che stiamo vivendo e un superamento della falsa alternativa tra Stato e Mercato in cui continua a dibattersi la scienza economica tradizionale.Ivan Bettini

Veli e croci, laici e integralisti

In Francia si vuole proibire alle persone di indossare indumenti e accessori che manifestino il proprio credo religioso. Non sarà più possibile portare in luoghi pubblici come le scuole il chador, il velo delle donne mussulmane, né lo zuccotto degli ebrei, né le croci (ma solo quelle grosse, sic) dei cristiani. I talebani proibivano di tagliarsi la barba e di andare a capo scoperto. I primi in nome della laicità e gli altri in nome della religiosità.
Quando la laicità diventa una religione è un dramma, ma quando diventa anche integralista è peggio dei peggiori integralismi religiosi. Il fatto è che, in effetti, i nostri stati non sono laici, ma stanno solo adottando una nuova religione molto più subdola delle altre nel fare proselitismo, molto più narcotizzante delle altre, il “mercateismo”. E gli stati si curano di costruire nuove cattedrali per la nuova religione, enormi centri commerciali e outlet in cui la popolazione può andare a santificare le feste con tutta la famiglia, trovare sollievo alle proprie pene, trovare sacerdoti che li guidino nelle scelte. Il mercateismo (e la sua ascesi, il consumismo) sono il nuovo oppio dei popoli.
Così in nome della laicità dello stato gli studenti francesi non potranno più testimoniare esteriormente le proprie scelte se non per la nuova religione mettendo in bella evidenza scritte come Nike, Wrangler, Benetton (per non parlare di Rollex, Armani, Luis Viutton). L’ipocrisia di queste società vuole nascondere i crocefissi delle aule (che è meglio togliere se non altro per non vederli oltraggiare come spesso accade) ma fa un culto dell’affiggere e imporre ovunque segni della nuova religione. I talebani e l’inquisizione, in confronto ai fautori del mercato e del suo stile di vita consumistico, sono stati quasi tolleranti non entrando più di tanto nell’intimità. E non mi si venga a dire che talebani e inquisitori sono peggiori perché hanno ucciso chi trasgredisce le loro regole. I “mercatei” sono peggio perché non lo fanno loro direttamente, lo fanno fare ai loro fedeli. Avete mai contato quanti pedoni muoiono sulla strada perché hanno trasgredito alla regola economico/sociale per cui le automobili sono più importanti? E qualcuno dice anche che se lo sono cercato!
Trovo le donne mussulmane con il velo tristi e un po’ anche brutte, ma penso che la vera laicità sia rispettare la loro scelta. Per lo stesso motivo ritengo assurdo che nel parlamento italiano sia stabilito da regolamento cosa si deve e cosa non si può indossare per entrare, perché quando uno stato comincia a dire ai suoi cittadini, ancora più i loro rappresentanti, come devono andare vestiti comincia a trasformarli in sudditi per poi, a poco a poco, trasformarli in schiavi.
Carlo Schenone
Genova

La Passione del Cristo
La violenza degli uomini

Il film sulla passione di Cristo è ormai scivolato via però una riflessione è doverosa, dopo tutti gli affanni delle critiche. Il film di Mel Gibson è tacciato di violenza gratuita? Ha preferito del Cristo il martirio figurato e non quello meglio raccontato?
Eppure il Re è stato inchiodato alla Croce, nell’ingiustizia dell’inumanità, Egli non ha sorriso alla morte, né di coraggio ha taciuto al dolore, anzi, ha gridato al cielo…. ostinato, il Suo male, la Sua resa, il Suo abbandono.
Romantici e nostalgici, atei e credenti, in questo senso non hanno frecce nelle loro faretre, non posseggono campioni credibili da opporre a questo rivoluzionario Unico, che ha insegnato l’arte del vivere povero nella ricchezza e del morire per scelta di fede e di amore.
Nonostante ciò, le sofferenze inumane sopportate da questo Signore umano, hanno creato sconcerto e imbarazzo, quasi paura per gli uomini che verranno….che forse dovranno solo essere uomini che al sangue versato sulla Croce non preferiranno un ricordo sbiadito.
Non è il rumore delle nocche infrante sulle labbra di Gesù che precede la profanazione della dignità di un uomo, non è il corpo piegato e piagato nell’insopportabile accettazione del dolore a renderci meno imbroglioni, quanto trattandosi di Dio meglio porgere la guancia attraverso la metafora, gli accenni, e lasciare alle spalle, cioè dietro gli occhi della storia, ogni cosa intessuta di in-umana colpa.
Non siamo forse noi quelli che l’abbiamo crocifisso e umiliato? Allora perchè dobbiamo solo scriverne i comportamenti e non fotografarne le mosse, dove anche il cuore più impavido urla per il dolore, per la rabbia, per i rimorsi, e i pentimenti.
Non occorre guardare il film della passione di Gesù con il dovere del rigore biblico o per alcuni a-morale dei nostri anni, infatti come ha detto un mio amico, non si può tornare sui passi per riviverne un pezzetto, ma forse neppure addolcirne il ricordo per la festa che verrà.
Vincenzo Andraous
Voghera

Di Fabio