• 23 Dicembre 2024 18:43

Azione nonviolenta – Marzo 2001

DiFabio

Feb 5, 2001

Azione nonviolenta marzo 2001

– All’alba del terzo ha ancora senso parlare di patria ?
– La sinistra di governo e la politica militare
– Gervasia, la suora di Rebibbia che vuole tutti i detenuti in paradiso
– Ho scoperto la bellezza della vita nel braccio della morte
– New Economy e sviluppo immateriale per mantenere la ricchezza dov’e’
– La Nonviolenza in Messico conquista gli zapatisti
– Colombia: violenza contro i difensori dei diritti umani

Rubriche

– Economia
– Educazione
– Libri
– Storia
– Musica
– Cinema
– Lettere

All’alba del terzo millennio ha ancora senso parlare di Patria?

Di Sandro Canestrini

Quello che ora sta succedendo in troppe parti del mondo pone un problema molto serio : pensatori e filosofi, soprattutto dell’800, hanno elaborato il concetto di Patria, come ente intermedio tra l’individuo di un certo luogo topograficamente designato e il resto dell’umanità. Valga per tutti l’esempio di Giuseppe Mazzini, o dello studioso Chabod, come degli studiosi che hanno portato avanti il concetto di Patria, in tutti i suoi aspetti positivi. Che sono il riconoscimento di una collettività in base a certe caratteristiche storiche e la necessità di una collaborazione tra le varie Patrie. Purtroppo poi nel ‘900 ed ora questo concetto ha mostrato come troppo spesso gli aspetti negativi superano quelli positivi, nel senso che gli abitanti di una Patria vengono indotti a pensare che debbano odiare quelli delle altre, spesso all’insegna folle e razzistica di essere i migliori di tutti. Sotto l’urto di questa offensiva deleteria del concetto di Patria abbiamo avuto delle guerre spaventose alla fine delle quali ci è rimasto solo di contare dei morti per le strade e nelle case, molte decine di milioni di morti. Pareva che nel maggio del ’45 avessimo maturato il concetto che Patria è solo un termine intermedio e che la Patria vera è l’umanità nel quadro culturale e solo culturale che arricchisce e fa arricchire di pensiero se stesso e gli altri. In tal modo sembrava di poter dire che la terribile frase di uno scrittore del ‘700 inglese (che evidentemente guardava molto avanti a se) per cui “il concetto di Patria è l’ultimo rifugio dei mascalzoni” sarebbe stato superato non solo e non tanto da accordi internazionali quanto dal fatto che gli uomini si riconoscevano tutti uguali. Oggi invece, con Gubert in testa, molti uomini ci tengono a distinguersi gli uni dagli altri e si fa della questione culturale un vessillo di lotta contro gli altri. Naturalmente la religione viene, come sempre in questi casi, tirata in discussione, da destra, naturalmente vengono sollecitati gli istinti peggiori dell’umanità, quali il diritto al lavoro, il diritto al rispetto reciproco, etc. Oggi è facile trovare una persona che si dichiara cattolica e nello stesso tempo non vuole discutere di razze diverse, dalle chiese ai cimiteri, dal posto di lavoro alla convivenza civile. Come sappiamo, il concetto di razza è un concetto falso nel senso che le razze non esistono :nel momento in cui, come abbiamo recentemente appreso, anche le differenze tra gli uomini e il resto della natura sono minuscole per quanto riguarda il genoma, non ha alcun senso parlare di razza secondo i termini tradizionali. Rimangono soltanto i fascisti per i quali qualunque cosa possa essere utile per menare le mani e per opporsi ad un vivere sereno è buona.
Ed ecco perché Bossi e i suoi amici cadono in questa incredibile contraddizione: limitare al massimo (fra un po’ si chiederà di sparare dalle coste sul mare) l’afflusso di altre persone, mentre d’altra parte gli industriali fanno presente che c’è una tremenda carenza di manodopera per poter andare avanti con i piani di lavoro in molte fabbriche. Insomma almeno sotto il profilo dell’utile individuale, questi cittadini di altre nazioni possono essere salutati con serenità, o no ?
Riterrei di chiudere questo breve intervento a proposito di un conflitto che fittiziamente viene classificato come razziale oggi in Palestina. Mai il concetto di razza è stato adoperato in modo peggiore perché arabi ed ebrei rappresentano anche secondo la antica tradizione, una unica razza per le origini e la storia. I tragici fatti di Palestina sono invece la prova di fallimento della Comunità Internazionale che non ha saputo offrire né agli uni né agli altri una possibilità di soluzione che tenga conto dell’esistenza di interessi di gruppi diversi. Per chi fosse in buona fede il concetto di razza cadrebbe anche per questo. Quando si discute della proprietà di terreni o dell’esproprio di case (come si discute oggi laggiù) si fa riferimento a d interessi specifici di carattere economico che non hanno nessun riferimento a fattori spirituali. Per questo è da ritenersi encomiabile ogni sforzo che tenda ad una più razionale discussione. Già Gaetano Salvemini diceva che “quando canta la cicala dell’irrazionale, tace la ragione”: ancora una volta spetta agli uomini di ragionare.
La sinistra di governo e la politica militare

a cura di Raffaele Barbiero

L’obiettivo che nel campo della soluzione dei conflitti mi sembra fondamentale raggiungere è la riduzione ai minimi livelli della violenza, anche se personalmente propugno la nonviolenza.
Sono infatti consapevole che se si incomincia a sparare si salva chi spara di più e meglio (a tale proposito ascoltatevi “La guerra di Piero” di Fabrizio De Andrè).
Segnalo però che già dal 1991, dopo la Guerra del Golfo, il nostro Ministero della Difesa, obbedendo alle direttive degli Stati Maggiori Militari, aveva prospettato un Nuovo Modello di Difesa basato sull’esercito professionista con il compito di difendere gli interessi nazionali laddove fossero minacciati e le vie di approvvigionamento alle materie prime per il “nostro benessere”.
Dopo dieci anni e dopo cinque anni di Governi di centro-sinistra i militari sono riusciti a realizzare completamente la loro strategia: hanno <portato a casa> aumenti consistenti e progressivi negli anni del Bilancio della Difesa (previsione per il 2001 di 34.235 miliardi) mentre quasi tutti gli altri capitoli di spesa vengono tagliati, hanno ottenuto di investire fortemente nell’ammodernamento dei sistemi d’arma (4.000 miliardi per una nuova portaerei, alcune migliaia per il caccia Eurofighter, ecc.), hanno investito molto in un rilancio della propria immagine e presentabilità pubblica (non parlano più di azioni di guerra ma di peacekeeping, peaceenforcing, peacebuilding, interventi umanitari) evidenziando di più la parte di protezione civile e umanitaria, incluso anche la demagogica “apertura” all’arruolamento delle donne nelle Armi dell’Esercito.
All’arcipelago pacifista non sono rimaste che le briciole, nonostante i governi “amici” della pace.
L’unica soddisfazione per i pacifisti è stata l’approvazione della legge di riforma dell’obiezione di coscienza (legge 230 del 1998), che relativamente alla risoluzione dei conflitti prevede all’art.8 comma e) la possibilità di studiare e sperimentare forme di difesa non armata e nonviolenta e all’art. 9 comma 7 e 11 le missioni umanitarie all’estero per servizi non armati sotto il comando di autorità civili.

Eppure all’assordante e violento rombo delle armi ci sono alternative:

A livello internazionale rilanciare un ruolo forte dell’ONU.
L’ONU (che è di tutti) lo si vuole impotente, per poi poter utilizzare il vuoto di potere internazionale per attuare i propri interessi (soprattutto americani e dei Paesi legati alla Nato).
Ricordo che prima e durante la Guerra nel Golfo chi sostenne l’intervento armato si era affrettato a promettere riforme in senso democratico e di maggior efficienza dell’ONU. Riforme ancora tutte sulla carta.

Laddove ci sono dittature e non rispetto dei diritti umani bisogna attivare percorsi di sostegno a quelle realtà associative, a quelle organizzazioni, a quei gruppi che internamente lottano contro le dittature e per la libertà.
Solo se i processi di liberazione sono interni il risultato è duraturo, altrimenti ci sono imposizioni, pace armata e instabilità permanente.
Nel rispetto dei diritti umani poi non ci deve essere un metro differente a seconda degli interessi economici che ci possono essere (esempio Cina, Arabia Saudita).

Attuare la creazione di Corpi Civili di Pace, per realizzare interventi di prevenzione, mediazione e interposizione in zone di conflitto.
A livello giuridico la cornice esiste già a partire dalla Risoluzione del Parlamento Europeo del 1999, per giungere a quella del Parlamento Italiano del 16 novembre 2000 (risoluzione Saonara n. 7-00987) e alla Legge 230/98.
Esempi di attività realizzate “sul campo” ne esistono, ad opera di associazioni di volontariato qualificate (Caritas Italiana, Ass. Papa Giovanni XXIII di Rimini, Gavci di Bologna, Berretti Bianchi di Lucca, Beati i Costruttori di Pace di Padova, Peace Brigades International di Vicenza), Manca solo la volontà di fare i Corpi Civili di Pace.
Non si vogliono investire per essi, così come si fa per le Forze Armate, risorse economiche, umane, materiali.
E’ necessario invece fare formazione e addestramento; dare copertura giuridica, “status” internazionale, garanzie salariali e lavorative e quant’altro possa essere utile per avere strutture adeguate che non dipendano solo dalla buona volontà e dalla lungimiranza del volontariato.

Se non si va in questa direzione ci si condanna però ad accettare per sempre o il silenzio e l’accondiscendenza difronte al sopruso o la risposta armata e violenta, che causa comunque morti e distruzioni; soprattutto fra civili ed innocenti, come tutte le guerre dimostrano (anche se sono chiamate “interventi umanitari”).

Gervasia, la suora di Rebibbia che vuole tutti i detenuti in Paradiso

Intervista a cura di Mao Valpiana

E’ un fiume in piena, suor Gervasia. Ha 84 anni, ma l’energia e l’entusiasmo sono gli stessi di venticinque anni fa, quando l’ho conosciuta. Gervasia Asioli, classe 1917. Suora Orsolina, delle Figlie di Maria Immacolata, si è sempre occupata di barboni, detenuti, emarginati, andando a trovarli per risolvere qualche problema materiale, ma anche frequentando i gruppi che ricercano per loro soluzioni istituzionali e politiche. E’ lì che l’ho incontrata a metà degli anni settanta; stava nascendo il primo gruppo nonviolento veronese; avevamo appena preso in affitto la prima sede, uno scantinato di via Filippini, umido e desolatamente vuoto. Un giorno mi telefona a casa suor Gervasia; dice di andare nel suo Istituto con una macchina, ma dopo le nove di sera, non suonare il campanello, ma bussare. Non capisco bene il messaggio, ma eseguo. Viene lei ad aprire, con aria circospetta ed una torcia in mano. Percorriamo in silenzio il lungo corridoio della Casa Madre, e poi giù nel refettorio. “Ecco, Mao, prendi questa tavola, alle suore non serve, e poi non se ne accorgeranno, a voi invece sarà utile per la nuova sede dei nonviolenti…”. Il lungo tavolo, oggi restaurato, è ancora al centro della sala riunioni della Casa per la Nonviolenza. E’ il testimone della mia amicizia con suor Gervasia.

Gervasia, sei sempre uguale… anzi, mi sembri ancora più matta…
Tasi, te dò un sciafòn sul muso, sèto?! Mi prendi in giro perchè sono vecchia, ma io non ce la faccio più a correre come prima. Fa finta di essere burbera, ma la voglia di scherzare non l’ha mai abbandonata. Ancor oggi si reca ogni giorno a Rebibbia. Lo fa dal 1983. Prende tre mezzi pubblici, metro e autobus e poi fa un pezzo di strada a piedi o in autostop. Trovo sempre chi mi dà un passaggio, avvocati o giudici, o parenti di detenuti, arabi, mussulmani. E’ così che ho fatto amicizia anche con l’Imam di Roma che mi ha invitato a visitare la Mosche dei Pratifiscali. Ci sono andata e sono rimasta incantata. C’erano tanti uomini che pregavano e anche sei, sette donne velate. Mi sono tolta le scarpe e mi sono inchinata con loro. Quel giorno l’Imam non c’era, così al suo vice ho detto: che peccato, l’Imam ha perso l’occasione per convertirmi… peggio per lui, ma meglio per me! e giù, una bella risata.

Torniamo ai tuoi amici detenuti..
Adesso vado nel nuovo complesso di Rebibbia, al settore G 8, dove ci sono gli omosessuali e i travestiti. Sono i miei prediletti. Mi piace sedermi in mezzo a queste belle donne dalle forme prosperose. Quando arrivo mi abbracciano, mi baciano e mi lasciano lo stampo del rossetto. Sono simpaticissimi. Con loro cantiamo le canzoni latino americane, preghiamo, ognuno nella sua lingua, tanto il Signore capisce tutto. Dalla mia borsa tiro fuori ciò che mi avevano chiesto, sigarette, cartoline, buste affrancate (quante me ne chiedono, e io resto su la notte a preparargliele e porto loro anche santini e medagliette della Madonna, che attaccano alle loro collane), poi mi danno tante commissioni da fare, e numeri di telefono per avvisare i loro parenti… che io chiamo anche all’estero, la sera quando torno a casa, dal telefono del convento… speriamo che le sorelle non se ne accorgano…

Ma dove trovi tutta questa forza?
La sera, prima di coricarmi, vado nella cappella della mia comunità, abbraccio il tabernacolo e supplico il mio Amore di farmi la grazia di entrare in Paradiso, e di portarmi dietro tutti, ma proprio tutti i detenuti, senza lasciarne fuori nessuno; ho una fiducia totale nella Misericordia infinita di Dio “che ha sì gran braccia che prende ciò che si rivolge a lei…”. Quando cammino per i corridoi di Rebibbia, mentre dalle sbarre delle celle escono tante braccia che mi chiamano, io ringrazio sempre Dio che mi ha permesso di conoscere questa realtà sconvolgente ma ricca di umanità, che non ho mai trovato da nessun’altra parte.

Come hai iniziato ad interessarti del carcere?
Ho sempre voluto bene al prossimo, e specialmente ai più sfortunati. Quando ero a Verona andavo tutte le domeniche a trovare le detenute al Campone. Di una sono diventata proprio amica, piangeva tutto il giorno perchè non poteva più vedere i suoi figli… poi tutti i sabati andavo a Castiglione delle Stiviere, al manicomio criminale… poverini, che pena… tanti di loro non parlavano ormai più, ma lo stesso quando arrivavo erano baci, abbracci, “strucamenti”… per tutti i detenuti è molto importante il rapporto fisico, sono privati degli affetti più cari, e così io li abbraccio sempre… e dico “Signore, ma cosa ho fatto per meritarmi tutti questi uomini?” se mi sposavo ne avevo uno solo, così ne ho tantissimi e anche se son vècia i me strùca ancora… e ride di gusto.
Con Suor Gervasia è difficile mantenere l’argomento. I ricordi le richiamano dei nomi, dei volti, per ognuno ha una parola, una lacrima, una preghiera. Si ferma e ti racconta storie ed episodi di oggi o di anni fa. Quando è scoppiata la Bomba di Piazza Fontana, io ero a Milano, sono corsa subito lì, e ne è nata un’amicizia che prosegue ancor oggi con Pizzamiglio, una delle vittime, che ha perso le gambe nello scoppio. Con il giornale La Notte avevamo fatto una colletta per comperargli una casa a piano terra. Poi sono rimasta a Milano, ho conosciuto Don Mazzi mentre frequentavo il Parco Lambro, con i primi drogati.

Le suore superiori, come vedono queste tue attività?
Da parte delle Orsoline ho sempre trovato una grande comprensione e una grande libertà. Quando sono entrata in convento, a vent’anni, nel 1937, proprio il primo giorno mi è venuta una gran paura, non volevo indossare quella veste nera. Allora ho chiesto il permesso di uscire da sola, sono andata nella chiesa di Santa Teresa, ho pregato e mi sono affidata a Dio. Quando alla sera sono tornata alla Casa Madre, c’è stata la cerimonia e ho iniziato il noviziato, due anni senza mai uscire fuori. Il 7 ottobre del 1940 ho fatto la professione religiosa a Roma. Poi ho iniziato ad insegnare, erano gli anni della guerra. Con un prete abbiamo avviato un doposcuola per gli sfollati, a Ferrara. Un giorno una federale fascista ci ha fatto un’ispezione, e per me ha steso un verbale negativo… forse ero già troppo indisciplinata. Non ho risposto al saluto fascista.
Durante l’intervista dobbiamo interromperci spesso; entrano diverse persone a salutare suor Gervasia. Lei scherza con tutti. Arriva anche una busta anonima con dentro 250.000 lire “per i tuoi detenuti”. Ecco vedi la Provvidenza? Questi soldi li userò per i bolli da dare ai transessuali brasiliani di Rebibbia. Ma lo sai che la Provvidenza esiste proprio? Un giorno avevo in tasca 50.000 lire, che mi servivano per i bisogni di un detenuto. Per strada ho incontrato un barbone, aveva fame, mi ha chiesto del denaro. Gli ho dato le 50.000 lire. Appena di là della strada, dopo un minuto, incontro una signora che mi riconosce, mi aveva visto in televisione, e mi dice: suora accetti questa offerta per il suo lavoro in carcere, e mi dà proprio 50.000 lire. Capisci? E’ stato proprio Lui, che ci aiuta sempre… o Dio, ecco che mi commuovo…Tra un episodio e l’altro mi racconta anche la sua vita. Orfana a due anni, viene affidata ad una zia. Lei cresce vivacissima, scatenata, a 5 anni la allontanano dall’asilo, a 12 anni viene sospesa da scuola. Ero un demonio, in condotta avevo sempre 7, stavo buona solo nell’ora di religione. Quando a 9 anni ho fatto la prima comunione, ho deciso anche per la mia vocazione. Poi il collegio, il diploma, l’esame alla Cattolica e, con la prima supplenza, a 17 anni, è arrivato anche il primo moroso.
Racconta anche di alcuni scherzi memorabili fatti a preti o suore per tagliare l’aria in tempo di guerra; come quella volta che durante un funerale si è nascosta sotto il drappo della bara, per uscirne a sorpresa (i gesuiti ci insegnavano che bisognava sperimentare, e io volevo capire cosa mi sarebbe successa da morta); oppure quando ha finto che il Vescovo convocasse d’urgenza un seminarista (si dava troppe arie) facendolo andare a vuoto in città, una ventina di chilometri, in bicicletta; e ancora quando si è nascosta nel pulpito della chiesa in penombra mentre le suore facevano meditazione, con voce tenebrosa ha urlato “nel nome di Dio fermatevi”: una suora è svenuta.

Hai programmi per il futuro?
Fino a che Dio mi darà energia, voglio proseguire il lavoro con i detenuti. Pensa che qualche giorno fa i detenuti di Rebibbia mi hanno regalato una targa d’argento. C’era una cerimonia con Caselli. Io, come sempre, ero in ultimo banco, per non stare davanti con tutta la pretaglia. Mi hanno chiamato nel primo banco e Caselli mi ha consegnato la targa. “La conosciamo bene suor Gervasia, abbiamo un fascicolo su di lei”. Tutti i detenuti si sono messi ad applaudirmi e a ritmare: “Gervasia, Gervasia”, ma siete matti ?, gli ho detto!
Poi è venuto il Ministro Fassino in visita. Ho voluto conoscerlo per dirgli di mollare fuori un po’ di gente; abbiamo celle da tre posti con dentro anche nove dieci detenuti. E’ disumano, non è possibile. Poi non ci si deve stupire se accadono certi fatti, o se qualcuno si suicida. Io sono per l’indulto. Ci vogliono le pene alternative, altro che carcere!. Ho conosciuto brigatisti, truffatori, ladri, assassini, pedofili, rapinatori, e io assolvo tutti, buoni e cattivi A giudicarci ci penserà Gesù nell’aldilà. Dentro ognuno, anche il peggior delinquente, c’è sempre un raggio di luce. Ma sai quanti esempi di altruismo ho visto in carcere?. Ho conosciuto terroristi con un cuore grande così, sono amica della Mambro e di Fioravanti, di Ciancimino, di Curcio, e di tanti sepolti vivi anonimi. Ho compassione per tutti. Un ergastolano mi ha dedicato una bellissima poesia: “Credevo che non avrei mai più ricevuto una carezza da mia madre, ma tutto ad un tratto è arrivata lei, dolce come un angelo….è lei la mia mamma”. Ogni volta che la leggo piango.

Hai qualcosa da dire ai lettori di Azione nonviolenta?
Apprezzo molto la nonviolenza, in tutti i casi. Il nonviolento vince sempre col suo silenzio, con la capacità di ricevere le calunnie, gli insulti, le dicerie. La coscienza ti loda e ti premia se non rispondi al male. Il nonviolento ci insegna che è meglio ricevere il male che farlo: perchè male chiama male, e bene chiama bene.
Mandatemi delle copie di Azione nonviolenta, le distribuirò ai detenuti, insieme ai cioccolatini, alle sigarette, ai santini e alle buste affrancate…
Ho scoperto la bellezza della vita nel braccio della morte
Morirò da innocente per combattere la pena capitale

Michael Toney è un detenuto nel braccio della morte del carcere di Huntsville in Texas. Ha compiuto il clamoroso gesto di mettere all’asta i cinque posti che ha a disposizione per assistere alla sua esecuzione, al fine di ricavare denaro da lasciare alle sue due bambine.
“Azione nonviolenta” l’ha intervistato.

Perché la Giustizia statunitense, attraverso l’uso della pena di morte, dimostra di non condividere l’idea europea che la pena ha l’obiettivo di rieducare il condannato e di reinserirlo nella società?
E’ una questione molto complessa e penso che nessuno abbia la risposta esatta. Gli statunitensi hanno l’idea molto particolare che la vendetta sia necessaria. In realtà la vendetta non è mai necessaria. Non serve ad altro scopo che all’autogratificazione. Gli statunitensi non capiscono che ogni esistenza è preziosa e che nessuno in nessuna circostanza ha il diritto di prendere la vita ad un altro. La condanna a morte non è niente di meno che un omicidio. Purtroppo le esecuzioni sono molto ben pianificate ed effettuate in grandi quantità. Due errori non creano un evento giusto! Qui in Texas le condanne a morte sono comuni come i pozzi di petrolio e il bestiame. Non sembra affliggere la coscienza delle persone il fatto che stanno uccidendo un uomo. Essi dicono: “E’ un lavoro come un altro e qualcuno lo deve fare”. Ma non è la verità. Nessuno può uccidere un altro. Penso che nessuno sappia perché esiste la pena di morte negli Stati Uniti. Io credo che la vendetta sia malsana e che l’unica via praticabile sia comprendere e perdonare. Se una persona prende la vita di un’altra, c’è qualcosa di sbagliato in quell’assassinio, qualcosa di mentalmente sbagliato. Dobbiamo studiare le cause per cui la gente uccide e risolvere il problema. La condanna a morte non risolve nulla. E’ solo l’eliminazione di un indesiderabile. Non guarisce nessuna ferita. Anzi apre un intero nuovo orizzonte di ferite.

Di fronte ad un delitto è sempre vero che si può e si deve perdonare?
Domanda interessante. Io credo che sia sempre possibile perdonare, ma che sia impossibile dimenticare. Il perdono è la via più grande da percorrere per i parenti delle vittime di un omicidio. Però in alcuni casi l’assassino non ha rimorsi o rimpianti e perciò è molto difficile perdonare. E’ difficile perdonare chi ha ucciso una persona che si ama. Cerco di rispondere alla vostra domanda riferendomi alla Bibbia. Come si può chiedere perdono a Dio se a nostra volta non sappiamo perdonare? Penso che il perdono sia la parte più elevata del processo di riconciliazione e senza dubbio ne è una fase indispensabile.

Come si può favorire un processo di riconciliazione fra assassino e vittima (e suoi familiari)?
Deve essere un processo reciproco. Entrambe le parti devono volere la riconciliazione. Secondo me l’assassino e i parenti della vittima devono essere capaci di confrontarsi reciprocamente in un ambiente favorevole. La famiglia della vittima deve avere risposte sul motivo per cui il proprio congiunto è stato ucciso. So che nessuna risposta è accettabile, ma ottenere risposte è una fase del processo di riconciliazione. Non c’è modo di arrivare ad una riconciliazione totale, ma ci sono alcuni passi di riavvicinamento che possono compiere sia l’assassino che la vittima.

L’esperienza del braccio della morte, che ha pesantemente mutilato la tua esistenza, privata di ogni possibile libero sviluppo, ti ha comunque arricchito in qualche maniera?
Sì, senza dubbio! La mia situazione è differente da quella che vive la maggioranza delle persone nel braccio della morte per il fatto che io sono stato condannato a morte per un crimine di cui non so nulla, ma ciò è servito ad aprirmi gli occhi. E’ però una vergogna che sia un evento così tragico ad aprirmi gli occhi. Ho avuto occasioni che non hanno prezzo. Io credo che un giorno sarò scagionato e potrò raccontare ciò di cui sono stato testimone e utilizzerò la mia esperienza per scopi sociali. Ho avuto l’opportunità di guardare negli occhi uomini che sapevano di avere solo più poche ore di vita. Ho potuto parlar loro poco prima che la loro vita fosse strappata. Ho avuto la possibilità di porre molte domande, ad esempio perché avevano ucciso altre persone. Ho capito che ogni esistenza è preziosa. Ho avuto l’occasione di conoscere me stesso e ho capito perché mi sono comportato in una certa maniera e di conseguenza ho imparato a correggere i miei comportamenti. L’asta con la quale ho venduto i miei biglietti è stata un successo e ciò prova il mio punto di vista: gli statunitensi hanno uno strano fascino per la vendetta e la morte.

Puoi dire di aver imparato una lezione sulla vita, magari un frammento, e quell’impercettibile sensazione è stata o no in grado di giustificare la realtà che hai vissuto e che stai vivendo?
Ho imparato molto di più di quanto potrei mai riuscire ad esprimere a parole. Non giustifico la realtà della mia situazione e non posso rispondere a questa domanda perché non so come finirà la mia storia. Ignoro se sarò ucciso oppure no. Se lo sarò, ogni cosa che ho imparato sarà inutile, a meno che io possa utilizzarla in qualche maniera prima di essere ucciso. Penso che nulla possa giustificare l’eliminazione di una vita umana, specialmente quando la persona è innocente, come sono io. Sono molto preoccupato del rapporto fra innocenza e pena di morte, perché io sono stato condannato con facilità per un crimine di cui non ho saputo nulla per dodici anni dopo che è stato commesso. Non sono mai stato sul luogo ove è stato commesso. Ciò mi fa chiedere quante persone innocenti sono state uccise. Ci sono seri problemi con il sistema giudiziario statunitense. Esso rifiuta di ammettere che errori sono stati commessi e vuole che ognuno creda che esso è il miglior sistema giudiziario nel mondo, ma non è così. E’ un sistema come tanti altri e non vuole migliorare perché non vuole imparare dai propri errori. Si preferisce incarcerare e uccidere un innocente e permettere contemporaneamente al colpevole di restare in libertà, piuttosto di ammettere di aver sbagliato. Se io riuscirò invece a mostrare la verità e a ottenere vera giustizia, allora ogni cosa sarà giustificata, perché il sistema avrà riconosciuto le sue imperfezioni e avrà operato gli opportuni cambiamenti.

(Intervista a cura di Sergio Albesano)
Condannati a morte per errore
Lo dimostra uno studio americano

Di Milena Nebbia

Vi è un crescente consenso sul fatto che i problemi inerenti al sistema di pena di morte americano abbiano raggiunto le proporzioni di una crisi. Molti temono che i processi relativi ai casi per cui è prevista la pena capitale mandino nel braccio della morte persone che non dovrebbero esservi mandate. Altri affermano che i ricorsi in appello relativi a tali casi abbiano tempi troppo lunghi.
Il Comitato del Senato contro la pena di morte, costituitosi nel 1996, nella sua relazione finale ha reso noto un interessante studio sugli errori giudiziali nei casi di condanna alla pena capitale negli Stati Uniti (A Broken System : Error Rates in Capital Cases, 1973-1995).I ricercatori della facoltà di legge della Columbia University, guidati dal professor James S. Liebman, hanno esaminato tutti i casi conclusi di tutte le istanze giudiziarie nell’arco di quasi un quarto di secolo. Si tratta del primo studio statistico degli appelli per casi riguardanti la pena di morte in America in tempi moderni: 4578 appelli relativi a casi statali tra il 1973 e il 1995 in 34 stati. Il lavoro, svolto in nove anni, mette in luce un sistema che sta crollando sotto il peso dei propri errori. Un sistema in cui sono in gioco vite umane e ordine pubblico, e che tuttavia per decenni ha commesso più errori di quelli che saremmo disposti a tollerare nell’ambito di attività molto meno importanti. Un sistema che è dispendioso e malato e deve essere curato.
L’intenzione degli autori è stata quella di mettere da parte i dilemmi morali e formulare la domanda che manager, consumatori e cittadini pongono a proposito dei prodotti più svariati, dai pneumatici alle scuole : funziona ? Lo studio conclude che la risposta è no : i metodi con cui vengono condannati a morte gli individui sono chiaramente difettosi.
Invece di tentare di operare una scelta tra i tanti casi, il che avrebbe inevitabilmente condotto a pregiudizi o errori, gli autori hanno esaminato ciascun procedimento di appello relativo a una condanna alla pena capitale per un periodo di 23 anni. In seguito all’esame di migliaia di giudizi di appello, gli autori hanno riscontrato che il 68% dei casi aveva dovuto essere riesaminato e provato, rendendo necessari 2370 nuovi processi.
Le cause principali di tali errori sono state: avvocati incompetenti, condotta scorretta di pubblici ministeri, istruzioni non corrette impartite alla giuria, giudici e giurie parziali. In seguito alla revisione della sentenza di condanna a morte, l’82% dei condannati si è visto commutare la pena. In altre parole, in oltre quattro casi su cinque le giurie hanno stabilito che l’accusato non meritava di morire. Delle persone la cui sentenza di condanna a morte è stata rivista, una su quattordici è stata assolta in fase di nuovo processo. Questo significa che su ogni sei persone la cui sentenza di condanna a morte è stata giudicata valida dalle istanze giudiziarie, una è risultata innocente. Un altro problema emerso dalla relazione è rappresentato dalla durata dell’iter giudiziario: dalla prima sentenza alla pena capitale alla scarcerazione (o all’esecuzione) trascorrono in media 11 anni. Nella maggioranza dei casi i detenuti nel braccio della morte attendono per anni che si compiano le lunghe procedure di impugnazione necessarie per rilevare tutti gli errori e giungere infine al ribaltamento della condanna a morte. Gli alti tassi di errore e i tempi necessari per rimediare agli errori implicano altissimi costi per i contribuenti, le famiglie delle vittime, il sistema giudiziario e le persone ingiustamente condannate. E annullano il carattere definitivo, la punizione e l’effetto deterrente che sono le motivazioni solitamente avanzate per l’uso della pena capitale.
In Illinois, uno degli stati presi in esame dai ricercatori, da circa un anno è in vigore una moratoria delle esecuzioni voluta dal Governatore George Ryan. La moratoria è stata stabilita per l’inaffidabilità delle condanne a morte: sono stati accertati 12 casi di innocenti condannati; spesso gli imputati poveri, per lo più di colore, non hanno difesa adeguata; i giudici, eletti dal popolo, si lasciano condizionare da un’opinione pubblica preoccupata dalla microcriminalità e desiderosa di veder subito condannanti i presunti colpevoli. In 33 casi gli imputati erano stati difesi da avvocati radiati successivamente dall’albo, 45 afro-americani erano stati condannati da giurie composte esclusivamente da bianchi e 46 condanne si erano verificate a seguito di una testimonianza decisiva resa da detenuti.
Secondo il professor Liebman, il consenso alla pena di morte negli Stati Uniti è in diminuzione dal 1996 e nei cittadini va crescendo la sfiducia nel sistema giudiziario americano. In particolare, l’appoggio è meno diffuso tra i giovani , i cattolici, le donne, gli afro-americani.
E’ quindi essenziale che l’Europa continui ad esercitare pressione sugli Stati Uniti in materia di pena di morte.

New economy e sviluppo immateriale per mantenere la ricchezza dov’è

di Carlo Cavaglieri

“Se abbiamo un uovo ciascuno e li scambiamo, avremo ancora un uovo ciascuno. Se abbiamo un’idea ciascuno e le scambiamo, avremo ciascuno tante idee”. La saggezza di questa antica massima cinese è stata utilizzata a scopo di lucro nella moderna economia e nella ripartizione internazionale del lavoro. È il segreto dell’immateriale: l’attuale generazione ragiona ancora in larga misura secondo schemi materialisti e già deve fare i conti con l’esplosione dell’immateriale. A cosa si deve la fase espansiva dell’economia americana, che dura da quasi un decennio – il periodo più lungo mai verificatosi in precedenza – se non al primato che gli americani hanno raggiunto nel campo delle conoscenze tecnico-scientifiche, della “rivoluzione digitale”, della new economy, del software, dei brevetti… tutti settori largamente caratterizzati dall’immateriale?

La rivoluzione digitale, con la convergenza tra informatica e telecomunicazioni, consente il trasferimento a basso costo delle informazioni, ma anche di suoni e immagini, a qualunque distanza: essa ha quindi ricadute positive su tutti i settori di conoscenza. Così vengono radicalmente ridotti i vincoli di spazio e di tempo, si facilita la multimedialità e l’interattività, si potenzia la globalizzazione sia economica che culturale. Il digitale comporta un’ulteriore smaterializzazione anche dei beni immateriali, che vengono sempre più slegati dal supporto materiale prima necessario; informazioni, musica o filmati in rete non hanno più bisogno di carta, dischi o altro: basta il computer. È facile prevedere che, grazie anche a questi progressi informatici, la nostra vita sarà sempre più segnata dall’immateriale.

Scambi ineguali. Nella divisione internazionale del lavoro gli americani hanno conquistato il primato nei settori immateriali sopra indicati (sintetizzati nel termine di terziario avanzato o quaternario), grazie ad una intelligente politica di incentivazione della ricerca e di richiamo dei “cervelli” da tutto il resto del mondo, politica che dura ormai da diversi decenni. Avviene così che gli Stati Uniti e, in minor misura gli altri paesi ricchi (Europa occidentale e Giappone), vendono al resto del mondo beni ad alto contenuto immateriale, ricevendone in cambio beni prevalentemente materiali. È ben noto che lo scambio avviene in termini iniqui, ineguali, tanto che ne scaturisce il crescente divario tra paesi ricchi e quelli poveri. Poco invece si riflette sulle caratteristiche dell’immateriale, che lo allontanano di molto dal più usuale e considerato – specie in economia – settore materiale.

Le peculiarità dei beni immateriali sono di tutto rilievo: non sono distrutti dal consumo e non lasciano né scarti né rifiuti: quindi non inquinano, se non… le menti. Inoltre chi li vende non se ne priva (come avviene invece per i beni materiali) e così può venderli un numero illimitato di volte. Il costo di produzione ha un valore finito, mentre le vendite (e i relativi guadagni) possono avere un valore illimitato. Ecco la scoperta di quella miniera inesauribile di profitti che sono i prodotti immateriali. Ne sa qualcosa Bill Gates, proprietario della Microsoft, che trentenne è diventato l’uomo più ricco del mondo vendendo software, ma anche il nostro Armani, balzato in testa alla classifica dei redditi italiani grazie alla vendita di moda. Le vendite (e i guadagni) possono aumentare indefinitamente, purché siano sostenute da adeguate azioni promozionali per spingere all’utilizzo e al consumo il più rapidamente possibile, magari approfittando del fatto che prodotti concorrenti non sono ancora sufficientemente conosciuti: ecco perché assistiamo all’esplodere di una pubblicità che ben poco ha a che fare con l’informazione, ma al contrario punta sulla suggestione o la convinzione occulta. Anche la pubblicità è una forma di immateriale, ma di tipo ben diverso dalle conoscenze o dalla ricerca.

Due componenti. È di fondamentale importanza distinguere nell’immateriale, una componente “virtuosa”, consistente nell’apporto di nuove conoscenze, ricerca, progresso scientifico, umano…, e una componente “viziosa”, basata invece su pubblicità, convinzione, colonizzazione delle menti, tentativo di confondere forma e sostanza, apparenza e realtà, fino all’uso sistematico della menzogna (nella pubblicità o nella politica, ad es.). Non è difficile vedere in questa seconda componente le tracce di una estesa violenza – tanto più pericolosa, in quanto psicologica e camuffata. Mentre la prima componente rende attivi e partecipi, con accrescimento di scambi intellettuali, stimolo alla creatività, alla ricerca, all’iniziativa personale…, la seconda rende passivi, dipendenti, incapaci di iniziativa e di autonomia, facilmente anche violenti. La pubblicità va pure combattuta perché è un’esaltazione del denaro, altera i valori della società, uccide il senso critico, agisce negativamente sullo sviluppo. Le diverse forme di convinzione – che passano non soltanto dalla pubblicità, ma forse ancor più dai modelli di comportamento diffusi dai media – possono avere effetti devastanti, specie dove più carente è il senso critico (tra i giovani, tra i poveri…): è forse la forma di violenza oggi più pericolosa. Tenere distinte le due componenti di immateriale è quindi importantissimo, anche perché queste possono innescare rispettivamente un circolo virtuoso oppure un circolo vizioso nello sviluppo.

Tradimento dei chierici. Considerando l’importanza e le peculiarità dell’immateriale – l’attuale capitalismo è forse basato sulle conoscenze più che sullo stesso capitale – la situazione dei rapporti tra mondo ricco e mondo povero può essere dunque configurata come una specie di “tradimento dei chierici” a livello universale: chi possiede le conoscenze le utilizza per sfruttare e dominare i poveri. Ma questi, il terzo mondo, potrebbero anche loro progettare uno sviluppo basato sull’immateriale? Certo non potrà trattarsi solo di software o di brevetti, per i quali risulterebbero facilmente perdenti di fronte all’occidente. Altrettanto perdenti resterebbero col mantenimento dell’attuale divisione del lavoro: continueranno ad essere traditi dai “chierici” occidentali. Per fortuna tra i beni immateriali ve ne sono molti che non comportano spese elevate o sono addirittura gratuiti – e quindi alla portata di tutti – pur favorendo lo sviluppo umano; alcuni fanno parte del patrimonio culturale del passato e contribuiscono a rafforzare l’identità personale o di gruppo. L’importante è innanzitutto difendersi dalla pubblicità e dal consumismo, spingendo al contempo le attività immateriali capaci di creare un autentico sviluppo umano; senza dimenticare che “non tutto è in vendita”. Chi si metterà in un’ottica economicista e perseguirà la sola crescita economica è molto facile che, in un mondo globalizzato, risulterà soccombente. Dove invece si garantirà lo sviluppo umano, è probabile che a questo seguirà anche lo sviluppo economico. È un po’ come il lavoro infantile: lo si sceglie per avere subito un guadagno, ma si compromette la crescita armoniosa, la salute e persino le possibilità di un maggior guadagno nell’età adulta. È superfluo affermare che anche per una società a sviluppo intermedio, come la nostra, vale questa stessa ricetta: garantire anzitutto lo sviluppo umano; tutto il resto “sarà dato in sovrappiù”.
La nonviolenza in Messico conquista gli zapatisti

Il 30 gennaio (anniversario della morte di Gandhi) è stato celebrato in molte parti del mondo; ma particolarmente significativa è stata un’iniziativa nonviolenta promossa dal Serpaj (Servizio Pace e Giustizia) del Messico. Ce la racconta direttamente Pietro Ameglio, uno degli animatori.

“L’azione nonviolenta del 30 gennaio è andata molto bene. C’era la stampa e la televisione, e soprattutto è stata un’opportunità per condividere con un buon gruppo di studenti dell’università nazionale (UNAM), molto attivisti rispetto a Chiapas ed all’università (parecchi di loro incarcerati l’anno scorso), una forma diversa di avvicinarsi a certe lotte, meno centrata su gridare e rompere cose e più vicina a toccare la coscienza e la morale di chi è di fronte.
L’idea era fare l’azione in ricordo della data nel cuore del palazzo di potere presidenziale, con una enorme tela dove ci si chiedeva “Può esserci ‘Ordine e Rispetto’ (nome dell’area di giustizia dei ministeri del nuovo governo) con prigionieri di coscienza?”. Eravamo tutti con maschere da detenuti o dipinti nella faccia con sbarre. C’erano cartelloni grandi, un’enorme immagine di Gandhi e si camminava cantando o in silenzio, si davano volantini alla gente (il testo riprodotto qui sotto, NdR), e ci si sedeva davanti alla porta d’entrata del palazzo governativo. L’importanza stava nel posto (non si fa mai niente lì, anche per paura), e nell’associazione di Gandhi con lo zapatismo ed i prigionieri di coscienza”.

Pietro Ameglio y Myriam Fracchia
serpajc@cuer.laneta.apc.org

30 GENNAIO 2001, A 53 ANNI DALLA MORTE DI GANDHI
GIORNATA MONDIALE DELLA NONVIOLENZA ATTIVA

Gandhi è stato un uomo che ha lottato per la liberazione del suo popolo, cercando sempre forme originali per contrastare la menzogna, l’oppressione e la guerra, sempre rispettando l’avversario, intentando umanizzarlo. Oggi in Messico non c’è pace. Negli ultimi sei anni abbiamo vissuto una guerra che il Governo Federale dirige contro i popoli indigeni, fra i quali gli zapatisti. In tutto questo tempo gli zapatisti hanno lottato con la parola, il silenzio e la resistenza; hanno iseganto alla società civile che è possibile lottare in diverse maniere. Dal 12 gennaio 1994, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) e la società civile hanno lottato in forma non-violenta, come Gandhi, lasciando chiara la verità di fronte all’avversario e rispettando la propia parola. Come Gandhi, sono stati perseguitati e diffamati, qualcuno di loro è stato anche incarcerato in Chiapas, Veracruz, Tabasco e Queretaro; altri indigeni che anche lottano come loro sono prigionieri di coscienza nei Loxichas (Oaxaca), Guerrero, Distretto Federale, Jalisco.

¡¡¡LIBERTÀ A TUTTI I PRIGIONIERI POLITICI E DI COSCIENZA DEL PAESE!!!

Il nuovo governo di Vicente Fox ha parlato di pace e dialogo, ma le azioni intraprese finora non sono sufficenti. L’EZLN ha chisto tre segnali concreti per riprendere il dialogo:
1)Ritiro dell’esercito da 7 posizioni militari su un totale di 259 che ci sono (manca ancora il ritiro da Guadalupe tepeyac, la garrucha ed il Río Euseba);
2)Compimento degli Accordi Legislativi di San Andrés, firmati nel 1996 dal governo e mai rispettati;
3)Libertà a tutti i prigionieri zapatisti: finora sono stati liberati 17, mancano 88, in tutti i casi i processi giudiziali sono pieni d’irregolarità.
Queste sono le condizioni minime che permetteranno di riprendere la strada di una vera pace. Oggi veniamo fino alle porte del Palazzo Nazionale per esigere dal governo di Vicente Fox segnali chiari, onesti e veri di una volontà di dialogo.
Colombia: violenza contro i difensori dei diritti umani

di Maria Panatero

Colombia. In un anno più di 3.500 vittime di atti di violenza politicamente motivati; 250.000 persone costrette ad abbandonare le proprie case; oltre 400 massacri compiuti dai gruppi paramilitari; più di 1000 sequestri di persona realizzati da questi ultimi e dai gruppi armati di opposizione.
Questo è il contesto in cui operano ogni giorno uomini e donne che hanno a cuore il rispetto dei diritti umani dei più deboli, dei più indifesi. E deboli e indifesi finiscono per diventare anche loro, i difensori dei diritti umani. Negli ultimi tre anni almeno 25 di loro sono stati assassinati o sono “scomparsi”; altrettanti sono scampati ad attentati mortali; 40 hanno dovuto lasciare il paese. Non passa ormai settimana senza che arrivi la notizia di una nuova intimidazione, di una nuova sparizione, di un nuovo omicidio. Ognuno vive pensando di essere il prossimo obiettivo sulla lista.
La grande maggioranza degli attacchi contro i difensori dei diritti umani viene organizzata e condotta dalle forze di sicurezza, dai gruppi paramilitari loro alleati o da sicari da questi assoldati. Anche i gruppi armati di opposizione si sono resi responsabili di uccisioni sommarie ed arbitrarie.
Questa sistematica campagna contro i difensori dei diritti umani in Colombia è alimentata dalla profonda ostilità che le forze di sicurezza e i paramilitari nutrono nei confronti del lavoro in difesa dei diritti umani, che viene considerato come sinonimo di azioni di guerriglia.

All’inizio del suo mandato, il Presidente colombiano Andés Pastrana dichiarò solennemente che avrebbe fatto della difesa dei diritti umani una priorità di governo. Nel dicembre 1998, di fronte alle Nazioni Unite, promise di proteggere i difensori dei diritti umani.
Nonostante siano state effettivamente intraprese alcune iniziative per adempiere a questo impegno, gli attivisti per i diritti umani continuano ad affrontare allarmanti livelli di pericolo. Il problema principale rimane la mancanza di volontà politica da parte delle autorità colombiane nell’identificare e portare davanti alla giustizia coloro che eseguono attacchi contro i difensori dei diritti umani.
Negli ultimi anni varie organizzazioni internazionali per i diritti umani, governative e non, sono ripetutamente intervenute per denunciare la drammatica condizione dei difensori dei diritti umani in Colombia.
Amnesty International dal 1997 ha attivato un “Programma per promuovere la protezione dei difensori dei diritti umani in America Latina”, nel cui ambito pubblica regolarmente rapporti e lancia azioni in cui chiede alle autorità colombiane di proteggere la loro vita, processare i responsabili delle minacce nei loro confronti e adottare politiche efficaci e credibili in tema di diritti umani.
Uno dei casi per i quali Amnesty International sta lavorando riguarda Jairo Bedoya Hoyos, “scomparso” dal 2 marzo 2000. Esponente della Organizacion Indigena de Antioquia (OIA), che rappresenta le comunità indigene del dipartimento omonimo, ha svolto numerose campagne in favore del rispetto dei diritti culturali e dell’incolumità della comunità indigena Embera. Si teme che proprio questa sia stata la causa della sua “sparizione”, ad opera dei gruppi paramilitari.
Negli ultimi anni diversi esponenti della comunità Embera, che si erano schierati contro la costruzione della diga Urra (che distruggerà buona parte della loro terra), hanno subito gravi abusi dei diritti umani da parte dei gruppi paramilitari alleati alle forze di sicurezza. Alcuni dirigenti della comunità sono stati assassinati, altri sono “scomparsi”. Chi ha denunciato questi episodi è stato a sua volta preso di mira.
In risposta alla mancanza di sicurezza della popolazione indigena del dipartimento di Antioquia, l’OIA ha dichiarato la “neutralità” delle comunità indigene nel conflitto in atto, sperando in questo modo che le parti belligeranti rispettassero l’integrità fisica della popolazione civile indigena. Ciò nonostante, la comunità continua a subire violazioni dei diritti umani.
Amnesty International chiede che sia aperta un’inchiesta indipendente e imparziale per chiarire la sorte di Jairo Bedoya Hoyos e preme affinchè siano presi tutti i provvedimenti che gli esponenti OIA ritengono necessari a difesa della loro incolumità.
Per collaborare a questo programma, Amnesty International chiede di inviare il seguente appello. (fotocopiare, firmare e spedire)

Senor Presidente
Andres Pastrana
Presidente de la Republica de Colombia
Palacio de Narino
Carrera 8 No. 7-26
Santafé de Bogota
Colombia

Excelencia,
Soy un ciudadano italiano e me dirijo a Usted para expresar mi preocupacion por la desaparicion de Jairo Bedoya Hoyos, el 2 de marzo 2000, por mano de grupos paramilitares. Temo que Jairo Bedoya Hoyos sea desaparecido a causa de su trabajo en la Organizacion Indigena de Antioquia (OIA) y de sus numerosas campanas a favor del respeto de los derechos humanos y de la incolumidad de la comunidad indigena Embera.
Segun lo que he podido saber a traves de Amnistia Internacional, muchos miembros de la citada comunidad, que se oponen a la construccion del dique Urra, padecieron graves violaciones de los derechos humanos por parte de los grupos paramilitares. Unos dirigentes de la comunidad fueron asesinados y otros desaparecieron. A su vez, quienes documentaron y denunciaron estos episodios devinieron objetivos de los grupos paramilitares.
Esperando de proteger la poblacion civil indigena, la OIA declaro su neutralidad en el conflicto que se esta desarrolando en el departamento de Antioquia. Sin embargo, los miembros de la comunidad siguen padeciendo violaciones de sus derechos humanos.
Por lo tanto, le solicito, Senor Presidente, que se efectue una investigacion independiente e imparcial avocada al esclarecimiento del caso Bedoya Hoyos y que asimismo se proceda a disponer las medidas que los exponentes de la OIA consideren pertinentes al fin de garantizar la incolumidad de todos los sujetos implicados.
Agradeciendole por su atencion, acepte, Senor Presidente, mis mas respetuosos saludos.

Cognome e Nome_______________________
Indirizzo ______________________________
Città e Stato____________________________
Firma_________________________________

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
I nostri debiti e i loro debiti

Vorrei raccontare ai lettori di Azione Nonviolenta un piccolo caso di obiezione monetaria che ho vissuto personalmente nel mese di dicembre 2000.
A fine anno risultavo con mia moglie in possesso di un mutuo di circa 60 milioni, che avevamo contratto per acquistare la nostra prima casa. Risparmiando, siamo riusciti in questi anni a mettere da parte la somma necessaria per estinguerlo.
Alcuni giorni prima della data che ci avrebbe permesso di diventare pieni proprietari della casa in cui abitiamo, un amico con il pallino della finanza ci propone il seguente affarone: affidandogli la somma che avremmo dovuto usare per l’estinzione, avremmo potuto lucrare cospicui guadagni tramite una gestione patrimoniale in fondi: senza muovere nemmeno un muscolo quindi, e senza stillare una sola goccia di sudore, avremmo intascato alla fine di ogni anno il differenziale tra i due tassi di interesse.
La prospettiva ci ha allettato per un istante, poi tutto ci è risultato più chiaro: il nostro amico, più o meno inconsapevolmente, ci proponeva di usare la medesima rivoltella che le banche usano per rapinare i paesi del sud del mondo, applicando tassi di interesse da capogiro a chi è obbligato a ricorrere al debito per portare avanti la sua attività. Niente male, nell’anno del Giubileo che avrebbe dovuto vedere l’azzeramento del debito dei paesi in via di sviluppo.
Cosa sarebbe infatti materialmente successo, se avessimo deciso di aderire all’offerta che ci era stata avanzata? Noi saremmo rimasti per qualche anno in più con un debito, con un tasso di interesse accettabile. I soldi che avremmo consegnato al nostro amico invece, sarebbero stati immediatamente girati da qualche banca di investimento a chi ne aveva bisogno, ad un tasso di interesse ampiamente maggiorato in virtù del guadagno che la banca avrebbe voluto realizzare. Con i nostri soldi, capite? Mica con quelli degli azionisti della banca. Questi signori non avrebbero rischiato nulla, visto che si sarebbero trovati a fare semplicemente da costosissimi, salatissimi passamano.
Molti dei soldi che noi decidiamo di affidare alle banche, purtroppo fanno la stessa fine. Il tasso di interesse che noi chiediamo loro, adeguatamente moltiplicato, viene richiesto a chi lo usa effettivamente per promuovere una attività. E visto che il gioco sta in piedi solo se chi gode del prestito può permettersi un tale esborso, la maggioranza delle somme viene erogata in paesi dove l’inflazione galoppa, oppure dove il denaro circola talmente poco che chi lo vuole deve sottostare a condizioni belluine. Oppure ancora viene prestato a chi non si fa scrupolo di inquinare, licenziare, affamare pur di arrivare a fine anno ad onorare il debito contratto. Ci troviamo così ad essere indirettamente degli strozzini senza neanche immaginarlo, e magari a chiedere a gran voce, nello stesso tempo, la riduzione del debito che grava nei paesi del sud del mondo.
Così, la nostra casa è diventata veramente nostra, e l’unica fatica che ho dovuto sostenere è stata quella di convincere il nostro amico che non avevamo perso stoltamente una somma di denaro: semplicemente, avevamo rifiutato di intascarne una di troppo.

EDUCAZIONE
A cura di Angela Marasso
Educazione alla nonviolenza in una scuola media

Dopo aver frequentato un corso di aggiornamento sui principi teorici su cui si basa l’educazione alla nonviolenza, integrato l’anno seguente da un altro corso più pratico sulla «gestione nonviolenta dei conflitti», noi, insegnanti della scuola media di Diano d’Alba (prov. di Cuneo), abbiamo programmato per l’anno scolastico ‘99/2000 un’attività di tipo interdisciplinare sul tema: «La gestione nonviolenta dei conflitti e la mediazione tra pari».
Le classi coinvolte in quest’attività sono state una seconda e una terza media, mentre le discipline interessate sono state: italiano,scienze, francese, educazione musicale, educazione artistica, educazione fisica.
Gli obiettivi educativi comuni sono stati: portare gli alunni ad avere una maggiore conoscenza di sé, acquisire un maggiore rispetto,fiducia e stima reciproca, sviluppare atteggiamenti di ascolto e di collaborazione tra loro, acquisire tecniche nonviolente nell’affrontare i piccoli o grandi conflitti quotidiani.
Gli obiettivi didattici comuni: appropriarsi di linguaggi specifici ( parole, immagini, suoni) per poter comunicare, in modo chiaro e corretto, i propri pensieri e le proprie emozioni; acquisire capacità di valutazione e di autovalutazione del proprio modo di comunicare e di relazionarsi; approfondire il metodo della «ricerca» personale e critica nell’acquisizione dei contenuti.
Il lavoro è stato svolto nell’ arco di tre mesi ed è stato suddiviso in tre fasi:
1^fase: la conoscenza di sé. Tale argomento ha comportato, da parte degli alunni, un’analisi attenta ad approfondita sia del loro aspetto esteriore (ad es. i cambiamenti fisici avvenuti nello sviluppo, attraverso uno studio scientifico), sia un esame dei propri sentimenti e delle proprie emozioni a seconda dei vari momenti e situazioni (guida all’introspezione, anche mediante lo studio di poesie…). Molto utili, a questo riguardo, le schede di Sunderland: «Disegnare le emozioni», perché hanno permesso agli alunni di esprimersi con tecniche diverse (scritto, parlato,disegno,ascolto…) e di coinvolgere così le varie discipline. Tale lavoro ha portato i ragazzi a confrontarsi e a riconoscere nella loro diversità alcuni elementi comuni, su cui far leva per poter «guardarsi»con occhi «solidali» e non «rivali».
2^fase: il conflitto. L’osservazione, l’analisi ed anche la simulazione di alcuni conflitti hanno aiutato gli alunni a comprendere quali sono le motivazioni, le dinamiche e le varie strategie per affrontarli. Si è scoperto un nuovo modo di intendere il conflitto, giungendo a ritenere negativo, non tanto il conflitto in sè (che, a volte, invece può aiutare a crescere,a migliorare,a mettersi in discussione),quanto piuttosto certi modi distruttivi di affrontarlo. Partendo da questa considerazione, gli allievi hanno approfondito, anche con giochi ed esperienze pratiche, i vari atteggiamenti che si possono tenere di fronte ad essi (atteggiamento aggressivo, passivo, assertivo).
3^fase: la mediazione tra pari. Purtroppo, per motivi contingenti (mancanza di tempo), quest’ultima fase è stata svolta solo a livello teorico, ed è mancata così l’esperienza concreta. È’ comunque risultata utile la conoscenza di questa tecnica come strumento per una risoluzione nonviolenta dei conflitti.
Tale esperienza didattica, molto interessante e coinvolgente, ha avuto ancora altri risvolti: la produzione di due giornalini di classe e la realizzazione di uno spettacolo teatrale.
Sul primo giornalino-dossier, i ragazzi hanno voluto riferire il percorso seguito durante il lavoro e riportare alcune produzioni dell’esperienza vissuta (disegni,riflessioni,esperienze,commenti personali…) , sul secondo, invece, sono state pubblicate le ricerche di approfondimento sui Testimoni della nonviolenza (Gandhi, Capitini, M.L.King, N.Mandela, A.Langer…), realizzate dagli allievi della classe terza come lavoro d’esame.
Lo spettacolo teatrale ( rappresentato pubblicamente al Teatro Sociale di Alba) dal titolo «L’infanzia negata», è stata una rielaborazione del libro: «Il diario di Zlata». Questa lettura, riguardante le atrocità della guerra Serbo – Bosniaca, narrate, con sofferta partecipazione, da un’ adolescente di Sarajevo, ha rappresentato per i nostri alunni un’ulteriore occasione per constatare quanto, anche a livello «macro», l’incapacità di risolvere i conflitti in modo nonviolento, abbia sempre risvolti negativi e tragici soprattutto per la popolazione civile e non risolva affatto i problemi, ma anzi non faccia che aumentarne le dimensioni con violenza …
l’esperienza didattica qui descritta è stata apprezzata dagli allievi e dalle loro famiglie, ma ha costituito anche per noi insegnanti motivo di riflessione e di maturazione personale sul cammino della nonviolenza. Siamo d’accordo con Giuliano Pontara che «la nonviolenza s’impara» e che la scuola può e deve essere luogo privilegiato di tale cammino.

Bianca Marengo
Scuola Media di Diano d’Alba

LIBRI
A cura di Silvia Nejrotti
Maestri e scolari di nonviolenza

AA.VV., Maestri e scolari di non violenza, riflessioni, testimonianze e proposte interattive, a cura di Claudio Tugnoli, Franco Angeli Editore, Milano, 2000, pp. 312 (anche presso IPRASE, via S. Margherita 10, Trento, tel. 0461 270511).

Questo volume raccoglie le relazioni presentate al corso di formazione sul tema della nonviolenza, organizzato dall’IPRASE del trentino nell’anno 2000, in collaborazione con l’UNIP (Università Internazionale delle Istituzioni dei Popoli per la Pace di Rovereto).
L’alto livello dei vari saggi ne fa uno strumento di grande rilevanza per la formazione pedagogica dei docenti, ai quali la pubblicazione è espressamente indirizzata. Ciascuna delle dieci relazioni affronta un tema specifico, che si può studiare autonomamente.
I.La distinzione tra mezzo e fine all’origine della violenza, di Claudio Tugnoli. È un itinerario attraverso alcuni aspetti cruciali della violenza, in un percorso trasversale che, includendo una lettura critica di alcuni episodi della Bibbia, delle vite dei Santi, del Bhagavadgita, giunge sino ai temi contemporanei (ad. es. Auschwitz).
II.Aldo Capitini, La nonviolenza come prassi educativa, di Rocco Alteri. Il saggio esamina il contributo di Capitini alla ricerca pedagogica e alla riforma della scuola. Si leggono con particolare interesse le pagine sull’incontro con don Milani e sul progetto comune di un giornale-scuola (del quale uscirono quattro nuovi numeri tra la fine del 1960 e l’inizio del 1961).
III.“Preparare la via alla venuta della grazia”. Pace e problema della violenza in Dietrich Bonhoffer, di Alberto Conci. Viene indagata la tormentata ricerca sui temi della guerra, pace e nonviolenza, del teologo luterano anti-nazista, arrestato nella primavera del 1943 e impiccato nel campo di Flossenburg il 9/4/1945.
IV.Alla ricerca dell’origine perduta. Nuova formulazione della teoria mimetico-sacrificale di Girard, di Giuseppe Fornari. L’autore espone e approfondisce le ricerche del filosofo francese sull’origine della violenza (in particolare nel volume La violenza e il sacro, Adelphi, Milano, 1980) in relazione all’esperienza del sacro.
V.Ontologia e cristologia in Simone Weil, di Guglielmo Forni Rosa. Breve saggio, denso e impegnativo, articolato in due parti: la metafisica e la specializzazione delle conoscenze; l’obbedienza alla necessità del mondo.
VI.L’Islam oggi. Jihad, nonviolenza e modernità, di Adel Jabbar. Nuovo contributo su Islam e nonviolenza. L’Autore, rifacendosi all’insegnamento del Profeta Muhammad e alla tradizione musulmana, si schiera a favore di un Islam teso alla pace e alla concordia tra i popoli di diverse fedi e culture.
VII.La nonviolenza cammina con l’uomo: altre testimonianze da scoprire, di Enrico Peyretti. Il saggio, scavando nel recente passato, riporta alla luce testimoni della nonviolenza ancora poco noti come Jacopo Lombardini e Guido Plavan. Viene indagata anche la dolorosa vicenda di molti altoatesini, arruolati nell’esercito del Terzo Reich (circa 400), che disertarono per non essere complici di una condotta di guerra che disapprovavano. L’opposizione al nazismo da parte dei soldati tedeschi fu abbastanza consistente: circa 35 mila ebbero il coraggio di disertare; 15 mila di quei disertori vennero arrestati e fatti morire (p. 252).
VIII.Una coesistenza di volti. La memoria nonviolenta cammina con l’uomo, di Francesco Comina. Questa relazione ha carattere storico e rievoca figure emblematiche della nonviolenza da San Massimiliano a Josef Mayr-Nusser che rifiutò il giuramento a Hitler e pagò con la vita (cfr. anche dello stesso Comina, Non giuro a Hitler, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000).
IX.Gli scolari della nonviolenza. Gli operatori di diplomazia popolare nei conflitti internazionali, di Mauro Cereghini. Viene presentata l’azione a favore della pace nella ex-Jugoslavia da parte dell’Associazione Giovanni XXIII ( Operazione Colomba) e del movimento Beati i Costruttori di Pace. Alcune pagine sono dedicate alle Pace Brigades International, nate in Canada nel 1981 con un’ispirazione gandhiana e quacchera, presenti come mediatori di pace nel Centro-America e in altre zone.
X.La nonviolenza s’impara. Note introduttive per la didattica, di Marco Baino e Flavia Favero. Il saggio espone la didattica della nonviolenza con opportuni suggerimenti operativi.

STORIA
A cura di Sergio Albesano

La società e l’individuo La storia delle masse

Società e individuo sono termini reciprocamente integrantisi, non già opposti. L’uomo è plasmato dalla società così come i vari individui plasmano e creano una determinata società. Il culto dell’individualismo è uno dei miti storici più radicati, nato nel Rinascimento, poiché prima l’uomo aveva consapevolezza di sé unicamente in quanto membro di un gruppo, sviluppatosi con la Rivoluzione francese, che sancì i diritti del cittadino, e proseguito con la rivoluzione industriale, che esaltò l’iniziativa individuale; ma l’intero sviluppo storico fu un processo sociale. Il conflitto tra libertà dell’individuo e giustizia sociale non è una lotta fra individui da una parte e società dall’altra, ma tra gruppi di individui facenti parte della società. La storia talvolta viene immaginata come un corteo in cammino, di cui lo storico non ha una visione d’assieme dall’alto, ma di cui è semplicemente una figura che arranca tra le tante. L’angolo visuale da cui egli guarda il passato è determinato dalla sua posizione nel corteo e ciò significa che la sua interpretazione del passato è influenzata dalla realtà che vive nel presente. Mommsen era un liberale tedesco disilluso dalle confusioni della Rivoluzione tedesca del 1848-49, che avvertiva la necessità di un uomo forte; questo ci spiega la sua idealizzazione di Cesare e la contemporanea demolizione di Cicerone, considerato un chiacchierone politicante. Mommsen non si occupò della storia dopo la caduta della repubblica, poiché, mentre egli scriveva, il problema che si presenta dopo l’ascesa al potere dell’uomo forte non era ancora attuale ed egli, non essendo spinto a proiettare questo problema sullo sfondo dell’antica Roma, non scrisse mai lo storia dell’età imperiale. Si può affermare che la Storia di Roma di Mommsen ci dice altrettanto sulle ripercussioni del 1848 sui liberali tedeschi di quanto sulla repubblica romana del primo secolo avanti Cristo. Cassio Dione fu uno storico che si faceva scrupolo di tenere nel dovuto conto versioni diverse, e in qualche caso addirittura contrapposte, dello stesso avvenimento, tranne quando parla di Nerone. In tal caso vede soltanto i motivi di indegnità del figlio di Agrippina. Questo eccesso di antineronismo si deve probabilmente ad un parallelo tra il successore di Claudio e Commodo, imperatore dissennato, che ai tempi di Dione chiuse in maniera indegna la stagione degli Antonini e che alla sua morte per mano di congiurati lasciò, esattamente come Nerone, Roma nell’anarchia. Dione, insomma, concede moltissimo alla sovrapposizione tra l’immagine di Nerone e quella di Commodo e dà così spazio ad un’invettiva i cui bersagli sono, più che nel passato, nel presente. In uno dei suoi libri più belli, quello dedicato a Tacito, Ronald Syme spiega che negli Annali l’ampia trattazione riservata alla successione di Tiberio ad Augusto allude alle vicende della successione di Adriano a Traiano; ciò significa che Tacito ha usato quella per parlare di questa. Pertanto non si può comprendere e valutare pienamente l’opera di uno storico senza aver prima colto il suo punto di vista, che si situa in un preciso contesto sociale. Poiché gli eventi sono in continuo divenire, l’opera dello storico muta con il succedersi degli avvenimenti e perciò quando prendiamo in mano un libro di storia non è sufficiente leggere il nome dell’autore, ma è necessario guardare la data in cui il testo è stato scritto. Lo storico che è consapevole dell’influenza che il presente ha sul suo concetto di passato sarà anche in grado di superarla. In conclusione, prima di studiare la storia bisogna studiare lo storico e prima di studiare lo storico bisogna studiare l’ambiente storico e sociale in cui egli ha vissuto.
Chiediamoci ora se l’oggetto della ricerca dello storico è costituito dagli individui o dall’azione di forze sociali. E’ forte la tentazione di attribuire la forza creatrice della storia al genio individuale, che ci conduce ad affermare che il regime elisabettiano crollò per la scarsa intelligenza di Giacomo I, che il comunismo fu una creatura di Karl Marx, che la Rivoluzione bolscevica fu dovuta alla stupidità di Nicola II e che le due guerre mondiali furono causate dalla malvagità di Guglielmo II e di Hitler. L’errore consiste nello stabilire una linea netta di separazione fra lo studio dell’uomo come individuo e come membro di una società, poiché l’individuo è un membro della società. L’oppressione sancita per legge che grava sull’animo di un singolo contadino non ha interesse per lo storico; ma milioni di contadini malcontenti sparsi in migliaia di villaggi costituiscono un fattore che nessuno storico può ignorare. Questi milioni di individui agiscono insieme e, con o senza consapevolezza, costituiscono una forza sociale.
L’individuo eccezionale è un fenomeno sociale di enorme importanza, che esprime la volontà del proprio tempo e che fuori dalla sua realtà storica non avrebbe potuto svilupparsi.

MUSICA
A cura di Paolo Predieri
E’ un mondo difficile
E quindi io obietto

Tonino Carotone, spagnolo di Pamplona, appassionato degli anni sessanta italiani (Mina, Paoli, Celentano, Carosone…) è stato anche da noi uno dei protagonisti dell’estate 2000 con l’album “Mondo difficile”. Dalle prime esperienze nei gruppi punk dove scriveva e cantava già canzoni contro la guerra è approdato all’amicizia e alla collaborazione con Manu Chao, musicista etnico-globale che gli ha aperto la strada del grande pubblico e del business musicale.
Si definisce antimilitarista, antiproibizionista e libero pensatore. In “Zapore di mare”, rifacimento in chiave antimilitarista del classico di Gino Paoli, afferma di non essere né terrorista né pacifista e invita alla difesa e alla resistenza nei confronti del sistema…
Riportiamo stralci significativi di sue interviste apparse sulla stampa nazionale

“Il potere non è sempre inattaccabile. C’è ancora spazio per farsi ascoltare, per la denuncia e la protesta, anche in musica. Con Manu Chao discutiamo spesso di zapatismo e diciamo che tra l’esercito messicano e i guerriglieri del Chiapas c’è una bella differenza.
Io sono contro la violenza e per la pace, ma tutti abbiamo diritto a difenderci.”

“L’anarchismo è un’etichetta. Io sono un libero pensatore. La politica e la filosofia hanno dei limiti. Io ho soltanto dei ‘non limiti’.”

“(…) il mio modo di essere antimilitarista. Io ho disertato per non fare il servizio di leva. Mi sono nascosto per quasi due anni e poi ho fatto un anno di galera…”

Un archivio della musica antimilitarista e nonviolenta

Nello scarso tempo libero che mi lascia lo studio universitario, amo dedicarmi all’ascolto e al suono della musica, anzi direi proprio che la musica è una parte fondamentale della mia vita. Altro mio grande interesse è quello relativo alla nonviolenza e all’impegno nel riuscire un giorno a vedere una società senza più armi, eserciti e guerre. Mi piacerebbe riuscire ad unire questi miei due grandi interessi. Vorrei, un po’ alla volta, raccogliere tutte le registrazioni delle canzoni che parlano di opposizione alla guerra, di disobbedienza e di antimilitarismo e per fare questo ho bisogno dell’aiuto di tutti. Apprezzerei molto che mi venissero segnalati dischi, cantanti o libri riguardanti l’argomento. Non importa se rock, musica classica, punk o musica di tradizione popolare: l’importante è che sia inerente agli argomenti sopra descritti. Quello che vi propongo è la costituzione di un “Archivio della musica antimilitarista e nonviolenta”, che per forza di cose sarà di una semplicità estrema, ma anche a disposizione di chiunque volesse farne uso. In futuro, sarebbe bello, SIAE permettendo, poter creare delle raccolte di queste canzoni e così diffondere un enorme patrimonio in molti casi poco commerciale e sconosciuto ai più, che rischierebbe di essere dimenticato. Gradirei essere contattato soprattutto da chi possiede dischi o registrazioni ormai introvabili. Penso che la musica sia uno straordinario canale di diffusione e che quindi vada approfondito il suo rapporto con le tematiche a noi care.
Grazie.
Massimiliano Pilati
Tel.051/454757
Email: pilati73@libero.it

Queste pagine su Azione Nonviolenta hanno un sogno nel cassetto: non restare luogo di informazioni e idee (sia pure interessanti!) da buttare al vento, ma arrivare ad essere stimolo per attività, iniziative, incontri e collaborazioni. Un archivio come questo che viene proposto, potrebbe sviluppare uno strumento culturale, pedagogico (“canzoni da adoperare, non da ascoltare passivamente” per dirla con Woody Guthrie), di grande interesse. Per essere pienamente valorizzato occorrerà lavorare alla definizione dei criteri di raccolta e d’uso delle canzoni: proprio questi ultimi potrebbero rivelarsi il vero contributo musicale alla formazione nonviolenta.
P.P.

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
Una festa ebraica travolta dalla guerra

TITOLO: KIPPUR
120’ , Medusa
Regia: Amos Gitai
Sceneggiatura: Amos Gitai, Marie-Josè Sanselme
Italia/Francia/Israele 1999
Con: Liron Levo, Tomer Ruso, Uri Ran Klauzner, Yoram Hattab

In questo numero ci ritroviamo nuovamente a parlare di Amos Gitai, cineasta israeliano di fama internazionale, sempre presente con le sue opere nei più importanti Festival cinematografici. Se siete tra quelli che, negli ultimi mesi, non hanno avuto niente di meglio da fare che leggere la rubrica Cinema di Azione Nonviolenta, allora vi ricorderete certamente la recensione del suo film Kadosh, una finestra aperta sui casi di ordinaria discriminazione della donna da parte del mondo ultraortodosso di Gerusalemme. Il tema di Kippur è un altro, anche se Gitai rimane coerente rispetto alle scelte stilistiche e contenutistiche alle quali è approdato da quando, a metà circa degli anni Settanta, decise di intraprendere le prime esperienze dietro la macchina da presa: l’inizio della narrazione filmica ci porta al 6 Ottobre 1973. E’ il giorno dello Yom Kippur, festa ebraica attraverso la quale il popolo di Israele chiede perdono e possibilità di espiazione al Signore per le colpe commesse nei secoli; la Siria e l’Egitto attaccano di sorpresa Israele e la situazione si rivela subito drammatica. Weinraub e Rousso sono due giovani come tanti. La loro vita è sconvolta: sono improvvisamente catapultati dentro una terribile guerra. I due vengono destinati ad operare in una squadra di salvataggio che deve recuperare i feriti, anche dentro il territorio nemico. Compiono così diverse azioni con il loro elicottero fino a quando cinque giorni dopo l’inizio del conflitto, nel tentativo di salvare un pilota abbattutto, il veivolo viene colpito da un missile siriano. Rimangono tutti feriti, cinque in modo grave. Per Weinraub e Rousso la guerra è finita ma una volta tornati a casa non saranno più gli stessi.
Agli inizi del mese di Ottobre di ventisette anni fa Amos Gitai era uno studente di architettura: proprio come i protagonisti del suo film, si ritrovò su un elicottero che venne bombardato, si salvò e decise di utilizzare il cinema per manifestare il proprio sdegno e la propria indignazione nei confronti delle intolleranze e delle guerre di qualsiasi tipo. Il film è stato girato in un periodo di relativa tranquillità per il Medio Oriente, un periodo di intensi incontri e trattative tra le parti al fine di addivenire ad un accordo di pace. “…Quando abbiamo girato il film – ha dichiarato Gitai in una intervista rilasciata ad Alessandra Bitti – lo abbiamo fatto in un periodo di relativo ottimismo per la situazione del medio Oriente, nessuno pensava che ci saremmo ritrovati a pensare alla guerra; il film esce in un momento particolare così ho pensato che se qualcuno oggi ha il desiderio di fare una nuova guerra, forse guardando il film gli passerà la voglia.” Purtroppo però qui da noi in Italia, come consuetudine, il film, presentato a Cannes nel Maggio del 1999, è uscito sugli schermi solo nell’autunno del 2000, ad un anno di distanza dall’intervista ed in un contesto completamente mutato, per il Medio Oriente, da una situazione di relativa pace ad una di guerra.
Agli inizi del mese di Ottobre del 2000, infatti, l’appena neo eletto Primo Ministro Israeliano Sharon (sic!), con una “defatigante” passeggiatina sulla spianata delle moschee di Gerusalemme riaccendeva il fuoco di un conflitto, appena sopito dai tentativi di dialogo avviati tra le parti in causa nei mesi precedenti, sotto la mediazione del presidente degli Stati Uniti Bill Clinton.
Ma al di là di tutte queste casuali quanto tragiche coincidenze e ricorrenze, la logica del lavoro di Gitai non muta assolutamente nella sua sostanza; che è quella di un film di condanna nei confronti della guerra del Kippur in particolare, e di tutte le guerre in generale, realizzata attraverso una narrazione volutamente antispettacolare (se vi capita di vedere questo film, ormai disponibile solo su videocassetta, scordatevi tutta la produzione bellica hollywoodiana e in particolare il soldato Ryan di Spielberg) volta a raccontare la guerra per quello che è nella realtà: “…autentica caoticità e informe delirio in cui nessuno capisce ciò che deve fare e in cui il nemico non si vede mai. (Maurizio G. De Bonis).”

Gianluca Casadei
Cooperativa FuoriSchermo – Cinema & Dintorni
Lettere

Dove ci porti,
caro biotecnocrate?

Forse, neppure la parola “frontiere”, del tutto artificiali e suscettibili di variazioni, è sufficiente ad evidenziare i rischi drammatici a cui la ultramoderna e sofisticata biotecnologia spinta espone l’umanità. E’ possibile che il termine più esatto sia limiti e potenzialità, perché più intrinsechi e congeniti nella cosa che si elabora.
Temo che, in mano a tecnocrati, economisti e politici senza scrupoli, il biotech, che percorre vie di intervento mediante laboratorio scientifico nell’intima essenza della cosa vivente, il gene, compia un possibile viaggio senza ritorno, senza rispettare frontiera alcuna. E coloro che, anche in questo campo, piegano la scienza all’interesse immediato, si assumono, di fronte al genere umano, e non solo, una enorme responsabilità.
Accade che i cittadini, che chiedono precise e documentate informazioni prima, e cautela dopo ogni progetto transgenico, vengano additati come miopi conservatori, passatisti, retrogradi, e che, se si espongono più di tanto e contestano, ottengano risposte dal sapore di manganello.
Noi siamo qui per apprendere il più possibile sulle potenzialità e i limiti delle biotecnologie, per muoverci più cautamente possibile nei suoi percorsi labirintici. E non solo, perché, come cittadini ci compete il dovere di difendere i nostri diritti, non solo quelli sociali.
Il diritto alla salute, essendo oggi più che mai a rischio, è diventato prioritario, ed è doveroso difenderlo con i denti e con le unghie.
Ergo, con latino maccheronico, forse, ma con forza dico : “Quo ducis nos?” – dove ci porti, Amico biotecnocrate ?

Davide Melodia
Verbania

Cerco nonviolenti arabi e musulmani

Cari amici e compagni di Azione Nonviolenta, sono da anni un vostro abbonato e iscritto al MN. Sono convinto che oggi più che mai sia doveroso da parte mia rinnovare l’abbonamento sia alla rivista che al Movimento. Vi chiedo solo di pazientare un mese (a fine febbraio, quando riceverò lo stipendio, rinnoverò l’abbonamento).
La nonviolenza è più che mai indispensabile in questi mesi di elezioni (sono un ex-radicale e cercano in questi mesi la mia iscrizione, ma sono dubbioso, non mi convincono!) ; il Movimento Nonviolento ha un’urgente necessità d’esserci, di ampliare le sue fila d’iscritti in questi sempre più violenti tempi di liberismo, di new economy, di razzismo ! E per tutto questo mi sento legato a voi (anche quando il Partito Radicale, di cui ero militante, era diverso e c’era Pietro Pinna ai banchetti dei loro congressi).
Vi chiedo di nuovo una gentilezza che mi avete già accordato: faccio volontariato con extracomunitari del nord-Africa e vi avevo chiesto l’indirizzo di associazioni e movimenti nonviolenti del mondo arabo, perché vorrei corrispondere con nonviolenti di fede musulmana, voglio sperare che non tutto l’islam sia integralista !
Ho provato a scrivere a qualcuna delle associazioni nonviolente di cui mi avevate fornito l’indirizzo, ma non ho ricevuto mai alcuna risposta. Forse hanno paura e non osano con una singola persona, temono in uno scherzo o peggio ancora in una trappola.
Con il vostro aiuto magari si fiderebbero di più : se voi, come Azione Nonviolenta e Movimento Nonviolento italiano, poteste dare il mio indirizzo, dicendo che sono un nonviolento vostro simpatizzante e iscritto, magari accetterebbero la corrispondenza e lo scambio di idee e opinioni.
Se potete farmi questo favore vi ringrazio, tanti auguri per il nuovo 2001 e per una nonviolenza sempre più affidabile a livello mondiale !
Pierluigi Guarisco
Como

Gregory Corso
un poeta beat

Nel nostro paese non si è mai valutata opportunamente l’importanza e il ruolo dei poeti e autori della beat generation per lo sviluppo del pacifismo, ma anche della nonviolenza.
La cultura della pace ha avuto i suoi momenti più alti non soltanto nelle marce per la pace di Capitini, nella resistenza nonviolenta di Gandhi o nelle comunità di Lanza del Vasto, ma anche negli happening del Living Theatre, nelle perfomance poetry contro la guerra nel Vietnam di Ginsberg, nella disubbidienza civile dell’underground americano, etc.
Gregory Corso era tra i più coinvolti nell’affrontare la non facile questione “pace”. Anima gentile e faccia da duro, Gregory Corso ebbi modo di conoscerlo nell’estate del 1999 a Cagliari in un recital di poesie con altri poeti beat (Lawrence Ferlinghetti, John Giorno, Philip Lamantia, e Sanders, etc.). Approfittando di una pausa, il poeta in un bar ci parlò della vita a S.Francisco e ci raccomandò di non perdere mai il senso dell’umorismo e della bellezza. Dopo svariate richieste ci lesse alcuni brani di Bomb, inno contro le guerre, il famoso testo che stampato alla grafica futurista era stampato in modo da restituire la sagoma del fungo atomico.
Quella poesia fu ispirata da una dimostrazione contro la bomba atomica alla quale il poeta assistette in Inghilterra nel 1958. Di quella dimostrazione non lo impressionò tanto lo scopo quanto la carica di odio, di violenza di rabbia. Un odio simile, una violenza simile gli parvero almeno altrettanto mostruosi che la bomba e gli parve che la mostruosità distruttrice della bomba non fosse diversa dalla mostruosità distruttrice di uomini che tentavano di annientare una cosa nel momento stesso che l’avevano creata. Perché tutti provavano orrore per la bomba atomica e non ne provavano invece nel vedere “i bambini abbandonati nei parchi” o “gli uomini che muoiono sulle sedie elettriche”? La condizione umana, voleva dirci Gregory Corso, è abbastanza tragica senza che la si debba rendere ancora più tragica con nuove cariche di odio, di violenza, di rabbia. E’ così tragica anche per colpa degli uomini, che l’hanno inquinata di violenza dalle origini del mondo.
Il vero nemico dell’uomo è l’odio, il vero assassino dell’umanità è l’odio, la vera rovina del mondo è l’odio, diceva Corso. Perché l’odio è un gesto di violenza. E dalla violenza non può nascere, per sempre, altro che violenza.

Maurizio Pittau
Cagliari

Leggi ingiuste contro i deboli

Nel giornale la Repubblica del 27 dicembre 2000 ho letto, sotto il titolo “clandestini costretti a lavori illegali”, la giusta reazione di un lettore alla Legge che punisce con due anni di carcere e 50 milioni di multa il datore di lavoro che, dopo essersi assicurato dell’onestà e del buon comportamento di una persona, decide di dare a questa un alloggio e una occupazione retribuita non solo per avere da lei un aiuto lavorativo, ma anche per toglierla dal rischio di finire nella criminalità.
Ho saputo poi anche che per richiedere dall’estero una persona da adibire ai servizi domestici occorre un reddito annuo familiare di 95 milioni, e per un part-time 83 milioni, escludendo così dal beneficio di un aiuto reciproco non solo le classi più deboli e povere, come quella dei vecchi pensionati malati italiani, ma anche chi ha già trovato solidarietà e accoglienza da loro.
Mi chiedo allora e vi chiedo: è proprio questa la strada legale più giusta per chiamare i cittadini a collaborare con il governo nell’opera di selezione e integrazione degl’immigrati nella nostra società già molto turbata da tanti problemi irrisolti ? E non è questa invece una tra le tante violenze che i più deboli devono subire in silenzio da un potere che è solito rifiutare ogni collaborazione dalla base ?

Sara Melauri
Firenze

Violenza umana contro gli orsi

La Cina mantiene oggi 10.000 (diecimila) orsi prigionieri, per l’estrazione della bile dalla cistifellea di questi animali. Gli orsi sono collocati orizzontalmente in gabbie che sembrano piuttosto delle bare; viene messo loro un collare di ferro e sono trattenuti da sbarre a pressione; nel corpo di questi animali viene introdotto un catetere, che assorbe continuamente il liquido dalla cistifellea.
Gli orsi non possono cambiare minimamente la loro posizione e rimangono in questa condizione di sofferenze interminabili dai 15 ai 20 anni!
Non possiamo accettare che questa crudeltà, tortura e barbarie, continui formando parte della vita di questi poveri orsi, nemmeno per un minuto.
Ogni istante che passa è decisivo per loro tra SOFFRIRE e VIVERE.
Con la zampa attirano il cibo attraverso una piccola apertura della gabbia.
Per placare la sete, devono allungare la lingua per leccare le sbarre della loro prigione.
Soffrono dolori allucinanti per rimanere una media di15 anni nella stessa posizione che deforma loro le ossa. Stiamo parlando di 15 anni, o 180 mesi, o 5.475 giorni, o 131.400 ore o 78.844.000 minuti di continuo dolore.
Per ottenere la bile, si sta promuovendo un commercio terribile: la bile viene usata per confezionare shampoo, afrodisiaci e rimedi “miracolosi”.
Durante l’estrazione del liquido, si impianta un tubo nella cistifellea; l’altro estremo resta fuori della pancia dell’orso, collegato ad un apparecchio che estrae la bile.
I dolori dell’orso sorpassano ogni limite dell’immaginazione: brama di dolore, si mutila e cerca di suicidarsi.
Per maggiori informazioni, visitate il sito: http:// www.geocities.com/Baja/2324/index.html

Eva Racca
Torino

Di Fabio