• 23 Dicembre 2024 18:41

Azione nonviolenta – Marzo 2000

DiFabio

Feb 6, 2000

Azione nonviolenta marzo 2000

– La Cina e’ lontana dalla democrazia, Mao Valpiana
– Quando la globalizzazione non riesce a garantire acqua e pane per tutti, di Daniele Lugli
– Ballando, ballando il valzer del debito, di Alex Zanotelli
– Aldo Capitini: filosofo della nonviolenza, di Enrico Peyretti
– La deportazione nazista dei bibelforscher. Il martirio dei testimoni di Geova, di Alberto Bertone
– Per la riconciliazione dei popoli loro trasformeranno le spade in aratri, di Pasquale Pugliese
– Lettera aperta al Presidente Ciampi. La guerra e’ sempre un disonore, di Enrico Peyretti
– Islam: il Sufismo, una corrente mistica, di Claudio Cardelli
– Giubileo, di Alberto Castagnola e Maurizio Meloni

Rubriche

– Musica, a cura di Paolo Predieri
– Film, a cura di Peace Link
– Libri
– Lettere

EDITORIALE
La Cina è lontana dalla democrazia

a cura di Mao Valpiana

L’ombra di Tienanmen pesa ancora sulla Cina, e il regime di Pechino non riesce a liberarsi dai fantasmi di quei giovani massacrati nella Piazza. Le autorità cinesi non sopportano che qualcuno voglia mantenere la memoria di Tienanmen e per questo sono giunte a volersi impadronire, con la forza e con il ricatto, dei 20 milioni del Premio internazionale “Alexander Langer” che la Fondazione Langer (di cui il Movimento Nonviolento è socio fondatore) ha assegnato, nel luglio dello scorso anno ai coniugi cinesi Ding Zilin e Jiang Peikun che hanno visto morire a Tienanmen l’unico figlio diciasettenne.
Lu Wenhe, cittadino cinese che ha vissuto negli Stati Uniti per 20 anni ed esponente di Human Rights, è stato arrestato lo scorso dicembre a Beijing, poco prima di incontrare la signora Ding Zilin per consegnare materialmente i 20 milioni del premio (circa 10 mila dollari).
Dopo tre giorni di interrogatori, durante i quali gli è stato confiscato il passaporto e minacciato di venire imprigionato, Lu ha dovuto confessare lo scopo della sua visita. Poi è stato scortato dalla polizia fino a Shanghai e da qui avrebbe potuto lasciare il paese, a condizione di girare a favore di un ufficiale del Dipartimento di Sicurezza di Stato di Shanghai, la somma della donazione, in quel momento depositata in un conto corrente negli Stati Uniti. Sotto minaccia, ha dovuto intestato vari assegni al funzionario Chen Jian. Ma a quel punto la polizia, avendo sospettato che lui stesso avrebbe potuto bloccare il pagamento della somma una volta lasciato il paese, ha iniziato a fare pressione su suo padre settantottenne, che abita a Shanghai, per garantirsi in questo modo l’effettivo pagamento. Lu è tornato negli Stati Uniti in gennaio e il pagamento degli assegni è stato subito bloccato. Ora le autorità cinesi continuano a pressare i genitori del signor Lu perchè facciano saltare fuori i soldi, altrimenti rischiano di perdere il loro appartamento e la macchina. “Questa è una estorsione” ha dichiarato il sig. Lu “perchè non sono soldi miei; sono donazioni, e per famiglie che hanno urgentemente bisogno di un sostegno”. Lu ha anche raccontato che secondo gli agenti di sicurezza la donazione sarebbe passata attraverso organizzazioni straniere ostili, e quindi avrebbe “messo in pericolo la sicurezza di stato” e per questo avrebbe potuto essere condannato ad un minimo di 4 anni.
Da quando suo figlio venne assassinato, la signora Ding, destinataria del Premio Langer, ha espresso apertamente forti critiche nei confronti del governo, e quindi si trova sotto stretta sorveglianza. Dal 1989 ha messo sotto pressione le autorità, presentando istanze presso agenzie legali, anche all’estero, sostenendo la responsabilità delle autorità cinesi nell’uccisione di centinaia di dimostranti e spettatori di quell’avvenimento. Si è impegnata, assieme ad altre persone, nella distribuzione di aiuti alle famiglie delle vittime, molte delle quali hanno difficoltà economiche. Nel 1989 sono stati uccisi uomini che dovevano mantenere la famiglia, mentre altri genitori hanno perso figli che avrebbero potuto assisterli in vecchiaia. In una intervista, la signora Ding ha spiegato come durante l’anno scorso, il gruppo abbia distribuito 20.000 dollari a più di 100 famiglie, dividendo l’ammontare in rapporto alle singole esigenze. La signora Ding pensa che le nuove pressioni costituiscano una sorta di vendetta contro la sua dura critica nei confronti di quegli ufficiali che nel 1989 hanno avuto responsabilità diretta nella repressione, compreso il Primo Ministro Li Peng, che rimane tuttora il numero due del partito Comunista.
“Quello che hanno fatto è totalmente illegale” ha dichiarato Ding Zilin: “Hanno violato la mia corrispondenza privata e tentato di impadronirsi dei soldi inviati a me. Questo fatto dimostra che a discapito delle belle parole sul ruolo della legge, le autorità cinesi fanno ciò che vogliono. La gente deve continuare a preoccuparsi della propria sofferenza e del proprio dolore”.
Mao Tse-Tung diceva che “il nemico è una tigre di carta”… forse non sapeva che stava parlano della Cina del 2000.

Quando la globalizzazione non riesce
a garantire acqua e pane per tutti

di Daniele Lugli

“Probabilmente prima della fine del secolo vedremo il mondo dominato da pochissime multinazionali immense- perchè la tendenza è a diminuirne il numero e a crescerne la dimensione – 20, 30, 40 managers sconosciuti e inconoscibili, come nel castello di Kafka, possono fare e disfare quello che vogliono: tutti gli altri miliardi di uomini o sono complici di questi padroni, aguzzini degli schiavi, o sono schiavi. Se non accettano nè una cosa nè l’altra sono imprigionati, torturati, massacrati o nella migliore delle ipotesi esiliati, emarginati dalla società”. Questo prevedeva Lelio Basso 25 anni fa ed affidava le sue speranze di un avvenire diverso all’unione delle forze migliori della classe operaia e dei popoli del terzo mondo, all’impegno personale nella difesa della libertà e dignità umana.

Effettivamente assistiamo a concentrazioni immense di imprese, favorite dai poteri pubblici per consentire competitività, si dice, al paese o al continente. Per la stessa ragione sono smantellate le misure di protezione e garanzia dei lavoratori dei paesi più ricchi (quelli dei paesi più poveri non ne hanno mai conosciute). Cresce, quando va bene, l’indifferenza rispetto a chi (popolo, gruppo, individuo) non regge al ritmo imposto dalla globalizzazione e resta emarginato (più frequenti sono varie forme di esclusione ed intolleranza). Il governo del pugno di managers, evocato da Basso, sembra esprimersi attraverso i diktat del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, dell’Organizzazione Mondiale del Commercio.

Lo stesso scenario può essere illustrato in modo differente, come fa ad esempio Enrico Sassoon su Sole 24 Ore, presentando uno studio di Charles Jones, della Stanford University. Gli anni novanta sono stati il decennio della globalizzazione, come crescita accelerata dell’interdipendenza tra Paesi, economie, imprese, popoli, emersa a partire dal 1945 in stretta unione con l’innovazione tecnologica. “Può piacere o meno ai ragazzi di Seattle, ma ha portato a miglioramenti stratosferici del benessere e a un allungamento impensabile della vita media”. Quanto alla vita media si potrebbe osservare che sconvolgimenti economici hanno avuto l’effetto, proprio in questi anni, di incidere addirittura sulla speranza di vita di intere popolazioni dell’Est del Sud del mondo, invertendo la consolidata tendenza all’aumento. Quanto alla misura del benessere i risultati sono ovviamente diversi secondo che si conti l’aumento dei poveri o quello dei miliardari.

Il sistema capitalistico – forte dei suoi successi e del fallimento di un sistema che si diceva socialista e si pretendeva alternativo – è il protagonista del processo di globalizzazione e stende il suo pensiero e il suo potere su tutto il mondo: tutto il mondo è merce e ogni decisione sulla merce (sul mondo) è presa, come è giusto, dai mercati. Poichè il sistema si autocorregge e trova la soluzione ottimale, la cosa migliore è non turbarne il funzionamento: si farebbe comunque peggio, come l’esperienza ha dimostrato. Se comporta costi umani, per interi gruppi sociali e popolazioni, pazienza. Intervenire non gioverebbe loro ed ostacolerebbe progresso e benessere futuro.

C’è però anche la preoccupazione che l’assenza di misura (chiamata anche equità o solidarietà ) si rivolti contro il processo di globalizzazione del sistema capitalistico, ad esempio per crisi ambientali, crescenti squilibri demografici, migrazioni incontrollabili, rigurgiti fondamentalisti, aumento di conflitti di ogni genere, indotti da una crescente ed intollerabile diseguaglianza tra popoli e ceti. Perciò si invoca il ruolo ed il potenziamento degli istituti, prima ricordati: FMI, BM, OCSE, OMC, attraverso i quali governi e multinazionali stimolino e assieme controllino i processi di globalizzazione. L’incontro di Seattle e quello più recente di Davos hanno questo senso e vanno in questa direzione. A questi appuntamenti si è presentato un terzo incomodo: “i ragazzi”, secondo Sassoon, con le loro “inarticolate proteste”, secondo il Guardian.

“L’ansia per la globalizzazione – commenta il Guardian – è accompagnata dal tentativo di far nascere una coscienza globale. Ricchi e potenti scopriranno forse che tutto non può andare come fa comodo a loro”. Vede un’aurora promettente Ramonet, su Le Monde Diplomatique: “Mentre si spegneva il secolo a Seattle è sorta una luce. Per troppo tempo espropriati della parola, privati delle loro scelte, tanti cittadini hanno detto con forza: Basta!”. E’ l’embrione di un contropotere mondiale, il ritorno di un’istanza di giustizia e di uguaglianza. Dopo i diritti politici e sociali “davanti alle devastazioni della globalizzazione i cittadini reclamano una nuova generazione di diritti, stavolta collettivi: il diritto alla pace, il diritto a una natura tutelata, il diritto alla città, il diritto all’informazione, il diritto all’infanzia, il diritto allo sviluppo dei popoli..”.

Questo è il frutto di un programma impegnativo ed articolato di azioni, di campagne, di alleanze inedite, di rapporti internazionali, che nel nostro Paese trova significativa espressione nella rete lillipuziana. Ha aiutato la costruzione e manifestazione di un’opinione pubblica mondiale, capace di critica efficace nei confronti dell’accordo multilaterale sugli investimenti prima, del millenium round dell’Omc e dell’incontro di Davos poi. Possono restare episodi: frutto dell’effetto sorpresa, della divisione tra Usa, Europa, Paesi del Sud su temi fondamentali. Vorremmo fosse l’avvio di quell’unione che auspicava un quarto di secolo fa Lelio Basso e di un processo di profonda democratizzazione locale ed internazionale.

Saranno certamente necessarie altre manifestazioni per rendere palesi i guasti di un’economia, degli abbienti e dei potenti, che non assicura a tutti diritti vitali, individuali e collettivi, come è pure oggi possibile e necessario, se si vogliono evitare esiti catastrofici per tutti. Petrella indica come test significativo il diritto all’acqua entro il 2020. Su temi come questo si deve misurare la New Economy, virtuoso incontro di tecnologia ed economia. In queste manifestazioni è indispensabile che non entri neppure il sospetto della violenza. C’è l’esigenza di coerenza tra fini e mezzi, soprattutto quando si denuncia la violenza strutturale e culturale di un sistema. Per noi che agiamo in paesi privilegiati, in situazioni privilegiate, è chiaro che il problema è conquistare i cittadini e i loro rappresentanti, ad una visione che valorizzi il potere, di tutti e di ciascuno, nella costruzione di una società che assicuri i diritti sociali e politici, frutto del sacrificio delle generazioni che ci hanno preceduto, e realizzi, per sè e quelli che verranno, i nuovi diritti collettivi, evocati da Ramonet. E questo si può fare se diritti, vecchi e nuovi, si estendono tendenzialmente a tutti.

Fiducia ed apertura sono compromesse da manifestazioni che trasmettono immagini di violenza e paura, tanto più quanto l’effetto è ricercato e moltiplicato dai mass media. Si può contribuire anzi ad ulteriori e pericolose deleghe e chiusure identitarie, che sono già in atto: quanti austriaci avranno votato Haider per affermare i loro diritti collettivi, a cominciare dalla pace e dalla natura tutelata? Soprattutto i giovani lo debbono sapere, per non ripercorrere, con intenzioni generose, strade già purtroppo praticate in passato. Il che non vuol dire dissuadere dall’azione diretta e dall’impegno personale, anzi. ” Il destino del paese – diceva Thoreau, e noi grazie alla globalizzazione possiamo dire mondo – non dipende dal tipo di scheda che lasciate cadere nell’urna elettorale una volta all’anno, ma dal tipo di uomo che lasciate cadere ogni mattina dalla vostra camera nella strada”. Con l’augurio di un buon risveglio.

Ballando, ballando il Valzer del Debito

Di Alex Zanotelli

Vivo a Korogocho, una enorme baraccopoli (100.000 abitanti circa) di Nairobi, a splendida capitale del Kenya. Vivendo con i poveri tocco con mano (non c’è bisogno di statistiche!) i disastri del neo-liberismo e degli aggiustamenti strutturali imposti dalla Banca Mondiale e dal Fondo monetario. Solo due esempi nel campo dell’educazione e della sanità. Il 45% dei bambini di Korogocho e dintorni non riesce ad andare in prima elementare: costa troppo! Così buona parte della popolazione di Korogocho non può permettersi il lusso di andare all’ospedale Kenyatta di Nairobi: costa troppo! Non resta che morire! Ma molti poveri non riescono nemmeno più a seppellire i loro morti nel cimitero di Langata (Nairobi): costa troppo!. La situazione dei poveri diventa sempre più pesante e drammatica. Questo in barba alle “buone notizie” che ci vengono dai centri di potere sia da Washington come da Londra, sia da Parigi come da Roma. Mi è giunta notizia che il 29 settembre il presidente Clinton, parlando a Washington all’assemblea della Banca Mondiale e del Fondo Monetario, ha promesso di andare oltre le dichiarazioni dei G8 a Colonia. ” Oggi ordino alla mia amministrazione -ha dichiarato testualmente Clinton- di condonare al 100% il debito che queste nazioni hanno con gli USA, qualora questo denaro venga usato per finanziare bisogni umani fondamentali.” Gli ha fatto seguito, poco dopo, il ministro delle finanze del governo britannico, Gordon Brown, che ha dichiarato che l’Inghilterra si accoderà all’America: condono al 100%. “Buona novella” anche dall’Italia dove il 19 dicembre il governo D’Alema ha varato un disegno di legge per la cancellazione di 3000 miliardi di lire che corrispondono a tutti i crediti (inesigibili!) dei Paesi che abbiano un reddito inferiore ai 300 dollari l’anno. Tutte decisioni che cavalcano l’onda di Colonia dove i G8 avevano deciso lo scorso giugno il condono di 25 bilioni di dollari ai Paesi Poveri più Indebitati (HIPC). “Buona novella” o specchietto per le allodole? Vedendo con i miei occhi il costante impoverimento degli esclusi dal banchetto, sento di poter affermare che questi “proclami imperiali” sono buona propaganda e pubblicità di cui l’Impero del denaro ha bisogno per legittimarsi. L’impero infatti (come ogni Impero d’altronde) nega di opprimere i più poveri, anzi si pavoneggia a benefattore dell’umanità. Per capire quanto siano ipocrite le dichiarazioni di Clinton basta pensare che poco dopo, cioè il 3 novembre, il Senato americano varava la legislazione conosciuta popolarmente come Nafta for Africa perchè simile all’Area di libero scambio nordamericano (NAFTA). La Camera l’aveva già approvata il 16 luglio. Il “Nafta for Africa” è il MAI (Accordo Multilaterale sugli Investimenti) in pillole, purtroppo, ancora più amare per questo travagliato continente. Questa legislazione prevede che il Presidente degli USA potrà stipulare un accordo economico-commerciale con ogni capo di Stato in Africa che permette l’apertura totale del Paese alle multinazionali che potranno comperare, sfruttare,….fare quello che desiderano. Mentre ai governi dell’Africa è richiesto di privatizzare sanità, educazione, trasporti….. Per me questa legislazione è un genocidio pianificato. E’ la nuova spartizione dell’Africa: la schiavitù economica. Gli USA vogliono imporre all’Africa un giogo molto più pesante di quello imposto agli antichi schiavi. Altro che condono dei debiti! Faccio mia la riflessione di un pastore del Sud Africa, il rev. Molefe Tsele, coordinatore del Jubilee 2000 del suo paese, apparsa sulla rivista Challenge diretta dal più importante teologo cattolico dell’Africa, il domenicano Albert Nolan. (“Se ci sono voluti 300 anni per le chiese per arrivare a proclamare l’apartheid peccato -mi disse quando lo incontrai nel 1995 a Johannesburg- di quanti secoli avranno bisogno le chiese per proclamare l’attuale sistema economico peccato ?”) Molefe fa un’analisi impietosa del summit di Colonia. “L’iniziativa di Colonia non è un passo in avanti e nemmeno un incontro a metà strada. Il condono di 25 bilioni di dollari rappresenta solo il 25% del debito totale e il 12% del debito dei paesi più indebitati”. Il debito globale (esclusi i paesi dell’Est) si aggira oggi sui 2.030 bilioni di dollari. “L’iniziativa di Colonia promette speranza senza disturbare le coscienze dei ricchi, promette un nuovo inizio senza cambiamenti fondamentali allo status quo. E’ una speranza bugiarda” afferma sempre Molefe. Il fatto grave di Colonia è che legando il condono dei debiti agli aggiustamenti strutturali, i G8 hanno finalizzato il loro controllo totale sui popoli impoveriti. C’è perfino chi sospetta che questa mossa sia una magistrale manovra per ottenere i soldi non più dai paesi impoveriti (non li possono più pagare!) ma dalla stessa Banca mondiale. “Questo tipo di condono dei debiti -afferma sempre Molefe- lascia intatta tutta la struttura dell’oppressione economica. Anzi è uno strumento efficace per rafforzare il ladrocinio di quel poco che rimane nel Sud del mondo.” E aggiunge: “Questo è ancora più vero in quanto tutta l’operazione di condono dei debiti non ha mai affrontato il nodo di fondo degli aggiustamenti strutturali. Anzi ai paesi più impoveriti è stata posta come condizione di introdurre gli aggiustamenti strutturali per avere i debiti condonati.” Poi con estrema lucidità il pastore sudafricano smaschera l’ipocrisia dei ricchi : “Non è questione di condono o di carità, ma di giustizia. L’indebitamento del Sud non può essere separato dall’attuale sistema economico globale che ha visto il trasferimento di risorse naturali nazionali dal Sud al Nord su scala senza precedenti nella storia umana. Il Sud afferma che il debito è già stato ampiamente pagato! Non dobbiamo più nulla! Infatti è il Nord che deve restituire al Sud.” E Molefe mette tutti in guardia: dobbiamo vagliare attentamente le varie campagne per il condono dei debiti. “Alcune sono buone, altre no. Vi sono campagne dei ricchi che servono solo l’interesse dei ricchi. Chiediamo a tutti I movimenti che si ispirano al Giubileo di distanziarsi da quelle campagne per il condono dei debiti in cui le decisioni sono prese dai governo creditori o dagli stati per i loro interessi. Il Giubileo infatti è la continuazione delle lotte storiche mondiali per la giustizia economica, sociale, tra i sessi. In queste lotte siamo sostenuti dal Dio dei poveri e non dubitiamo che questo Dio che ha affrontato l’agonia della croce e non ha preso la via facile per evitarla, sarà con noi fino alla fine.” Se la Chiesa non è capace di farsi voce di questo sogno, che è il sogno di Dio che ha “rivelato a Mosè”, ai suoi profeti, a Gesù di Nazareth, non è più Chiesa. Purtroppo il Giubileo che stiamo celebrando è un “Giubileo sporcato” come ha avuto il coraggio di dire il card. Tettamanzi di Genova. Il nostro è un Giubileo funzionale al sistema economico imperante, all’impero del denaro. Vorrei invitare anche la chiesa italiana a ripensare radicalmente la sua campagna sul debito. Mi sembra sia una campagna molto blanda, fatta per raccogliere un po’ di fondi, senza nessuna volontà di aiutare i credenti a capire che è ora di rimettere in discussione come peccato l’attuale Impero del denaro. La Chiesa, in questo Giubileo, è chiamata ad essere voce critica, profetica: decisa a rimettere in discussione un sistema che crea sempre più poveri, sempre più morti. La Chiesa aiuti I fedeli a prendere coscienza che se anche condoniamo questo debito, l’attuale sistema finanziario lo raddoppierà tra poco. Da questa Korogocho dove tocco con mano la sofferenza nella carne del Cristo vivente: una sofferenza immane, chiedo a tutti voi di darvi da fare per cambiare il Sistema. C’è bisogno di giustizia, non di carità. “La giustizia prevarrà -grida Molefe- Il grido dei poveri sarà ascoltato. Il loro Giubileo arriverà.”

 

Aldo Capitini filosofo della nonviolenza che fa rinascere religione e politica

A cura di Enrico Peyretti

A Torino, il 15 e 16 dicembre 1999, nel centenario della nascita di Capitini, si è tenuto un importante convegno nazionale, organizzato dal Centro Studi “Domenico Sereno Regis”. Ne diamo una relazione sintetica.

Numerosi incontri e convegni di studio hanno ricordato il 30° della morte di Aldo Capitini nel 1998 e il 100° della nascita nel 1999. Due testi capitiniani possono essere citati a proposito di nascita e morte.

«Ogni data di nascita è un natale che non è soltanto un incremento della compresenza, ma è anche una prova del portare al massimo il nostro impegno al valore, al quale segue qualche cosa della realtà liberata»
(La compresenza dei morti e dei viventi, in Scritti filosofici e religiosi, Protagon, Perugia 1994, p. 328).
«Quando Gesù Cristo soffrì sulla croce e chinò alfine la testa, la compresenza disse: “E’ mio”. Così il nonviolento persuaso della compresenza, grato di ciò che ha ricevuto, e umile per l’avvenire, non sa (ed è un gran bene che non lo sappia) se anche per lui, come per gli altri, la compresenza dirà: “E’ mio”»
(Il potere di tutti, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 448).
Capitini scrisse queste parole tredici giorni prima di morire.

Pietro Pinna si è fatto testimone del pacifismo assoluto di Capitini. Nel rifiuto di uccidere esseri umani è il centro della visione religiosa di Capitini. Il pacifismo assoluto è ancora di un’infima minoranza. I vari pacifismi sono relativi, giustificano l’uno o l’altro dei contendenti. E’ tardi opporsi alla guerra quando arriva, collaborare allo stato militare è collaborare alla guerra. Poiché non vogliamo la guerra, non vogliamo l’esercito. Se c’è l’esercito, ci sarà la guerra.
Angelo D’Orsi ha illustrato la formazione culturale di Capitini, la “conversione” nel primo dopoguerra, il suo impegno pedagogico, l’influenza morale di Claudio Baglietto («Mi sono persuaso che si deve sempre rifiutare di uccidere») sul rifiuto dell’iscrizione al partito fascista. Capitini legge l’Autobiografia di Gandhi. Negli anni ’30 mette a fuoco la sua concezione di pensatore politico ossia religioso, e viceversa. Croce promuove il suo primo libro solo perché è antifascista, ma non lo apprezza, come dirà nel ’47. Con Calogero Capitini fonda il liberalsocialismo, che non è un centrismo, ma fusione del meglio di liberalismo e socialismo. Ma quando questa corrente confluisce nel Partito d’Azione, Capitini non la segue: egli pensa che i partiti sono necessari, ma insufficienti, e poi il Partito d’Azione gli appare troppo moderato. Già nel ’44 propone i Cos, Centri di Orientamento Sociale, esperienze di democrazia diretta, di base. Ciò lo differenzia da Bobbio, che è per la democrazia classica, parlamentare. Nel ’48 sostiene il Fronte Popolare, dicendosi post-comunista, non nel senso di oggi, ma nel senso che non si può fare a meno dell’esperienza comunista. Per primo usa l’espressione “indipendente di sinistra”. Ottiene a fatica (perché è anti-cattolico) la cattedra di pedagogia. È profeta, perché anticipa qui e ora l’ideale, e non utopista, come chi rinvia ad un futuro perfetto. Nel ’68 (morirà in ottobre) vede con entusiasmo il movimento, riconosce nell’assemblea la democrazia diretta, ma non accetta gli aspetti di intolleranza (si veda l’ultima delle sue Lettere di religione, in Il potere di tutti). La sua è una rivoluzione fondata sull’amore, eppure mai dimentica la razionalità. Combatte i limiti della naturalità, anche la morte: per lui, la vita senza morte comincia col non uccidere.
Goffredo Fofi, assente, ha inviato un testo. Oggi non c’è bisogno di dittature, perché i media producono consenso. È caduta nella rassegnazione la speranza di un mondo migliore. Di fronte a ciò, sta la sfida tragica del “non accetto” di Capitini. Ma dobbiamo parlare di noi, oggi, della nostra ipocrisia. I diritti sono diventati la sciagurata retorica di ogni corporazione attaccata ai suoi privilegi. Le pratiche sono deboli anche per debolezza della teoria. Tante minoranze sono risucchiate nel sistema. Ma ci sono anche molte piccole esperienze che devono incontrarsi. Pacifisti e nonviolenti devono fare una dura autoanalisi. Prima che di nonviolenza, bisogna parlare di non-collaborazione, non accettare le regole di questo gioco.
Nanni Salio ha fatto notare che Capitini aveva davanti un orizzonte più buio del nostro. Il movimento ecologista si è sviluppato in venti anni, meno di una generazione, e ora (vedi ultimamente l’opposizione a Seattle) imposta il problema eco-eco (economia-ecologia). C’è un primato della cultura sulla politica e l’economia: la nonviolenza di principio è un cambiamento di paradigmi culturali. Oggi ci sono ipotesi scientifiche (ipotesi Gaia) che confermano l’unità dei viventi intuita da Gandhi e Capitini. Anche le scienze psicologiche avvalorano la trasformazione nonviolenta dei conflitti. Tanti movimenti restano inglobati nel sistema, come denuncia Fofi, perché non hanno autentica cultura nonviolenta.
Mario Martini, studioso perugino di Capitini, ha esposto i fondamenti filosofici della sua nonviolenza, in una densa relazione. Se la nonviolenza è il suo metodo pratico, l’aggiunta è il metodo teorico di Capitini, la nuova razionalità, che egli sostituisce alla dialettica: antitesi che si superano nell’inclusione. Egli privilegia l’etica (in ciò è vicino a Levinas), il mondo morale e religioso, e giudica eticamente le religioni. La verità non è nell’essere così com’è, la realtà è insufficiente, mentre la prassi pura è una «iniziativa assoluta». Capitini pensa con Kant che «se diventassimo ciò che dobbiamo essere, la natura risponderebbe ai nostri desideri, che non sarebbero mai insensati». La religione aperta è una prassi di liberazione, e porta l’attenzione sui mezzi dell’azione (che devono essere adeguati al fine giusto: questa è una sua tesi portante), sulla «forza della verità», la quale spinge tutti dall’intimo, ed è la base dell’«atto persuaso». La verità è nella bontà dell’atto. «La verità è Dio», pensa Capitini con Gandhi, cioè non è posseduta da nessuno. Capitini riceve da Gentile l’idea di “atto”: Dio si realizza nell’atto, non è essere, ma scegliere; è compresente alle cose. Accanto all’aggiunta, in Capitini c’è l’idea del contrasto. Il conflitto è una proposta, non è la necessità eraclitea. La nonviolenza nel conflitto non è affatto rinunciataria (Ernst Bloch: «Chi non si oppone al male lo accresce»), è invece attivissima insoddisfazione e opposizione a tutto ciò che si è costituito con la violenza. Non si combatte la guerra con la guerra, ma prima della guerra.
La relazione di Roberto Mancini ha voluto mostrare nel pensiero filosofico di Capitini la “trascendenza e correlazione”, quindi il filo unitario, antidualista, la profonda unità del reale, e non un dualismo moralistico. Anzi, Capitini è maestro nel superamento del dualismo. La sua è una «metafisica religiosa dell’amore»: uno sguardo, cioè, che coglie il senso invisibile, non immediato, delle cose visibili e, a differenza dell’ontologia tradizionale, elabora una metafisica dell’unità-amore. La tradizione filosofica occidentale è amore della conoscenza (filo-sofia). Capitini è nella linea (già apparsa in Pascal) che pensa la conoscenza come amore. Il pensiero tradizionale va per scomposizione, perciò è dominato dal conflitto. Il nostro dialogo con Capitini, nella compresenza, ci porta fuori dai confini angusti della filosofia italiana, alla grande filosofia del ‘900, oltre che a Gandhi. Una prima direzione è la spiritualità della correlazione amorosa dei viventi. Una seconda, l’euristica della trasformazione della realtà, verso la realtà liberata. La sua intuizione originaria è che gli esseri viventi sono «qualche cosa di più che esseri annientabili», sono «superiori alla possibilità di scomparire», superiori alla morte, «infinitamente presenti» (Elementi di un’esperienza religiosa, p. 62); è il valore irriducibile di ogni vivente. La verità è plurale: è la vivente unità-amore di Dio e dei viventi. È una verità religiosa aperta. L’esperienza religiosa è esperienza di questa verità, dell’apertura e compresenza, ovvero di “trascendenza e correlazione”. Sia trascendenza che immanenza sono termini sospetti; Capitini supera questa dialettica nell’idea di «Dio che si dà». Trascendenza è l’apertura, la categoria che permette di vedere il valore di ciascuno e l’unità di tutti. Immanenza è stare presso l’altro. Trascendenza è il punto di vista più alto, è cogliere il tempo considerato dal futuro, che ci sostenga come una terra. La compresenza-amore non è un mettersi insieme per dovere, ma si fonda sull’iniziativa di Dio. L’altro è un dono che mi è dato. La religione è educazione dell’amore, riconoscimento appassionato dell’altro.
Quale Dio per Capitini? Non quello delle religioni storiche; non il monarca sovrano, con potere di vita e di morte, di guerra e di pace. Capitini sradica la sovranità dalla politica perché la sradica da Dio. Dio è atto d’amore. Nell’idea di atto, c’è solo un’assonanza con Gentile, il cui pensiero è monologico: la ragione è tutto, deve solo svolgersi, senza relazione, dato che ogni alterità è solo la maschera di un momento. Capitini invece è pensatore dialogico, non monologico. L'”atto” di Capitini non è quello di Gentile. Allora, cosa significa? Gli atti che ricapitolano la nostra esistenza finita sono gli atti d’amore. La nostra finitezza fa esperienza dell’infinito nel tu. L’essere di Dio consiste nell’amare, nel darsi, e così ricapitola l’identità di ciascuno. Il darsi di Dio non è il dono di qualcosa, ma la radicale risposta al male con il bene: perdono, dono radicale, rinnovo della relazione. Dio è «anonimo», ma non dissolto, è reale, vivente, non vuole un nome per sé perché è donazione, non si tiene l’amore per sé, chiama per nome ciascuno. Si risponde a lui chiamando per nome ogni vivente.
La mia relazione, su “L’idea di una religione aperta” ha proposto l’ipotesi che questa idea sia, in Italia, ammonimento e ammaestramento tanto per la tradizione cattolica quanto per la tradizione agnostica laica. Esaminato il concetto di apertura, che è categoria pratica, non conoscitiva, ho posto il problema se e come in Capitini ci sia l’alterità di Dio (senza la quale l’uomo proietta come idoli parti di sé, mentre, all’opposto, una religione che oggettivizza troppo Dio lo pone in una lontananza irraggiungibile). Se per certi versi quella alterità è in Capitini attenuata, in polemica col forte oggettivismo teologico cattolico, la sua non è certo una religione soggettiva, ma una religione del tu, e una teologia etica: Dio lo si incontra nell’apertura all’altro. In Capitini è chiaro il valore della religione in termini di senso dell’esistenza, salvata da una pura casualità assurda. Dio, per Capitini, «da persona si fa anonimo», «persona per le persone», ma egli non lo identifica con lo spirito dell’uomo, perché Dio opera prima e distintamente dall’uomo: è Altri, in intimità, ma non identità con l’uomo.
Capitini può, come Gandhi, collegare profondamente religione e politica, perché la sua religione è intima e corale, ma non è una istituzione potente, in competizione con quella politica. Trovo che Antonio Vigilante (autore dell’ultimo libro su Capitini: La realtà liberata. Escatologia e nonviolenza in Capitini, Edizioni del Rosone, Foggia 1999) concorda con la mia opinione che il filosofo perugino non si possa dire cristiano, se non prendendo questo aggettivo in termini molto vaghi. Ma c’è in lui, senza l’interpretazione teologica cristiana, la sostanza vissuta dell’evangelo: amare chi non ti ama, dare senza contare sulla restituzione, sperare l’insperabile, non rassegnarsi al potere del male, perdonare sempre, vedere la fecondità della sofferenza accettata con la forza dell’amore. Evangelico non cristiano, possiamo dunque dire Capitini. Con questa distinzione non si annette affatto Capitini ad una chiesa e ad una credenza che egli ha rifiutato, ma si riconosce in lui lo stesso flusso di verità e di bene che un cristiano riconosce in Gesù e che ogni persona religiosa trova nella sua religione. Oggi, anche importanti teologi cattolici riconoscono che l’evangelo detto da Gesù è presente ed è vissuto anche fuori dal cristianesimo, e che religioni non cristiane hanno dei contenuti universali di verità e di salvezza.
Pietro Polito ha parlato su «la via della nonviolenza». Per Capitini la nonviolenza è una via alla pace attraverso la «tramutazione», via differente da quelle del diritto (pacifismo giuridico) e del cambiamento sociale (pacifismo sociale). La nonviolenza è uno degli strumenti per la tramutazione del conflitto, con la non-collaborazione e la non-menzogna. Sotto la dicotomia collaborare-non-collaborare sta il contrasto tra due concezioni della natura umana: l’homo religiosus, o “persuaso”, e l’homo faber, pragmatico. L’homo faber opera sulla base della realtà attuale, l’homo religiosus, sulla base della compresenza.
La non-menzogna è il proposito espresso all’altro di non mentirgli mai, altrimenti si resta separati. Questo proposito attesta che Dio sostiene infiniti altri. La non-uccisione è il proposito espresso all’altro che la sua esistenza è nel mio intimo, con amore. «La nonviolenza è non oppressione, non tormentare, non distruggere neppure gli avversari, cioè apertura all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo di tutti, di ogni essere» (in Azione Nonviolenta, 10 gennaio 1964). La nonviolenza si specifica: verso il prossimo umano, ma anche verso gli altri viventi e verso le cose, da non sciupare perché «tutte sono sorelle a me individuo limitato e naturale». Il momento negativo della nonviolenza è il rifiuto di fare violenza, il suo momento positivo è dare valore di tu ad ogni essere, visto sempre come fine, mai solo come mezzo.
È centrale per Capitini la problematica mezzi-fini, di cui discusse con Calogero e Martinetti. Il loro modo di porsi pragmatico non è pacifista assoluto, il modo persuaso di Capitini rompe subito il circolo vizioso della violenza, rifiutandola in ogni sua forma. Capitini richiama ad una realtà più profonda, in modo religioso: «Il sacrificio non è mai sterile» (Mazzini). Non si possono intendere: il pragmatico chiede se la nonviolenza è efficace; il persuaso rimprovera il pragmatico di non avere lavorato col pensiero sulla nonviolenza tanto quanto ha lavorato sulla violenza-anti-violenza. Per il persuaso la nonviolenza è più efficace, ma dal punto di vista religioso. Come ha scritto Bobbio, per Capitini la nonviolenza è l’anello di congiunzione tra politica e religione. Il nonviolento tende allo stesso tempo al Regno di Dio e alla pace in terra.
Rocco Altieri (autore di La rivoluzione nonviolenta. Per una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Serantini, Pisa 1998), ha illustrato nella sua relazione “Il programma costruttivo della rivoluzione nonviolenta”. L’originalità intellettuale e spirituale di Capitini ha fatto sì che il suo pensiero non fosse solo un’obiezione, ma fosse altamente positivo e propositivo. La sua critica della religione cattolica è per la sua purificazione religiosa, come Gandhi fece per lo hinduismo. La nonviolenza è una “conversione” intesa anche come categoria politica, mutamento personale e sociale. Altieri ritiene che Capitini sia pienamente cristiano, se ciò significa servizio agli altri. Il suo Movimento di religione (1946-47) era contro la monarchicizzazione di Gesù, ed ispirava anche una riforma politica. Il Movimento nonviolento è un grande e pieno no alla guerra, propone il disarmo, ed è costruttivo nell’addestramento alla difesa nonviolenta. Capitini chiede nel 1948 un Ministero della resistenza alla guerra. Nella critica del modello vigente di sviluppo economico, Capitini ha una prospettiva di apertura alla mondialità.

La deportazione nazista dei bibelforscher
Il martirio dei Testimoni di Geova

di Alberto Bertone

In lingua tedesca “bibelforscher” significa “studiosi della Bibbia”. “Studenti Biblici Internazionali” era il nome ufficiale di un movimento religioso sorto negli Stati Uniti nell’ultimo trentennio dell’Ottocento. La denominazione di quel movimento fu cambiata nel 1931 in “Testimoni di Geova”. I bibelforscher di cui parleremo altri non sono quindi che i testimoni di Geova degli anni Trenta e Quaranta, secondo l’appellativo con il quale erano noti nei Paesi di lingua tedesca. I bibelforscher furono duramente perseguitati dal nazi-fascismo. Rispetto a quella di altri religiosi presenti nei lager, la loro esperienza fu caratterizzata da aspetti singolari, ancor oggi poco noti agli studiosi e al pubblico in generale.
Gli Studenti Biblici Internazionali si affacciarono sulla scena italiana agli inizi del Novecento. Nel 1903 sorse in provincia di Torino, a San Germano Chisone, nelle valli valdesi, la prima comunità. Fino al 1938 fu diretta da Remigio Cuminetti, che nel 1915 aveva vissuto le vicissitudini di obiettore di coscienza durante la prima guerra mondiale1.
Nel 1919 a Pinerolo fu aperto un ufficio per coordinare l’attività di evangelizzazione. Lì, nel 1923, gli Studenti Biblici tennero la prima assemblea in Italia, durante un banchetto nuziale per eludere la sorveglianza fascista.
Dall’esame di cinque circolari diramate dal Ministero dell’Interno nel periodo 1929-1940, contenute nei fascicoli relativi ai testimoni di Geova depositati presso l’Archivio Centrale di Stato a Roma, è evidente che questi ultimi furono uno dei principali obiettivi della discriminazione religiosa fascista. Secondo lo storico Giorgio Rochat, fra il 1927 e il 1943 in un elenco di centoquarantadue persone arrestate e confinate per motivi religiosi, ottantadue erano testimoni di Geova2. Fra loro c’erano Guido Costantini e Francesco Liberatore, condannati nel 1940 per il rifiuto di partecipare ai corsi premilitari3. Nicola De Felice fu condannato nel 1943 a due anni di reclusione dal Tribunale Militare territoriale di Bologna per “disobbedienza continuata” ad indossare l’uniforme4.
Nel 1940 ventisei testimoni furono condannati dal Tribunale Speciale fascista a quasi centonovantanni complessivi di carcere per aver diffuso, letto e commentato pubblicazioni bibliche che, secondo gli inquirenti, offendevano la dignità del duce, del re, del papa e di Hitler5.
Numerosi furono i confinati, fra i quali Aldo Fornerono di Prarostino e Domenico Giorgini di Teramo, che scontò la pena nell’isola di Ventotene in compagnia di Sandro Pertini.
Due furono i casi di deportazione. Salvatore Doria era stato condannato ad undici anni di reclusione dal Tribunale Speciale. Prima venne detenuto nel carcere di Sulmona e poi fu deportato a Dachau e infine a Mauthausen. Liberato dagli Alleati nel 1945, fece ritorno in Italia ove morì nel 1951, a soli quarantatre anni, menomato nel fisico e nello spirito. Narciso Riet, nato in Germania da genitori italiani, braccato dai nazi-fascisti perché impegnato a introdurre clandestinamente pubblicazioni bibliche nei lager, fu arrestato nel 1943 a Cernobbio e deportato a Dachau. Dopo essere stato sottoposto a torture atroci, fu infine soppresso prima della liberazione dei campi. Le sue spoglie non sono mai state ritrovate6.
I relativamente pochi casi di arresto e di deportazione che videro per protagonisti gli Studenti Biblici durante il ventennio fascista in Italia si spiegano con la scarsa presenza degli stessi: duecento, duecentocinquanta secondo Giorgio Rochat; cento, centocinquanta secondo i dati rilevabili dalla letteratura dei testimoni di Geova7. Nella Germania nazista le cose andarono diversamente. Alla salita di Hitler al potere i bibelforscher erano oltre diciannovemila. Immediatamente scattarono le misure repressive nei loro confronti. Il 24 luglio 1933 l’Associazione dei Bibelforscher fu dichiarata fuorilegge in tutta la Germania. Gradualmente diecimila testimoni furono internati nei campi; duecentotre furono le condanne a morte eseguite; seicentotrantacinque i testimoni che morirono di patimenti; ottocentosessanta le famiglie distrutte con la prigionia dei genitori e la scomparsa dei figli.
Le motivazioni della repressione? Ha scritto Bruno Segre: “Per i nazisti, i testimoni incarnavano tutto ciò che essi odiavano: il Movimento era internazionale, influenzato dall’ebraismo attraverso l’utilizzazione dell’Antico Testamento e la sua escatologia; predicava il comandamento che ordinava di Non uccidere e quindi rifiutava il servizio militare. (…) Il 12 novembre 1933, in nome della neutralità cristiana, i Testimoni di Geova non si recarono ai seggi per le elezioni del Reichstag. (…) Rifiutavano il saluto hitleriano e il saluto alla bandiera nazista”8.
I lager in cui i testimoni di Geova vennero internati furono quelli di Dachau, Sachsenhausen, Buchenwald per i maschi e di Moringen e Ravensbrück per le donne. Lì subirono torture indicibili. Buona parte dei condannati a morte per il rifiuto del servizio militare furono decapitati con l’ascia, poiché i nazisti ritenevano che la fucilazione fosse una condanna troppo mite. Come affermò il Tribunale Internazionale di Norimberga, “le persecuzioni di tutte le sette pacifiste dissidenti come quelle dei testimoni di Geova e dei Pentecostali erano particolarmente accanite e crudeli”.
I testimoni di Geova furono tra i primi a denunciare la barbarie nazista: essendo i primi ad essere internati, disponevano di notizie di prima mano sulle reali condizioni esistenti nei campi di concentramento. Attraverso le riviste “The Golden Age” e “Consolation” (ora “Svegliatevi!”) fin dal 1933 parlarono di oppositori politici rinchiusi dietro il filo spinato dei campi di concentramento (16 agosto 1933); di gas impiegato in via sperimentale a Dachau (15 dicembre 1937); di quarantamila innocenti arrestati un solo colpo (3 maggio 1939); di campi di concentramento per le donne (28 luglio 1939); di sessantamila ebrei polacchi sterminati nei campi (12 giugno 1940); di greci, polacchi e serbi sistematicamente sterminati (27 ottobre 1943).
Nei campi di sterminio furono il solo gruppo religioso a ricevere un contrassegno d’identificazione: un triangolo viola cucito sulla casacca (il rosso era per i politici, il giallo per gli ebrei, il rosa per gli omosessuali, il bruno per gli zingari, il nero per gli “asociali”).
Margarete Buber-Neumann, giornalista e scrittrice internata a Buchenwald, fu, suo malgrado, capo del blocco numero tre occupato dalle testimoni9 e a suo rischio si adoperò per rendere meno gravosa la loro detenzione. Lo stesso fece la signora Maria Ruhnau, testimone internata a Buchenwald, che assistette fino alla morte la sua compagna di prigionia, la principessa Mafalda di Savoia10. Rudolf Höss, il sanguinario comandante di Auschwitz, condannò a morte pubblicamente diversi testimoni perché colpevoli di non volere prestare servizio militare e di non “compiere qualunque cosa avesse il minimo rapporto con le faccende militari”11.
L’esperienza dei bibelforscher nei campi di sterminio fu singolare sotto diversi aspetti. Anzitutto l’azione del nazismo che li condusse alla deportazione fu contro tutta la collettività dei testimoni e non contro qualche religioso particolarmente attivo e inviso al regime. Gli internati potevano sfuggire alla loro sorte semplicemente firmando una dichiarazione di abiura alla fede, che quasi nessuno firmò. Non erano internati per una opposizione politica al regime, ma per il rifiuto di dichiarare fedeltà o anche solo di collaborare con il regime. I bibelforscher non rifiutavano solo il diretto servizio militare, ma anche tute le attività indotte: dal costruire un deposito di munizioni al cucire le stellette su un’uniforme. Ben aveva interpretato il loro atteggiamento Pasquale Andriani, ispettore generale dell’O.V.R.A., il quale, in un rapporto datato 3 gennaio 1940 scrisse: “Il comandamento di Dio di non uccidere e di amare il prossimo come se stessi va interpretato [dai testimoni di Geova] nel senso più restrittivo e letterale; quindi nessun testimone di Geova, per qualsiasi motivo, può impugnare le armi contro il prossimo”12.

Per la riconciliazione dei popoli
Trasformeranno le loro spade in aratri

di Pasquale Pugliese

Sulle splendide colline del dolce Appennino reggiano, a Montalto di Vezzano sul Crostolo, il 1° gennaio 2000 è stato inaugurato il
CENTRO PER LA RICONCILIAZIONE TRA I POPOLI, IL DISARMO UNIVERSALE, L’ARMONIA DEL CREATO.
Il Centro, ideato e fortemente voluto da Paride Allegri, “vuole dare un contributo”- come si legge nel progetto – “affinché gli uomini che transiteranno nel terzo millennio possano vivere in un mondo senza armi, in un ambiente salubre, nella giustizia e nella fratellanza”.
Il Centro, inaugurato con una semplice e suggestiva cerimonia ricca di simboli, è tuttora in fase di realizzazione perché non è stato ancora possibile costruire tutti gli elementi previsti dal progetto. Ci sono 10.000 mq. di terreno, donati da Paride; in essi sono state messe a dimora 144 sequoie (alberi a portamento piramidale sempreverdi), disposte a cerchio, in dodici cerchi, e 144 essenze diverse all’interno di ogni circolo, a significare, le une e le altre, il legame tra terra e cielo. Ci sono due blocchi di marmo lungo il tragitto: sul primo sono incisi i versi del poeta equadoregno Jorge Carrera Andrade; sul secondo il seguente messaggio: “le 144 sequoie giganti millenarie, dono del Creatore, poste a dimora nell’anno 1999, cresceranno nel terzo millennio, assieme all’affratellamento di tutti gli uomini della terra. Essi, realizzata la pace, figlia della giustizia, distrutte per sempre tutte le armi trasfigurate in aratri, restaureranno ogni cosa: l’Armonia della Creazione.” C’è infine una fucina per la fusione delle armi. Quel che ancora manca, perché il Centro sia completo e funzionante, è la costruzione geodetica (che richiama la terra) in cui saranno accolte le attrezzature necessarie per la realizzazione di incontri, seminari ed iniziative volte alla riconciliazione e al disarmo. Quel che certamente non manca è la tenacia e la volontà con la quale Paride Allegri ha realizzato, superando ostacoli politici e burocratici, quanto è stato inaugurato il primo giorno del 2000.
Alle ore 12.00 molte decine di persone hanno partecipato alla fusione delle prime pistole (giocattolo, per questa volta) ed alla trasformazione delle prime spade in falci; molte hanno simbolicamente piantato spighe di grano sul terreno nel quale quei resti di strumenti di morte sono stati seppelliti e sul quale Paride – con la semplicità e la sacralità di un rito laico e religioso insieme perché intriso di nonviolenza – aveva seminato alcune manciate di chicchi di grano; tutte hanno partecipato al sobrio e ricco banchetto con frutta, dolci e lambrusco ed al brindisi con il quale si è dato il benvenuto alla nuova era di pace che dovremo avere la forza di costruire.
Il Centro per la riconciliazione tra i popoli potrà essere un nuovo nodo in quella rete di Centri e Case per la pace che ha dato vita nel nostro Paese ad una geografia nonviolenta, alternativa a quella dei centri di potere politico ed economico. Esso, infatti, vuole essere “un luogo di meditazione, di silenzio, di preghiera che favorisca e stimoli la conoscenza dei visitatori, un luogo che stimoli ogni persona ad impegnarsi in atti e comportamenti ispirati alla semplicità, alla cooperazione, all’uso parsimonioso di ogni dono del creato; in cui sia possibile realizzare incontri, feste di amicizia, seminari in cui dibattere i problemi quali la giustizia economica, i conflitti di interesse, la disuguaglianza fra gli uomini, al fine di educare una cittadinanza attiva, nonviolenta, di solidarietà”.
Il costo complessivo per la totale realizzazione del Centro è di 600 milioni di lire. Molti sono stati donati, ma molti altri sono necessari per raggiungere la cifra prevista.
(Chi volesse contribuire può fare un bonifico bancario sul conto 1812 della Cassa di Risparmio di Vezzano sul Crostolo a favore del CENTRO PER LA RICONCILIAZIONE TRA I POPOLI).
Per tutti l’appuntamento è il 1° gennaio 2001, … naturalmente…alla stessa ora.

Paride Allegri: dalla resistenza alla nonviolenza

Giovane sottotenente dell’aviazione, Paride Allegri l’8 settembre 1943 si trova a fronteggiare il disorientamento di superiori e sottoposti di fronte all’armistizio con gli Alleati. I “camerati” nazisti diventano improvvisamente nemici e truppe di occupazione; l’esercito italiano, lasciato senza guida dal re e dal generale Badoglio che fuggono a Brindisi sotto la protezione degli americani, è allo sbando: chi fugge nel tentativo di tornare a casa e salvare la pelle, chi viene ucciso dai nazisti, chi fatto prigioniero e deportato nei campi di concentramento, chi, infine, si unisce alle prime bande partigiane. Paride è tra questi. Lascia il ferrarese, dove si trova la sua caserma, e raggiunge in bicicletta Collagna, suo paese natale sull’Appennino reggiano. Nel volgere di un paio di mesi fonda nella sua zona i primi nuclei partigiani. Subito gli viene affidato l’incarico di guidare i partigiani della pianura fino al Po ed infine di organizzare e guidare la resistenza dell’intera provincia di Reggio. Fino al 25 aprile comanda una brigata di circa tremila uomini, con vari nomi di battaglia (Veltro, Atomo, Sirio, Juris).Sfugge innumerevoli volte alla morte ed agli agguati dei nazifascisti e tuttavia la sua condotta di comandante partigiano è improntata al rispetto dell’uomo che veste la divisa del nemico. La necessità di liberare l’Italia dall’orrore nazista non gli impedisce di cercare, quando possibile, di colpire le strutture piuttosto che le persone. Centinaia di operazioni sono azioni di sabotaggio: dal tagliare i fili del telefono all’invertire la segnaletica stradale, al vuotare i magazzini di cereali e formaggio da distribuire ai contadini. Nel dopoguerra si impegna con l’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani Italiani) ad organizzare fabbriche per la ricostruzione, mense popolari e la scuola popolare “Rinascita”. Nel 1948 si trasferisce per due anni in Sicilia dove sostiene il movimento di occupazione delle terre ed aiuta, da perito agrario, lo sviluppo dell’agricoltura. Nel ’51 ritorna nell’aviazione, ma dopo tre anni lascia: è maturata definitivamente la convinzione antimilitarista e nonviolenta. Per venti anni si occupa del verde pubblico per il Comune di Reggio Emilia ed approfondisce e sperimenta le tecniche biologiche e biodinamiche in agricoltura. Si avvicina intanto al MIR – del quale diventa uno dei punti di riferimento nazionali – e, nel ’78, costituisce Ca’ Morosini, un luogo di vita comunitaria sull’Appennino reggiano dove, negli anni, decine di giovani di tutta Europa si sono fermati a sperimentare uno stile di vita sobrio e sostenibile. Nel 1985 è tra i fondatori dei Verdi, per i quali diventa consigliere comunale e dopo i primi venti mesi, per il principio della rotazione, si dimette: sarà l’unico. Le mobilitazioni contro la guerra lo vedono sempre in prima fila fino alla guerra nel Kosovo, durante la quale – alla fine di un digiuno di 24 ore svolto sotto il portico del municipio di Reggio – cade e subisce una brutta frattura che lo tiene per qualche mese inattivo. Ma il 1° gennaio del 2000, all’età di 80 anni, inaugura il Centro per la riconciliazione tra i popoli, il disarmo universale, l’armonia del creato: la sua nuova battaglia.

Pasquale Pugliese

Lettera aperta al Presidente Ciampi
La guerra e’ sempre un disonore

di Enrico Peyretti

Caro Presidente Ciampi, a quanto posso apprendere da un giornale (La Stampa, 18 febbraio), Lei, in visita ad El Alamein, al cimitero dei soldati italiani uccisi (non è esatto chiamarli “caduti”) in quella battaglia, avrebbe detto che essi morirono «per seguire la voce dell’onore, della lealtà, del dovere».
Ora, noi sappiamo che, nella loro buonafede, e comunque privi di libertà, quei poveri soldati combattevano una guerra assolutamente ingiusta, voluta da un governo dittatoriale ed aggressivo, e che quindi nella loro azione non ci fu oggettivamente né onore, né lealtà, né dovere. La verità è che quel dovere non lo avevano, ma avevano il dovere contrario, di disobbedire. Che non potessero saperlo e capirlo, è un fatto per cui ne abbiamo rispettosa pietà, ma questa verità va detta sempre.
Ad un comando ingiusto essi avevano obbedito non per motivi nobili, ma per ignoranza, per impreparazione civile e morale, per i danni interiori subiti dall’educazione fascista e dal tradimento di tanti che avrebbero dovuto essergli maestri di intelligenza e di coscienza. Essi furono vittime, mandati a fare altre vittime. Noi possiamo comprenderli e scusarli, ma non possiamo dire che fu onorevole l’azione in cui morirono. L’idea di patria non basta a giustificare e nobilitare ogni azione, compiuta abusivamente nel suo nome, tanto più se si tratta di azioni di guerra.
Quei soldati, mandati per uccidere altri uomini strumentalizzati come loro, furono uccisi perché non furono i più svelti e i più attrezzati nell’uccidere. La loro morte è da compiangere con viva pietà, ma non è umanamente onorevole: è invece uno dei modi più tristi e umilianti di morire, perché è un morire da potenziali omicidi.
Chi combatte – o è trascinato a combattere – con armi che uccidono, invece che con la forza della ragione e della dignità umana, non può sfuggire ad una di queste sorti: o uccide, ed è un omicida; o è ucciso mentre è nell’animo un potenziale omicida; o se la cava per fortuna, ma era moralmente disposto ad uccidere; o ne esce vivo perché ha pensato soprattutto a salvare la pelle (e questa è cosa buona, perché così ha salvato, per quanto poteva, anche la vita del “nemico”). C’è poi una scelta più grande: quella di chi, trascinato nella guerra, si rifiuta di uccidere, pronto a morire piuttosto che uccidere, come fece, tra tanti altri ignoti, il soldato Guido Plavan, di Torre Pellice, nella prima guerra mondiale: egli usciva con gli altri dalla trincea lasciandovi il fucile, oppure con il fucile scarico, col consenso del tenente Carlo Lupo (questa storia è narrata nel volume Le periferie della memoria, Profili di testimoni di pace, ed. ANPPIA e Movimento Nonviolento, 1999). Plavan ebbe la fortuna di non essere ucciso, e visse dando frutti di pace. Chi fa così disobbedisce al comando guerresco, ma è il più fedele e coraggioso difensore dell’umanità di noi tutti.
La sorte di chi muore in guerra da combattente è triste ed anche vergognosa, come ogni partecipazione alla guerra. La quale è sempre paragonabile alle lotte mortali tra gladiatori, volute da poteri e da mentalità che usano gli uomini come pedine in giochi disumani. La guerra è orrenda non perché siano moralmente orrendi gli uomini che la combattono, ma perché fa fare cose orrende anche a persone buone, che quelle cose non farebbero mai, cose che poi non hanno l’animo di confessare. Qui sta il carattere infernale, imperdonabile, intollerabile, dello strumento e dell’istituzione guerra, sia di offesa che di difesa, che deve essere finalmente del tutto «ripudiata», come ci impone la Costituzione, vero onore, essa sì, dell’Italia.
Solo la Resistenza popolare al nazifascismo fu una guerra “giusta” (meglio: giustificabile), ma solo in quelle precise e limitate circostanze temporali e culturali, perché oggi, a differenza di allora, si conoscono esperienze e metodi di lotta non armata e nonviolenta (citati anche nella legge 230/1998, art. 8), con possibilità di efficacia, che permettono di emanciparsi dall’uso contraddittorio e controproducente di un mezzo ingiusto – come sono senza dubbio le armi – per uno scopo giusto.
Il giornale citato scrive che anche Lei combattè nella seconda guerra mondiale per lo stesso senso dell’onore, della lealtà, del dovere che ora rivendica per i Suoi commilitoni caduti (uccisi). Io amo credere invece che, in questo ricordo, Lei abbia sentito di nuovo l’umiliazione e il senso di fallimento umano che non può non venire dall’aver dato mano alla guerra, qualunque essa sia, e tanto più quella ingiustissima; sentimento riscattabile e riscattato da chi ha poi agito per la pace e la giustizia.
Perciò trovo che Lei ci ha dato una lezione di civiltà, di cui Le sono grato, visitando, con la stessa pietà, anche le tombe dei soldati “nemici” uccisi dagli italiani in quella battaglia. L’onore distrutto dalla guerra, da ogni guerra, si ricostruisce proprio ritrovando la comune umanità, al di là delle assurde ragioni di odio con cui politiche disumane spinsero gli uni contro gli altri uomini non capaci in quel momento di difendersi da quelle politiche.
Da cittadino attivo, insieme ad altri, nel Movimento Nonviolento di Aldo Capitini (il cui magistero e testimonianza di pace Lei poté forse incontrare nella Scuola Normale di Pisa), impegnato nel cercare le ragioni più alte della nostra convivenza – che risiedono nella pace, nella giustizia, nella libertà solidale, e non nella sopraffazione bellica o economica, non nella giustificazione storica delle ingiustizie – vorrei modestamente contribuire a difendere la nostra patria dalla più grave delle sconfitte, che è ogni ricaduta nel mito disonorevole della guerra.
In questo tragico errore anche recentemente il nostro paese si è lasciato trascinare, incapace di vedere e volere le alternative all’uso dell’omicidio organizzato dallo Stato, utile solo ai fabbricanti di armi, ai loro committenti e agli speculatori, tutti servi della morte. Tali alternative esistono sempre, e le si vedrebbe se solo si avesse l’immaginazione, la volontà e la cultura di pace per conoscere e sviluppare i metodi per le soluzioni costruttive dei conflitti, col prevenire e con l’opporsi alle soluzioni distruttive. Ciò era possibile, innegabilmente, anche nella crisi del Kossovo, come le analisi più serie e più libere hanno dimostrato.
Le propongo queste considerazioni con rispetto, fiducia e franchezza, in questa lettera aperta e pubblica, data l’eminente importanza pubblica dell’argomento. Le sarei grato, e non solo io, di una Sua risposta parimenti pubblica.

via Luserna 1, 10139 Torino; e-mail: peyretti@tiscalinet.it

ISLAM
a cura di Claudio Cardelli
Il Sufismo, una corrente mistica

La rapida affermazione dell’Islam in Arabia e la conquista nei secoli VII e VIII dei territori a oriente (Siria, Irak e Iran) e a occidente (Africa mediterranea e Spagna) portarono alla nascita dell’Impero islamico: c’era però il pericolo che l’esercizio del potere politico soffocasse il genuino sentimento religioso. La stessa frettolosa adesione di interi popoli all’Islam rischiava di intiepidire il fervore primitivo.
Per reazione, sorsero predicatori popolari, commossi cantori del sacro Corano, che richiamarono i credenti al ripudio della ricchezza e alla purificazione dei cuori, attraverso la preghiera, il digiuno e la povertà. Questi uomini spirituali, tesi a un intimo rapporto con la divinità, furono chiamati sufi, forse dall’abito di lana (in arabo, suf) bianca che usavano portare a imitazione dei monaci cristiani dell’Oriente. Un’altra spiegazione considera il termine come una trascrizione del greco sophos (sapiente).
Il Sufismo portò a un arricchimento della spiritualità islamica, poiché tendeva ad avvicinare il Dio trascendente del Corano all’interiorità del singolo credente, anche per l’influsso cristiano e neoplatonico. Il sufi si eleva per gradi alla divinità attraverso una serie di “stazioni”: pentimento, scrupolosità rinuncia al mondo, povertà, rassegnazione, affidamento totale di sé a Dio, stato di soddisfazione per tutto quanto avviene secondo la volontà di Dio.
La diffusione del Sufismo
Scrive l’arabista prof. Virginia Vacca: “La penetrazione e circolazione delle dottrine dei sufi si svolgeva liberamente entro il vasto impero islamico senza confini interni, ove l’arabo era l’unica lingua della religione e della cultura; gli insegnamenti si diffondevano in conversazioni fra amici, nelle riunioni delle case private, in moschee dove un maestro, reperibile nello stesso angolo o accanto alla stessa colonna, riuniva intorno a sé un cerchio di ascoltatori seduti per terra, esponeva dottrine, rispondeva a quesiti, con interruzioni per la preghiera rituale e la recitazione del Corano.
Gli adepti venivano da tutte le classi sociali; buon numero di artigiani e commercianti meritavano per altezza d’ingegno e di devozione l’amicizia di teologi e studiosi. Di fronte all’ortodossia i mistici giustificavano la novità delle loro dottrine facendole risalire a pretesi insegnamenti esoterici di Maometto. Ma l’ostilità delle scuole teologiche era inevitabile; i teologi condannavano il concetto di reciproco amore, di unione, fra Dio e il mistico, giudicandolo un abbassamento della divinità a livello umano. L’identificazione dell’anima con Dio al culmine degli stati mistici, l’interpretazione esoterica del Corano, la svalutazione delle osservanze religiose, le rivelazioni ricevute nell’estasi, le pratiche nuove (per esempio i concerti) senza giustificazione nel Corano e nella sunna, furono i principali motivi di incomprensione e di scandalo”.
(da Vite e detti di santi musulmani, Edizioni TEA, Milano,1988, pg.112).
Nel Sufismo ha assunto particolare importanza il rapporto tra maestro e discepolo, sicchè, verso il XII secolo, si giunse alla costituzione di vere e proprie scuole o confraternite, ciascuna delle quali trae il nome dal santo fondatore e dispone di una regola per i propri aderenti. In Turchia esiste tuttora la confraternita dei “dervisci danzanti”, che vanta come fondatore il mistico e poeta Maulana Rumi.
Il modo di vita dei sufi
Una folta letteratura, araba e persiana, ci ha descritto le vite dei sufi, mettendo in luce la loro devozione, le continue preghiere e letture del Corano, la povertà e l’amore al prossimo. Il poeta persiano Farid al-Din Attar, vissuto tra XII e XIII secolo, così presenta un sufi:
Ibrahìm dimorò nove anni in una grotta, dedicandosi continuamente ai riti e alla meditazione. Il giovedì usciva dalla sua grotta portando sul dorso un carico di legna che il venerdì vendeva al bazar. Col ricavato della vendita comprava un pane, ne mangiava metà, dandone l’altra metà in elemosina. Dopo aver fatto la preghiera del venerdì, tornava alla sua grotta dove riprendeva le meditazioni.
(Attar, Parole di sufi, Boringhieri, Torino, 1964, pg.164)
Non mancano esempi di autentica nonviolenza : il poeta persiano Sadi di Sciraz (secolo XIII) nel suo Golestan (Roseto) ci ha lasciato il seguente raccontino:
Un ladro entrò nella casa di un asceta. Per quanto cercasse non trovò nulla, e se ne andava, triste. L’asceta se ne accorse e gettò al passaggio del ladro la stuoia sulla quale dormiva, perché non se ne andasse deluso.
Ho udito che gli uomini della Via di Dio nemmeno il cuor del nemico hanno saputo attristare. Come spererai tu di raggiunger quell’altissimo grado che odio e guerra senti per gli amici?
(da Pagliaro – Bausani, La letteratura persiana, Sansoni – Accademia, Firenze, 1968, pg.522)

Giubileo

di Alberto Castagnola e Maurizio Meloni

Quando un forte movimento di base riesce a imporre nell’agenda politica istituzionale i propri temi è sempre un momento molto delicato. La Campagna Jubilee 2000, una rete internazionale animata dalla straordinaria Ann Pettifor, che ha dato vita alla più forte iniziativa di opinione dai tempi della Campagna anti-apartheid, ha avuto l’enorme merito di coinvolgere milioni di persone ed esponenti dello star-system per far tornare al centro dell’azione istituzionale lo scandalo del debito, il più potente meccanismo di esclusione sociale che abbia operato nelle relazioni nord-sud nell’ultimo ventennio. Un meccanismo che coinvolge Governi, banche, istituzioni come il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, con responsabilità ormai pienamente accertate. Anche in Italia la campagna SdebitarSi, nodo locale di Jubilee 2000, e migliaia di persone che hanno firmato l’appello “per un Millennio senza debiti”, promosso insieme a riviste come Nigrizia, hanno chiesto al Governo di adoperarsi in direzione della cancellazione del debito. Tuttavia esiste il forte rischio che la montagna debito partorisca un ben misero topolino.
Il topolino in questione si chiama disegno di legge “Misure per la riduzione del debito dei paesi a più basso reddito e maggiormente indebitati”, presentato nelle ultime ore del Governo D’Alema 1, qualche giorno prima di Natale. Un atto che presenta aspetti innovativi non privi di interesse, ma che non dovrebbe in nessun modo essere spacciato dal Governo come la risposta alle questioni sollevate. Se questo avverrà nelle prossime giornate, non sarebbe a nostro parere una viôtoria per i sostenitori della cancellazione e di “un nuovo inizio”, come lo chiama Jubilee 2000, per i paesi del Sud.
Le ragioni per cui questo atto governativo nella forma attuale non può in nessun modo essere considerato la risposta alle richieste anti debito, sono duplici.
Primo, sul piano delle cifre. Come spiega la penultima riga della relazione introduttiva, si dice chiaramente che: “il provvedimento non comporta oneri aggiuntivi diretti a carico del bilancio dello stato.” Si tratta insomma di un’operazione di carattere soltanto formale su crediti considerati ormai perduti, dalla quale i Paesi indebitati non traggono alcun vantaggio che non sia quello della riduzione dell’ammontare complessivo. Si tratta infatti di debiti che già da tempo non stavano pagando. Questo è il vero significato della frase citata all’inizio: lo Stato italiano aveva già perduto i prestiti concessi, mentre i Paesi debitori non liberano alcuna risorsa che avrebbero dovuto destinare al pagamento di questi debiti, da tempo giudicati impagabili. E’ troppo duro definire questa operazione come una semplice “ripulitura di bilanci” italiani (del ministero degli esteri e della sace)? E’ un’interpretazione purtroppo confermata dalla sottolineatura del fatto che il provvedimento nella sua forma attuale “è straordinario, eccezionale e una tantum”. Il fatto inoltre che la cancellazione non richieda alcuna trattativa con debitori evidenzia il carattere interno, contabile, delle misure previste. Il secondo grave limite è sul piano della gestione complessiva del debito. Si dichiara apertamente che il decreto “serve a riportare il debito a livelli sostenibili per le risorse di ciascun paese” (leggi: rimettiamoli in grado di pagarci). Non solo: la condizione è che questi Paesi “avviino un programma di aggiustamento strutturale monitorato dal Fondo monetario internazionale”, la cui centralità, che giudichiamo disastrosa, non viene mai messa in discussione.
Infine, il ddl non si risparmia un predicozzo frutto del peggior paternalismo eurocentrico: il debito ve lo cancelliamo, spiega, a patto che non facciate più la guerra, “rinunciate alla guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Che detto da un Governo che ha appena compiuto la sua “opera di pace” nei vicini Balcani, suona quantomeno azzardato.
Insomma ben venga il clamore sul debito, ma attenzione ai colpi ad effetto. Spettacolarizzare questi temi è quantomai efficace ma anche pericoloso. Certo, se la risposta sarà questo disegno di legge, sarà una gloria acquistata a ben scarso prezzo, quasi gratis. Occhi aperti, dunque.

Musica

A cura di Paolo Predieri

Accordi di pace non sono solo canzonette

C’è in giro voglia di musica: di ascoltarla, di suonarla , di inventarla e averla come strumento fondamentale nelle nostre iniziative nonviolente. I riscontri positivi dalle chiacchierate pubblicate lo scorso anno e delle due serate al Congresso del Movimento Nonviolento a Pisa lo confermano.
Proviamo allora, con grande piacere, a riprendere qualche aspetto, qualche episodio fra quelli già accennati nella serie “Accordi di pace” (AN luglio-agosto, settembre e ottobre 99) e altro ancora.
Contiamo come sempre sull’aiuto prezioso dei lettori che invitiamo subito a inviare interventi o segnalazioni, ad esempio su:
musica e canzoni nella gestione di azioni dirette nonviolente;
gruppi musicali particolarmente impegnati;
canzoni per bambini ben caratterizzate;
eventi musicali significativi

Cominciamo con un contributo musicale nonviolento … alla fine della guerra fredda!!! Non a caso, prima della rivoluzione del 1989, a Berlino una serie di concerti aggregò con forza gente delle due Germanie allora ancora divise e, dopo la caduta del Muro, uno dei momenti celebrativi più intensi fu l’esecuzione dell’opera rock “The Wall” di Roger Waters.
Nel programma di conoscenza e riconciliazione Est-Ovest e, in particolare Usa-Urss, attivato dal Mir internazionale negli anni ottanta, ci sono stati anche scambi artistico-musicali.
La testimonianza che riportiamo viene da una diretta protagonista ed è tratta da “Ifor Report”.

CANTARE PER LE NOSTRE VITE

di Deborah Lubar

Abbiamo cantato canzoni popolari americane e canzoni per la pace, abbiamo tenuto spettacoli coi burattini, giochi di prestigio, racconti di storie e brevi drammi. In cambio i sovietici si sono esibiti per noi. E’ stato un modo per scoprire un continente che ci era oscuro. Non tutti fra noi erano artisti professionisti, solo qualcuno: due attori, tre cantanti, un burattinaio e un cantastorie. Il resto del gruppo era composto da operatori sociali, insegnanti d’arte, madri, amministratori di Enti denuclearizzati, studenti, un agricoltore. Tutti eravamo attivisti nel movimento per la pace, tutti ci sentivamo di cantare, di esibirci per le nostre vite. Non avevamo la pretesa di essere grandi star venute per meravigliare il pubblico sovietico.
A Tbilisi, capitale della Georgia, ci siamo trovati in un’enorme sala da pranzo, delle dimensioni di un campo da calcio con un piccolo palco pieno di strumenti rock e 92 amplificatori.
Ci fu un’esibizione non programmata a Yerevan, capitale dell’Armenia. L’auditorium si riempì fino a traboccare. Ci chiesero: ”Conoscete canzoni di Bob Dylan?” E noi cominciammo a cantare tutte quelle che riuscivamo a ricordare. Gli Armeni sapevano le parole meglio di noi.
A Leningrado la nostra guida ci disse: “Okay ragazzi, stavolta è molto importante. Oggi dovete dare il meglio di voi!”. L’autobus ci portò a un capriccioso edificio, denominato “Palazzo degli Attori”. Ci trovammo, dopo una scalinata di marmo, in una sala ampia ed elegante. Toccò a me presentarci. Questo prese i primi 5 minuti, gli altri 25 vennero occupati per discutere del fatto che i nostri missili sono puntati sulle loro città e possono arrivare in soli 6 minuti e che si potrebbe fare qualcosa per migliorare la situazione. Noi lo sapevamo ed eravamo lì per questo, ma non sapevamo come avremmo passato le ore seguenti senza apparire del tutto stupidi.
Il nostro coro si alzò per il primo gruppo di canzoni e accadde qualcosa: attorno alla seconda strofa di “If I had a hammer” il nostro elegante pubblico cominciò a battere i piedi e a dondolare la testa. Alla seconda canzone battevano il ritmo con le mani e cercavano di seguire le parole. Alla terza i nostri occhi e i nostri sorrisi incontravano i loro e ognuno di noi cantava per una persona precisa. Tutto il resto fu un godimento reciproco. Presentammo anche la nostra piccola opera intitolata “Storia del mondo in 30 minuti”, in cui due di noi rappresentano lo sviluppo dell’universo dalla creazione alla distruzione nucleare. Loro scoppiavano dalle risa in tutti i pezzi comici. Ma, alla fine, ci fu un momento di grande serietà. Il globo di plastica gonfiata veniva lanciato in aria e si giocava con la terra come se fosse una palla. Abbiamo cominciato a palleggiare con loro: la terra rimbalzava fra le mani dei nostri due grandi continenti. Uno di loro ha preso il globo e, con molta delicatezza, lo ha lanciato in alto. Tutti abbiamo applaudito la nostra terra. Abbiamo alzato assieme le mani, unite nella solidarietà e legate nella canzone…We shall live in peace someday…

Film
a cura di PeaceLink
E’ morto Claude Autant-Lara regista di “Non uccidere”

E’ morto il 5 febbraio 2000 all’eta’ di 97 anni il regista francese Claude Autant-Lara. Ha firmato una sessantina di film importanti tra cui “Il diavolo in corpo” (1947),”La traversata di Parigi” (1956) e “Non uccidere” (1961). Autant-Lara e’ stato autore di battaglie civili che gli procurarono contrasti con la censura.
Vale la pena ripercorrere la storia di “Non uccidere”, un film simbolo dell’obiezione di coscienza, che all’inizio degli anni Sessanta viene “proibito” dalla censura in diverse nazioni, fra cui l’Italia.
Autant-Lara vede morire il suo film sotto il peso di divieti imposti dall’alto. Ma un fatto straordinario accade in Italia. Il 18 novembre 1961 il sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, fa proiettare il film “Non uccidere” di fonte a decine di giornalisti e di uomini di cultura. I divieti vengono cosi’ infranti da un gesto clamoroso di cui si fa protagonista un sindaco cattolico, vicono a Dossetti ed eletto come indipendente nella DC.
Che cosa contiene di tanto “pericoloso” il film?
“Non uccidere” narra un fatto accaduto realmente, quello di un giovane francese che si rifiuta di indossare l’uniforme militare perche’, come cattolico, non vuole imparare ad uccidere. Poiche’ il film esalta la figura di un obiettore di coscienza, la commissione ministeriale sulla censura di quel tempo vi rintraccia il reato di istigazione a delinquere e percio’ lo esclude dalle sale cinematografiche. Tale censura suscita l’indignazione del deputato Sandro Pertini che, assieme ad altri socialisti, presenta un’interrogazione parlamentare. Ma il sindaco va oltre e, con un atto di disobbedienza civile, infrange, nella citta’ di cui e’ sindaco, il divieto di proiezione e invita giornalisti e uomini di cultura a vedere il film.
Scoppia un caso internazionale, dato che anche in altre nazioni il film e’ boicottato fin dall’inizio, tanto che per girarlo il regista era stato costretto ad andare in Jugoslavia, poiche’ ne’ la Francia ne’ l’Italia avevano autorizzato le riprese nel loro territorio.
Il dibattito e l’impressione profonda suscitati dal film di Autant-Lara producono l’effetto “ibdesiderato” per cui i vertici militari avevano richiesto la censura sul film: in Francia viene approvata una legge che consente l’obiezione di coscienza.
In Italia intanto, nel 1962, rifiuta di indossare la divisa Giuseppe Gozzini, primo obiettore di coscienza cattolico. Entra in galera per coerenza con il quinto comandamento: “Non uccidere”.

SCHEDA / FILM
Dal romanzo “Addio alle armi” viene tratto un film che nel 1932 mette in scena la sconfitta di Caporetto, il mito della prima guerra mondiale viene infranto da scene di cruda realta’ e di insensata follia. Scatta la censura e gli italiani per vederlo (in TV) dovranno aspettare 50 anni. Oscuramento in Italia e Germania anche per il film “All’Ovest niente di nuovo”, uscito nel 1930, vincitore di due Oscar ma troppo antimilitarista. Realizzare e far vedere film critici sulla prima guerra mondiale risulta difficile anche nel 1950: la narrazione della storia di un obiettore di coscienza ha un effetto cosi’ dirompente che il “servizio segreto psicologico” dell’esercito francese ne impedisce la realizzazione. Il film viene ripreso dieci anni piu’ tardi, cambia titolo (da “L’obiettore” diventa “Non uccidere”) e il regista Autant-Lara e’ costretto a realizzarlo in Jugoslavia, fra il 1961 e il 1963. Sono gli anni dell’Algeria, allora colonia francese, in lotta per l’indipendenza. Il film ha un impatto poderoso sull’opinione pubblica. Stesso effetto shock ha in Italia “Uomini contro” di Francesco Rosi. Il regista incontra resistenze tali in Italia da non doversi recare in Jugoslavia per girarlo. Il film esce nel 1970 provocando uno strascico di polemiche e di proteste dei “benpensanti”.
Altri film che hanno rivisitato criticamente la prima mondiale sono “Charlot soldato” (uscito nel 1918), “La grande guerra” di Mario Monicelli, il tedesco “Westfront”, “Orizzonti di gloria” di Kubrick e “La grande illusione”, francese.
Raccontare la verita’ della guerra, risvegliare le coscienze e’ un impresa anche per chi non e’ regista ma educatore di pace: negli anni Sessanta padre Ernesto Balducci viene incarcerato e don Lorenzo Milani e’ sottoposto a processo, entrambi per aver sostenuto il diritto ad agire secondo coscienza di fronte a una guerra ingiusta.

LIBRI

A cura di Silvia Nejrotti

Micro credito: una proposta ed una realtà rivoluzionaria per uscire dalla povertà

La Grameen Bank, o banca rurale, è un istituto di credito, nato nel 1976 in Bangladesh, che concede prestiti esclusivamente ai poveri, con assoluta preferenza alle donne, consentendo loro di procurarsi gli strumenti per un lavoro indipendente e, poi, la sistemazione/costruzione della casa, l’istruzione per i figli, le cure sanitarie.
Il suo fondatore, Muhammad Junus, è un docente universitario di economia, entrato in crisi dopo la tremenda inondazione del 1974 che, seguita da una terribile carestia, provocava la morte di migliaia di persone e la miseria per la maggioranza della popolazione del Bangladesh.
L’idea di fondo che anima questa esperienza è, secondo le parole di Junus, “una semplice verità: la differenza tra poveri e ricchi consiste nelle opportunità, non nelle capacità. La Grameen Bank ha dimostrato che, se un povero ha la possibilità di cessare di esserlo, è molto probabile che la colga. Questa occasione è ciò che mancava; l’unica cosa di cui avrebbero veramente bisogno i poveri non è l’elemosina (aiuti a fondo perduto) ma una giusta opportunità, un’occasione.”
Per approfondire l’argomento, c’è un ottimo libro pubblicato dall’editrice EMI: “Il denaro della speranza”, curato da Federica Volpi con grande chiarezza e quantità d’informazioni. Sono 144 pagine, costa 15.000 e fa parte della collana “Sviluppo, Ambiente, Pace” in cui, oltre al celebre “Futuro sostenibile” dell’Istituto Wuppertal, si possono trovare altri ottimi testi di esperienze, di donne e non solo, che nei paesi del terzo mondo costruiscono un futuro sostenibile.

Michele Boato

La Giustizia intesa non come potere, ma come servizio all’uomo

Di Rodolfo Venditti mi era sfuggito un testo, uscito qualche anno fa. Si tratta di Giustizia come servizio all’uomo (Edizioni Elle Di Ci, Torino, 1995, pag.120, £ 11.000). In esso l’illustre magistrato ripercorre la sua esperienza di giudice.
Il filo conduttore che lega tutto e che dà un sapore preciso all’opera è il richiamo costante alla dignità dell’uomo, di ogni uomo, anche quando compare in un’aula di tribunale, in qualità di imputato. Modo concreto di rispettare l’imputato (e la parte lesa) è celebrare processi rapidi, non consentendo alle manovre dilatorie di chi spera nella prescrizione o nel malcostume di condoni e indulgenze. E’ parlar chiaro, farsi intendere, con speciale attenzione per chi, avendo studi limitati o nulli, prova maggiore difficoltà. E’ passare delle notti, e a volte anche delle domeniche, a lavorare per rispettare con scrupolo i termini previsti dalla legge per il deposito dei provvedimenti. E’ non farsi imprigionare dalle pastoie formalistiche e procedurali per andare alla sostanza, cioè fare giustizia, assolvere o condannare. Fare il giudice rispettando la dignità dell’uomo significa in sostanza gestire la funzione giurisdizionale non in chiave di potere ma in chiave di servizio.
Gli agili capitoli del testo ripercorrono l’esperienza pretorile, quella di giudice minorile, quella dell’insegnamento universitario, che hanno via via arricchito una vita che si spende al servizio dell’uomo. L’intero percorso è sostenuto da una fede cristallina, che lo porta sovente ad obiettare. Una fede così alta da sentire interiore sofferenza quando, ad esempio, la procedura impose a lui, Presidente, di richiedere giuramento ad un teste rabbino (che rifiutò). Il modo in cui questo giudice obiettore compose la vicenda col rabbino obiettore è narrata a pagina 74 e75. Non voglio qui riassumerla, dico che è un inno alla tolleranza religiosa e al rispetto della coscienza. Così come tutto il libro è un inno alla legalità, che è tutt’altra cosa dal perbenismo.
Spero che molti studenti, avvocati, magistrati leggano questo testo. Ma soprattutto lo consiglio a chi, in buona fede, pensa che l’inasprimento delle pene, e in particolare la pena di morte, abbiano funzioni positive. C’è un modo diverso di avere uno stato funzionante e autorevole e Venditti in queste pagine vive e forti lo mostra con chiarezza.

Beppe Marasso

Lettere

Direttori e Presidi:
Educatori o Manager?

Caro Berlinguer,
Il 13 giugno del 96, all’inizio dell’orale del concorso direttivo, un commissario -vista la mia Laurea in Economia e Commercio- esordì con la frase “….allora lei sarà un bravo manager nella scuola”. La mia fu una risposta un po’ stizzosa. Ribadii il mio desiderio di essere direttore didattico, attento e portato verso le problematiche educative, didattiche e pedagogiche. E così è stato nella mia esperienza trentina a Moena (2 anni) e a Carpegna (1 anno). Ora che sono a Rimini in un circolo già “dimensionato” (800 studenti circa), mi accorgo che la didattica è di qualcun altro e io devo rincorrere i problemi amministrativi inerenti “genitori, bidelli, orari, bilanci, rendiconti…”. In tutto questo si inserisce il corso per acquisire la cosiddetta dirigenza (che stiamo concludendo) e il recente Circolare Ministeriale per la Valutazione dei capi d’istituto in attuazione dell’art. 41 del C.C.N.I. Nel regime di autonomia della scuola, si dice in sostanza, verranno apprezzate (cioè valutate) le attività realizzate dai capi di istituto. I più bravi godranno di una retribuzione aggiuntiva. In un anno di transizione, che ci vede impegnati su tutti i fronti (da ultimo quello del passaggio dei bidelli dai Comuni allo Stato) invece di lavorare per favorire la coesione e le sinergie fra le scuole ci si sta chiedendo di essere come delle aziende in concorrenza fra di loro. In un appello ad inizio di anno scolastico ho scritto ai colleghi direttori ed ispettori dicendo che “..ci sono due virus nell’aria e che in questo periodo possono annidarsi nel DNA dei presidi, delle direttrici e dei direttori didattici (futuri dirigenti scolastici): sono i virus della gelosia e dell’invidia. Alcuni di noi si stanno attrezzando per formare una buona difesa immunitaria, prima che lo stress da “corso dirigenziale” faccia indebolire il fisico, la mente e lo spirito. Abbiamo scoperto che la convivialità e la solidarietà possono essere, insieme al “riso e allo humor”, buoni antidoti alla possibile futura epidemia, che porterebbe inevitabilmente alla solitudine e allo sconforto (credo che in termini scientifici si dica “burn out”). Poichè il primo saggio letto nella mia vita è stato Lettera ad una professoressa, prendo spunto da don Milani, per affermare che “…sortirne da soli è avarizia, sortirne insieme è politica”. Per questo mi dispiace quando vedo un collega in difficoltà. E se la scuola che lui dirige “va male” faccio di tutto per migliorarla perchè per me questo significa una sconfitta non sua, ma di tutta la scuola e della comunità che educa e forma. Non sono quindi attratto dall’idea di perdere tempo per inventare la maniera migliore di scrivere quello che ho fatto e per “autovalutarmi”. Chi vive nella scuola sa perfettamente cosa succede nelle nostre scuole e non sono certo i quintali di carta scritta che fanno la qualità della scuola. Mi auguro che dopo gli insegnanti si ripensi ora anche alla “autovalutazione” dei futuri dirigenti. Anche noi possiamo essere ascoltati.
Gianfranco Zavalloni
(Rimini)

Jovanotti e il Debito
No alla spettacolocrazia

Caro Direttore,
non conosco i retroscena che hanno indotto una macchina tanto frivola come il Festival di San Remo a dare voce ad un tema tanto drammatico come quello del debito. Del resto non ho la televisione e ho saputo della cosa solo perché ne hanno parlato tutti i giornali.
Al di là delle motivazioni che stanno alla base della scelta effettuata dalla mega macchina-spettacolo, immagino che l’inziativa sia stata realizzata per una pressione esercitata dalla campagna internazionale Jubilee 2000 e quella italiana “Sdebitarsi”. Ritengo che le due campagne abbiano fatto una mossa intelligente ad utilizzare il Festival di San Remo come tribuna per parlare del debito, ma devo confessare che il risultato ottenuto mi provoca al tempo stesso soddisfazione e sgomento. Soddisfazione perché è riuscito a fare giungere il messaggio anche ai milioni di teledipendenti che se ne stanno col telecomando in mano alla ricerca del programma più insulso. Sgomento perché, ancora una volta, ho dovuto costatare il basso livello di serietà dei mezzi di informazione. Il debito sta mietendo vittime da almeno venti anni, ma i quotidiani non se ne sono mai occupati nonostante le numerose conferenze stampa indette da associazioni che da anni lottano, con impegno certosino, contro questa particolare forma di oppressione. Fa male al cuore costatare che i problemi non si affermano per la loro gravità o rilevanza sociale e culturale, ma per la loro spettacolarità.
Ma la preoccupazione più grossa è per il comportamento di D’Alema. Lui, capo di governo di un paese democratico, mentre ignora le proteste e le sollecitazioni che gli giungono dalla società civile organizzata, si precipita a convocare un cittadino che ha la particolarità di cantare e di apparire in televisione. Non mi risulta, del resto, che Jovanotti abbia mai ricevuto la delega a rappresentare in ambito politico la campagna contro il debito. Con tutto il rispetto per Jovanotti, credo che altri abbiano più competenza di lui per esporre le richieste della campagna e per parlamentare con le autorità dello stato che devono prendere decisioni al riguardo. Naturalmente parto dal presupposto che quando D’Alema si muove lo faccia per affrontare seriamente i problemi e non per gettare del fumo negli occhi, nel qual caso si aggiungerebbe preoccupazione a preoccupazione. La sollecitudine di D’Alema ad incontrare le persone appariscenti, mentre ignora le forze popolari organizzate che per ostruzionismo della stampa sono costrette ad operare nell’ombra, mi pare un insulto alla democrazia. In democrazia l’unica sovranità che vale è quella popolare e quando si dimostra di considerare di più quella legata al censo, alla posizione economica o alla notorietà, mi pare una brutta china che può portare molto lontano.

Francuccio Gesualdi
(Vecchiano)

Violenza e nonviolenza
in curva e in campo

“UNA DOMENICA BESTIALE”: così titolava Il Gazzettino di lunedì 14 febbraio. A Venezia vi è stata una rissa a fine partita tra giocatori per “saldare i conti sospesi” in campo; un giocatore del Padova a Cittadella dichiara che durante la rissa una persona “ha aperto la giacca mostrando la pistola” e giustamente sarà interrogato dal giudice.
Un allenatore posato come Eriksson , dopo aver parlato durissimo – lui, sempre di poche parole – con i tifosi definendo “schifosi” quei cori razzisti, ritrova anche lui la verve polemica degli allenatori che sembrano negli ultimi giorni aver individuato il dodicesimo avversario o nemico in campo: l’arbitro.
Anche tra il calcio giovanile e dilettantistico le cose non vanno meglio: la federazione locale pugliese, ad esempio, ha deciso di sospendere tutti gli incontri per il prossimo turno di campionato.
Ora deve veramente finire il tempo delle discussioni, delle polemiche, dei processi televisivi e dell’invasione totale del calcio in video per tutta la domenica.
Dopo questa fotografia, che tutti hanno già più volte scattato o moviolato è giunto il momento delle proposte, quelle vere e sincere.
Non è la prima volta che rilancio una proposta di tecnica nonviolenta per fermare la violenza negli stadi, e in questa occasione i destinatari sono i dirigenti della Lega Calcio, i Presidenti delle società
e gli stessi giocatori, con particolare attenzione a quelli che si battono contro la guerra e la violenza (possiamo citare, ad esempio, Tommasi, della Roma, anche lui obiettore di coscienza).
In Italia abbiamo oggi, solo per il 2000, quasi 100 mila domande di giovani che hanno chiesto di svolgere un servizio civile, tutelati finalmente da una legge seria. Il Governo, tuttavia, stenta a trovare i fondi e i posti per sistemare tutti, giungendo al punto di esonerare molti giovani o di sospenderne le chiamate, e lasciando conseguentemente enti assistenziali senza obiettori, il che costringe molti disabili a rimanere chiusi in casa, senza poter usufruire dei servizi di trasporto per le loro attività riabilitative.
Qual è in sostanza la proposta da me avanzata? Si tratta di un progetto semplice e realizzabile, che non comporta grosse spese: occorrerebbe prevedere l’inserimento nel mondo del calcio di gruppi di obiettori adeguatamente preparati (la nuova legge prevede un periodo di formazione) che possano entrare in contatto con le società, con i gruppi di sostenitori, con le curve, con gli ultras.
Molti giovani (mi riferisco ad esempio ai Caschi Bianchi spagnoli e i bravi obiettori della Comunità Giovanni XXIII) fanno già questo lavoro in circostanze ben più pericolose, come la guerra nei Balcani.
Credetemi: la nonviolenza non è un’utopia: un piccolo drappello di obiettori di coscienza andò in carcere per avere il diritto all’obiezione, ed oggi questi giovani, a 25 anni di distanza, sono quasi un milione. Non c’è alternativa: per uscire dalla violenza, bisogna praticare la nonviolenza.
Noi obiettori – e molti altri – siamo pronti; e voi signori della Lega e delle Società del calcio, a che punto siete?

Alberto Trevisan
Rubano PD

Di Fabio