• 18 Dicembre 2024 16:09

Azione nonviolenta – Marzo 1998

DiFabio

Feb 7, 1998

Azione nonviolenta marzo 1998

– Basta con i serial killer militari, di Mao Valpiana e Stefano Guffanti
– Scusate mi è caduta una bomba, di Alessandro Marescotti
– Una via crucis da Pordenone ad Aviano, Beati i costruttori di pace
– La “non resistenza” in Tolstoj e Gandhi, a cura degli Amici di Tolstoj
– Quella resistibile ascesa di Umberto Bossi, di Stefano Benini
– Le aspre domande di fine secolo, di M. Luisa Terzariol
– Campagna OSM
– La dottrina delle Upanishad, di Claudio Cardelli

Recensioni
– La legge della violenza e la legge dell’amore
– Nonviolenza in cammino

 

Dopo la strage: alcune cose da fare subito

Oggi, tutte le dichiarazioni delle forze politiche sono improntate ad espressioni di cordoglio, alla stigmatizzazione dei voli militari, alla promessa di un impegno fattivo affinché simili tragedie non abbiano a ripetersi.

Quanto durerà ?

Fra pochi giorni, il clamore suscitato dall’accaduto cesserà. Il rumore degli F16 in volo, invece, non si e’ fermato neanche per poche ore: questa mattina, all’indomani della strage, le ‘esercitazioni’ sono continuate come tutti i giorni precedenti.

Se i politici vogliono veramente darsi da fare, hanno alcune cose concrete da mettere in atto, già da subito:

1) rendere immediatamente noti gli accordi segreti tra Italia e Stati Uniti concernenti l’uso di basi militari: l’Italia non può continuare ad essere uno stato a sovranità limitata e Parlamento e cittadini hanno diritto di sapere quali sono i rischi che corriamo quotidianamente;

2) per tutto quanto riguarda le questioni della sicurezza e del controllo dei danni all’ambiente e alla salute, vengano applicate agli aeroporti militari le norme vigenti per gli aeroporti civili: una nostra denuncia alla magistratura sui danni da rumore provocati dagli aerei Usaf e’ in fase di archiviazione, in quanto le basi militari sono esentate dall’applicazione della normativa in materia di inquinamento acustico;

3) richiedere al Governo Usa un’ispezione completa della Base di Aviano da parte di una commissione indipendente: gli Stati Uniti minacciano di replicare la Guerra nel Golfo se Saddam non accetta di aprire tutti i suoi depositi agli ispettori Onu. In nome della stessa trasparenza chiesta a Saddam, sono pronti ora a concedere anche a noi la possibilità di verificare se la Base di Aviano contiene o meno le famigerate bombe all’uranio impoverito od armi chimiche ed atomiche?

Tiziano Tissino

Comitato Aviano 2000
DOPO LA STRAGE DI CAVALESE

Basta con i serial-killer militari !

di Mao Valpiana e Stefano Guffanti

Ustica, Casalecchio di Reno, Funivia del Cermis.

Sono solo tre dei più gravi incidenti provocati in Italia, in tempo di pace, da militari.

Ignoti gli autori della strage di Ustica; assolti gli imputati per Casalecchio; è facile supporre che analoga sorte toccherà ai responsabili della strage del Cermis.

Tramite l’avvocato Sandro Canestrini del foro di Rovereto, il Movimento Nonviolento, si è costituito parte civile nel procedimento a carico degli imputati per i 20 morti del Cermis.

Non si è trattato di un imprevedibile incidente, né di una tragica fatalità, ma di una strage annunciata.

Il Movimento Nonviolento da anni denuncia la pericolosità e l’illegalità dei voli militari di addestramento e chiede l’allontanamento delle basi militari della Nato. Convegni, manifestazioni, petizioni per ottenere una riconversione civile degli aeroporti militari hanno costellato l’attività nonviolenta da vent’anni a questa parte.

Purtroppo l’attenzione dei politici e le lacrime di coccodrillo dei responsabili, si fanno sentire solo dopo che ci sono scappati i morti. Per qualche tempo si cerca di correre ai ripari con qualche norma restrittiva, che puntualmente viene dimenticata, e poi tutto torna come prima.

Dieci anni fa organizzammo la marcia Verona-Villafranca proprio per chiedere la chiusura della base militare e la totale riconversione civile dell’aeroporto. Da allora, inascoltati, abbiamo dovuto registrare molti incidenti, da noi puntualmente denuciati:

– il 30 maggio 1991 un veivolo AMX ha sbagliato manovra di atterraggio e si è schiantato sulla pista.

– il 4 febbraio 1992 un AMX-Aermacchi poco dopo il decollo è precipitato a Gazzo Veronese distruggendo un’abitazione e ferendo gravemente una donna;

– il 23 aprile 1992 un aereo MB339 si è schiantato nel Lago di Garda, con la morte dei due piloti, a poche centinaia di metri da Sirmione;

– il 6 dicembre del 1990 il Macchi MB326 decollato da Villafranca ha finito la sua corsa sul muro della scuola di Casalecchio di Reno ammazzando dodici ragazzi.

Chiedere giustizia per le vittime civili è doveroso e ottenerla sarebbe già un grande successo ma, analizzando meglio questi “incidenti”, non possiamo fare a meno di mettere in discussione la struttura e le scelte strategiche della politica della difesa italiana.

La strage del Cermis riporta d’attualità il problema della presenza militare americana in Italia e la conseguente limitazione di sovranità; le basi USA ospitano armi nucleari su cui il governo italiano non esercita nessun controllo.

Malgrado ciò le basi militari americane sul territorio italiano sono in continua espansione (Aviano 2.000 e Sigonella).

Con la Finanziaria 98 il governo ha aumentato la quota destinata agli armamenti del 9%, alla faccia dei tagli alla spesa pubblica e dei contribuenti italiani.

Tutti i partiti, tranne qualche rara e timida eccezione, stanno avallando le direttive NATO e realizzando il “Nuovo Modello di Difesa”, che attribuisce all’Italia un ruolo sempre più aggressivo e bellicista, con buona pace dell’Art. 11 della Costituzione.

E’ giunto il momento che il governo e le forze che lo sostengano avviino una profonda revisione dello strumento militare, tagliando le spese militari, liberando risorse per gli investimenti civili, riformando la legge sull’obiezione di coscienza, avviando l’istituzione di un corpo civile di pace.

Il Movimento Nonviolento chiede alle forze politiche, al Parlamento e al Governo di rispettare i 20 assassinati di Cavalese attuando da subito una moratoria per almeno cinque anni dei voli militari di addestramento sul nostro territorio, e nel frattempo negoziando con la Nato l’allontanamento di tutte le basi militari dal suolo nazionale.

INCIDENTI AEREI MILITARI, UN LUNGO ELENCO

“Scusate, mi è caduta una bomba”

di Alessandro Marescotti

La strage del Cermis è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Il 10 gennaio di quest’anno un Harrier inglese ha “perso” due bombe tra Gioia del Colle e Mottola. Attualmente il pilota è indagato dalla magistratura. Questi due incidenti di inizio 1998 ripropongono il tema della sicurezza militare. Ripercorriamo – con questa ricostruzione – la storia degli incidenti piu’ gravi conosciuti.

Il Movimento Internazionale della Riconciliazione di Grottaglie è stato preveggente: ha proposto ed ottenuto da tempo una delibera comunale in cui si chiedeva il non sorvolo degli Harrier sul centro abitato. Grottaglie è la base degli aerei a decollo verticale Harrier. Ed è stato proprio un Harrier (inglese, pero’) il 10 gennaio a perdere due ordigni di 500 chili l’uno,

caduti (e non esplosi) non si sa se per errore umano o per incidente tecnico. Su questo indaga attualmente la magistratura. Un simile incidente “a lieto fine” e di dominio pubblico richiama alla mente una storia che per molti anni è rimasta tuttavia segreta. Ripercorriamo – con questa ricostruzione – la storia degli incidenti aerei piu’ gravi attualmente conosciuti. La documentazione è stata tratta dagli archivi segreti americani grazie al FOIA (Freedom Of Information Act).

Quando a cadere è un’atomica

13 gennaio 1950: un B-36 perde quota, tre dei suoi sei motori si bloccano, a bordo c’è una bomba atomica “Fat Man”. Che fare? Al largo della British Columbia l’equipaggio lancia in mare l’atomica che finisce nell’Oceano Pacifico. A cinque anni da Hiroshima e Nagasaki una bomba nucleare di nuovo fende l’aria, in caduta libera. Ma questa volta per errore.

Fat Man precipita, ancora pochi metri…

Contatto con l’acqua.Esplosione.Una vampa di fuoco.Attesa.

L’equipaggio tira un respiro di sollievo: nessun “fungo atomico ” appare, è esploso solo il tritolo dell’innesco. L’equipaggio può lanciarsi col paracadute, mentre l’aereo continua a perdere quota e finisce per schiantarsi sull’isola di Vancouver. Quel 1950 è un anno particolarmente sfortunato per gli americani: altri tre incidenti capitano ad un B-29 (decollato l’11 aprile dalla Kirtland AKB del Nuovo Messico), ad un B-50(presso Lebanon, nell’Ohio, il 13 luglio) e ad un B-29 che perde due eliche in fase di decollo (Farchild-Suisun AFB) in un torrido 5 agosto. In tutti e tre i casi le bombe nucleari a bordo esplosero ma per fortuna non vi fu innesco di reazione nucleare. Morirono tutti gli equipaggi. Il 10 marzo 1956 un B-54 parte dalla Florida, dalla base McDill AFB, arriva sul Mediterraneo con le sue due bombe nucleari. Viaggio lungo, serbatoio vuoto. Il pilota scruta il cielo, implora l’aereo cisterna che non arrivera’ mai. Altre due bombe atomiche in mare. Nessuna esplosione.

“Touch and go! Touch and go! Touch and go!”… È il 27 luglio 1956 e questo giochino di decolli e atterraggi acrobatici fa andare in visibilio gli ufficiali dell’aeroporto di Lakenheath, in Inghilterra. È un B-47 e fa impazzire gli sguardi curiosi fino a quando non si schianta contro il deposito di bombe

atomiche dell’aeroporto. Nessuna esplosione. Ma i ragazzi del “touch and go” giacciono, come sigarette spente, nel loro B-47. Altro anno sfortunato il 1957. Il 22 maggio per un errore umano un B-36 perde un’atomica in volo che si schianta sul Nuovo Messico, il 28 luglio un C-124 perde quota e allora si libera di due atomiche nell’Atlantico mentre l’11 ottobre un B-47 in fase di decollo dalla base Homestead AFB (Florida) esce fuori pista per lo scoppio di un pneumatico e nell’incendio si arrostisce la bomba atomica di bordo. Niente esplosioni, qualche caso di contaminazione radioattiva. Nel 1958 un B47 – sempre decollato con una bomba atomica dalla base di Homestead AFB della Florida – si scontra con un F-86 il 5 febbraio mentre l’11 marzo un B-47 sgancia accidentalmente un ordigno nucleare presso la citta’ di Florence, nella South Carolina. Il B-47 continua ad aleggiare sui cieli statunitensi per incendiarsi – con il suo carico atomico – nel Texas (4 novembre) e nella Luoisiana (26 novembre). Altri 4 incidenti accertati nel 1959. Il 18 gennaio è coinvolto nel Pacifico un F-100, il 6 luglio un C-124 cade con la sua bomba atomica sulla base Barksdale AFB in Louisiana, il 25 settembre un P5M si inabissa per sempre con il suo carico atomico al largo di Washington mentre il 15 ottobre un aereo cisterna si scontra con un B-52 dotato di 4 bombe atomiche.

Salvati dalle “sicure”

Gli anni ’60 iniziano con altri incidenti inquietanti. Il 7 giugno 1960 il serbatoio di elio di un missile nucleare IM-99 esplode: si verifica una contaminazione radioattiva ma le “sicure” funzionano. Altra dispersione di uranio nel 1961: il 26 gennaio un B-52 perde in volo un’ala e due bombe atomiche finiscono in un campo della North Carolina. L’Aeronautica militare USA, è preoccupata, acquista per bonificarlo, effettua scavi e ricerche ma la dispersione è tale che una parte dell’uranio non viene mai piu’ recuperata. Un altro B-52, poche settimane dopo, viene invece baciato dalla fortuna: il 14 marzo cade da 1200 metri ma l’equipaggio si salva e le due bombe atomiche, sopportando miracolosamente il tremendo impatto, rimbalzano integre sul terreno come giocattoli infrangibili.

Nel 1964 si verificano tre gravi incidenti: un B-52 cade il 13 gennaio con due bombe atomiche mentre rientra alla Turner AFB, in Georgia, mentre il 5 e l’8 dicembre nella Ellsworth AFB del South Dakota e nella Bunker Hill AFB dell’Indiana si verificano incidenti rispettivamente ad un missile strategico LGM-30B e a un B-58, che incendiandosi provoca una fuoriuscita radioattiva dalle sue 5 atomiche di bordo. Altra fuga radioattiva l’11 ottobre 1965, quando un C-124 si incendia durante un rifornimento; la bomba atomica di bordo è danneggiata e scatta l’allarme nella Wright-Paterson AFB dell’Ohio. A far scattare nuovamente l’allarme è un A-4 che cade nel Pacifico il 5 dicembre 1965: ancora oggi l’aereo risposa nei fondali dell’oceano, custodendo il pilota e l’atomica di bordo.

Sfrattati dalla Spagna, ospitati dall’Italia

Il 17 gennaio 1966 avviene in Spagna un incidente cosi’ grave da far nascere forti proteste contro le basi USA. Un B-52 e un Kc-135 si scontrano presso Palomares: sette morti e quattro bombe termonucleari B-28RI volano via. È una catastrofe: esplodono i detonatori di due bombe, l’uranio schizza via in tutte le direzioni. Scatta un’operazione gigantesca di bonifica: un’intera spiaggia viene raschiata (1.400 tonnellate di sabbia e terreno contaminato). Sara’ un referendum popolare spagnolo a sfrattare gli F-16 e le basi americane dal suolo iberico. Gli F-16 “sfrattati” verranno ospitati in Italia a Sigonella ora a Gioia del Colle. Ma ritorniamo al passato, ad un freddo 21 gennaio del 1968. Un B-52 proveniente dalla Plattsburgh ABF di New York precipita in Groenlandia nei pressi dell’aeroporto di Thule. Quattro bombe atomiche vengono distrutte dal fuoco. L’impatto contamina 6.700 metri cubi di ghiaccio, il carico atomico – inabissatosi – non sarà mai più recuperato.

Il tempo di dimezzamento radioattivo del plutonio delle atomiche è di 24 mila anni. Grottaglie si è dichiarata – anche per questo – “comune denuclearizzato”.

Quella lista top secret

La storia piu’ recente riserva alcuni interrogativi. Indiscrezioni apparse su riviste militari parlano di rischio di “sgancio accidentale” di bombe per “interferenze” di alcuni potenti radar (come gli AN/FPS 115 “Pave Paws”) sulle apparecchiature elettroniche degli aerei militari. L’US Air Force avrebbe compilato una mappa di 300 potenti installazioni radar antimissile che i piloti USA devono evitare e che rimangono spente per circa 90 secondi quando un aereo entra nel loro raggio di interferenza. La mappa sarebbe classificata “top secret”.

Fonti: Nico Sgarlato, “Storia segreta degli incidenti nucleari” (in “Aerei”, anno XIX, n.2). Gli incidenti citati riguardano aerei americani mentre per gli incidenti sovietici non si dispone ancora della documentazione necessaria. Altre informazioni sono tratte da Aeronautica & Difesa, giugno 1989.

Alessandro Marescotti c/o PeaceLink, c.p. 2009, 74100 Taranto (Italy)

http://www.peacelink.it

APPELLO ALLE DONNE E AGLI UOMINI DI BUONA VOLONTÀ
Una via crucis da Pordenone ad Aviano

Anche quest’anno, il gruppo ‘Beati i Costruttori di Pace’ di Pordenone si e’ fatto promotore di una ‘via crucis’ da Pordenone ai cancelli della Base Usaf di Aviano.

Quello che segue e’ il testo dell’appello con le prime adesioni pervenute.

Nella prossima Quaresima, domenica 29 marzo 1998, ci troveremo uniti a pensare e a promuovere la pace, rinnovando la Via Crucis da Pordenone ad Aviano, con la conclusione davanti alla Base aerea.

La Parola del Signore ci interpella in modo inequivocabile riguardo alla pace, alla giustizia, alla salvaguardia del creato; la storia ci provoca ad assumere le nostre responsabilità.

La Base aerea di Aviano ed il suo ampliamento in atto si presentano come “il santuario della violenza”, reso evidente dalla presenza di un’enorme struttura militare e dalle numerose armi convenzionali ed atomiche ivi custodite. Ciò alimenta la convinzione, divenuta segno emblematico, che con la forza e con le armi si possano, anzi si debbano gestire i conflitti.

Tutto questo genera impoverimento nei già poveri del mondo, aumenta l’inquinamento della terra, delle acque e dei cieli, arreca danni incalcolabili alle persone, alle abitazioni, a tutto l’ambiente vitale.

Più volte abbiamo dichiarato che la Base di Aviano pone seri interrogativi sulla democrazia del nostro paese e delle nostre strutture di partecipazione; che la monetizzazione dei danni e i vantaggi della ricaduta economica sono illusioni rispetto alla drammaticità della situazione presente e futura. Ma soprattutto abbiamo posto, anche con segni pubblici,

alcuni interrogativi ineludibili, che la Base di Aviano pone a chi medita e annunzia il Vangelo.

Non sono più scusabili il silenzio e l’acquiescenza; non è ammissibile “non sapere” di fronte a problemi così gravi ed evidenti, nè usare atteggiamenti dettati da calcolo e da prudenza mondana. Riteniamo che, nella situazione

in cui ci troviamo, non si possa pregare per la pace, parlare di pace nelle nostre chiese, senza esprimere parole e segni su Aviano. Siamo convinti che non si possa annunziare e preparare il Giubileo, continuando ad ignorare Aviano, proprio perché il Giubileo biblico ci invita in modo pressante a far riposare la terra, a liberare gli schiavi, a

condonare il debito, ad annunziare l’anno di grazia per vivere il tempo della misericordia e della pace.

La questione di Aviano si pone proprio al cuore del Giubileo: la terra, madre di vita, è costretta a portare in grembo strumenti di morte; luogo di comunicazione e di incontro, è recintata e sottratta alle relazioni;

capolavoro di armonia e bellezza, è deturpata dall’inquinamento dell’ambiente vitale. Le risorse economiche, impegnate per gli armamenti e per l’ampliamento della Base, sottraggono straordinarie possibilità di

riscatto e di sviluppo agli impoveriti della terra. La riconciliazione è negata dal principio disumano che solo la forza armata può difendere o ristabilire l’ordine.Siamo convinti che il Giubileo ci chiama a conversione e ad essere strumenti di riconciliazione prima di tutto nei luoghi dove viviamo la nostra storia. Assumiamo, per la nostra Chiesa e per le nostre comunità cristiane, la Base aerea di Aviano come meta del nostro pellegrinaggio di conversione alla riconciliazione e alla pace. I cancelli di quella Base possono diventare la Porta Santa della nostra Chiesa locale.

Ci ritroveremo nel cammino della Via Crucis da Pordenone ad Aviano come lo scorso anno. Porteremo con noi le istanze di tutti gli impoveriti e oppressi della storia, e di tutti quelli che si impegnano quotidianamente

nei processi di liberazione e di giustizia. Speriamo che tanti fedeli delle comunità cristiane o di altre religioni, chi ha responsabilità ecclesiali o civili e ogni uomo di buona volontà, si uniscano a noi nella riflessione, nella testimonianza e nella preghiera. Contiamo sull’apporto preziosissimo, come nell’anno precedente, della preghiera di tanti monasteri di vita contemplativa. Non si tratta di essere contro qualcuno, ma contro le strutture di morte, che condizionano e impediscono una vera fratellanza nel mondo.

‘Beati i costruttori di pace’ – Pordenone

Ass. “Ernesto Balducci” di Zugliano – Udine

Prime adesioni:

Mlal, Segreteria Nazionale Justitia et Pax Cappuccini, Missionari Comboniani di Thiene, Commissione Diocesana per l’Ecumenismo di Pordenone, Pax Christi Italia, Gruppo per la Pace di Nimis, Associazione Tonino Bello di Pordenone, Caritas e Azione Cattolica Diocesane di Vittorio Veneto, Vis, CVCS, Comitato per la Pace di Pordenone, Rete Radie’ Resh, Centro Culturale Menocchio di Montereale Valcellina, oltre a vari consigli pastorali, comunita’ parrocchiali, monasteri, ecc.

Tra le adesioni individuali, segnaliamo mons. Diego Bona, vescovo di Saluzzo, mons. Nogaro, vescovo di Nola, Giorgio Nebbia, professore emerito dell’universita’ di Bari.

Per quanto riguarda le questioni organizzative, in linea di massima il programma dovrebbe essere il seguente:

partenza da piazza XX settembre, nel centro di Pordenone, alle 14.30arrivo e conclusione davanti ai cancelli della Base Usaf intorno alle 18.30. Il percorso complessivo e’ di circa 8 km; durante il tragitto di saranno cinque stazioni + una finale, incentrate principalmente sui temi del giubileo biblico.

Chi avesse bisogno di alloggio la sera prima o quella dopo l’iniziativa e’ pregato di contattare per tempo l’organizzazione.

Ulteriori adesioni possono essere comunicate via e-mail ( tissino@tin.it oppure via fax (0434/520235).

 

PROSEGUIAMO L’APPROFONDIMENTO DEL PENSIERO GANDHIANO NEL 50° ANNIVERSARIO
La “non resistenza” in Tolstoj e Gandhi

A cura degli Amici di Tolstoj

Quando Tolstoj si mise a rileggere il Vangelo e a cercarne il senso vero, escludendo i commenti tradizionali, “il passo che risultò … la chiave di tutto fu il versetto 34 del capitolo di Matteo: …ma io vi dico non opponete resistenza al male” (La mia fede, cap. I).

Per Tolstoj dunque l’amore per i nemici e la non resistenza al male costituiscono l’insegnamento evangelico più importante, intorno al quale si organizzano tutti gli altri; ma anche il più disatteso e tradito. La non resistenza dovrebbe essere praticata da ogni cristiano, sia nella vita privata che in quella pubblica, senza eccezioni, questo comporterebbe un cambiamento radicale di tutto il nostro sistema sociale e politico. “Accettare la legge del reciproco servizio, senza accettare il comandamento della non- resistenza, era lo stesso che costruire una volta, senza porre la pietra, là dove la volta viene a chiudersi” (La fine del secolo, cap. IV).

“Il prossimo compito della vita consiste nel sostituire la vita fondata sulla lotta e la violenza, con una vita fondata sull’amore ed il ragionamento” (Diari 29 novembre 1901). Questo significa che il rapporto aggressivo fra individui e la relazione naturale “darwiniana” proprio delle specie animali che corregge (e divenuta anzi in noi più spietata ed estrema, perché gli animali in genere non uccidono i compagni di specie), sarà sostituito presso l’uomo da una crescita attraverso la razionalità, la collaborazione e l’amore reciproco, più adatta al principio spirituale che è in lui. Il che rappresenterebbe una vera e propria svolta evolutiva.

Tolstoj si accorgerà poi che il precetto della non-resistenza era già stato praticato dai Quaccheri e da altri piccoli gruppi cristiani marginali, con cui entrerà in corrispondenza (v. il I capitolo de Il regno do Dio è in voi), ed era presente nelle religioni orientali, che studierà a fondo. La riflessione sulla non-resistenza, sul passaggio dalla legge della violenza alla legge dell’amore, sarà uno dei cardini della sua ricerca ed anche la parte del suo pensiero conosciuta. Tolstoj elabora tre principi fondamentali. Il primo lo formula così: “come non si può asciugare l’acqua con l’acqua, non si può spegnere il fuoco con il fuoco, così non si può distruggere il male con il male” (Lettera a Enghelgardt dicembre-gennaio 1882-83).

Si tratta di un principio metafisico rigoroso ed incontrovertibile. Per eliminare il male occorre una forza di segno contrario: l’amore. Se si aggiunge violenza a violenza, la somma totale della violenza non può che crescere. Anzi compito principale del cristiano sulla terra – secondo Tolsoj – è proprio questa trasmutazione di energie: da negativa in positiva.

Un secondo punto è il metodo della non-partecipazione. Per eliminare ogni forma di violenza e oppressione politica, basta non parteciparvi, rifiutare il servizio militare e di polizia, rifiutare di fare il giudice, l’avvocato, il politico, di lavorare le terre altrui ecc. Ogni oppressione infatti si fonda sulla complicità degli oppressi, come aveva scoperto La Boetie (autore amato e citato da Tolstoj). Davanti alla violenza bisogna non reagire, ma ritirarsi, isolarla limitandosi a condannarla davanti all’opinione pubblica; essa allora perderà forza, si esaurirà da sé. “Per sentirsi liberato da ogni potere umano, basterebbe che l’uomo concepisse la vita secondo la dottrina di Cristo… Davanti all’insubordinazione del cristiano i governi sono disarmati… Il cristiano non disputa con nessuno, non attacca nessuno, al contrario sopporta la violenza con rassegnazione e libera in tal modo se stesso e il mondo” (Il Regno di Dio e in voi, cap. IX).

Maturandosi la sua riflessione, negli scritti degli ultimi anni soprattutto, Tolstoj enuncia ed approfondisce un altro grande principio, per la lotta contro il male: “Verrà distrutto il male fuori di noi, solamente quando lo avremo distrutto in noi” (Tre giorni in campagna: primo giorno, in Tutti i racconti, vol. II, pag. 1241). Il male può toccarci solo se in un modo o nell’altro vi partecipiamo. Infatti “la rogna attacca solo un corpo sudicio” (L’ unico mezzo, cap. VIII). “E non vi è nulla di più dannoso per gli uomini del pensare che le cause della loro situazione miserabile non risiedono in loro stessi, ma in condizioni esterne… Per raggiungere veramente il bene, l’uomo deve preoccuparsi di cambiare se stesso… Tutte le porte che conducono gli uomini al vero bene, si aprono sempre e soltanto, se ne tiriamo la maniglia verso noi stessi” (Al popolo lavoratore, cap. XV).

Si tratta di un vero e proprio ribaltamento strategico, una rivoluzione “copernicana” nella battaglia contro il male, che forse non è stato ancora sufficientemente compreso o studiato e applicato, e che invece è necessario approfondire e sviluppare, perché rappresenta la fase conclusiva della lotta nonviolenta. Il male, quando è troppo forte – come ai nostri giorni – va affrontato in maniera indiretta (ne riparleremo nel capitolo sulla liberazione dei popoli).

Se questi sono i principi-base, sui loro vari aspetti ed implicazioni, contro la guerra, il servizio militare, i falsi pacifismi ecc. Tolstoj scriverà centinaia e centinaia di pagine, che non possono essere riassunte in breve, e a cui rimandiamo il lettore. E sull’amore per i nemici scriverà bellissime riflessioni: “L’amore per i nemici! È difficile, riesce raramente… come tutto quello che è supremamente bello! Ma in compenso, che felicità quando vi si arriva c’è una meravigliosa dolcezza in questo amore…” (Diari 19 luglio 1996 e v. anche Diari 12 marzo 1895).

Su due punti importanti vorremmo ancora richiamare l’attenzione. Tolstoj non si limita a considerare violenza solo la guerra – si differenzia perciò dai pacifisti – ma condanna ogni tipo di violenza nei rapporti fra gli uomini, anche all’interno di una società, e quindi la difesa della società con mezzi violenti. I tribunali penali, le carceri e la pena di morte devono essere aboliti. “Gli uomini volevano fare una cosa impossibile: correggere il male, essendone pieni. Uomini viziosi volevano corregge altri uomini viziosi… Da parecchi secoli continuate a punire uomini, che considerate delinquenti. Ebbene si sono ravveduti costoro? No, anzi il loro numero non ha fatto che ingrossare” (Resurrezione, parte III, cap.28) “che fare contro gli assassini, i rapinatori? …che fare contro il gelo, la tempesta? Niente … fa ciò che devi fare. Correggi il tuo criminale – te stesso” (Diari 13 gennaio 1908). Inoltre, Tolstoj denuncia con forza lo stretto legame esistente fra violenza ed economia. “Tre sono le cause della guerra: ineguale ripartizione dei beni, esistenza dell’ordine militare, dottrine religiose ingannatrici… Finché profitteremo delle ricchezze privilegiate, mentre le masse saranno oppresse dal lavoro, ci saranno sempre guerre” (Sulla Guerra del Transvaal). “Non vale la pena di rifiutare il servizio militare e nella polizia ed ammettere la proprietà, che si mantiene soltanto per mezzo del servizio militare e della polizia.

Gli uomini che compiono questo servizio e profittano della proprietà, agiscono più correttamente di quelli che rifiutano ogni servizio, godendo però della proprietà” (Lettera ai Duchobori del Canada – 1889).

I dati storici del rapporto fra Tolstoj e Gandhi sono ben noti e documentati (v. per questo Bori-Sofri: Gandhi e Tolstoi). Gandhi lesse Il regno di Dio e in voi, quando era in Sud Africa nel 1894. Scriveva più tardi: “A quel tempo credevo nella violenza, la lettura del libro mi guarì dallo scetticismo e fece di me un fermo seguace dell’ahimsa” (Gandhi: Antiche come le montagne, ed. Comunità 1981, pag. 234). Si tratta di una frase storica, che ha indotto molti di noi dell’area nonviolenta a mettessi in traccia del libro scomparso e scoprire cosi Tolstoj.

Gandhi fece uno studio intenso dei libri di Tolstoj. E dopo aver letto Lettera a un Indù, gli scrisse quattro volte, fra il 1909 e il 1910, gli chiese il permesso di tradurre quel testo, inviò il suo libretto: Hind Swaraj, e gli diede notizia delle sue lotte nel Transvaal. Tolstoj rispose, ma la sua morte interruppe la corrispondenza. Nell’ultima lettera a Gandhi (settembre 1910) Tolstoj scriveva: “La vostra attività nel Transvaal, che ci pare ai confini della terra, è l’opera più centrale, più importante, fra tutte quelle che si svolgono attualmente nel mondo”.

Assai meno studiato e chiarito è l’effettivo rapporto fra il pensiero di Gandhi e quello di Tolstoj mentre a nostro parere, è quasi impossibile comprendere veramente Gandhi, senza collegarlo con Tolstoj. Le basi teoriche della nonviolenza furono gettate da Tolstoj, e Gandhi si rifà continuamente ad esse. Insomma studiare Gandhi, senza conoscere Tolstoj, è come leggere il secondo volume di un’opera, senza aver letto il primo!

Se si confrontano le loro due personalità, ci si accorge che esse sono interdipendenti e complementari (così come sono complementari Marx e Lenin l’uno filosofo, l’altro politico). Tolstoj è uno scrittore, un pensatore e un profeta, che se cerca di mettere in pratica le sue teorie lo fa solo nella sua vita privata; Gandhi è un uomo d’azione, un politico, un leader delle masse indiane, un santo asceta, che però ci ha lasciato anche una serie di riflessioni scritte. Tolstoj è un genio di una forza mentale incommensurabile, ma Gandhi ha la superiorità dell’azione vissuta con sacrificio personale, fino all’offerta della vita. Azione e martirio desiderati invano da Tolstoj : “vorrei servire Dio non con le parole, ma con i fatti, col sacrificio e non riesco” (Diari 29 marzo 1884).

Se Tolstoj è più sensuale, peccatore, legato alla carne, nella formulazione delle sue teorie è però, più intransigente e radicale, più distaccato dal contingente, proteso verso il Regno futuro. Inversamente Gandhi è più ascetico e rigoroso nella sua arte privata, ma più immerso nella storia della sua arte pubblica e quindi più portato ad inevitabili ammorbidimenti e compromessi. Gandhi è mite, semplice, umile, si guarda dal ferire con le sue parole, ma è anche molto fermo, ostinato quasi, viene chiamato dai discepoli “bapu”, cioè padre. Tolstoj è più aggressivo ed irruente, fino a divenire offensivo, eppure assolutamente non autoritario, viene sentito da noi come un “fratello” (v. R. Rolland). Ma soprattutto importante e necessario sarebbe confrontare più da vicino le due teorie; mentre, ripetiamo, mancano finora studi specifici. Tocchiamo qualche punto in breve. Tolstoj e Gandhi sono entrambi pensatori religiosi, coniugano religione e politica. Li accomuna il culto della verità, la spiritualità del servizio, la fede nell’avvento di una società migliore, di cui la Russia per Tolstoj, l’India per Gandhi, saranno promotrici. Li accomuna il vegetarismo e la severa morale sessuale. Molte posizioni di Gandhi, addirittura sue frasi e formule derivano direttamente da Tolstoj (fatto spesso trascurato dai commentatori di Gandhi che non hanno letto Tolstoj): oltre i fondamenti della nonviolenza, la lotta contro l’alcolismo e le droghe, la necessità del lavoro manuale (che anche Gandhi chiama “lavoro per il pane”, espressione usata da Tolstoj e prima da Bondarev), l’economia di villaggio, la critica a S. Paolo ecc. Tutta la critica alla società moderna, contenuta in Hind Swaraj, non è che un’esposizione più sistematica delle idee di Tolstoj contro industrie medicine e tribunali.

D’altro canto vi sono anche differenze importanti, di cui bisogna tener conto.

Se nella sua lettera a Tolstoj de1 4 aprile 1910 Gandhi si definisce: “vostro umile seguace”, più tardi (1931) rivendicherà una sua autonomia: “Gli debbo molto. Lo vanto come uno dei miei maestri, ma con tutta umiltà posso dire che non mi ha arrecato qualcosa di nuovo, ma ha fortificato certe idee confuse in me” (Marcucci, Tolstoi e 1’Oriente, pag. 19).

Non resistenza tolstoiana e nonviolenza – ahimsa – gandhiana sono affini, complementari anzi, crediamo, ma non identiche. Il nome stesso ha origine da due culture diverse. Tolstoi lo prende da una frase del Vangelo, Gandhi dalla tradizione induista. In Tolstoj la non resistenza al male è un elemento, anche se di primaria importanza, del mutamento radicale nei rapporti umani e nelle strutture sociali, che egli auspica, e rappresenta solo un aspetto della sua ricerca filosofica, che spazia nei campi più vasti. Gandhi prende questo singolo elemento e ne fa il perno della sua riflessione e della sua azione politica contro gli inglesi. Anche se nei suoi scritti affronta altri argomenti, come l’organizzazione della società o l’elevazione morale del popolo, nella pratica, per l’urgenza della lotta politica, questi altri elementi restano un po’ in ombra. Gandhi concepisce l’ahimsa soprattutto come lotta, come attacco, anche se condotto con amore, sacrificio personale e con il fine di convertire il nemico. Un suo principio-base è che “l’uomo e le sue azioni sono due cose distinte … colui che compie l’azione, buona o cattiva merita sempre rispetto o comprensione”. Per poter condurre una lotta di questo tipo mette a punto una serie di tecniche: digiuni, marce, boicottaggi, arresti di massa ecc. Tolstoj concepisce la non resistenza prevalentemente come un ritirarsi davanti al malvagio, un non collaborare, se pure accompagnato da una forte denuncia verbale dell’ingiustizia (da cui l’accusa di passivismo). Manifestazioni, azioni dirette per lui non hanno senso. Come abbiamo visto, per lui la vera lotta da compiere è la lotta contro il male, che è in noi; è la nostra stessa conversione che dobbiamo cercare per prima cosa, da lì muoverà ogni altro cambiamento; chiedere qualcosa ai governi, sarebbe riconoscere la loro autorità. Mentre per Gandhi la purificazione personale serve ad addestrare il combattente Satiagraha, per Tolstoj essa è già, per se stessa, un mezzo per sconfiggere il male esterno. Inoltre in Tolstoj, restando la sua ricerca sul piano teorico, non vengono date indicazioni su tecniche e azioni specifiche e concrete.

In pratica poi in ciascuno, queste varie posizioni non si presentano con confini così inetti come abbiamo dovuto indicare schematicamente qui per brevità, ma con varie sfumature. Le posizioni di Tolstoj appaiono più avanzate e radicali. Gandhi ammette la violenza in qualche caso estremo, Tolstoj la rifiuta in ogni caso; Gandhi auspica uno stato che governi poco, Tolstoj vuole abolirlo ecc. Questo è ovvio: Gandhi dovette mediare la nonviolenza, per passare dalla teoria alla pratica della lotta politica. E solo attraverso la sua mediazione, la nonviolenza è potuta penetrare nella storia.

Noi siamo convinti che una comprensione approfondita della nonviolenza ed una sua applicazione pratica veramente efficace, possano nascere solo da una lettura congiunta di questi due suoi grandi interpreti (a cui non si può non aggiungere il contributo apportato da Martin L. King).

Infatti a ben riflettere, i limiti di ciascuna dottrina furono fatali ad entrambi i loro autori e possono essere causa di amari fallimenti. Tolstoj ebbe grosse difficoltà nella sua vita privata, per il suo atteggiamento eccessivamente remissivo con la famiglia e la sua esistenza si concluse dolorosamente con la fuga da casa, dove la situazione era divenuta insostenibile. Il suo pensiero così radicale rischia la totale emarginazione, ha attirato finora solo pochi individui, isolati, e nessun mutamento visibile ha apportato nella società. A Gandhi invece la conflittualità prese la mano. Al momento dell’indipendenza, si scatenarono in India orrendi massacri e Gandhi stesso ne rimase vittima. E l’India moderna, il cui popolo non si è coscientizzato ed evoluto, è libera sì dagli Inglesi, ma ben lontana dal sogno morale di Gandhi.
LA NONVIOLENZA LEGHISTA (CON I MITRA…)

Quella resistibile ascesa di Umberto Bossi

L’ideologia della Lega Nord: una semplificazione egoistica che affascina tanti anche a sinistra
di M. Luisa Terzariol e Stefano Benini

La Lega Lombarda, poi Lega Nord, compare sul palcoscenico della politica italiana a metà degli anni ‘80, quando da un lato entrano in crisi le modalità storiche di aggregazione e rappresentanza dei soggetti sociali tradizionali (partiti, sindacati, organizzazioni), e dall’altro si avvia quel processo di rivoluzione economico-finanziaria che va sotto il nome di globalizzazione.

Le società si spaccano: da una parte i privilegiati e i garantiti, dall’altra gli esclusi e i precari. Cambiano le modalità del lavoro: lavoro autonomo, piccola imprenditoria, lavoro decontrattualizzato da un lato, lavoro dipendente dall’altro; difesa della rendita e del privilegio fiscale da una parte, tutela del salario, equità fiscale, difesa dello stato sociale dall’altra.

In questo quadro, dove niente e nessuno è più garantito, dove cresce la paura di uscire sconfitti nella competizione globale, dove il mito del “far da sé” sembra fornire un’illusoria difesa contro gli “altri”, cresce e si diffonde la Lega.

Due o tre cose che so della Lega

Ufficialmente il movimento nasce nel 1982 come Lega Autonomista Lombarda, il cui simbolo (Roberto da Giussano che brandisce la spada) richiama il lombardo vessato dalle tasse di uno “Stato ladrone, emanazione di un governo terrone”, come descritto negli articoli dell’organo ufficiale “Lombardia Autonomista”. Subito il federalismo – vedremo poi come già allora sovrapponibile alla secessione – diviene la parola magica, la panacea di tutti i mali del Nord.

L’esordio elettorale del 1983 e non è dei più esaltanti, eccetto per la Liga Veneta di Franco Rocchetta, ed è proprio con questo movimento e con L’Union Piemonteisa di Roberto Gemmo che viene fondata l’Alleanza Padano-Alpina. Solo nelle politiche del 1987 la Lega riesce a portare in Parlamento due suoi rappresentanti, mentre nel 1989 nasce l’Alleanza Nord, che raccoglie le adesioni di diversi movimenti autonomisti e secessionisti.

É a questo punto che iniziano le espulsioni di tutti coloro che, Gemmo in prima battuta seguito da Castellazzi e Pivetti, tanto per citare due nomi conosciuti, non sono schiacciati su posizioni di pura ortodossia. Si vanno via via eclissando, a partire da questa fase, anche quanti si erano avvicinati alla Lega per valorizzare le culture e le tradizioni locali.

Attraverso questa pratica, le cui recenti vicende – anche a Desenzano – sono sintomatiche del livello di dibattito democratico interno al movimento, emerge la concezione che Bossi ha del suo partito: verticale, accentrato, senza spazio per il dissenso interno. Questo ha portato ad un movimento che è presente in modo diffuso sul territorio, ma, con un parodosso solo apparente, centralista e privo di reale capacità d’azione locale (le sedi si mobilitano solo quando, da Roma, Bossi lancia qualche campagna), oltre che carente di personale politico, peraltro imposto anche questo da Roma. Non a caso i risultati elettorali amministrativi sono stati spesso molto al di sotto dei consensi raccolti in occasione delle politiche.

Le elezioni del 1990 costituiscono per la Lega un’affermazione, soprattutto in Lombardia. Bossi sa che deve far crescere il consenso intorno al suo progetto e in questa direzione inserisce la grande kermesse politico-folcloristica del giuramento di Pontida, a cui in tempi più recenti si è sostituita la marcia lungo il Po e il giuramento a Venezia. In entrambi i rituali i fedelissimi si stringono intorno al capo, che dal palco li ammonisce indicando la via da seguire, in un rapporto quasi messianico.

Ancora una volta i modi (il giuramento) e i simboli (il fiume, l’ampolla) fanno emergere l’anima totalizzante della Lega, che giocando sul bisogno d’appartenenza dei propri aderenti fornisce una scala di valori ispirata al “buon senso comune”, apparentemente compatibile con le due culture, la cattolica e la socialista, più radicate nella realtà del Paese. Nonostante le parole d’ordine forti e i toni barricaderi, lo slittamento dell’elettorato moderato verso la Lega è del tutto indolore, come dimostrano le aree tradizionalmente “bianche” del nord-est, perfettamente sovrapponibili a quelle del maggior consenso leghista.

Il ‘92 è l’anno del maggiore successo (80 parlamentari) e il ‘93, col congresso di Assago, quello della svolta a destra: la Lega si pone chiaramente come forza anti-sinistra alleata con la nascente Forza Italia. Nel marzo del ‘94, assieme alla “porcilaia fascista” di Alleanza Nazionale (sono parole di Bossi), conquisterà il governo del Paese. Nell’autunno dello stesso anno esce dalla coalizione al potere e nelle successive elezioni del 1996 correrà da sola, caratterizzandosi sempre più come la forza che raccoglie l’anima individualista, protestataria eppure conservatrice delle aree settentrionali.

Federalismo e secessione: le due parole magiche

Il federalismo prima, e la secessione poi, sono state le parole d’ordine della Lega: semplici e incisive, permettono di concentrare le forze attorno ad un unico obiettivo. Si tratta di parole d’ordine abbastanza precise per indicare la direzione di marcia, ma abbastanza sfumate e generiche per giocare su due piani: uno massimalista, velleitario, populista nei comizi, ed uno più tattico nelle trattative politiche romane. Infine, richiamando l’immagine di libertà, autonomia, responsabilità, autogoverno, permettono di appropriarsi di immagini progressiste che nascondono la natura velleitaria e conservatrice, spesso reazionaria, del movimento.

Il “federalismo” della Lega fin dall’inizio si proponeva di rompere l’unità nazionale in quanto si basava, secondo le analisi dell’ideologo Miglio, sul diritto di chiunque di unirsi e dividersi in unità territoriali, diritto questo che mina l’idea stessa di Stato, sia esso federale o meno. Tale “federalismo” si basava sulla volontà di trasferire alle macroregioni (in realtà a quella del nord-est, che è sempre stata il solo progetto leghista) le questioni nazionali così da farne uno stato vero e proprio. Ciò che ha sempre e solo interessato alla Lega è la natura esclusivamente economica di tale “federalismo”, sempre definito in termini di limitazione dell’area di godimento della ricchezza e dei privilegi.

Nella rappresentazione leghista della realtà la ricca “Padania” non è più disponibile a dividere con il resto d’Italia il proprio benessere, come se la sua ricchezza non fosse il frutto, sin dall’inizio della storia unitaria, di una politica statale di investimenti concentrati nelle aree settentrionali a scapito di quelle meridionali, del lavoro delle masse di immigrati dal Sud, della rendita finanziaria e del privilegio fiscale. Giova forse ricordare che la causa principe del debito pubblico è l’interesse sui Titoli di Stato, posseduti in massima parte al Nord, e non “l’assistenzialismo romano”.

La richiesta di secessione è quindi la pura pretesa di conservare i livelli di benessere economico raggiunti dalle regioni settentrionali; in questa logica i rapporti economici tra Nord e Sud non sarebbero che l’istituzionalizzazione della funzione del Mezzogiorno quale colonia del Nord, dove avere forza lavoro a basso costo, senza garanzie di sorta e protezioni sociali.

La caratterizzazione della Lega come forza inequivocabilmente di destra si evince anche dalla sua ossessiva campagna anti-tasse (e quindi anti spesa pubblica, ossia smantellamento dello Stato sociale), che tradisce una visione dei rapporti sociali basata solo sulla comunanza di interessi economici. Basti pensare all’ossessione per la protezione della proprietà privata e alla sua visione dei rapporti basata sulla forza fisica, simboleggiata dal richiamo agli attributi sessuali e dall’aggressione verbale dell’avversario politico. Le ronde padane e le camicie verdi, il culto del capo, le scritte “Dio è con noi”, non possono non dare un brivido anche a chi ha avuto la fortuna di studiare quel periodo storico solo nei libri.

Il progetto di secessione non poteva tuttavia trovare giustificazione nella cruda rivendicazione economica, ed ecco quindi la nascita di quell’identità regionale fittizia, storicamente e culturalmente inesistente, che è la Padania. Non è certo il caso di compiere un excursus storico su come il Nord d’Italia sia sempre stato un’entità territoriale divisa in miriadi di soggetti in lotta fra loro, a fronte di un Sud che è stato per molti secoli l’unica entità statuale unitaria. Vale solo la pena osservare come, a fronte della crisi dello stato nazionale come garante dei conflitti sociali e politici, la parte ricca del Paese si richiami, per ricreare una propria identità, ad un passato storico fatto di luoghi comuni e di approssimazioni (basti pensare all’uso della figura di Roberto da Giussano o alla mistificazione della Serenissima Repubblica di Venezia), mascherando così un’idea di convivenza sociale regolata solo dalla forza economico-finanziaria dei soggetti.

Stato, sindacato, chiesa: i nemici attuali

La Lega, per la sua natura di movimento protestatario ed individualista, ha costante bisogno di un nemico; essa esiste solo in quanto è contro qualcosa o qualcuno e non in quanto “è” per la costruzione di un progetto, come mostra l’assenza dal dibattito su autonomia e federalismo in Commissione bicamerale.

Il nemico storico è lo Stato, identificato come il male supremo, una sorta di Dracula che dissangua la verginella del Nord. Il motivo di tale frontale contrapposizione è facilmente individuabile: ogni Stato, anche quello federale, è un’entità che per sua stessa natura richiede una compartecipazione economica e una struttura fiscale unitaria, cosa del tutto inaccettabile per la visione che la Lega ha delle basi su cui si fonda l’aggregazione sociale.

Il sindacato è l’altro nemico, non solo perché difende e garantisce i diritti del lavoro dipendente che si vorrebbe atomizzato, deregolarizzato, omologato alle logiche e agli interessi della piccola e piccolissima industria, ma anche perché è una forza nazionale che unifica il mondo del lavoro da Nord a Sud. Rompere l’unità del lavoro, per esempio con la famigerata reintroduzione delle gabbie salariali, è del tutto funzionale alle logiche della deregolamentazione, della flessibilità e del liberismo sfrenato che paiono regolare l’economia mondiale. Ciò non può che portare a nuove forme di darwinismo sociale, alla riproposizione della filosofia meritocratica e alla conseguente marginalizzazione degli strati sociali più esposti.

Infine la chiesa, nemica non solo perché predica contro la divisione dello Stato, ma anche in quanto ormai unica entità sovranazionale e nazionale, insieme al sindacato, in grado di elaborare culture, simboli e forme di aggregazione su basi non monetaristico-economiche. Istituzione forte anche là dove la crisi delle tradizionali forme di rappresentanza politica e l’incertezza economica hanno aperto il campo alla propaganda xenofoba ed individualista della Lega.

La “Padania” mezzogiorno d’Europa

Sulla base di queste osservazioni si può evincere la vera natura della Lega: è un’organizzazione che dà espressione e traduce l’idea che, in un periodo di alta competizione mondiale, l’Italia rischia l’emarginazione mentre la “Padania”, senza il peso del Sud, ha tutto da guadagnare in termini di reddito, di occupazione e di sviluppo produttivo.

Non importa se questo implica la rinuncia ad una politica estera autonoma, ad una forte identità linguistica e culturale, ad un ruolo significativo in campo artistico e scientifico (ecco forse perché la Lega, tranne pochi casi marginali, non riesce a convincere gli intellettuali). Tutto questo non le interessa un granché: organizzazione di bottegai, piccoli imprenditori, artigiani, faccendieri, con un largo seguito tra gli operai, che, privi o privati di ogni prospettiva politica autonoma, cercano di salvarsi dalla disoccupazione galoppante, essa non ambisce ad altro che a scavarsi una nicchia tranquilla nel cuore dell’Europa, a costruire un argine contro l’assalto che i diseredati della terra portano alla cittadella europea del benessere.

Ma tutto questo è illusorio e antistorico. Illusorio, perché solo rimuovendo gli squilibri nella distribuzione delle ricchezze sarà possibile per tutti i popoli vivere dignitosamente senza dover, come purtroppo ben sappiamo noi italiani, cercarne altrove i mezzi. Antistorico, perché i flussi migratori da Sud a Nord non si fermano alzando frontiere, e soprattutto perché i processi internazionali vanno verso l’integrazione degli Stati.

Solamente un’Italia unita e che abbia risolto i problemi di ineguale sviluppo che ancora l’assillano sarà in grado di entrare a pieno titolo in Europa e di reggere la competizione globale; la “Padania”, da sola, dovrebbe rassegnarsi a divenire colonia di stati forti, Sud di un Nord più ricco che qui investirà finché troverà condizioni favorevoli, salvo poi andarsene verso altri mercati.

ECONOMIA E NONVIOLENZA NELLA GLOBALIZZAZIONE

Le aspre domande di fine secolo

di M.Luisa Terzariol

Questo secolo oramai alla fine, che ha segnato un punto di svolta nella storia, ha visti affermarsi la centralità del lavoro e della classe operaia come soggetto economico e politico. La fine del secolo tuttavia ha portato una lacerante crisi che investe il concetto stesso di lavoro e le ragioni della Sinistra; le vicende italiane allora non sono che la ricaduta nazionale di un processo mondiale. Cosa comporta questo cambiamento radicale e, per molti aspetti, traumatico? E, soprattutto, la Sinistra che risposta può dare, come deve ricollocarsi, mantenendo la sua specificità e la sua ragione d’esistere? Questo è l’orizzonte entro cui si colloca questo singolare testo di Pietro Ingrao e Rossana Rossanda.

Scopo di questo testo è indicare un’agenda di questioni con cui la Sinistra deve confrontarsi per capire il cambiamento e per dare risposte alle domande che pone. Si tratta quindi di un libro aperto, volutamente incompiuto, note su cui discutere, riflettere, confrontarsi per governare il processo di trasformazione. Le questioni sono poste in modo compatto nel testo scritto a due mani, che è la parte iniziale del libro, mentre nei saggi finali di M. Revelli, I.D. Mortellaro e K.S. Karol si trovano integrazioni, divergenze che sono segno dell’impossibilità di semplificare, di dare risposte definite e definitorie. Materiali per l’analisi, questioni aperte, domande insolute sono contenute anche in quella sorta di romanzo epistolare fra Ingrao e Rossanda che è la seconda parte del libro.

L’orizzonte d’analisi degli autori ci dice che i cambiamenti non hanno atteso la fine cronologica del secolo, l’hanno già decretata, perché hanno segnato un passaggio radicale prima nel modo di produzione e poi nell’ambito sociale e politico. I caratteri del cambiamento sono sintetizzabili in alcune parole chiave: postfordismo, precarizzazione, mondializzazione, informatizzazione. Essi hanno modificato il modo di produrre e il lavoro; ne è uscito sconvolto l’orizzonte d’azione in cui la Sinistra si colloca.

Siamo di fronte ad un capitalismo che cresce ma non porta con sé espansione né dei salari né dei diritti. E’ infatti crescente il differenziale fra aumento dei profitti e la stagnazione salariale che non riesce neppure a recuperare l’inflazione, mentre si fa sempre più spudorato l’attacco ai diritti del lavoro, dal collocamento, all’orario, alla sicurezza; e ai diritti sociali, al welfare, per arrivare fino alle proposte di privatizzazione di diritti fondamentali come la scuola o la sanità. L’attuale espansione capitalistica chiede alla manodopera di rinunciare ad un lavoro che la qualifichi, basta vedere la diffusione delle varie forme di precariato, in nome di una subordinazione alle tecnologie.

Questo cambiamento del lavoro porta con sé conseguenze anche per il modello di Stato, che non sembra più potersi identificare con la nazione. Essendo ormai la produzione transnazionale ed essendo le grandi centrali economiche mondiali (G7, OSCE, F.M.I., Banca Mondiale) a determinare nei fatti la politica dei governi nazionali, lo Stato-nazione, come si è venuto determinando nel corso del secolo, è entrato fortemente in crisi. Emblematica è la vicenda italiana, dove gli ultimi governi, eccetto la breve parentesi di Berlusconi, sono stati presieduti da uomini di Bankitalia e hanno fatto politica attraverso lo strumento “tecnico” delle manovre economiche.

Alla dimensione transnazionale si accompagna la rinascita di pulsioni nazionalistiche ed etniche, quasi che la perdita di identità statuali richiami il bisogno di identificazioni più profonde ed ancestrali. Se il modello di Stato ne esce in crisi, muta anche l’idea di democrazia, in quanto ogni possibile ascesa ai luoghi ove si determinano lo sviluppo e le risorse di un Paese tende ad avvenire non per via politica ma all’interno del sistema economico. Conseguenza questa ovvia se si accetta la tesi “libertà uguale libertà d’impresa”, per cui alla fine solo il capitalista coincide con il cittadino in senso pieno; chi non detiene i mezzi che gli consentono di acquistare gli strumenti di sussistenza, formazione e partecipazione, viene escluso.

Assistiamo, in questa fine di secolo, al passaggio dal concetto di povertà a quello di esclusione: gli esclusi sono coloro che restano fuori dal sistema produttivo e distributivo, gli “esuberi”, sono il risultato di un crescita economica che sembra quasi fare a meno dell’espansione del lavoro. La disoccupazione non è più, come nel ciclo fordista, congiunturale, ma diviene strutturale, insita nel nuovo modo di produrre. Questa esclusione passa attraverso forme di lavoro che gli autori non esitano a definire “servile”, che si presentano cioè duttili, contingenti, personalizzate e precarie: un lavoro che non si costituisce mai come soggetto né sindacale né politico; ben si capiscono quindi le note richieste confindustriali di flessibilizzazione del lavoro.

Se lo Stato viene pensato, definito come un’azienda (come non ricordare “l’azienda Italia”) e si intende governarlo secondo i criteri dell’impresa, sola realtà riconosciuta come positiva, costruttiva, vincente, è più che mai consequenziale che la forma statuale debba adeguarsi a quella aziendale, per cui il primo ministro è visto come una sorta di amministratore delegato che rende conto agli azionisti, i cittadini, una volta ogni quattro anni in quella sorta di assemblea generale del gruppo che sarebbero le elezioni. Il parlamento è quindi un intralcio all’azione del governo: l’amministratore delegato agisce solo, con il suo consiglio d’amministrazione, su mandato degli azionisti, senza ulteriori vincoli. Chiara diviene allora anche la voglia presidenzialista, che ha contagiato anche forze di sinistra, la riduzione della politica e della partecipazione democratica alla scelta e definizione di un leader nel quale ci si riconosce e da cui ci si sente interpretati ed espressi. La voglia di un capo si esprime nella domanda non di un capo guerriero ma di un manager (facile il richiamo a Berlusconi, ma cosa sono, se non manager, anche i ministri, gli esperti, dei governi “tecnici”?) che governi la società come un’impresa. Siamo di fronte ad una sorta di tecnocrazia, di dominio assoluto del mercato, a mio avviso alla nuova forma del fascismo.

Gli strumenti d’analisi sociale, di previsione economica, di elaborazione politica che la Sinistra ha usato e che l’hanno caratterizzata sono ancora validi per leggere questa nuova realtà? E, soprattutto, il lavoro è ancora un valore in questo orizzonte che sembra dominato da quello che ne è stato il valore antitetico, il capitale?

Per Ingrao e Rossanda il movimento operaio, ma soprattutto le sue organizzazioni politiche, sono state incapaci di afferrare l’insieme di questo radicale cambiamento, o perché ferme a leggere la realtà secondo la logica fordista o perché ripiegate a subire la vittoria del mercato. E’ in questa incapacità di capire e leggere il processo di cambiamento che vedono le cause della crisi attuale della Sinistra.

Tutto parte e tutto torna quindi al tema del lavoro e alla domanda se è ancora un valore. La risposta che gli autori danno è che il lavoro rimane un valore, ma non è l’unico valore di riferimento, perché da questo radicale cambiamento di fine secolo sono emersi prepotentemente i temi dell’ecologismo e del pensiero femminile. Al primo si deve la prima e radicale critica al modello fordista di illimitata crescita dello sviluppo a cui avrebbe corrisposto una redistribuzione del reddito e dei diritti; gli ecologisti ci hanno messo di fronte alla realtà di un limite naturale delle risorse disponibili, intese anche come beni comuni a tutta l’umanità (l’aria, l’acqua, il suolo), di una crescita che ha escluso dai suoi benefici economici e sociali la maggioranza della popolazione mondiale, che mai come ora è stata attanagliata dalla fame e oppressa dal debito estero. Al pensiero femminile si deve la rivendicazione del suo essere l’altro e altro dal pensiero maschile dominante e l’aver posto alla Sinistra domande che evocano dimensioni dell’umano che obbediscono a momenti vitali, basti pensare al tema del corpo, dell’affettività, della vita, del tempo, profondamente “altri” da quelli produttivisti ed economicisti che caratterizzano l’agire maschile.

Su tutte queste questioni non è possibile per la Sinistra non interrogarsi e non trovare risposte profonde e non strumentali. Per Ingrao e Rossanda, la Sinistra, in questo nuovo orizzonte, “può vincere la battaglia postfordista solo se riesce a dare “voce” anche a queste sfere non misurabili né con la produzione né col denaro” e che chiedono un’altra dimensione all’agire politico, diversa da quella che conosciamo.

Solo così la Sinistra saprà ritrovare capacità di lettura e di elaborazione di un progetto opposto a quello del mercato che le restituisca la capacità di rappresentare un’alternativa sociale e politica, che le restituisca il senso della sua esistenza.

“Appuntamenti di fine secolo”, di Pietro Ingrao e Rossana Rossanda, con saggi di M. Revelli, I.D. Mortellaro, K.S. Karol, Manifestolibri, Roma, 1995, lire 24.000.

Gli autori: Pietro Ingrao è stato dirigente del P.C.I. e presidente della Camera dei Deputati; Rossana Rossanda, giornalista e saggista, è tra i fondatori del quotidiano “Il manifesto”; Marco Revelli insegna alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino; Isidoro Mortellaro è ricercatore di Storia presso l’Università di Bari; K.S. Karol è scrittore e giornalista del “Nouvel Observateur”.

Immanuel Kant, Per la pace perpetua, saggio introduttivo e traduzione di A. Bosi, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole (FI), 1995, pp. 171, l. 20.000.

Oggi la filosofia della pace annovera molti pensatori (tra gli italiani possiamo ricordare almeno N. Bobbio e G. Pontara); ma anche nel passato grandi filosofi hanno affrontato il tema della pace. Vengono alla mente Erasmo da Rotterdam, autore del Lamento della pace (1517), Kant e William James, autore del saggio L’equivalente morale della guerra (1910).

Nel Settecento l’ideale della pace fu molto diffuso tra gli intellettuali (in particolare, possiamo citare Voltaire); ma lo scoppio della Rivoluzione francese pose termine all’irenismo illuministico e gli eserciti, a partire dal 1792, ripresero a percorrere e a devastare l’Europa. Nel 1795 fu conclusa tra la Francia e la Prussia la pace di Basilea: sembrò possibile un ritorno dell’ideale pacifista e Kant (1724-1804) pubblicò il suo saggio Per la pace perpetua, nel quale aveva elaborato un piano organico per giungere alla pace universale e definitiva tra tutti i popoli.

In esso Kant riconosceva le condizioni della pace nella costituzione repubblicana dei singoli Stati, nella federazione degli Stati tra loro e nel diritto cosmopolitico, cioè nel diritto di uno straniero a non essere trattato da nemico nel territorio di un altro Stato. Inoltre, negli articoli preliminari, sosteneva che, per garantire la pace, gli eserciti permanenti dovevano col tempo sparire completamente.

Dopo l’edizione nella UE Feltrinelli del 1991, tradotta da R. Bordiga, questa nuova pubblicazione del saggio kantiano si segnala per l’ampio studio introduttivo di oltre cento pagine e per il commento assai documentato.

Il prof. A. Bosi, che ha dato del testo una versione limpida e fedele, è un profondo conoscitore del pensiero del filosofo tedesco, avendo già tradotto per le edizioni UTET di Torino la Critica del giudizio. Studia da tempo i problemi della pace ed è membro del Coordinamento della Scuola di pace di Boves (Cuneo).

Il testo ora pubblicato, per la complessità dei temi trattati e per la ricchezza di riferimenti culturali (soprattutto nel saggio introduttivo), è adatto a lettori dotati di una solida preparazione filosofica e giuridica.

DALL’ASSEMBLEA DI TORINO
Gli obiettori OSM:”vogliamo la Legge”

Si è tenuta a Torino il 7 e 8 febbraio 1998, presso la nuova sede del Centro Studi “Sereno Regis”, la 17° assemblea nazionale ordinaria della Campagna OSM per la Dpn.

I 50 partecipanti hanno approvato mozioni di indirizzo politico e organizzativo che impegnano il Coordinamento politico della campagna ad attivarsi affinché nel corso del 1998 vengano attuate iniziative tese alla definitiva approvazione della riforma della legge 772/72 su Obiezione di coscienza e servizio civile, all’espansione dell’attività dei Caschi Bianchi, alla moltiplicazione dei contatti istituzionali per approssimare l’opzione fiscale e a fare proprie le iniziative di lotta contro le spese militari, i conflitti in corso, il Nuovo Modello di Difesa, ecc. (vedi mozione 1).

Nel pomeriggio di Sabato 7 sono state presentate le attività dell’Ambasciata di Democrazia Locale di Zavidovici, dei Caschi Bianchi dell’Associazione Papa Giovanni XXIII e delle Peace Brigades International.

Sono state inoltre discusse nei gruppi di lavoro, proposte organizzative tese a migliorare i rapporti con i coordinatori locali e l’immagine esterna della Campagna.

I prossimi appuntamenti che la Campagna si è data sono:

Martedì 24 Marzo 1998 a Roma, Manifestazione nazionale per l’approvazione della legge di riforma della 772/72 organizzata dalla Consulta Nazionale degli Enti di Servizio Civile, dalla Lega Obiettori di Coscienza e dall’Associazione Obiettori Nonviolenti (info: Loc 02/58101226)

Domenica 29 Marzo 1998 Via Crucis da Pordenone a Aviano, organizzata dai Beati i costruttori di pace, per la chiusura della base militare americana di Aviano (info: Bcp Padova 049/8755897)

Sabato 4 Domenica 5 aprile 1998 presso la Casa per la Pace di Pax Christi a Tavernuzze (Fi), 3° Seminario di studio su “L’impiego di Odc all’estero in missioni di pace” organizzato dalla Campagna OSM per la DPN, finalizzato alla creazione di un pool di Enti di servizio civile e ONG che moltiplichino le occasioni di intervento all’estero di Odc e lavorino alla creazione di un’apposita convenzione con il Ministero della Difesa per Caschi Bianchi (info: Loc 02/58101226).

Nel prossimo numero di Azione Nonviolenta pubblicheremo tutte le mozioni, le informazioni sulle modalità di svolgimento della Campagna per il 1998, ecc.

Ricordiamo che le Guide OSM ’98 sono disponibili gratuitamente presso la LOC Milano (02/58101226) e il Centro Studi “Sereno Regis” di Torino (011/532824).

LA MOZIONE NUMERO UNO

(presentata dalla commissione prospettive politiche)

La 17° assemblea nazionale ordinaria degli OSM per la DPN riunita a Torino nei giorni 7 e 8 febbraio 1998 delibera di impegnare gli organismi dirigenti della Campagna a realizzare nel corso del 1998 tutte le attività necessarie tese a raggiungere o ad approssimare il raggiungimento dei seguenti obiettivi:

l’approvazione definitiva della legge di riforma della 772/72 così come approvata dal Senato il 29 gennaio 1997, ritenendo irrinunciabile la presenza nell’articolato: dell’art. 8 comma e) relativo all’impegno statale all’avvio di attività di ricerca e sperimentazione di attività di DPN a tal scopo utilizzando il servizio civile degli odc al servizio militare e dell’art. 9 relativo alle modalità di servizio civile all’estero degli odc “in missioni di pace/umanitarie” ecc.

promozione di forme di collaborazione tra realtà associative e ONG che in questi anni hanno sperimentato e agito forme di interposizione/mediazione/soluzione nonviolenta dei conflitti a livello locale e internazionale anche attraverso l’uso di odc in servizio civile.

L’obiettivo finale è di ottenere un riconoscimento normativo definitivo teso alla creazione di Caschi Bianchi istituzionali, sperimentando fin d’ora, viste anche le recenti novità legislative che già permettono l’utilizzo degli odc al servizio militare, tutte le strade percorribili.

continuare ad estendere tutti i contatti ritenuti necessari al fine di ottenere il massimo riconoscimento possibile per l’opzione fiscale.

incrementare l’azione politico/informativa della campagna all’interno dei movimenti, delle campagne, dei coordinamenti e di quant’altro operi sul terreno della riduzione delle spese militari, contro il commercio internazionale e locale delle armi, per la riconversione dell’industria bellica, contro gli embarghi, i conflitti presenti e futuri e le responsabilità italiane in proposito.

MAESTRI DEL PENSIERO INDIANO/2

La dottrina delle Upanishad

Le “Upanishad”, che risalgono al VII-IV secolo a.C. , sono le opere filosofiche che concludono la raccolta dei “Veda”, perciò sono chiamate “Vedànta” (fine dei “Veda”). Il vocabolo “Upanishad” deriva da un verbo che significa “sedersi vicino”, e trae origine dal fatto che discepolo e maestro sedevano l’uno accanto all’altro, il primo per ricevere l’insegnamento orale del secondo; e, poiché l’insegnamento era segreto, in Occidente il titolo viene tradotto con l’espressione “dottrina esoterica”.

La ricerca dei pensatori indiani, nel tentativo di andare oltre il politeismo popolare, aveva portato al concetto di “Brahman”, l’Anima universale presente in ogni aspetto del cosmo. Il “Brahman” non è un Dio personale, è lo spirito divino che intride di sé l’intera realtà: è l’unico Essere, di cui tutte le creature sono manifestazioni particolari.

Come i fiumi che scorrono verso oriente o verso occidente tutti provengono dall’oceano e all’oceano ritornano, divenendo l’oceano stesso, dove non è più possibile distinguere, “io sono questo fiume”, “io sono quel fiume”, così, mio caro, tutte le creature senza saperlo provengono dall’Essere.

Qualsiasi cosa siano qui sulla terra, tigre, o leone, o lupo, o cinghiale, o verme, o mosca, o tafano, o zanzara, esse sono ciò.

Ciò è l’essenza più fine. È il sé di tutto il mondo. È la realtà. È il sé. Tu sei ciò, Svetaketu.

(“Upanishad”, Ed. Demetra, Bussolengo, 1997, pp. 56-57)

Natura e destino dell’anima

In ogni essere vivente è contenuta una scintilla del “Brahman”, perciò l’anima individuale (“Atman”) è della stessa natura dell’Anima universale (“Brahman”).

In verità, tutto questo mondo è Brahman. Con mente tranquilla, tu veneralo come ciò da cui sei emerso, ciò in cui di dissolverai, ciò in cui respiri.

La persona umana consiste delle proprie intenzioni. Secondo le intenzioni che ha in questo mondo, così diviene alla propria dipartita. Formi perciò un’intenzione corretta.

Ciò che consiste di coscienza, il cui corpo è il soffio vitale, la cui forma è luce, il cui concetto è la verità, il cui sé è lo spazio, ciò che contiene tutte le opere, tutti i desideri, tutti gli odori, tutti i gusti, ciò che abbraccia tutto questo mondo, silenzioso, indifferente, questo mio sé, situato nel cuore, è più piccolo di un granello di riso, o di orzo, o di sesamo, o di miglio, o del nucleo di un grano di miglio.

Questo mio sé, situato nel cuore, è più grande della terra, più grande dell’atmosfera, più grande del cielo, più grande di tutti i mondi.

Ciò che contiene tutte le opere, tutti i desideri, tutti gli odori, tutti i gusti, ciò che abbraccia tutto questo mondo, silenzioso, indifferente, è questo mio sé, situato nel cuore. Esso è Brahmam. In esso entrerò lasciando questa terra. Chi crede in ciò va al di là del dubbio.

(“Upanishad”, cit. pp. 41-42)

L’anima individuale permane nel tempo, passando attraverso un ciclo interminabile di esistenze (“samsàra”), allo scopo di purificarsi da ogni colpa per ricongiungersi infine all’universale Brahman. Fattore determinante del destino dell’uomo sono le azioni che egli commette in ogni singola esistenza: l’effetto di tali azioni (“karman”) al valore di una legge necessaria che si riflette sulle future esistenze.

Il veggente delle “Upanishad” cerca l’unione con l’Assoluto (Brahman), nel quale trova la liberazione dal ciclo delle esistenze. Immergendosi nell’Assoluto, si annulla definitivamente perdendo la propria individualità come un fiume che sfocia nel mare, senza la possibilità di nuove reincarnazioni.

Mentre nei “Veda” si esprimeva il piacere di vivere; viceversa la riflessione filosofica posteriore porta ad una visione pessimistica della vita ed al desiderio di annullamento totale. Un filosofo come Schopenhauer, che ha avvertito una palese affinità tra le proprie concezioni e quelle delle “Upanishad”, ha lasciato scritto: “la lettura delle Upanishad è stata la consolazione della mia vita sarà quella della mia morte” (“Parerga e Paralipomena”, par. 184).

Come le api raccolgono il nettare di diverse piante e lo trasformano in miele, unificandone l’essenza, cosicché non è più possibile distinguere, “io sono il nettare di questa pianta”, “io sono il nettare di quella pianta”, così, mio caro, tutte le creature senza saperlo ritornano all’Essere.

(“Upanishad”, cit. p. 56)

L’alba della nonviolenza

L’umanità ha percorso un lungo cammino, prima di scoprire il valore della nonviolenza: i popoli antichi erano bellicosi ed il coraggio militare veniva celebrato nei testi sacri e nei poemi. Pensiamo al Vecchio Testamento oppure ai poemi epici come l’Iliade o il “Mahabhàrata”.

In seguito, lentamente, col progresso del vivere civile, accanto ai valori dell’eroismo nella battaglia si cominciò ad apprezzare un modello di vita sobria, pacifica, aperta al dialogo e alla ricerca spirituale. Come abbiamo visto, nella tradizione indù si diffuse la convinzione che sia l’uomo, sia gli altri esseri viventi vanno rispettati in quanto dimora e manifestazione del “Brahman”, che è poi anche “l’Atman”. Da questa convinzione scaturì il concetto “dell’ahimsa” (nonviolenza, in sanscrito).

Colui che, ritornato dalla casa del maestro, dopo aver studiato i Veda, secondo le prescrizioni, nel tempo rimasto libero dopo il lavoro fatto per il maestro, nella sua famiglia, in un luogo purificato, si dedica allo studio dei sacri testi e prepara discepoli virtuosi, colui che, concentrandosi in se stesso, rispetta tutte le creature salvo che nei casi dovuti, in verità costui, comportandosi così per tutta la vita, entra nel mondo del “Brahman” e non più ne ritorna, non ne ritorna più.

(“Chandogya Up.” VIII, 15, 1 – da M.L.Tornotti, “La nonviolenza nella cultura indiana”, dai Veda a Ghandi, Cittadella Ed., Assisi, 1994, pp. 77-78)

Claudio Cardelli
Ignacio Ramonet, Poteri e mass media nell’era della globalizzazione, in AA. VV., Il pensiero unico e i nuovi padroni del mondo, Strategia della Lumaca, Roma, 1966.

Questo saggio di Ignacio Ramonet, direttore del mensile francese Le Mond diplomatique, approfondisce il concetto di “pensiero unico” che, espresso per la prima volta in un editoriale del 1995, in poco tempo è diventato una categoria di analisi del modello culturale ed economico dominante.

Il discorso di Ramonet prende l’avvio da una domanda e da una constatazione: “coloro che (…) ingaggiano interminabili tenzoni elettorali per conquistare democraticamente il potere (…), lo sanno che, in quest’ultimo scorcio di secolo, il potere si è trasferito?”. Esso è ormai altrove, “fuori dalla loro portata”. Da qui parte una lucida inchiesta alla ricerca delle nuove sedi del potere, che Ramonet individua nei mercati finanziari e nelle reti d’informazione.

Lo sviluppo tecnologico ha consentito l’esplosione e la dilatazione di questi due settori “che costituiscono i veri e propri sistemi nervosi delle società moderne”. Sono loro, i padroni ed i gestori di tali sistemi, che detengono il vero potere, ad un tempo economico e mediatico-culturale; essi, secondo l’efficace definizione di Ramonet, “sono i chierici della nuova ideologia dominante: il pensiero unico”.

Il pensiero unico, spiega l’autore, “è la traduzione, in termini ideologici che hanno la pretesa di essere universali, degli interessi di un insieme di forze economiche, in particolare di quelle del capitalismo internazionale”. A fondamento filosofico di tale pensiero vi è un’idea, che Ramonet cita da un articolo di Alain Minc, saggista neoliberale, formulata nel modo seguente: “il capitalismo (…) è la condizione naturale della società. La democrazia non è la condizione naturale della società. Il mercato si”. Da questo assioma discendono quei corollari che, messi in pratica ormai dai governi di tutto il mondo, rappresentano la formula neoliberista del capitalismo contemporaneo. In sintesi veloce, essi sono: l’assoluta libertà dei mercati, ed in particolare dei mercati finanziari; la concorrenza e la competitività senza esclusione di colpi sulla pelle di chi produce e di chi consuma; il libero scambio senza regole, salvo il protezionismo dei più forti; la globalizzazione della produzione e dei flussi finanziari; la divisione internazionale del lavoro; la moneta forte; le privatizzazioni e la deregulation. Elementi convergenti nello strutturare un’economia liberata dall’autorità regolatrice dello stato e da qualunque vincolo sociale ed ecologico, ossia democratico.

Questa ideologia economica è diventata pensiero unico grazie ad una gigantesca operazione culturale messa in piedi dai potenti custodi dell’ortodossia del capitalismo deregolato. Il saggio svela la genesi ed i meccanismi che hanno consentito a questa particolare dottrina economica di farsi senso comune, cioè di diffondersi fino ad offuscare, paralizzare ed infine soffocare qualunque visione economica e sociale differente. Il pensiero unico, la cui formulazione è fatta risalire da Ramonet fin al 1944 in occasione degli accordi di Bretton-Woods, ha come attuali ispiratori principali le grandi istituzioni economiche e monetarie: la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), l’Accordo Generale sulle Tariffe Doganali e sul Commercio (GATT), la Comunità Economica Europea e le banche centrali. Queste istituzioni “grazie ai loro finanziamenti, arruolano al servizio delle proprie idee, in tutto il pianeta, numerosi centri di ricerca, università e fondazioni che, a loro volta, affinano e diffondono la buona novella. Quest’ultima viene ripresa e riprodotta dai principali organi di informazione economica e segnatamente dalle bibbie degli investitori e degli operatori di borsa – il Wall Street Journal, il Financial Times, l’Economist, la Far Eastern Economic Review, l’Agenzia Reuter, ecc. – che sono spesso di proprietà di grandi gruppi industriali o finanziari. Un po’ dovunque, le facoltà di scienze economiche, i giornalisti, i saggisti e, per finire, gli uomini politici fanno propri i principali comandamenti di queste nuove tavole della legge e attraverso i grandi mezzi di comunicazione di massa, li ripetono a sazietà. Ben sapendo che nelle nostre società mediatizzate, ripetere equivale a dimostrare”.

E questo è il potere dell’informazione.

Al riparo da contestazioni, mentre la società è stordita sotto questo bombardamento mediatico, agiscono indisturbati i mastodonti della finanza, le cui inverosimili ricchezze, affrancate da vincoli e controlli di qualunque natura, scorrazzano a piacimento tra le borse internazionali. Gli stati, le cui riserve valutarie non sono sufficienti a fare da argine alle periodiche onde d’urto, si adeguano ed obbediscono alle imposizioni dei nuovi padroni del mondo, i quali, sottolinea Ramonet, “non hanno mai sottoposto i loro progetti al suffragio universale”. Ma il loro potere può provocare con repentini spostamenti di enormi masse di denaro la destabilizzazione economica di qualsiasi paese. “Da essi dipendono le sorti di buona parte del mondo” ammonisce infine Ramonet.

E questo è il potere finanziario.

“Il potere politico”, conclude l’autore, dunque “è saltato al terzo posto. Prima di tutto viene il potere economico, poi il potere mediatico. E quando si detengono entrambi (…) impadronirsi del potere politico non è più che una semplice formalità”.

Pasquale Pugliese

TRENT’ANNI DI STORIA DEL M.N.
Nonviolenza in cammino

Il Movimento Nonviolento è germinato dall’opera intellettuale e pratica di Aldo Capitini (1899-1968), che era venuto elaborando idee di nonviolenza fin dagli anni Trenta, fatte circolare prima in dattiloscritti clandestini poi raccolti nel volume Elementi di un’esperienza religiosa edito nel 1937 su interessamento di Benedetto Croce, “un’opera – ricorda Norberto Bobbio – letta da me e da tanti altri che cercavano un orientamento antifascista come un vero e proprio manifesto politico, che sotto il velame di un appassionato discorso religioso proponeva due temi fondamentali di interesse politico immediato: la nonviolenza e la non collaborazione alle leggi ingiuste”. Si trova agli inizi del libro questa frase: “Tanto dilagheranno violenza e materialismo, che ne verrà stanchezza e disgusto; e dalle gocce di sangue che colano dai ceppi della decapitazione salirà l’ansia appassionata di sottrarre l’anima ad ogni collaborazione con quell’errore, e di instaurare subito, a partire dal proprio animo (che è il primo progresso), un nuovo modo di sentire la vita: il sentimento che il mondo ci è estraneo se ci si deve stare senza amore, senza una apertura infinita dell’uno verso l’altro, senza una unione di sopra a tante differenze e tanto soffrire. Questo è il varco attuale della storia”. Vi sono in essa limpidamente condensati gli elementi essenziali dell’istanza nonviolenta capitiniana: il suo motivo ispiratore, la realtà sbagliata che vuole contrastare e quella nuova che è impegnata a realizzare, ed il basilare atteggiamento pratico da cui avviare il rinnovamento.

Con un’attività intensa e costante, Capitini prosegue per anni nella sua opera di promozione dell’idea nonviolenta attraverso riunioni, dibattiti, convegni, e con articoli di giornale e fogli ad amici in materia di politica interna e internazionale e di rinnovamento educativo, sociale e religioso sulla base preminente di un orientamento alla nonviolenza. Costituisce la Società Vegetariana Italiana, e nel 1952 il Centro di Coordinamento Internazionale per la Nonviolenza. Purtuttavia questa attività resta per lungo tempo limitata alla sua sola persona, con iniziative isolate e contingenti, su cui Capitini non trova modo di innestare uno sviluppo continuato e organico per la mancanza di collaborazioni precise e costanti. Sarà alla fine del 1961 che l’embrione del Movimento Nonviolento verrà posto in essere, dopo l’effettuazione della Marcia della Pace Perugia-Assisi da Capitini ideata e promossa: dall’emergere in essa di diverse forze pacifiste, egli volle dare continuità a quella occasionale confluenza istituendo tra esse una federazione denominata Consulta Italiana per la Pace, da lui presieduta; e per farvi a sua volta parte come associazione, costituì con alcuni simpatizzanti il Movimento Nonviolento per la Pace (dopo alcuni anni, in conformità alla sua allargantesi attività, dalla denominazione furono tolte le parole “per la pace”, perché risultasse che il lavoro del Movimento non era esclusivamente confinato al campo antimilitarista, ma esteso anche al campo socio-politico e culturale in genere).

Occorreva pertanto attivare il Movimento in sé, ancora formato di poche persone e privo di iniziative proprie. Nell’estate 1963 quindi, esso organizzò un Seminario sulle Tecniche della Nonviolenza della durata di dieci giorni, al cui termine fu tenuta una riunione di una decina di amici rimasti per discutere sul possibile avvio di un’attività specifica di Movimento. L’intesa preliminare fu di non occupare l’incontro nel rifare l’ennesima lista di una onnicomprensiva attività politica (a cui ogni nuova formazione ideologica indulge assurdamente, data la propria infima condizione embrionale), in una tale miriade di cose da fare – tutte sia pure desiderabili e urgenti – al punto da trovarsene alla deriva, impotenti a stringer nulla nella pretesa di abbracciar tutto. Si pervenne invece a discutere subitamente su due esigenze: la diffusione dell’idea nonviolenta, ed un congiunto impegno personale di messa in opera d’una sia pur minima ma effettiva pratica nonviolenta. La decisione fu per due possibili impegni concreti da avviare nell’immediato: un periodico mensile, per il dibattito e l’informazione sulle idee e le iniziative; un gruppo di azione, per la sperimentazione e iniziale attuazione delle idee prospettate.

Inizia così la storia del Movimento Nonviolento…

Nonviolenza in cammino – Storia del Movimento Nonviolento dal 1962 al 1992, a cura del Movimento Nonviolento, Edizioni del Movimento Nonviolento, Verona 1998, pag. 250, L. 20.000

(Richiedere ad Azione nonviolenta, ccp n. 10250363)
UN INEDITO DI TOLSTOJ
La legge della violenza e la legge dell’amore

di Gloria Gazzeri

Questo saggio fu scritto da Tolstoj nel 1908, cioè due anni prima della morte. L’anno successivo fu pubblicato nella Russia zarista in edizione ridotta e censurata; completo uscì invece nel 1917 nel n. 6 della rivista russa “Soldato e cittadino”, curato da Certkov, il più fedele discepolo e collaboratore di Tolstoj.

Viene ora tradotto per la prima volta dal russo in italiano , a cura degli “Amici di Tolstoj”. (La sola altra traduzione moderna è quella in inglese dell’Institute of world culture, 1993).

Eppure è da considerarsi uno dei testi basilari del pensiero nonviolento! Ma sappiamo tutti fra quante difficoltà la cultura nonviolenta va diffondendosi in una società ancora profondamente intrisa di violenza.

Come è noto, dopo la crisi religiosa dei suoi cinquanta anni, Leone Tolstoj pose il Vangelo a fondamento della sua vita e del suo pensiero, in particolare la non resistenza al male – “ma io vi dico non resistere al maligno” – gli apparve la chiave di volta di tutto il messaggio di Cristo.

E dunque tutto il pensiero di Tolstoj è profondamente religioso, anche se nell’ansia di ritornare al messaggio evangelico autentico, egli entrò in dura polemica con le chiese istituzionali – quella ortodossa soprattutto. Altrettanto dure furono le sue critiche al potere statale.

Ma ritorniamo al saggio in questione. Scritto con grande semplicità e chiarezza – come era nello stile di Tolstoj – diviso in 19 brevi capitoli, preceduti da citazioni di vari autori e conclusi ciascuno in se stesso, come una serie di quadri giustapposti – anche questo caratteristico dello stile tolstojano – il saggio contiene un estremo messaggio di speranza per l’umanità del grande scrittore e profeta, che si sentiva ormai prossimo alla morte. Termina infatti con questa frase: “Proprio questo volevo dire ai miei fratelli prima di morire.”

Tolstoj parte dalla constatazione della terribile condizione di perversione e sofferenza in cui si trova il mondo moderno. Si conduce “una vita in cui aumenta sempre più il lusso dei ricchi e la miseria dei poveri … una vita in cui tutti lottano contro tutti.” L’unico modo per uscire da questa terribile condizione è – secondo Tolstoj – “applicare alla nostra vita le regole di condotta contenute nella dottrina cristiana autentica”. Perché “la vita con i telegrafi, i telefoni, l’elettricità, le bombe e gli aeroplani e l’odio di tutti contro tutti”, non può continuare a lungo.

Ci troviamo ad una svolta storica – un passaggio epocale lo chiamò Ernesto Balducci – e questo passaggio sarà segnato appunto dal fatto che i rapporti personali e sociali fra gli uomini non soggiaceranno più alla legge della violenza reciproca, ma saranno guidati dalla legge dell’amore.

Nei vari capitoli poi Tolstoj esaminerà varie forme di violenza: la guerra, i tribunali penali, la pena di morte ecc., suggerirà quali atteggiamenti assumere di fronte ad esse da parte sia del singolo che della collettività.

Particolarmente interessanti, crediamo, i capitoli sull’obiezione di coscienza. Si citano i duri giudizi dei padri della chiesa contro il servizio militare, si ricordano i primi cristiani che affrontarono il martirio per non servire nell’esercito. Si riporta un’ampia documentazione sui primi obiettori di coscienza russi: processi, nomi, lettere. A quell’epoca in Russia rifiutare il servizio militare significava subire anni ed anni di carcere duro, a volte anche esser picchiati a morte.

E dunque è un testo che è bene leggere per chiunque voglia approfondire e chiarire le ragioni della sua scelta nonviolenta. E sappiamo che un pensiero chiaro è la base per una azione efficace.

Leone Tolstoj, La legge della violenza e la legge dell’amore, Quaderno di “Azione Nonviolenta” n. 15, ed. Movimento Nonviolento, Verona 1998, pp.94, lire xxxx.

Richiedere ad Azione nonviolenta

Di Fabio