Azione nonviolenta novembre 1999
– Un movimento che unisce vecchie guardie e giovani leve
– Il Congresso di Pisa. Dal Kossovo a Timor una guerra tira l’altra!? di Elena Buccoliero
– Una rivoluzione nonviolenta per il mondo in guerra
– Difesa, economia, cultura per un’alternativa alla guerra
– Le mozioni particolari: unità dei nonviolenti, tutela di Gandhi, scioglimento della Nato
Ozio in corso
Coltivare l’imprudenza per raccogliere la vita a piene mani, di Christoph Baker
L’arte di scrivere
I Promessi Sposi e la lotta all’ingiustizia, di Claudio Cardelli
Obiezione
Servizio civile: pochi soldi, tanti congedi
DICIANNOVESIMO CONGRESSO
Un Movimento che unisce vecchie guardie e giovani leve
di Mao Valpiana
Quello di Pisa certamente è stato un Congresso partecipato, maturo, attento.
Per quattro giornate intense un centinaio di persone hanno seguito i lavori, ospitati generosamente dall’Istituto teologico di Santa Caterina e aperti dal benvenuto non formale che il Sindaco della città ha voluto darci. Auguri e saluti ai congressisti sono arrivati anche da Mons. Di Bona di Pax Christi, da Grazia Francescato dei Verdi, dall’on. Tiziana Valpiana di Rifondazione Comunista, da suor Irene Bersani della rivista Raggio, dalla Lega Anti Vivisezione, dalla Lega Obiettori di Coscienza, dall’Associazione Amici di Aldo Capitini, dalla rivista Missione Oggi.
Il gruppo ospitante di Pisa (e ringraziamo per tutti Gabriella Favati, Giovanni Mandorino e Rocco Altieri) ha permesso che ogni aspetto organizzativo andasse nel migliore dei modi; le due serate musicali (il concerto vocale di Lucia Mencaroni, le canzoni di Paolo Predieri e Piero Negroni, il concerto di Paolo Bergamaschi e dei suoi musicisti) hanno offerto piacevoli momenti conviviali e di vera bravura; il cielo azzurro e il tepore del clima, insieme alle bellezze pisane, hanno fatto il resto.
La serata di presentazione, aperta ai cittadini pisani che hanno raccolto l’invito, ha dato subito il via al tono alto del Congresso: Lisa Clark, Bruno Pistocchi e Peter Kammerer ci hanno aiutati in una riflessione profonda sulla nonviolenza come unica strada possibile tra omissione di soccorso e opzione militare.
Le presenze e gli interventi al Congresso sono stati tutti qualificati e lo testimonia la ricchezza delle proposte emerse dalle Commissioni. Tra i partecipanti vi erano vecchie conoscenze e nuovi amici. Molti i segnali positivi: per la prima volta un nostro Congresso ha sentito l’esigenza di formalizzare la costituzione di un “gruppo giovani” del Movimento; alcuni “ospiti”, come Grazia Honegger Fresco e Gianni Tamino, hanno assunti impegni diretti nella vita del Movimento; le conferme del Presidente Sandro Canestrini e dei Segretari Angela Dogliotti e Daniele Lugli, con l’aggiunta di Luciano Capitini, offrono garanzie di continuità e di efficacia.
Durante il Congresso abbiamo anche celebrato il centenario della nascita di Aldo Capitini (1899-1999), fondatore del Movimento stesso. La città di Pisa ha recentemente intitolato una via a Capitini, ma il Congresso ha chiesto una sorta di riabilitazione soprattutto da parte dell’Università (nel 1933 il filosofo Gentile cacciò Capitini dalla Scuola Normale perché rifiutò la tessera fascista).
Il Congresso ha posto le basi per la Federazione dei nonviolenti -strumento necessario per unire le forze e gli obiettivi- a partire dall’indizione nel 2000 (anno ONU della cultura di pace) della Marcia della Nonviolenza. Fra i punti programmatici emersi: la lotta alle spese militari e le alternative alla guerra; l’educazione alla nonviolenza da introdurre nelle scuole; la campagna contro i cibi transgenici; il coordinamento di chi lavora per un’economia di giustizia, in una “rete dei lillipuziani”.
Dal Congresso è emersa anche la volontà di rinnovare e migliorare la nostra rivista (ringrazio per la fiducia e la conferma come Direttore), un impegno che deve coinvolgere gli organi del Movimento, ma anche i lettori, con le loro proposte e collaborazioni.
Questo numero di Azione nonviolenta è dunque principalmente dedicato al Congresso. Pubblichiamo tutte le mozioni approvate, che costituiscono la traccia del nostro lavoro per i prossimi anni. Alcune fotografie dell’assemblea corredano la documentazione.
NONVIOLENZA IN DIALOGO
Dal Kossovo a Timor… Una guerra tira l’altra!?
Se la guerra è come le ciliegie, allora ci vuole qualcuno che sputi il nocciolo. Venerdì 29 ottobre, a Pisa, all’Istituto Teologico di Santa Caterina, l’apertura del Congresso ha avuto proprio questa impronta: arrivare al nucleo di quello che ci sta davanti, in Kosovo e a Timor attraverso l’esperienza diretta di Lisa Clark e Bruno Pistocchi e, in un’analisi complessiva del panorama internazionale, con Peter Kammerer, sociologo all’Università di Urbino.
di Elena Buccoliero
Lisa Clark
La lezione della riconciliazione
Le prime parole sono state di speranza. “Nove anni di resistenza nonviolenta portata avanti dalla popolazione kosovara in modo informale, inconsapevole, quasi naif, hanno lasciato una traccia profonda”, ha testimoniato Lisa Clark, dei Beati i Costruttori di pace, di ritorno dal Kosovo mentre con un sorriso indifeso confessava il suo profondo amore verso il popolo albanese. “I kosovari sono gente semplice e, nonostante la violenza inaudita che hanno subito da parte dei serbi – perché almeno nel Kosovo la Nato ha effettivamente preso di mira quasi soltanto obiettivi militari – ricostruiscono la loro vita con sete di speranza e di pace. La lezione della riconciliazione tra famiglie vissuta al principio degli anni Novanta è permeata veramente nelle coscienze”.
La costruzione della pace in terra kosovara sarà lunga e lenta, a cominciare dalla scuola. “In un tempo di grandi opere non meno che di grandi flussi finanziari e speculazioni economiche, noi stiamo tentando di introdurre nella scuola elementare progetti di educazione alla pace secondo metodi mutuati dalle scuole più avanzate dell’Emlia Romagna. Abbiamo proposto il nostro piano al responsabile di una scuola comunale, nominato dal nuovo governo kosovaro, il quale ha accettato con entusiasmo perché, come lui stesso ha ribadito, ‘il futuro non è fatto solo di mattoni’. Questa apertura è per noi un segnale di grande speranza”.
Un altro esempio di convivenza interetnica proviene ancora dai piccoli. In una piccola comunità bosniaca i bambini, musulmani da generazioni ma accomunati da una lingua serbo-creata odiata dagli albanesi, hanno avuto per anni compagni di scuola serbi ed ora siedono in classe accanto a bimbi albanesi. “In un mese e mezzo”, racconta Lisa Clark, “non è volato neppure uno schiaffone. Questi ragazzi stanno dando una grande lezione di pace a tutta la comunità internazionale”.
Bruno Pistocchi
Rompere il silenzio su Timor Est
Altrettanto complessa e drammatica è la situazione politica timorese, presentata da Bruno Pistocchi che a Timor Est ha vissuto per lunghi anni come missionario.
“Per comprendere la storia è necessario prendere le mosse dal 1517, con l’inizio del dominio coloniale portoghese. In circa un secolo il Portogallo, che conta allora 4-5 milioni di abitanti, controlla la fascia equatoriale in tre continenti, dal Brasile in Sudamerica, all’Angola, fino a Timor nel Sud-Est Asiatico, secondo un modello di potere appreso dai romani: avamposti commerciali sulle coste e un relativo disinteresse per le popolazioni che vivono all’interno, istigate indirettamente le une contro le altre per mantenere la divisione politica che consente agli europei un dominio indiscusso”.
Alla colonizzazione portoghese si avvicenda quella olandese.
“Secondo un accordo siglato nel 1812 Timor Est rimane colonia portoghese di religione e cultura cattolica, la parte occidentale, colonia olandese di religione e cultura protestante. Due nazioni, due popoli, due mondi completamente differenti”, sottolinea Bruno Bistocchi. “Nel 1947, con la decolonizzazione, l’Olanda lascia una repubblica di 12.000 isole, di cui 6.000 abitate. A Timor si parlano 32 lingue, e alcune di esse sono distanti tra loro quanto il latino dalle lingue sassoni. Ci sono popolazioni che non si sono mai incontrate, perché per 6 mesi all’anno i grandi fiumi sono in piena e tutte le comunicazioni sono interrotte”.
“Quando la Rivoluzione dei Garofani restituisce a Timor l’indipendenza, Timor non riesce a cogliere l’occasione. Si formano tre partiti: il primo vuole l’indipendenza subito, il secondo chiede di federarsi con il Portogallo per diventare indipendente dopo qualche tempo, il terzo spinge per l’unificazione con l’Indonesia. Si sviluppa una breve guerra civile, vinta dal partito indipendentista che in pochi mesi, con l’appoggio della grande maggioranza della popolazione, costruisce scuole, servizi, ospedali. Ma Timor – questo temono gli Stati Uniti d’America – rischia di acquisire un’indipendenza di segno comunista. Per un errore di valutazione il 27 novembre 1975 gli U.S.A., ritirati dalla guerra in Vietnam, consegnano le armi all’Indonesia che invade Timor, all’insaputa di tutto il mondo occidentale. Muoiono 200.000 persone, circa un terzo dell’intera popolazione. I giornali, i media occidentali non sprecano una parola su questo. Nel 1989 cade il muro di Berlino e, con esso, il pretesto per l’invasione di Timor Est. Viene finalmente a galla il vero motivo di interesse: a sud del paese si trova un immenso giacimento petrolifero e l’unica comunicazione tra il Pacifico e l’Oceano Indiano è proprio il canale di Timor. Le ragioni, quindi, sono di natura economica e strategica”.
Come sempre l’Italia non manca di mettersi in affari.
“L’Indonesia non ha fabbriche di armi, eppure possiede l’esercito più forte di tutto il sud-est asiatico. Il nostro paese ha la sua parte di responsabilità: le industrie italiane hanno mantenuto accordi commerciali con l’Indonesia fino al 1997”.
E la comunità internazionale? “Dopo 25 anni di lavoro da parte dei gruppi pacifisti nei confronti del Parlamento Italiano ed Europeo e delle stesse Nazioni Unite, che non hanno mai riconosciuto l’invasione indonesiana, i timoresi vengono chiamati ad esprimersi, con un referendum, a favore o contro l’indipendenza. Garantisce la correttezza del voto il governo indonesiano – la prima volta nella storia in cui garante è la nazione occupante. E d’altronde l’Indonesia è sicura di non perdere in modo clamoroso, di poter in qualche modo confermare il proprio dominio. Gioca sull’ignoranza della gente, su una propaganda imbrogliona che confonde il significato del SI e del NO referendari. Intanto si posticipa la data del voto, dal 17, al 24, al 30 di agosto. Nonostante tutto questo, e ad onta del pericolo che ciascun cittadino sa di assumersi semplicemente presentandosi alle urne, vota il 98% della popolazione avente diritto. Il 78% dei voti è a favore dell’indipendenza di Timor Est”.
Che cosa accadrà adesso, dopo gli scontri sanguinosi di cui abbiamo avuto notizia attraverso i media? “I giornali ci hanno informato poco. Dopo 40 giorni di silenzio hanno riaperto le comunicazioni, come era prevedibile, per squillare il rituale “arrivano i nostri”. Intanto però non ci dicono che cosa succede veramente. I giavanesi sono stati presi (200.000 in 15 anni) e portati nelle case dei timores, espropriati e controllati. L’esercito indonesiano costituisce un corpo estraneo a Timor, una vera e propria milizia armata diretta da capi militari. Intanto i giavanesi sono lì per sbaglio, terrorizzati”.
Quale futuro è possibile auspicare? “Timor ha bisogno di riconciliazione in tre direzioni: al suo interno, con l’Indonesia e tra l’Indonesia e la comunità internazionale. Timor avrà un futuro se l’Indonesia avrà aperture democratiche. Il paese vuole l’indipendenza, e con lui la reclamano tutte le isole dell’arcipelago che pure non condividono la stessa storia, le stesse particolarità. Senza un governo centrale pulito e forte la frammentazione sarà inevitabile”.
Peter Kammerer
Tra intervento militare e omissione di soccorso
Di fronte a situazioni quali quelle appena ricordate, una risposta è urgente e al tempo stesso difficoltosa. Tra chi opera per la nonviolenza il rifiuto dell’intervento militare può essere una convinzione acquisita, non altrettanto possiamo dire dell’opinione pubblica in generale.
“Il dilemma”, ci ricordava Peter Kammerer, sociologo italo-tedesco docente all’Università di Urbino, “è affermare una terza via tra l’intervento militare e l’omissione di soccorso. Perché con la guerra in Kosovo abbiamo visto molto chiaramente che il rifiuto dell’intervento veniva scambiato per una implicita legittimazione della pulizia etnica condotta dai serbi, come se appunto le armi fossero l’unica risposta plausibile”.
Kammerer ha parlato di un falso mito, una superstizione collettiva.
“Quello a cui stiamo assistendo è più di una degenerazione, è una crisi profonda mascherata da normalità che investe la politica, la democrazia, la partecipazione della gente alla vita collettiva. Credo sia necessario andare alla radice, tentare una riflessione profonda sui limiti della violenza rivoluzionaria e sulla crisi della democrazia e della partecipazione, per esempio nei partiti, dove accade una sorta di selezione negativa per cui nella politica si riversano le teste meno pensanti, le persone di minor valore”.
Eppure c’è un riferimento di valore in questa degenerazione, e Kammerer lo indica come una grande manipolazione delle coscienze. “Vogliono farci credere che avere successo, conquistare il favore della maggioranza, che perfino stare dalla parte della guerra significhi essere adulti, mentre la minoranza ha sempre torto. Allora il coraggio di non essere adulti è una rinuncia difficile. Veniamo bollati come kamikaze, siamo perdenti in partenza. Per chi si sottrae a questa logica vuol dire riporre le proprie speranze e i propri progetti in forze altre rispetto a questa presunta crescita, che comporta rassegnazione, disincanto, rinuncia alla comprensione profonda delle cose. Hannah Arendt, riflettendo sul mistero della natalità, osservava che “ogni volta che nasce un uomo, la storia umana può cambiare”. A noi tocca proprio questo compito, ricominciare a sperare soprattutto vedendo il fallimento di questa presunta maturità, perché ormai è chiaro che la grande guerra, la grande politica, le grandi comunicazioni di massa non risolvono nulla. Nella crisi della ex Jugoslavia gli “adulti” non hanno avuto alcun successo”.
A quanto pare nessuno è esente dalla superstizione collettiva. Peter Kammerer ha espresso tutto il suo rammarico per il ruolo che il suo paese, la Germania, va assumendo nella comunità internazionale.
“Faccio parte di una generazione antimilitarista. Assisto con dolore al mio paese che, dopo cinquant’anni, interviene ancora bombardando Belgrado. Si rinnova un ricordo pesante, drammatico. Avremmo voluto che le colpe dei padri non dovessero ripetersi mai più e che il nostro rimanesse un paese disarmato e comunque senza la capacità di colpire, tutt’al più di difendersi. Invece la situazione generale si sta normalizzando e gli esaltati sono molti. Per questo io, che pure non ho mai frequentato gli ambienti della nonviolenza, sono stato contrario all’intervento armato in Kosovo, che ha calpestato il diritto internazionale e la sovranità dei Paesi”.
E d’altronde, ci hanno detto, si trattava di una ‘guerra umanitaria’… “E’ stato difficile schierarsi contro senza essere accusati di omissione di soccorso. In quei giorni le posizioni erano essenzialmente due: da una parte l’idea che la guerra non è mai giusta e va aborrita in quanto tale, dall’altra la convinzione che, per prevenire la violenza, solo la violenza è davvero efficace. Personalmente, in altri tempi e di fronte ad altri conflitti, non escludevo l’uso delle armi”.
La guerra in Kosovo, osserva Kammerer, ci ha messi di fronte ad una crisi politica completamente nuova. “Tradizionalmente la divisione è stata tra i pragmatici, che sostenevano la divisione dell’etica dalla poltica, e, diciamo, gli ‘etici’ che vedevano un legame irrinunciabile tra i fini perseguiti e i mezzi impiegati per ottenerli. Che cosa è successo invece durante la guerra in Kosovo? I pragmatici si sono suddivisi tra gli ex statisti, gente che la sa lunga ma che non è più al potere, i quali sono rimasti scettici di fronte all’intervento, probabilmente perché la distanza dal potere ha aperto loro gli occhi; e dall’altra parte i governanti attuali, quelli appena arrivati al potere, che hanno deciso l’intervento armato con tutti i tormenti del caso – ma li portano bene, prendono un’aria più affascinante…”
E gli etici? “Si sono suddivisi tra di loro, e non c’è niente di peggio della lotta tra moralisti. Si era a favore della guerra per non diventare complici, così dicevano. La scelta avveniva sul ricatto dell’emergenza. Ed è un ricatto infame quello di Auschwitz perché il richiamo di una violenza così assoluta, che annulla a tal punto l’essere umano, impedisce di continuare a pensare. Si sono smarrite le proporzioni, rovesciate tutte le convinzioni etiche e le garanzie democratiche. In nome di una minaccia così abnorme ci si sente in diritto di assolutizzare l’esperienza e di perdere di vista la concretezza delle cose: chi, dove e come è stato colpito, e per quali ragioni storiche, in quale contesto preciso”.
La storia, ci ricorda Kammerer, necessita di una critica adeguata. “I fatti di Guernica hanno trovato una critica adeguata con il quadro di Picasso e ancora oggi noi possiamo rivivere quel totale senso di spaesamento e di sopraffazione. Tutto questo oggi manca. Abbiamo bisogno di una critica della storia, di una problematizzazione profonda. E io sono convinto che su questi temi proprio l’estetica e l’arte possano dare un contributo decisivo”.
I LAVORI DEL CONGRESSO DI PISA
Una rivoluzione nonviolenta per il mondo in guerra
Mozione Politica Generale (approvata all’unanimità)
Il XIX° Congresso del Movimento Nonviolento assume come propria Mozione Politica Generale la seguente relazione della Segreteria, che ringrazia per l’impegno profuso.
NONVIOLENZA IN MOVIMENTO
Attraverso l’ultimo terzo di secolo: cento anni dalla nascita, trenta dalla morte di Capitini
La suggestione del volgere del millennio, per noi rafforzata dal centenario della nascita di Aldo Capitini, indurrebbe a tentare bilanci ed a formulare solenni proponimenti per il futuro. Il volume “La nonviolenza in cammino”, che dobbiamo all’impegno ed alla determinazione di Pietro Pinna, può aiutarci a ricordare come abbiamo percorso l’ultimo terzo del secolo sul sentiero segnato dalla vita e dalle opere di Capitini, come da lui ricordato anche nel suo ultimo scritto, intitolato appunto “Attraverso due terzi di secolo”. Il proponimento della relazione è certo più modesto: introdurre i lavori offrendo qualche elemento, suggerito dall’esperienza di questi anni che ci separano dall’ultimo Congresso, alla riflessione, discussione ed approfondimento dei convenuti.
Globalizzazione: una sola terra, destini intrecciati
Termini come mondializzazione o globalizzazione, entrati ormai nell’uso più corrente, stanno ad indicare una tendenza, che appare irresistibile, verso l’unificazione del mondo, per molti e fondamentali aspetti: basti pensare alla produzione e circolazione di merci e informazione. Cresce la consapevolezza dell’interdipendenza dell’agire umano, delle reciproche influenze, dell’intreccio di destini, di problemi che coinvolgono tutta l’umanità e che per essere affrontati richiedono uno sforzo comune. E’ un aspetto indubbiamente positivo, aspirazione da sempre del pensiero e della pratica della nonviolenza, senza per questo sottovalutare la drammaticità dei processi che accompagnano l’unificazione dei mercati e l’affermarsi di un modello di sviluppo che rende sempre più ricca di beni e consumi una parte dell’umanità e povera, sfruttata o emarginata, la restante maggior parte.
Competizione e suoi limiti
Allo sviluppo della tecnica ed alla competizione sui mercati il pensiero dominante, per non dire unico, affida il compito di assicurare il progresso dell’umanità e la soluzione dei problemi che l’affliggono. Da ciò lo scatenamento della tecnica, libera da ogni vincolo etico e da ogni responsabilità sociale. Quello che tecnicamente si può fare, si deve fare. Alle conseguenze, agli effetti indesiderati sarà lo stesso progresso tecnico a porre rimedio. Da ciò anche una competizione senza confini, che ignora i disastri umani, sociali, ambientali che provoca, nell’asserita convinzione che la mano invisibile del mercato metterà tutto a posto. L’affermazione di diritti umani, solennemente ribadita nel cinquantesimo della loro approvazione, accompagna, ed è un bene, questa proposta, che è ben difficile rifiutare, anche per il fallimento di un sistema che si era preteso alternativo. Ma si è visto come tale aspetto costituisca poco più di un optional – gli affari non si fanno certo condizionare da scrupoli umanitari – quando non addirittura pretesto per l’intervento armato, che ha sempre altre radici e motivazioni.
La politica come risposta
La competizione è infatti particolarmente crudele, e pronta a trasformarsi in guerra aperta, giacchè è sempre più evidente l’impossibilità del mercato di sanare i mali, che trova sul suo cammino e quelli che lui stesso produce. Ma non si vedono alternative. E perciò nel Nord del mondo si compete per non perdere posizioni di privilegio e possibilmente incrementarle, nel Sud per agganciarsi, costi quel che costi, ad una possibilità di sviluppo. E ciò avviene sul piano individuale, di gruppi di interesse, di comunità locali e statali, secondo opportunità che si presentano e che lacerano precedenti solidarietà e fanno emergere nuove, bellicose, identità. In queste condizioni il momento pubblico, la politica, a scala mondiale e locale, tende a ridursi ad amministrazione e garanzia, se necessario con l’impiego della massima violenza, del progresso tecnico – economico a vantaggio dei più forti. Anche se non è indifferente che ciò avvenga con qualche rispetto delle persone, di loro diritti fondamentali, attraverso qualche forma di consenso, come è nelle nostre democrazie, ovvero in assenza di uno o più di tali elementi, come è in molta parte del mondo.
Il movimento del mondo:
La violenza strutturale: il grattacielo, si sopraelevano i piani alti, si scavano le cantine
” Vista in sezione, la struttura sociale del presente dovrebbe configurarsi all’incirca così: su in alto i grandi magnati dei trust dei diversi gruppi di potere capitalistici che però sono in lotta tra loro; sotto di essi i magnati minori, i grandi proprietari terrieri e tutto lo staff dei collaboratori importanti; sotto di essi – suddivise in singoli strati – le masse dei liberi professionisti e degli impiegati, della manovalanza politica, dei militari e dei professori, degli ingegneri e dei capufficio fino alle dattilografe; ancora più giù i residui delle piccole esistenze autonome, gli artigiani, i bottegai, i contadini e tutti quanti, poi il proletariato, dagli strati operai meglio retribuiti, passando attraverso i manovali fino ad arrivare ai disoccupati cronici, ai poveri, ai vecchi, ai malati. Solo sotto tutto questo comincia quello che è il vero e proprio fondamento della miseria, sul quale si innalza questa costruzione, giacchè finora abbiamo parlato solo dei paesi capitalistici sviluppati e tutta la loro vita è sorretta dall’orribile apparato di sfruttamento che funziona nei territori semi-coloniali e coloniali, ossia in quella che è di gran lunga la parte più grande del mondo. Larghi territori dei Balcani sono una camera di tortura, in India, in Cina, in Africa la miseria di massa supera ogni immaginazione. Sotto gli ambiti in cui crepano a milioni i coolie della terra, andrebbe poi rappresentata l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali”. Sono passati settanta anni da questa rappresentazione di Horkheimer, che ripropongo, aggiungendo che l’inferno animale si arricchito di orrori biotecnici, nelle cantine si è continuato a scavare, è proseguito il degrado dei piani inferiori, si sono sopraelevati i piani superiori, arricchiti di lusso e comfort.
La guerra molecolare
E’ un condominio nel quale non è semplice vivere. Le regole sono dettate dagli abitanti dei piani alti, che si considerano padroni del grattacielo. Se sono rispettati i diktat del Fondo monetario, della Banca mondiale, dell’accordo di commercio anche gli inquilini dei piani bassi e degli scantinati potranno beneficiare delle migliorie. Nessuna tolleranza però per i morosi, per chi non si adegua. Certo se riesci a salire di piano le possibilità aumentano. Individualmente e collettivamente questa prospettiva può ben valere un conflitto, da condurre con le armi a disposizione: giuridiche, economiche, culturali, militari. Se questa prospettiva è negata si vorrà almeno affermare l’orgoglio della propria identità, la cui superiorità il mondo disconosce, preferibilmente aggredendo il vicino, compagno di sventura, imperdonabilmente differente perchè di altro sesso o preferenza sessuale, tifoso di un’altra squadra, abitante dall’altra parte del fiume, credente o miscredente in un’altra religione, di un altro colore, etnia, tribù. Su questo fondo di odio e risentimento si può contare perchè i conflitti si estendano ed incrudeliscano, fino alla guerra condotta da eserciti più o meno regolari.
U.S.A. paese guida e modello
Con la caduta del sistema cosiddetto socialista sono gli Stati Uniti ad essere l’indubbio parametro di riferimento: un modello invidiato o demonizzato, molto meno criticamente considerato. Un modello in ogni caso irraggiungibile, a prescindere dalla sua desiderabilità. La più entusiastica accettazione di quel modello, la più scrupolosa osservanza dei dettami del neo liberismo, la distruzione di quel po’ di stato sociale faticosamente costruito negli anni, la resa e messa a disposizione del potere pubblico alle pratiche delle potenti società multinazionali non possono infatti portare a risultati paragonabili. Come è stato osservato se tutti vivessero come gli abitanti degli U.S.A., nei quali peraltro profonde e crescenti sono le differenze economiche e sociali, ci vorrebbero almeno altri due pianeti come la terra per produrre le risorse, assorbire i rifiuti, mantenere i servizi essenziali. L’insostenibilità è evidente, ma ciò non toglie, semmai accresce, il potere di attrazione del sistema che più ha mostrato capacità di appropriarsi, utilizzare e sprecare beni e risorse, naturali o frutto della tecnica. Il sistema che ha saputo stringere la più fruttuosa alleanza tra impresa e Stato. Si rinnova la seduzione – direbbe Capitini – della civiltà pompeiana.
Dalla guerra santa, alla guerra giusta, alla guerra umanitaria
Sono sempre gli Stati Uniti a proporsi, e ad essere richiesti, come giudici e solutori dei conflitti tra stati ed all’interno degli stati. E questo anche in ragione dello straordinario sviluppo ed avanzamento tecnologico dell’industria militare ed all’addestramento dei professionisti addetti ai sistemi d’arma. Allontanato (?) il pericolo di conflitti nucleari ci si concentra a rendere più efficiente l’armamento della guerra convenzionale.
In Iraq dalla guerra del Golfo prosegue una sorta di esposizione – collaudo permanente delle nuove armi. Impressionante è stata la rassegna di “novità” messe in mostra in Kossovo. Gli U.S.A., che concentrano i due terzi delle spese per ricerca e sviluppo militare del mondo, mostrano una specializzazione in strumenti di distruzione, che li colloca con vantaggio di decenni rispetto agli altri paesi. E di questo vantaggio hanno mostrato in più occasioni di volersi avvalere. Ma un paese come l’America ha comunque bisogno di giustificare i suoi interventi militari, almeno di fronte alla propria opinione pubblica ed a quella dei suoi alleati, con motivazioni importanti. Ecco allora invocare la necessità di difendere, con mezzi risolutivi, la sovranità nazionale, la democrazia e, da ultimo, i diritti umani, valori certamente offesi prima, durante e dopo gli interventi, che si fanno per ragioni di Stato e Mercato.
La Nato
Un modo tradizionale di stare dalla parte del più forte è farsene alleati, ovviamente subordinati. In questa parte del mondo ciò significa NATO. L’alleanza aveva, come noto, carattere strettamente difensivo. A rigore, con lo scioglimento del patto di Varsavia, anche la NATO avrebbe dovuto seguire la stessa sorte. Così non è stato per scelta americana e per l’incapacità europea di garantire la sicurezza nel continente con una proposta di cooperazione e sviluppo di economia e democrazia, fino all’associazione nella comunità, rivolta in primo luogo ai paesi dell’Europa dell’Est, usciti dalla tutela della dissolta U.R.S.S. Essere inclusi nell’alleanza è diventato perciò molto importante per questi paesi, un riconoscimento della maturità raggiunta, una garanzia di inclusione, sia pure rispettando consolidate gerarchie, tra i paesi che contano. L’Alleanza ha attuato nell’aprile di quest’anno la revisione del trattato, secondo nuovi concetti, già da un mese messi in atto in Kossovo, la prima guerra condotta dalla sua costituzione. La difesa di quelli che la NATO individua come propri interessi si fa intervenendo dove ritiene necessario e non solo in presenza di un’aggressione. Decisiva è allora la proiettabilità, e cioè la capacità delle forze militari di recarsi rapidamente ovunque, aggredire, con il minimo di perdite, le forze nemiche, impedirne la reazione, distruggerne la capacità offensiva. Ciò presuppone eserciti fortemente professionalizzati, con armamenti ad alto, e continuamente aggiornato, contenuto tecnologico.
Il nuovo modello di “difesa”
E’ finita l’era della coscrizione obbligatoria, della formazione di riservisti che oppongano il loro petto, magari aiutati dal Piave, all’invasore. I pericoli non vengono da armate nemiche attestate ai confini. Nemico è chi porta turbamento al nostro modello di vita, alla nostra capacità di competere, ai nostri interessi. E’ perciò nemico della democrazia, dei diritti, della libertà civile ed economica. Ed è abbastanza debole da essere sconfitto, se altri mezzi di convinzione non dovessero bastare, dall’azione militare. NATO e Patto di Varsavia per 50 anni si sono confrontati, ma i teatri di guerra sono stati altri, in un perfido gioco di estensione di influenze, giocato letteralmente sulla pelle delle popolazioni più povere. In verità le armi, a parole rivolte alla difesa, sono state una garanzia perchè non ci fossero scelte di campo diverse rispetto alla spartizione del mondo conseguente alla guerra. E come tali sono state usate nel campo detto socialista per reprimere ogni manifestazione di autonomia. Non c’è stato bisogno di usarle da questa parte della cortina. La guerra è orribile ovunque, ma impressiona che la guerra sia tornata nel cuore dell’Europa, nella dissoluzione di uno stato che, pur con molti limiti, aveva saputo garantire rappresentanza, convivenza e sviluppo a popolazioni diverse e provenienti da feroci contrasti. E che, ferme le dirette responsabilità di chi ha dato l’avvio, alimentato e portato a compimento aggressioni ed eccidi, Stati Uniti ed Europa abbiano a lungo sottovalutato quanto succedeva, quando non ne abbiano profittato per perseguire propri interessi, salvo poi intervenire nel peggiore dei modi.
L’Europa ridotta a Euro
Sono passati 10 anni dal rapporto Delors, trasformatosi poi nel ben noto Trattato di Maastricht: In quel rapporto la moneta unica, l’Euro, era il naturale completamento del mercato unico, assicurato da politiche che garantissero la concorrenza, riducessero i divari tra regioni e paesi, coordinassero le azioni a livello comunitario, ponessero riparo ai limiti e fallimenti del mercato stesso. Di questi proponimenti è rimasta solo la moneta unica, accompagnata dal taglio dei bilanci pubblici dei singoli stati. A questa mutilazione del programma economico, che resta comunque il dato di base della costruzione europea, corrisponde l’impasse sul piano politico: l’incapacità della Comunità di avere un ruolo adeguato in un mondo che vede l’assoluto protagonismo degli Usa, mentre prosegue la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la crisi del Giappone e la crescita economica di Cina ed India non sembra accompagnata da sviluppo di democrazia e volontà di pace. Così da più parti si lamenta l’assenza di un’identità europea o addirittura di un’anima europea.
Moneta e difesa
Il superamento degli stati nazionali, delle concezioni che li hanno accompagnati e sorretti, la costruzione di una casa comune, democratica, civile, tollerante, aperta ai paesi dell’Est, capace di forte collaborazione con gli altri paesi del mediterraneo e del vicino oriente può essere certo un elemento di grande rilievo per assicurare pace e giustizia nel mondo. E’ forse anche la condizione per un rilancio effettivo del prestigio e dell’azione dell’ONU. Il Corpo Europeo di Pace, secondo il progetto di sperimentazione finalmente approvato dal Parlamento europeo, si pone in questa linea. Vi è più che il rischio che prevalga un’altra opzione, ratificata all’indomani del conflitto nel Kossovo, nel Consiglio dell’Unione che si è tenuto a Colonia: sia chiama Esdi, l’Identità europea di sicurezza da costruirsi nell’ambito della NATO. Costituisce una opportunità di sviluppo dell’industria europea, in settore ad altissima tecnologia, e l’impegno perchè siano comuni mezzi, armamenti, professionalità delle forze armate e assicurata l’integrazione, se non l’unicità, del comando. In tal modo l’Europa dovrebbe contare di più nella NATO, che resta, per usare le parole del nostro Ministro della Difesa ( sarebbe più adeguato ricominciare a chiamarlo, come un tempo, Ministro della Guerra ), lo “strumento più flessibile ed efficace per la realizzazione dei valori di stabilità, di pace e di sviluppo della comunità internazionale “.
Italia: i limiti della sovranità
L’Italia all’art. 11 della Costituzione ha ripudiato la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, in perfetta sintonia con la carta dell’Onu. Ripudiare è un verbo forte, sia che lo si colleghi a pudore che a piede, secondo le etimologie più accreditate. Vuol dire che l’Italia si vergogna molto della guerra o/e che l’allontana da sè a calci. Ma se la “proiezione”, come in un film, delle forze armate serve alla difesa della libertà degli altri popoli ed è anzi il mezzo più efficiente per porre termine ad una controversia e procurarsi posizioni di vantaggio nel ricostruire quanto si è distrutto, ciò non viola certo la nostra Costituzione. L’art. 11 prosegue con l’accettazione da parte del nostro Paese delle limitazioni di sovranità necessarie per un ordinamento che assicuri pace e giustizia tra le nazioni e la promozione delle organizzazioni internazionali a tale scopo rivolte. Credevamo fossero soprattutto l’Onu e la Comunità europea e invece è la NATO e il realismo impone di prenderne atto.
Riforme sociali e modifiche della Costituzione
Se l’art. 11, così interpretato, può restare com’è altre parti della Costituzione vanno però cambiate e si impongono riforme sociali. Gli è che i costituenti pensavano che l’Italia fosse, un Paese, uno Stato, una Repubblica democratica, ripartita in Regioni, Province, Comuni, con il precipuo compito di ” rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Non sapevano, forse non potevano sapere, che era un’azienda: l’Azienda Italia, da rendere competitiva nell’arena globale. Stabilità, governabilità, velocità sono i requisiti richiesti ( gli stessi che si richiedono ad un’automobile). Un tempo, non poi così lontano, si pensava di portare la garanzia dei diritti e la democrazia all’interno dell’impresa. Oggi è alla cultura di impresa che ci si rivolge per un surrogato della democrazia. Spot, sondaggi e customer satisfaction sono alcuni degli ingredienti che sostituiscono il confronto ed il dibattito in sedi pubbliche e condivise. Con riforme elettorali, che diminuiscono la già ridotta rappresentatività della nostra democrazia, con proposte di referendum, che alimentano logiche plebiscitarie, si cerca di porre rimedio ad una disaffezione della politica, che deriva dalla giusta percezione ( anche se non è condivisibile la risposta ) che la politica è cosa che riguarda i suoi professionisti, vecchi e nuovi. E’ estranea, quando non ostile, alla gente comune. Del resto la promessa che le forze politiche, tra loro in consociazione o in alternanza, rivolgono è quella di trattare gli elettori non più da sudditi, ma da clienti. Di considerarli cittadini non se ne parla. La costituzione materiale è già questa, quella formale deve adeguarsi. Vi è poi una gara, tra governo ed opposizione, di proposte – anche se non tutte si equivalgono – volte a smantellare le gestioni pubbliche, spesso insoddisfacenti, di servizi importanti e vitali, non per progettarne altre, adeguate ai contenuti ed alle finalità, ma per consegnarne le parti più appetitose alla speculazione e lasciare le parti non redditizie alla filantropia, alla beneficienza, alla generosità del volontariato. Questo nella sostanza appare sovente essere il dibattito sulle riforme.
Vita pubblica e uomini della politica
Non mancano segni di risposta dalla società civile, in qualche espressione all’altezza sia del sostantivo che dell’aggettivo, che richiedono alla vita pubblica ed alla politica di essere altro. Quella vita pubblica per Capitini indispensabile nella formazione umana, quella politica che la scuola di Barbiana indicava come riconoscimento e risposta, insieme elaborata e data, al comune problema. Non sembra che questo tema interessi gran che la classe dirigente, ceto imprenditoriale e/o politico che sia. Forze che nel nostro passato Congresso hanno voluto testimoniarci la loro particolare vicinanza ed attenzione, come Rifondazione e Verdi, attraversano una crisi profonda. Ci sembra che ciò testimoni, al di là delle differenze e di possibili errori e inadeguatezze, la difficoltà di avanzare proposte che, per aspetti non marginali, si collochino criticamente rispetto ad indirizzi sostanzialmente condivisi da maggioranza ed opposizione e che diventano senso comune in larga parte dell’opinione pubblica. Così il successo elettorale della lista Bonino e l’attenzione alla proposta referendaria del Partito Radicale non sembrano contraddire questa analisi, nè per i contenuti, nè per le modalità che li caratterizzano. Non vi ravvisiamo un contributo apprezzabile a contrastare quella caduta di partecipazione democratica e tensione civile, che ci pare un tratto preoccupante della nostra società. Semmai ci vediamo un contributo, arrecato con abilità ed astuzia, all’ulteriore spettacolarizzazione e superficializzazione dell’agire politico.
Il movimento della nonviolenza nel mondo.
War Resisters International
Gli elementi tratteggiati, pur nella loro parzialità ed approssimazione, delineano un quadro che richiede il massimo coordinamento e valorizzazione delle iniziative ispirate alla nonviolenza, che affrontano in radice la violenza strutturale e quella conclamata, che non fa che accrescere la violenza strutturale. E’ perciò particolarmente rilevante operare per un collegamento dei movimenti e delle ONG, delle forze politiche e sindacali, non tutte, e comunque non tutte nello stesso modo e grado, conquistate dal ” pensiero unico” o a questo opposte in nome di barbari fondamentalismi. E’ questo il contributo che in primo luogo siamo chiamati a dare, e che ci può venire, dalla nostra adesione alla WRI, all’Internazionale dei resistenti alla guerra. Alla conferenza triennale della WRI, svoltasi un anno fa, il Movimento ha partecipato con una propria delegazione e ne è stato dato conto sulla rivista. Il confronto tra situazioni così diverse e le indicazioni scaturite sono certo interessanti e mostrano la capacità di aggiornamento dell’Internazionale, nata nel primo dopoguerra per “non collaborare ad alcuna sorta di guerra e lottare per abolire tutte le cause di essa”.
L’Internazionale della nonviolenza
Occorre andare oltre. Va compiuto uno sforzo da parte della WRI per proporre,costruire e far vivere un rapporto federativo, costante ed attivo, con associazioni, gruppi, persone verso la costruzione di un’Internazionale della nonviolenza, come Capitini già aveva proposto alla triennale del 1966. E’ uno strumento necessario, senza il quale i sempre più frequenti richiami alla nonviolenza – l’Onu le intitola gli anni a 10 alla volta e questo è in sè un bene – rischiano la sterilità. Può essere il luogo nel quale movimenti e persone, il cui impegno da tempo supera le frontiere nazionali, confrontano, affinano, coordinano il loro lavoro di costruttori di pace e di giustizia, nella consapevolezza dello stretto legame tra fini e mezzi, che li fa essere amici della nonviolenza. Questo processo “federativo” dovrebbe avanzare sia tra i momenti centrali che periferici e, per una parte, rientra quindi nella nostra più diretta responsabilità. Anche per tale via si può contribuire alla costruzione di un’etica, di un diritto, di istituzioni capaci di affrontare adeguatamente i problemi che si pongono all’umanità. Se i “persuasi” non sapranno collaborare efficacemente tra di loro lo slogan di una Onu dei popoli, contrapposta all’Onu dei governi, è destinato a restare tale. Non risulta del resto che i governati siano, in genere e di per sè, migliori dei governanti. E rischiano di non fruttare fino in fondo i semi di nonviolenza pur presenti nel mondo.
La nonviolenza è verità e conciliazione
Nel continente più misero, nel quale sembrano concentrarsi violenze, disastri e contraddizioni, da far rimpiangere il dominio e lo sfruttamento coloniali, c’è la positiva eccezione del Sud Africa. Questa nazione ha visto con Gandhi l’esordio della nonviolenza di massa e per lunghi anni è stato sinonimo di un apartheid spietato, accompagnato da ogni genere di abuso e atrocità. Ha saputo trovare la strada di una convivenza democratica e di una conciliazione, faticosissima, ma possibile perchè non dissociata dalla ricerca della verità, dal riconoscimento delle proprie personali responsabilità. Essenziale è stato certo il contributo di alcune personalità straordinarie, ma decisiva è la coralità della partecipazione, che fa sperare in un esito favorevole che può servire da esempio, e non solo in quel continente percorso da feroci conflitti. Qui si avverte veramente la forza della nonviolenza, della nonviolenza del forte – avrebbe detto Gandhi – che arriva dove la violenza non può comunque arrivare.
Kossovo
Alle porte di casa nostra, in Kossovo, si è prodotta per anni una straordinaria lotta di resistenza e rivendicazione di identità con mezzi nonviolenti. Sappiamo come è, almeno per il momento, finita. Sappiamo che giuste rivendicazioni e civili forme di lotta non hanno per anni ricevuto alcun sostegno ed attenzione dalla comunità internazionale. Sappiamo che governi ed imprese, a cominciare dal nostro paese, hanno preferito concludere lucrosi affari con governanti ed imprenditori, notoriamente responsabili della persecuzione di un’intera popolazione, fino alla vigilia dei bombardamenti. Resta il fatto che l’azione nonviolenta ha, per anni e contro ogni previsione, tenuto aperta una prospettiva diversa, che non si è colta e che forse non interessava cogliere. Il nostro amico Alberto L’Abate, che in questi anni ha dedicato l’impegno più strenuo per una soluzione nonviolenta del conflitto in Kossovo, può dare di ciò la più ampia e documentata testimonianza. Per la prevenzione, ha calcolato si è speso l’equivalente di due minuti e mezzo di bombardamenti, protrattisi invece per due mesi e mezzo. E’ questo il rapporto normale che intercorre tra spese per la pace e spese per la guerra.
Azioni nonviolente
Importanti sono gli esempi anche individuali di opposizione all’ingiustizia e di azione nonviolenta: si comincia sempre da uno e al centro dell’agire sono persone, ci ricordava Capitini. Sono la prova che è sempre possibile fare qualcosa nella direzione della nonviolenza e che questo qualcosa conta. C’è un’iniziativa che, anche con la nostra partecipazione, si è trasformata in Fondazione, di un premio intitolato a una persona che ci è cara: Alex Langer. E’ un premio annuale: nel ’97 è andato ad una algerina, nel ’98 a due giovani donne, l’una hutu e l’altra tutsi, nel ’99 ad una coppia di dissidenti cinesi. Il premio all’algerina segnala il coraggio e l’azione politica e civile di una donna che si batte a viso aperto per i diritti umani, e segnatamente per la parità di trattamento delle donne. Esse sono discriminate e trattate come minori da una legislazione, che si vuole ispirata al Corano. E’ una legislazione che appare anche troppo blanda a vili assassini che dal Corano traggono ispirazioni anche più retrive. Il pericolo rappresentato dal fanatismo religioso, il valore comune della laicità delle istituzioni, la condizione della donna, spia sicura del livello di civiltà – ci ricordava sempre Capitini – sono aspetti sui quali una donna straordinaria, con la sua vita, ci induce a riflettere. Quando si è scatenato l’eccidio dei tutsi, preparato da una continua ed intensa campagna d’odio; quando gli hutu si sono fatti cacciatori ed assassini dei loro vicini tutsi, colpevoli di essere di un’altra etnia e di avere goduto privilegi nel passato coloniale, una ragazza hutu ha nascosto e salvato da morte sicura una giovane donna tutsi la cui famiglia era stata massacrata. E’ possibile dunque sottrarsi alla frenesia omicida del gruppo, al delirio tribale cinicamente riproposto e diffuso e porre nello stesso tempo le condizioni per la necessaria riconciliazione. La vicenda della coppia di dissidenti cinesi, ferma nel proprio impegno per la ricerca della verità sul massacro di piazza Tiannamen, ci ricorda il peso della persuasione, di chi mette sè stesso in gioco. Un peso decisivo, anche di fronte al potere statuale più potente e prepotente, che adotta dall’Occidente ogni metodo che gli prometta maggior sfruttamento e crescita economica, senza rinunciare all’autoritarismo, che chiama socialismo.
Il nostro ” movimento “.
Gli iscritti, la struttura organizzativa
Il Movimento, come struttura organizzata, non cresce, anche se in ogni occasione di incontro avvertiamo un’attenzione che potrebbe tradursi in adesione organizzativa. E i legami con la maggioranza degli iscritti vanno poco al di là del collegamento attraverso la Rivista, non diverso da quello esistente cioè con gli altri lettori di Azione Nonviolenta. E’ un aspetto al quale abbiamo forse dedicato insufficiente attenzione, anche per una nostra riluttanza a forme di proselitismo, che prescindano da un’intima persuasione. Salvo che in pochi centri manca quindi una vita associativa e dunque il dibattito, l’approfondimento, la proposizione di iniziative a partire da un gruppo affiatato. L’invito ai nostri iscritti è quello di “farsi centro” di proposta, di riflessione, di iniziativa, curando in primo luogo la diffusione della rivista e partecipando al suo mantenimento e miglioramento. Attorno ad ogni nostro iscritto ci piace pensare possano formarsi piccoli gruppi di “amici della nonviolenza”, capaci di dare al Movimento diffusione e qualità. Il comitato di coordinamento, la segreteria sono a disposizione per fornire ogni contributo a questa crescita e promuoveranno specifiche iniziative al riguardo.
Gli incontri del Comitato di coordinamento
Il Comitato di coordinamento costituisce il momento politico ed organizzativo che assicura la continuità e “la linea” del Movimento. I verbali del Comitato sono a disposizione degli iscritti e possono dare un’idea dell’assieme del lavoro svolto e dei suoi limiti. Il giudizio e le determinazioni al riguardo spettano al Congresso. Nelle riunioni del Comitato sono presenti due elementi essenziali – per Capitini mai dovevano andare dissociati – dei quali i verbali certo non possono dare conto: familiarità e tensione. Allargare questa esperienza potrebbe essere un contributo significativo alla crescita del Movimento ed un arricchimento per quanti vi partecipano. Si potrebbe dare notizia della riunione del coordinamento, e del suo ordine del giorno, sulla rivista, con le indicazioni per la partecipazione possibile per tutti gli iscritti. Vi è una questione, solo apparentemente organizzativa, alla quale le persone qui riunite debbono dare una risposta urgente. Si tratta di assicurare una modesta integrazione salariale a chi, scegliendo di lavorare a tempo parziale e dunque con retribuzione parziale nel suo impiego, sta dedicando un impegno totale a Rivista e Movimento. Basta che alcune persone si quotino per una cifra mensile di 50, meglio 100, mila lire – come alcuni hanno già fatto – per raggiungere questo obiettivo che è semplicemente vitale.
I seminari tematici
Il Comitato, dall’ultimo Congresso a questo, ha proposto tre seminari residenziali tematici: nel ’97 sulle proposte di modifica della Costituzione e nel ’98 e ’99 sui temi dell’economia. Si tratta di temi che, con tutta evidenza, non hanno perso di attualità e di interesse. Sono state occasioni importanti di discussione, approfondimento, confronto tra noi e con persone a noi vicine e che hanno dato un contributo importante e qualificato. Si sottolinea l’importanza di questi appuntamenti, come strumento di maggior conoscenza interpersonale, di crescita collettiva, di maturazione di iniziative e collaborazioni. Al tema dell’economia, che abbiamo qualificato come “ecologica e di giustizia”, dedichiamo i lavori di una Commissione. E’ opportuno richiamare il tema del primo seminario, che non ha avuto, tra gli iscritti e tra chi ci segue più da vicino, l’attenzione che meritava. Le riforme istituzionali sono in corso e, dopo una lunga battuta d’arresto, se ne afferma da più parti l’indilazionabilità. Per contenuti e modalità di dibattito non hanno fin qui dato gran che, nè promettono nulla di buono. Il Movimento Nonviolento ha sempre cercato, consapevole della propria modestia, di offrire un'”aggiunta” di impegno personale e di azione diretta alla democrazia costituzionale e rappresentativa: la sua crisi non può lasciarci indifferenti. Il pensiero va all’esperienza dei Centri di Orientamento Sociale, nell’immediato dopoguerra, ed alla pubblicazione del Potere è di tutti. L’adesione al sistema è sempre più passiva. I diritti di riunione, di associazione, di manifestazione del pensiero, di voto oggetto di tante battaglie sono sempre meno esercitati perchè avvertiti come irrilevanti, incapaci di garantire, almeno, la miglior selezione dei professionisti politici. La politica è uno spettacolo tra gli altri, che richiede spettatori piuttosto che attori (o più precisamente telespettatori) o meglio ancora, data la qualità spesso oscena della rappresentazione, guardoni. E’ un processo di lunga data i cui esiti non possono essere ignorati. Possiamo dare un contributo a risvegliare il sovrano, che è in ogni cittadino, secondo la promessa della Costituzione e la possibilità che gli è data di essere soggetto attivo e non passivo. Non saremo soli se a ciò ci dedicheremo con continuità e coerenza.
I rapporti con la nonviolenza organizzata
La capacità di lavorare con altri ad un progetto comune moltiplica l’incidenza e costituisce un importante strumento di diffusione delle idee e delle pratiche della nonviolenza. Primo terreno sul quale verificare questa capacità è quello della qualità e continuità di relazione con altre forze che si richiamano alla nonviolenza. Tempo addietro parlammo di “costituente della nonviolenza” ed è un tema che si ripresenta e che sottende anche la proposta avanzata da Pietro Pinna di una marcia “specifica” della nonviolenza. Non mancano campagne, anche importanti, condotte assieme e momenti di riflessione comuni, ma ci pare che il rapporto debba andare più in profondità. Per questo spalanchiamo rivista e congresso al contributo di quanti si sentono “amici della nonviolenza”. Per questo pensiamo che possano sorgere in ogni località gruppi di “amici della nonviolenza”, nei quali aderenti a diverse associazioni e cittadini comunque interessati si trovino ad operare assieme. Se si condivide l’esigenza di un’internazionale della nonviolenza sarà bene cominciare a costruirla dal basso. La nonviolenza è pianta di molte radici, richiede molta cura, ma può offrire ombra e frutti a persone anche molto diverse.
La proposta congressuale:
Commissioni tematiche e operative
Abbiamo pensato un Congresso svolto principalmente in commissioni per consentire uno scambio più ravvicinato tra tutti i partecipanti al Congresso. Abbiamo indicato come tematiche le commissioni della prima giornata e come operative quelle della seconda. E’ una distinzione che può essere fuorviante. Dalle commissioni ci aspettiamo infatti un contributo sia alla teoria che alla prassi, che non vorremmo mai dissociate. Chiediamo ai referenti che il lavoro di commissione si concluda con un breve testo scritto, che consenta al Congresso di pronunciarsi con chiarezza e di assumere gli impegni relativi.
Commissioni della prima giornata
1. Apparati militari e modelli di “difesa” a dieci anni dalla caduta del muro di Berlino:
relatore Nanni Salio.
L’importanza del tema non ha bisogno di alcuna enfasi ed è di estrema attualità, anche per le novità che riguardano più direttamente il nostro Paese: esercito professionale, di guerrieri e guerriere, con leva obbligatoria in caso di bisogno, parte del sistema europeo di sicurezza nell’ambito della Nato. Le Forze armate sono ( ma hanno mai cessato di esserlo? ) proclamate elemento indispensabile di politica estera ed il più chiaro indicatore dell’importanza e del ruolo di un Paese nel mondo. Il crollo dei regimi dell’Est, armati fino ai denti, non ha insegnato nulla. Si allontana la prospettiva di un rafforzamento dell’ONU ed il solenne proposito con il quale si apre la sua Carta istitutiva “Noi, i popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra…”. Il nuovo esercito avrebbe anche altri, non trascurabili, meriti, oltre a contribuire alla parità dei sessi. Farebbe finire le parallele ed umilianti corvè, nelle forze armate e nel servizio civile, sostituite da più civili e moderne prestazioni professionali e volontarie. La volontarietà eliminerebbe anche il “nonnismo”, prodotto e sfogo nei congedanti della frustrazione di un servizio coatto ( come se la Folgore, per far solo un esempio, non fosse un reparto formato da volontari). Sono molti i temi che richiamano la necessità di analisi e di risposta, su un terreno che le Forze Armate considerano proprio.
2. Alternative alla guerra per la soluzione dei conflitti: esperienze e proposte:
relatore Gianni Tamino.
Il proporsi in modo così incisivo dell’opzione militare oscura, se non azzera, tutto un lavoro, teorico pratico, che pure comincia a dare qualche frutto anche sul piano istituzionale, dopo aver mostrato la propria efficacia nell’azione di movimenti ed organizzazioni in varie situazioni. Il pensiero va
– ai caschi bianchi dell’ONU, al Corpo civile di pace europeo, alla difesa popolare nonviolenta evocata nella stessa legge di riforma dell’obiezione di coscienza;
– alle iniziative diplomatiche della Comunità di S. Egidio, all’attività delle Organizzazioni non governative, più importanti e strutturate, a interventi di Regioni ed enti locali;
– a campagne ed operazioni promosse da persone del Movimento o a noi molto vicine, come le Ambasciate di pace, il cui carattere di esempio e sollecitazione deve fare continuamente i conti con il rischio del velleitarismo e della dispersione delle forze.
Ma è decisivo che non ci si rassegni a ritenere la pace un problema dei militari. Con loro è però necessario trovare momenti e modalità di interlocuzione e confronto. Nelle situazioni di conflitto sono i militari ad essere invocati ed intervenire, quali forza di peace building o di peace keeping. Il confronto si presenta nei fatti ed è ineludibile.
3. Economia ecologica e di giustizia:
relatore Pasquale Pugliese.
Già si è detto dell’attenzione, che abbiamo dedicato a questo tema con due seminari. E’ intollerabile che tutta la conoscenza e tecnologia di cui disponiamo si traduca in un modo di produrre, consumare, vivere che genera diseguglianza, ingiustizia, schiavitù di contro a sterminate ricchezze, nel deterioramento e distruzione di ogni bene e bellezza naturale. Il fallimento di sistemi che si pretendevano alternativi non può esimerci dal cercare ancora e dal persistere in ciò che era giusto. Si tratta di comprendere la realtà della globalizzazione con i suoi nuovi mercati, di cambi e capitali, che funzionano 24 ore al giorno, stabilendo relazioni a distanza in tempo reale ( nella sola borsa di Londra vengono scambiati ogni anno 75 trilioni di dollari, 25 volte il valore di tutti i beni prodotti nell’anno ); con le sue nuove regole, che l’Organizzazione mondiale dei commercio detta agli Stati, sui commerci, sui servizi, sulla proprietà intellettuale; con i suoi nuovi potentissimi attori, come le grandi multinazionali, che nessun potere controlla. Si tratta di contribuire alle campagne, azioni, iniziative di resistenza alla guerra economica competitiva in corso, ed al pensiero che l’accompagna, e di costruzione di sia pur limitate alternative ecologiche e di giustizia, che vediamo affermarsi lontano e vicino a noi, di produzione, distribuzione, di finanziamento, di lavoro, di condivisione. Padre Zanotelli ha evocato una “rete lillipuziana” capace di imbrigliare i Gulliver dell’economia. Del nostro essere piccolissimi siamo ben persuasi, così come della necessità di collaborare sempre meglio e più concretamente con le organizzazioni più impegnate su questo terreno, a cominciare dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo
4. Cultura ed educazione della nonviolenza nel centenario della nascita di Aldo Capitini:
relatore Grazia Honegger Fresco.
Violenza strutturale non minore di quella costituita dalle immani diseguaglianze sociali è quella costruita da una cultura che giustifica la suddivisione dell’umanità in “vincenti” e “perdenti” e, in nome della modernità e del progresso, afferma il diritto del “forte” a dominare sul “debole”. Giuliano Pontara, attento anche per abito professionale al peso delle parole, non ha esitato a parlare di ” etica del cow-boy e di ritorno della mentalità nazista”. La cultura della nonviolenza è chiamata a dare proprie, persuasive risposte. Un terreno decisivo è quello della scuola. Vale forse la pena di ricordare il Capitini coordinatore e animatore dell’Associazione per la difesa e lo sviluppo della scuola pubblica in Italia, contro le pretese della scuola confessionale, alle quali si sono fatte recentemente ulteriori concessioni. E ciò è avvenuto in nome della libertà di scelta, dell’efficienza, della tendenza alla privatizzazione di ogni spazio pubblico e di ogni bene che deve essere comune: tra questi la possibilità dei giovani di formarsi in una scuola di tutti, in una scuola di diversi, in una scuola aperta, che sollecita cooperazione e capacità critica. Una scuola che la scuola pubblica italiana non è riuscita ad essere. Avesse tenuto in maggior conto Capitini e don Milani non sarebbe ridotta a mendicare ricette manageriali per la sua gestione e costituirebbe luogo ideale per l'”inizio della realtà liberata”.
Commissioni della seconda giornata
1. Riviste, pubblicazioni, reti telematiche della nonviolenza:
relatore Mao Valpiana.
Sono 36 anni che Azione Nonviolenta esce. Ne vediamo i limiti e la vorremmo nigliore. Un maggiore e corale impegno negli abbonamenti renderebbe possibile questo obiettivo. Chi conosce le ristrettezze e le difficoltà in cui viene prodotta la trova però già bella così, e quasi un miracolo. Credo possiamo dirci soddisfatti anche della qualità delle nostra attività editoriale. Alle pubblicazioni si vanno aggiungendo video e compact disk, che vanno ad arricchire il materiale utile per l’attività di sensibilizzazione e di diffusione del pensiero e della pratica nonviolenta. Il sito on line comincia ad essere conosciuto, visitato ed apprezzato. Anche qui crediamo sia indispensabile un confronto con quanti intervengono, con strumenti analoghi ai nostri e con finalità affini, sulle stesse tematiche. C’è il problema dell’accesso ai grandi mezzi di comunicazione di massa, senza che ciò significhi irrimediabile distorsione del messaggio. C’è il problema di usare al meglio i modesti strumenti di comunicazione che i movimenti di ispirazione nonviolenata e impegnati per la pace si sono dati. Crediamo che da una discussione ravvicinata, che può avere un momento significativo in questo congresso, a partire dal lavoro di questa commissione, possano scaturire indicazioni utili in entrambe le direzioni. Ci auguriamo collaborazione e coordinamento, capaci di arricchire e qualificare l’attività delle varie riviste e migliorare il contributo complessivo alla conoscenza della nonviolenza e del suo sperimentarsi.
2. Centri e case per la pace, esperienze sul territorio:
relatore Matteo Soccio.
Con l’augurio che ogni iscritto sappia farsi centro di proposte ed iniziative, ci pare utile una riflessione sul’esperienza di centri e case per la pace, sia da noi direttamente promossi o partecipati, sia da altri realizzati. Sono esperienze diverse tra le quali è utile un confronto e trovare anche forme di collaborazione e coordinamento, di integrazione di attività. Sono presenze significative sul territorio, punti di riferimento di una rete della nonviolenza alla cui costruzione intendiamo contribuire. Sono e possono essere luoghi di cittadinanza attiva, di democrazia presa sul serio, di rilancio e aggiornamento dei Centri di orientamento sociale dell’immediato dopoguerra, di costruzione di esperienze che spingono verso la “comunità aperta” e la pratica dell’omnicrazia, del potere di tutti e di ciascuno. E’ in primo luogo dove viviamo e quotidianamente operiamo infatti che si misura la credibilità delle nostre proposte. Quale capacità di intervento in situazioni di conflitto grave e di ingerenza nonviolenta a tutela di diritti umani in altri paesi possiamo vantare se non ne siamo in primo luogo capaci nelle situazioni a noi più vicine? Ci sembra perciò utile che siano più conosciute e diffuse le esperienze in atto di mediazione sociale, di intervento per la soluzione dei conflitti e per la difesa dei diritti dei più deboli. Esse costituiscono anche la risposta migliore ad un bisogno di sicurezza, presente e crescente, da molte ragioni prodotto, che sembra ottenere solo risposte di chiusura e di repressione. Così ci pare debba diffondersi la pratica dei campi, che ha in Piemonte il maggior radicamento, come quella che meglio può avvicinare giovani e meno giovani ad una nonviolenza sperimentata, in varie forme e nel quotidiano.
3. Marcia della nonviolenza: 2000 anno della Nonviolenza:
relatore Daniele Lugli
La proposta di Pietro Pinna, assunta dal Comitato di coordinamento, ha lo scopo di costituire una concreta, visibile, comune iniziativa degli amici della nonviolenza, siano essi singoli o aderenti a diverse associazioni. Costituisce di per sè un tema significativo di confronto con chi ci è più vicino. Ci sembra colga una esigenza di unità dell’area nonviolenta e possa costituire anche un contributo di orientamento per un più vasto movimento per la pace. La concepiamo come un’aggiunta, non come un’alternativa o una proposta polemica nei confronti della consolidata iniziativa della marcia Perugia – Assisi. Pensiamo ad un’iniziativa che metta in comune la ricchezza della proposta nonviolenta e contribuisca alla sua unità. Un’iniziativa che riesca a comunicare questo messaggio di non rassegnazione all’inevitabilità della guerra e di non delega ai militari della costruzione della pace. Per questo i tempi, le modalità e lo stesso percorso saranno oggetto di un approfondimento e di un confronto, che nel Congresso ha il suo inizio.
4. Lotta e alternativa alle spese militari:
relatore Piercarlo Racca.
Gli stessi mutamenti delle Forze Armate, dei modelli di difesa, la varietà e gravità dei conflitti richiedono un aggiornamento delle forme di lotta e delle proposte alternative alle spese militari. E’ parso a noi ed, inizialmente alle altre organizzazioni promotrici, che ciò potesse farsi meglio e con più chiarezza concludendo la campagna di obiezione alle spese militari, fermo restando il sostegno a chi avesse praticato individualmente tale forma di obiezione. Lo suggerivano l’andamento della campagna stessa, in esaurimento dopo anni dal suo inizio e dopo significativi risultati pure raggiunti, e l’opportunità di chiarirne gli obiettivi, anche in vista di una sua possibile riproposizione, alla luce della nuova legge sull’obiezione di coscienza civile e dell’ipotesi dell’opzione fiscale. Questa posizione, che è rimasta nostra e del MIR, non è stata da altri condivisa e la campagna prosegue. Hanno fatto seguito contrapposizioni polemiche che poco sono servite a chiarire i termini della questione ed a fornire orientamenti per il futuro. Crediamo sia importante riflettere sulla vicenda, nella ricerca dei più adeguati strumenti di opposizione alla guerra ed alla sua preparazione, che siano da noi condivisi e praticati e come tali proposti ad una più ampia partecipazione.
Nonviolenza in movimento
Teniamo il Congresso a Pisa, da dove, con il rifiuto – era il 1933 – della tessera del partito fascista, Aldo Capitini iniziò la sua pubblica testimonianza e ricerca nonviolenta. Lo ha reso possibile l’impegno di un gruppo di giovani raccolti attorno a Rocco Altieri, che con il suo libro “La rivoluzione nonviolenta” ci ha riproposto Capitini ed il suo pensiero, vivi ed attuali, decisivi per l’acquisizione di un punto di vista nonviolento nell’interpretazione degli avvenimenti storici e nell’elaborazione di una strategia di cambiamento. E’ un impegno che sentiamo nostro e che esprimiamo con parole tratte dall’ introduzione del libro: ” Di fronte a chi preconizza la fine delle rivoluzioni, Capitini sollecita a riaprire la storia a una rivoluzione nuova, che rompa il cerchio malefico delle rivoluzioni violente del passato, che non hanno fatto che riprodurre nuove oppressioni e nuove violenze: Egli sente urgente ed attuale una rivoluzione nonviolenta come movimento permanente che nasca dal basso, che cambi le coscienze, che trasformi le strutture di violenza e di morte, favorendo la liberazione dall’alienazione, dall’oppressione, dallo sfruttamento, dall’incubo della miseria e della guerra. A noi sta con sincera persuasione nella forza e nella verità della nonviolenza riprendere e proseguire questo cammino”.
IL LAVORO DELLE COMMISSIONI
Difesa, economia, cultura, per un’alternativa alla guerra
MOZIONI (Testi usciti dai lavori delle commissioni e approvati dall’Assemblea)
Apparati militari e modelli di “difesa” a dieci anni dalla caduta del muro di Berlino
(approvata all’unanimità)
Per descrivere l’attuale situazione può essere utilizzata una frase dell’Ecclesiaste: “Non c’è nulla di nuovo sotto il sole”, poiché in effetti non sono avvenuti cambiamenti profondi. Uno dei pochi aspetti di parziale diversità è dato dal fatto che oggi siamo in presenza di due forme di capitalismo, quello istituzionale e globalizzato e quello delle attività mafiose, che in genere competono fra loro, anche se talvolta collaborano, perché ad esempio il denaro mafioso viene riciclato attraverso le strutture capitaliste. Il primo è legale, mentre il secondo non lo è, ma entrambi sono antisociali.
Esistono i seguenti cinque fattori chiave da prendere in considerazione:
tecnologia e scienza;
finanza;
risorse naturali;
media;
armi di distruzione di massa.
I cinque fattori sono interconnessi fra loro e quindi non può essere analizzato solo il quinto, estrapolato dagli altri. Infatti il termine “modello di difesa” è riduttivo, perché rientra nel concetto più vasto di conflitto. Quindi ciò che conta è il modo in cui si vogliono affrontare i conflitti e, poiché le ragioni dei conflitti sono molteplici, è indispensabile prendere in esame tutti e cinque i fattori sopra esposti. Ad esempio, molte guerre sono spacciate per etniche, ma hanno in realtà altre motivazioni. Così la guerra nel Caucaso è una guerra per il petrolio e le guerre nei Balcani sono conflitti per conquistare i corridoi energetici. L’incompatibilità etnica è un elemento che fa da sfondo e che invece viene esaltato.
Secondo Galtung sta nascendo una nuova guerra fredda, che vede contrapposti due blocchi. Da una parte U.S.A., Canada, Unione Europea e Giappone e dall’altra Russia, Cina e India. Poiché i Paesi della N.A.T.O. sono geograficamente situati ad occidente, mentre il Giappone si trova all’estremo oriente, ciò comporta una manovra a tenaglia sul blocco dell’Eurasia. Il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado, che probabilmente non fu un errore, potrebbe essere un’azione iniziale di questa guerra fredda. Attualmente il blocco eurasiatico è diviso al suo interno, ma potrebbe compattarsi come reazione all’aggressione da parte dei Paesi dell’altro blocco. Al riguardo bisogna considerare che Russia, Cina e India hanno un enorme potenziale di risorse e di persone.
I sistemi d’arma sono genericamente divisi in due categorie: quelli di distruzione di massa (termonucleari, chimici e biologici) e quelli convenzionali. Questi ultimi, però, sono contigui ai primi. Paul Nitze, uno dei falchi del dipartimento di Stato statunitense che condusse la guerra fredda contro l’Unione Sovietica, oggi, ormai ultranovantenne, propone il disarmo nucleare unilaterale per gli Stati Uniti, poiché, sostiene, le armi nucleari non sono più utili. Infatti le armi convenzionali sono sufficienti a tenere il nemico sotto controllo. La tecnologia bellica ha raggiunto ormai una capacità di errore di un metro sui lanci balistici da un continente ad un altro; ciò significa che con un attacco con armi convenzionali è possibile distruggere le rampe di lancio nucleari del nemico. L’uso di armi convenzionali evita i problemi di ricaduta radioattiva, che hanno invece le armi nucleari, che causano effetti letali non solo sulla popolazione attaccata, ma anche su quella attaccante. Il disarmo nucleare totale comporterebbe, tra gli altri vantaggi, anche quello di evitare il terrorismo nucleare, minaccia presente e affrontabile con difficoltà, poiché la mentalità dei terroristi è diversa da quella dei governi e non risponde a determinate regole che i governi in genere rispettano. Tutto ciò significa che non dobbiamo lasciarci ossessionare dal pericolo di una possibile guerra termonucleare totale, dimenticando la certezza della violenza praticata in tante guerre attualmente presenti sul globo in cui si utilizzano armi convenzionali.
Le lotte nonviolente del 1989 sono state ignorate anche dal movimento per la pace, intendendo con tale espressione l’insieme di tutti i gruppi e le associazione che sul pianeta lavorano per diffondere la cultura della pace. Il motivo è che tale movimento è inesistente come soggetto politico preciso. Dopo il periodo di proteste a seguito dell’installazione degli euromissili, cioè nel 1982-83, il movimento è scomparso come attore politico. Pertanto la rivoluzione iniziata nel 1989 non è stata portata a compimento. Infatti sono cambiati i Paesi dell’est, ma non quelli dell’ovest, che anzi si sono rafforzati nella loro ideologia, riproponendo con più forza la loro visione del mondo. Si tratta di una visione dettata dalla globalizzazione finanziaria, cioè del modello economico ritenuto vincente e quindi da esportare. Di conseguenza chi detiene il potere ha avuto buon gioco a proporre anche il proprio modello di difesa militare, arrivando persino ad inventare e a diffondere il falso storico della “guerra umanitaria”. E’ difficile proporre la difesa popolare nonviolenta, a causa dell’estrema debolezza del movimento per la pace. Pertanto la prima azione da intraprendere è quella di rivitalizzare l’attore che porti questa proposta. La partecipazione dei governanti che hanno avallato la guerra in Kossovo alla marcia per la pace Perugia – Assisi di quest’anno, senza che nessuno degli organizzatori li invitasse a stare a casa, è il segno della crisi che attraversa il movimento per la pace nel nostro Paese. Dopo il 1989 molti militanti di area nonviolenta hanno sostenuto che il problema della pace non avesse più rilevanza, perché era caduto il confronto fra i due blocchi. Molti hanno preferito dedicarsi ad altri settori, più gratificanti, come ad esempio il commercio equo e solidale. Si tratta senza dubbio di esperienze importanti, ma slegate le une dalle altre.
Gli obiettivi di lungo periodo contro la violenza e la guerra devono avvenire prima, durante e dopo i conflitti. Prima si intende la prevenzione; durante è necessario l’intervento, come ad esempio quello dei caschi bianchi; dopo si parla di riconciliazione. Per operare queste azioni è necessario però avere risorse economiche ed oggi per ogni mille dollari utilizzate nel mondo per spese militari, un dollaro viene speso per l’O.N.U. e un centesimo di dollaro per gli interventi nonviolenti. Dobbiamo avere chiara la realtà che senza investimenti si realizza poco. In tutta Italia non ci sono cento persone che lavorano a tempo pieno per la diffusione della nonviolenza. Non si tratta dunque di presentare una situazione senza speranza, ma di esser consapevoli che la speranza deve esser unita ad un senso preciso di responsabilità, che significa risolvere i problemi delle risorse economiche e umane.
Alternative alla guerra per la soluzione dei conflitti:
esperienze e proposte
(approvata all’unanimità)
Come già affermato nella relazione introduttiva del Congresso “Il proporsi in modo così incisivo dell’opzione militare oscura, se non azzera, tutto un lavoro, teorico pratico, che pure comincia a dare qualche frutto anche sul piano istituzionale, dopo aver mostrato la propria efficacia nell’azione di movimenti ed organizzazioni in varie situazioni”.
La Commissione ha denunciato l’ambiguità della logica per cui l’opzione militare costituirebbe una forma di danno minore rispetto alla violazione di diritti umani, da cui le definizioni di “intervento umanitario” e di “polizia internazionale”.
In realtà, considerando l’insieme delle esperienze che vanno dalla guerra nel Golfo, all’intervento in Bosnia, alla guerra nel Kosovo alla recente situazione di Timor-Est e la Cecenia, si può chiaramente notare che l’opinione pubblica è stata condizionata dai “media” ad occuparsi di queste aree solo quando il conflitto raggiunge la fase acuta di emergenza (e solo di alcuni conflitti, ignorandone la maggior parte!). Ma l’opzione nonviolenta è l’unica che possa servire a prevenire conflitti di questo tipo: l’esperienza del Kosovo, dove la scelta nonviolenta è durata circa dieci anni, dimostra l’enorme ricchezza di tale esperienza, ma anche la totale assenza di iniziativa sul piano internazionale (ONU, UE, ecc.) e di interesse dei media per difendere questa opzione che poteva evitare il conflitto, se aiutata e se indirizzata verso uno sbocco politico con l’aiuto della diplomazia internazionale.
L’opzione militare non solo non può prevenire i conflitti, ma, come gli stessi militari hanno affermato ad esempio in Bosnia, non può riportare la pace, tutt’al più può far cessare uno scontro armato.
Da qui la necessità di istituire strutture riconosciute a livello internazionale di “corpi civili di pace”, con lo scopo di favorire il dialogo tra le parti in conflitto, ripristinare condizioni di reciproca fiducia, sviluppare i valori della convivenza e della coesistenza pacifica, sia per prevenire che per favorire una ricomposizione pacifica dei conflitti.
In tal senso è ritenuta positiva la decisione assunta il 10.2.99 dal Parlamento Europeo di proporre al Consiglio l’istituzione di un corpo di pace civile europeo, nel quale coinvolgere sia le ONG sia strutture già esistenti negli Stati membri (come il servizio per la DPN esistente in Italia). In quest’ottica può essere positiva una ulteriore evoluzione dell’UE verso una politica estera e di sicurezza comune, tenuto conto che la sicurezza può essere garantita soprattutto con strumenti nonviolenti.
La Commissione ritiene importante affrontare il problema della polizia internazionale, in un’ottica analoga a quella che regola la polizia di uno Stato. In tal senso, in uno stato democratico, il ruolo di polizia non può essere affidato ad un esercito e spesso può essere un ruolo non armato e nonviolento; analogamente la funzione di polizia internazionale non può essere affidata alla NATO e deve esercitarsi prevalentemente con strumenti nonviolenti, come i corpi civili di pace, anzitutto per prevenire i conflitti, nell’ambito di organismi internazionali come l’ONU o l’OSCE. A tale proposito va aggiunto che l’affidamento alla NATO di funzioni di polizia internazionale costituisce un serio ostacolo alla riforma dell’ONU.
Qualora la prevenzione non abbia avuto esito positivo è necessario passare ad un’interposizione tra le parti che deve essere, in prima opzione, civile e solo in casi estremi richiedere l’uso di forze armate, che non devono “fare una guerra”, ma separare le parti in conflitto, aiutate dai corpi civili per ristabilire dialogo e convivenza.
L’affermarsi di un’azione non violenta richiede anche una seria offensiva culturale da parte del movimento verso l’opinione pubblica, i media e le istituzioni. A partire dalla constatazione che solo soluzioni nonviolente possono prevenire i conflitti e ripristinare la pace ha senso un’interlocuzione del movimento nonviolento con le forze armate, per affrontare questioni come l’interposizione e il peace keeping.
Infine la Commissione ritiene necessario che il movimento nonviolento affronti anche le nuove forme dei conflitti internazionali, come le guerre commerciali che si svolgono tra le grandi potenze (ad esempio tra USA ed UE la guerra delle banane, della carne con gli ormoni, dei cibi transgenici), che creano nuove povertà e nuove vittime, soprattutto per fame, nel sud del mondo, dove spesso le tensioni provocate da tali conflitti, per il controllo delle risorse naturali, sfociano in guerre vere e proprie, di tipo militare.
A tale proposito è opportuno individuare anche nuovi strumenti di intervento, a partire dal boicottaggio delle multinazionali che provocano tali conflitti, e agire come ONG affinché i prossimi accordi sul commercio mondiale, che si apriranno a Seattle a fine novembre, vedano prevalere gli interessi dei popoli e i valori dell’ambiente e della salute sui profitti delle multinazionali.
Economia ecologica e di giustizia
(approvata all’unanimità)
La commissione “Economia ecologica e di giustizia” ha fatto proprie le riflessioni generali sviluppate nei due seminari su “Economia e nonviolenza”.
Nel modello di sviluppo occidentale violenza diretta, strutturale e culturale sono legate da un perverso legame distruttivo. La violenza strutturale dell’economia è una guerra permanente contro l’umanità e la natura e, quando serve, usa la violenza diretta della guerra calda per affermare i propri interessi. La violenza culturale fornisce ad entrambe i paradigmi giustificativi.
L’economia capitalista – nonostante gli sforzi di intellettuali e mass-media affinché sia considerata una scienza – rivela sempre di più le sembianze di politica mascherata dei paesi occidentali, guidati dagli USA, votata al dominio sull’uomo e sulla natura, al solo fine di sviluppare il profilo assoluto e la mercificazione totale.
Se la caratteristica fondamentale del modello di sviluppo economico occidentale è stato, fin dalle origini, quello di affrancarsi dai vincoli sociali e culturali – rispettati dalle economie tradizionali – per affermare la propria supremazia su di essi, negli ultimi decenni i fenomeni di liberalizzazione, globalizzazione e finanziarizzazione ne hanno accentuato la distruttività dei legami e dei vincoli sociali e ambientali.
Pochi numeri testimoniano questo stato di fatto. Secondo dati aggiornati la ricchezza privata delle 225 persone fisiche più ricche del mondo è equivalente al reddito del 47% della popolazione mondiale; il quinto più ricco dell’umanità si divide l’85% delle ricchezze planetarie ed il quinto più povero appena l’1,4% delle stesse. Lo stile di vita della parte ricca dell’umanità è inoltre strutturalmente oligarchico in quanto non può essere esteso alle altre fasce di popolazione mondiale, perché non sostenibile dal punto di vista ambientale: sarebbero necessari altri quattro pianeti per l’utilizzo delle risorse e lo scarico dei rifiuti.
Si impongono pertanto una urgente de-idolatrizzazione e riconversione dell’economia. De-idolatrizzazione affinché l’economia riacquisti il ruolo di mezzo piuttosto che di fine dell’agire umano. Riconversione affinché il limite e la sufficienza sostituiscano l’accumulazione e lo sviluppo a tutti i costi.
I valori dai quali muovere sono extra-economici. Si tratta di recuperare la gratuità, di smonetizzare il tempo, di smercificare la vita, di disonorare il denaro.
Anche il M.N. ha un ruolo originale e specifico da svolgere, con la consapevolezza che tra l’onnipotenza e l’impotenza c’è la possibilità dell’agire persuaso, che anche se parziale ha il valore di muoversi nella direzione giusta.
L’azione politica nonviolenta, affinché sia anche efficace deve provare a muoversi contemporaneamente sui piani micro (stile di vita), meso (esperienze di economia locale) e macro (campagne generali).
Finora l’azione del M.N. ha avuto probabilmente il limite di un impegno quasi esclusivamente basato sul livello micro, cioè sulla dimensione personale dell’agire economico, attraverso la ricerca e la pratica individuale di stili di vita sobri e sostenibili, trascurando gli altri due livelli di azione.
Gli altri movimenti hanno avuto probabilmente il limite opposto di muoversi sul piano delle campagne generali, trascurando specularmente i piani micro e meso.
Mentre nel campo capitalistico avvengono le megafusioni economiche e finanziarie che rendono sempre più corazzato il sistema, anche nel nostro campo è giunto il tempo di unire le forze in uno sforzo congiunto che non trascuri nessuno dei tre livelli di azione.
La Commissione “Economia ecologica e di giustizia” propone al M.N. per i prossimi anni i seguenti ambiti di azione:
a livello micro: il M.N. deve continuare a promuovere stili di vita fondati sulla semplicità volontaria, volti a trasformare ed a rendere compatibili i consumi individuali, in particolare attraverso la riduzione del consumo di carne, la riduzione dell’uso dell’automobile, la riduzione dell’ ”usa e getta” (indicatori dello stile sovra-consumatore), senza trascurare di esplicitare in termini di comunicazione efficace le implicazioni politiche generali;
a livello meso: il M.N. deve farsi promotore di valorizzazione e collegamento tra le realtà locali che operano per la riconversione economica ed energetica. A tale scopo sono stati individuati tre impegni concreti:
affiancare il M.I.R. nell’organizzazione di campi estivi – dovunque sia possibile – al duplice scopo di favorire la formazione di giovani allo stile di vita sobrio e sostenibile (livello micro) e di aiutare concretamente – anche se per una settimana – a rendere visibili e conosciute comunità e gruppi che sperimentano forme di vita socialmente ed ecologicamente sostenibili;
sostenere e far conoscere esperienze di studio e sperimentazione di tecnologie compatibili con l’ambiente (per esempio il progetto di “Solaria” in Liguria);
sostenere e far conoscere le Reti di Economia Locale (REL) che anche in Italia stanno prendendo piede (per esempio la REL di Reggio Emilia) e le esperienze di finanza alternativa.
a livello macro: la Commissione “Economia ecologica e di giustizia” dà mandato al M.N., e per esso al Comitato di coordinamento, di aderire formalmente, a livello nazionale, alla già nota “Rete di Lilliput”, e invita i gruppi locali ad entrare nei comitati regionali che in questi giorni si stanno costituendo in tutta Italia.
La “Rete di Lilliput”, nata su stimolo di padre Alex Zanotelli, vuole stabilire “un patto tra campagne, associazioni ed arcipelaghi dei gruppi locali per una strategia lillipuziana” di lotta dal basso contro il gigante economico. Ad oggi hanno già aderito sedici tra associazioni (a noi affini) e campagne nazionali.
L’adesione del M.N. non deve essere solo nominale o morale, ma partecipa ed attiva, sia a livello nazionale che locale, in modo da incidere, con la propria specificità, tanto sul piano del progetto generale che delle strategie di lotta:
a livello generale si tratta di definire e valorizzare il “programma costruttivo” della “Rete di Lilliput” per l’economia di sobrietà;
a livello di lotta si tratta di contribuire alla corretta impostazione di campagne ispirate alla strategia di lotta nonviolenta, affinché si passi da campagne di sensibilizzazione a campagne che pongono obiettivi precisi, raggiungibili ed intermedi, ottenuti i quali si passi a fasi nuove di lotta, impostando forme che prevedano la disobbedienza civile per il raggiungimento dell’obbiettivo stabilito. L’esperienza del M.N., decennale sul campo della lotta per l’obiezione di coscienza, va oggi spesa anche sul piano dell’obiezione economica.
Cultura ed educazione della nonviolenza
(approvata all’unanimità)
Il punto di partenza è una riflessione sull’abitudine e sull’apparente inevitabilità della violenza e del potere autoritario nella relazione con il bambino fin dalla nascita, nella famiglia, nelle istituzioni cosiddette educative: Nidi, Scuole materne, Elementari fino alle Secondarie dove si trattano gli adolescenti come bambini piccoli dopo aver sempre spinto i piccoli a bruciare le tappe (competizione a oltranza, lavoro deciso dall’alto, giudizi e voti). Che fare in concreto? Come promuovere un cambiamento (che non può essere a macchia d’olio)?
Varie esperienze testimoniano la violenza delle istituzioni (attraverso la burocrazia, la paura di entrare in conflitto, il palleggio delle responsabilità tra genitori e insegnanti) che diventa violenza sociale, violenza nei luoghi di lavoro portano. Si sente l’esigenza di un lavoro più dilatato circa la cultura della pace e la sua diffusione, ma si è anche convenuto sul fatto che essa sembra essere realizzabile attraverso una nuova consapevolezza del conflitto e delle modalità con cui esso si può trasformare in accoglienza delle emotività proprie e altrui, nella ricerca creativa di soluzioni nuove, ovvero la trasformazione nonviolenta dei conflitti quotidiani con tecniche che si possono apprendere e su cui esistono oggi molte pubblicazioni.
Alla luce di tutto ciò il M.N. si impegna:
a 100 anni dalla nascita di Capitini, a dare risonanza, indicare contatti e soluzioni per la valorizzazione/diffusione del decennio 2000-2010 dell’ONU per l’educazione alla pace;
a coinvolgere Provveditorati, Ministero P.I., Direttori proponendo nostri corsi e nostri docenti, là dove è possibile, per far conoscere le tecniche della nonviolenza nella gestione dei conflitti;
a pubblicare un agile manualetto su questi temi, anche traducendo da pubblicazioni estere;
a preparare i docenti, sulla base di un piano da predisporre nei prossimi mesi ;
a far uscire regolarmente pubblicazioni su questi temi, raccogliendo esperienze sia su AN sia su altre riviste in sintonia (il “Quaderno Montessori”, “Cooperazione educativa”, “Qualevita” e forse molte altre che si possono aggiungere);
a pubblicare una bibliografia ragionata sul tema della soluzione nonviolenta dei conflitti e sulle possibilità di corsi al nord e al sud.
Riviste, pubblicazioni, reti telematiche della nonviolenza
(approvata all’unanimità)
Il Congresso esprime soddisfazione per l’andamento della rivista Azione nonviolenta, ma nel contempo si impegna per il miglioramento della sua qualità e forma. Decide:
l’allargamento delle collaborazioni redazionali per la redazione di inserti monotematici;
l’ampliamento di rubriche fisse (recensioni librarie e cinematografiche, rassegna stampa estera delle altre riviste nonviolente internazionali);
il rinnovo grafico della copertina e dell’impaginazione;
il lancio di una campagna “lascia o raddoppia” perché ogni abbonato regali o trovi un nuovo abbonamento;
la collaborazione con altre riviste amiche per la raccolta di abbonamenti cumulativi;
l’edizione di un nuovo cd-rom su Aldo Capitini;
uno spazio regolare di attenzione al tema dell’educazione nonviolenta;
la segnalazione periodica di elenchi di siti Web utili per ricerche nonviolente;
di repertoriare e divulgare esempi concreti di tecniche e azioni nonviolente.
Centri e case per la pace
(approvata all’unanimità, con un astenuto)
Con l’espressione “Centri e Case per la Pace” abbiamo indicato tutte quelle strutture e istituzioni che con stabilità e continuità si fanno promotrici di attività rivolte a dare visibilità sul territorio a iniziative di pace, nonviolenza, solidarietà, cooperazione e promozione dei diritti umani.
In questi ultimi anni queste istituzioni sono sorte un po’ dappertutto in Italia, sia per iniziativa diretta di gruppi e associazioni come il Movimento Nonviolento, il MIR e Pax Christi, sia per interessamento di amministratori di enti locali sollecitati a dare attuazione a impegni precisi come quelli, ad esempio, derivanti dalla norma “pace e diritti umani” inserita in molti statuti comunali.
Si segnala anche la presenza molto attiva di istituzioni più prestigiose e autorevoli nel campo della pace e dei diritti umani come il Centro diritti umani dell’Università di Padova, il Centro Maritain di Preganziol (Treviso), l’UNIP (Università delle Istituzioni dei Popoli per la Pace) di Rovereto e, di attivazione recentissima, la Fondazione Venezia per la Pace voluta dalla Regione Veneto.
Analizzando le loro caratteristiche giuridiche si possono distinguere due tipologie diverse: quella pubblica e quella privata, entrambe con pregi e difetti. I difetti principali del “pubblico” sono i condizionamenti politici e amministrativi, il burocratismo, lo scarso coinvolgimento ideale. Tra i pregi: il fatto di essere servizio pubblico utile e aperto a tutti i cittadini e a tutte le associazioni, con spazi adeguati, attrezzature e mezzi finanziari che, con opportune deliberazioni, assicurano la vita dell’istituzione. I pregi della tipologia “privata” sono: maggiore sensibilità, creatività, coinvolgimento ideale. Tra i difetti: il non essere “servizio pubblico” ma struttura privata di gruppi o associazioni che l’utilizzano per svolgere la propria attività più o meno aperta agli altri; la difficoltà a reperire finanziamenti per assicurarne la continuità di esistenza e di attività.
Al di là dei nomi diversi e delle forme strutturali e giuridiche adottate, tutte queste istituzioni hanno in comune il fatto di essere centri di informazione e di iniziative, laboratori di progetti per la pace, la nonviolenza, i diritti umani, la solidarietà, la cooperazione. Una cosa è certa: là dove sono sorte il lavoro per la pace, la nonviolenza e i diritti umani si è moltiplicato e potenziato. In molte città si sono attivate associazioni o si sono costituiti comitati per realizzare qualcosa di simile a una casa o centro per la pace. Ci sono stati segnalati non poche difficoltà o insuccessi. Ci vuole esperienza: come motivare le altre associazioni e il volontariato? come destare l’interesse e la collaborazione degli enti locali? quali forme giuridiche e organizzative scegliere nei vari contesti? come affrontare i problemi finanziari? come gestire in modo efficace gli spazi ottenuti? Il Movimento Nonviolento ha esperienza e competenza: dovrebbe metterle a disposizione.
Allo stato attuale non esistono ancora, tra le strutture già operanti, iniziative comuni, forme di coordinamento, di collaborazione, di sostegno reciproco. La necessità attuale di arrivare ad una federazione delle associazioni dell’area nonviolenta potrebbe già trovare una forma di aggregazione e di lavoro comune nell’impegno a dotarsi, a livello locale, di uno spazio operativo comune: la casa per la nonviolenza. Proprio a livello locale gli amici e gli iscritti del Movimento Nonviolento (già capitinianamante “centri di nonviolenza”) pur da soli possono diventare ispiratori e animatori di progetti finalizzati alla realizzazione o di case e centri per la nonviolenza propri del Movimento Nonviolento o di case e centri per la pace come strutture pubbliche aperte e sostenute dagli enti locali e dalle altre associazioni interessate.
Fatta questa premessa la commissione presenta al Congresso la seguente
MOZIONE
Considerato che il MN è in grado di esercitare azioni di stimolo e di offrire un aiuto competente a quanti in Italia aspirano a costituire “Centri e Case per la Pace” sulla base di modelli nonviolenti già sperimentati, l’Assemblea del XIX° Congresso impegna il Movimento stesso a realizzare le seguenti iniziative:
1. completare (verificando con visite e con controlli sul campo, l’esistenza, il tipo di attività, le metodologie di lavoro, il tipo di organizzazione ecc.) il censimento delle strutture esistenti, già iniziato in occasione del Primo Convegno Nazionale delle Case per la Pace e la Nonviolenza, tenutosi a Vicenza il 28 novembre 1998;
2. Pubblicare un repertorio analitico delle Case e Centri per la Pace utilizzando le informazioni raccolte con il censimento;
3. Organizzare per il 2.000 presso una struttura del Movimento Nonviolento il 2° Convegno delle Case e dei Centri per la Pace, invitando al confronto tutte le realtà censite;
4. Promuovere il coordinamento nazionale e lo scambio di informazioni e collaborazioni tra queste istituzioni. In particolare proporre a tutte almeno una iniziativa annuale comune che renda visibile l’esistenza di questo coordinamento;
5. Promuovere una campagna per far nascere in Italia nuove case e centri per la pace e la nonviolenza sia stimolando amici e iscritti del MN, sia interessando i rappresentanti degli enti locali e di altre associazioni potenzialmente interessati. A tal fine sarà promosso un incontro di lavoro con il Centro diritti umani di Padova, la UNIP, e il Coordinamento Enti Locali per la Pace di Perugia per iniziative congiunte rivolte a diffondere sul territorio e a qualificare le Case e i Centri per la pace e a predisporre gli strumenti operativi e di lavoro (quali bozze di delibere, regolamenti, voci di bilancio, ecc.).
Marcia “specifica” della nonviolenza:
2000 anno della cultura di pace
(approvata all’unanimità, con un voto contrario)
Il XIX congresso del M.N., constatato che:
negli ultimi anni l’Italia ha partecipato a due guerre (Golfo e Kosovo) in spregio al dettato costituzionale di ripudio della guerra;
il movimento pacifista fatica a costruire e a far emergere all’attenzione dell’opinione pubblica un’alternativa credibile alla guerra;
ritenuto necessario favorire un coordinamento dell’area nonviolenta, in particolare con il MIR ma anche con tutte quelle associazioni che negli ultimi anni si sono avvicinate alla nonviolenza da strade diverse (volontariato e organizzazioni non governative impegnate per un nuovo modello di sviluppo e per rapporti internazionali basati sulla cooperazione), al fine di attivare ogni positiva sinergia di persone, idee e mezzi;
raccolto l’invito di Piero Pinna di dar vita nel 2000, anno internazionale della cultura di pace, ad una marcia specifica degli amici della nonviolenza riprendendo lo spirito della 1ª marcia Perugia-Assisi di Aldo Capitini;
preso atto della disponibilità del MIR a copromuovere la marcia;
impegna gli organi collegiali:
a prendere contatto, tramite una lettera firmata assieme al MIR, con le altre associazioni che possono essere interessate ad avviare un percorso comune nell’area della nonviolenza, che si esprima in un primo momento comune nella marcia per la nonviolenza nell’anno 2000;
a preparare, inoltre e comunque, assieme ai movimenti promotori della marcia, una carta per la nonviolenza che oltre come manifesto di indizione della marcia possa costituire una traccia di percorso comune per i prossimi anni.
Lotta e alternativa alle spese militari
(approvata all’unanimità, salvo il penultimo paragrafo –in corsivo- che è stato approvato, con 21 voti favorevoli, in contrapposizione ad una mozione che prevedeva la ripresa della Campagna OSM e che ha ricevuto 4 voti)
Il M.N. plaude al fatto che sempre più giovani facciano richiesta di svolgere il servizio civile in alternativa al servizio militare e considera altresì un fatto estremamente positivo che la percentuale di chi rifiuta il servizio militare abbia raggiunto la soglia del 50% degli obbligati alla leva.
Ma di fronte ai tentativi di annullare l’obiezione di coscienza, sia attraverso una riforma dell’obbligatorietà del servizio di leva, sia tramite insufficienti stanziamenti per una corretta gestione del servizio civile, il M.N. dichiara fin d’ora di impegnarsi in primo luogo per il rispetto e l’applicazione della legge di riforma del servizio civile (230/98), soprattutto per quanto riguarda il diritto soggettivo dell’O.d.C. (art. 1) e alla possibilità di svolgere il servizio civile nel campo della difesa civile e nonviolenta. (art. 8).
Il M.N. ribadisce il proprio impegno alla preparazione e formazione degli O.d.C. e non tralascerà di battersi affinché la proposta di legge di opzione fiscale (diritto di obiezione alle spese militari) riprenda il suo cammino legislativo fino ad una conclusione positiva.
Il M.N., di fronte al raggiungimento di alcuni obiettivi a seguito dell’evento positivo dovuto all’approvazione della legge 230/98, ha ritenuto di dichiarare conclusa la Campagna di obiezione alle spese militari avviata nel 1982.
In presenza di precise scelte politiche guerrafondaie e di tradimento del dettato costituzionale nonché della carta costitutiva dell’ONU ci dichiariamo pronti a intraprendere, avviare e proporre forme di disobbedienza civile e di noncollaborazione.
Nel quadro di una più generale opposizione alla preparazione ed all’uso della violenza armata, anche da parte degli Stati, e nell’ottica della elaborazione ed attuazione di un modello di difesa popolare e non armato, rispettoso della vita e delle opinioni di tutti, alternativo agli eserciti armati siano essi di leva o di mercenari così detti “professionisti”, il Congresso impegna gli aderenti e gli organi del Movimento a moltiplicare le iniziative idonee a smuovere l’indifferenza ed a far crescere il dissenso della popolazione generale nei confronti della preparazione e dell’uso della violenza armata.
Mozioni particolari
Federazione nonviolenta
Il Congresso decide di proporre agli altri movimenti dell’area nonviolenta -a cominciare dal M.I.R.-la costituzione della “Federazione italiana dei nonviolenti organizzati” (FINO) per coordinare le iniziative comuni e con l’obiettivo di raggiungere, nei modi e nei tempi ritenuti adeguati e necessari, anche strutture e forme organizzative comuni. La prima iniziativa da organizzare insieme, nel corso della quale sperimentare e proporre ad altri soggetti il patto federativo, sarà la Marcia per la Nonviolenza del 2000. unanimità
Marco, Emma e Gandhi
Il Congresso del Movimento Nonviolento -sezione italiana della War Resister’s International- preso atto delle posizioni politiche espresse dal Partito Radicale durante la guerra in Serbia e Kosovo di appoggio e condivisione dei bombardamenti Nato, considerato che da oltre un decennio i rappresentanti del Partito Radicale sono assenti dalla vita interna e organizzativa della WRI e dal confronto fra tutte le sezioni nazionali, chiede al Segretariato internazionale WRI di Londra, di avviare le procedure di cancellazione del Partito Radicale dalle associazioni aderenti all’Internazionale e di contestare ufficialmente l’utilizzo strumentale e distorta dell’effige di Gandhi nel simbolo radicale per “appropriazione indebita di immagine” procedendo in tal senso sul piano politico e legale. unanimità
Campagna Kossovo
Il Congresso impegna il Movimento stesso ad appoggiare in tutte le forme possibili la “Campagna per la nonviolenza e la riconciliazione in Kossovo” ed invita la Segreteria a mantenere e garantire la partecipazione continuativa agli incontri organizzativi della Campagna stessa. 3 astenuti
Riconvertire le caserme
Il Congresso richiede la riconversione delle caserme e degli altri immobili militari, a cominciare da quelli in via di dismissione, in centri di addestramento alla Difesa Popolare Nonviolenta nel quadro dell’attuazione dell’art. 8 della Legge n. 230 del 8 luglio 1998. In tale quadro il Congresso auspica la riconversione delle strutture di addestramento attualmente in uso al corpo militare dei paracadutisti di Pisa in struttura e servizi per la ricerca, lo studio, l’alta formazione ed il lavoro per la pace e la nonviolenza, per le istituzioni già operanti in Italia ed all’estero. unanimità
No al Concordato
La laicità dello Stato è condizione per una legalità democratica e per la piena cittadinanza. La libertà religiosa non ha bisogno di tutela particolare nell’insieme di una diffusa tenuta del quadro democratico. Ogni lesione alla libertà religiosa è, infatti, un vulnus alla politica delle libertà, e colpisce direttamente la vita democratica nel suo insieme. Uno stato democratico deve garantire anche la libertà religiosa con il diritto comune, altrimenti rivela un disegno di mutuo soccorso tra poteri per l’ordine sociale e la pace religiosa. Ancora una volta lanciamo un allarme per la situazione di consolidamento di vincoli concordatari nel nostro paese. Noi rifiutiamo, proponendone il superamento in sede di revisione costituzionale, il regime concordatario tra chiesa cattolica e stato italiano, riconfermato nel 1984. 6 astenuti
Raccomandazione
In Italia sono in atto confuse e sconcertanti interdipendenze tra chiesa e stato, vantaggi finanziari e patrimoniali per la chiesa, esenzioni, contribuzioni, garanzie, nuovi e vecchi privilegi (beni culturali – insegnamento della religione cattolica – versamento 8/1000). Particolarmente forte si manifesta l’attacco nel mondo della scuola, con forti ingerenze vaticane, fino a chiedere il superamento sostanziale e formale della Costituzione con semplici leggi ordinarie se non addirittura con decreti. Lanciamo un appello, e ci impegniamo per quanto ci riguarda, per arginare tali attacchi alla laicità della scuola e dello stato, per fermare il disegno restauratore confessionale, e per affermare i valori della reciproca salvaguardia della libertà, della piena cittadinanza, e della democrazia aperta. non posta in votazione
Ricordo di Aldo Capitini
(approvata all’unanimità)
Tante speranze di pace, nate dall’abbattimento del muro di Berlino, risultano pesantemente colpite dalla guerra contro la Jugoslavia e dalle tante guerre tutt’ora in atto nell’attenzione o nel silenzio degli uomini di oggi. In questa situazione si impone con particolare urgenza, in primo luogo qui a Pisa, nella sede dell’Università, il pubblico ricordo della vita e dell’opera a favore della nonviolenza e per il dialogo di Aldo Capitini, della sua iniziativa a favore della formazione della ragazze e dei ragazzi, delle giovani e dei giovani, delle donne e degli uomini al rifiuto della prevaricazione e dell’esclusione. Quest’anno, che segna il centenario della nascita di Aldo Capitini, è momento particolarmente adatto per richiamare i valori così duramente combattuti dal fascismo.
Per lo scioglimento della NATO
(approvata all’unanimità)
A dieci anni dalla caduta del muro di Berlino e dallo scioglimento del Patto di Varsavia, la NATO ha esaurito, se mai lo ha avuto, il suo ruolo di difesa dei Paesi aderenti da un potenziale attacco militare proveniente dall’URSS e dal suo sistema di alleanze. Nell’Europa occidentale, una serie di sollevazioni popolari, che hanno in larga misura assunto la connotazione di insurrezioni nonviolente, ha portato al rovesciamento dei regimi autoritari colà esistenti. Il M.N. ritiene che oggi l’alleanza militare della NATO e le altre alleanze militari regionali costituiscano un ostacolo insormontabile alla riforma, in senso democratico, dell’Organizzazione delle Nazioni Unite ed alla affermazione di un valido diritto internazionale. Il occasione del suo 19° congresso nazionale, il M.N. rinnova la sua richiesta di scioglimento della NATO e delle altre alleanze militari.
Un “gruppo giovani” interno al M.N.
(approvata all’unanimità)
Il motivo principale per cui si intende istituire un tale gruppo è dato dal fatto che attualmente non è presente un apparato “giovane” che si occupi di temi inerenti la nonviolenza e l’antimilitarismo, il pacifismo e l’ecologia. Le attività del gruppo andrebbero a toccare le sfere in cui è presente un numero considerevole di giovani, ai quali vengono proposte una serie di iniziative:
1) promozione delle tematiche nonviolente, con relativa divulgazione nei principali punti di riferimento (licei, università, biblioteche, librerie). In questi luoghi è possibile creare un canale di comunicazione nonviolenta tramite incontri organizzati con gli studenti, e presentazione del materiale informativo vario (Azione nonviolenta, libri, opuscoli). Come approccio esterno si prevede:
– partecipazione costante e continua ad incontri, manifestazioni, feste, convegni e concerti (centri sociali);
– presenza fissa con stand nonviolenti nelle principali vie e piazze delle città;
– volantinaggio al di fuori delle caserme e dei distretti militari, con propaganda di materiale antimilitarista;
– boicottaggio delle multinazionali Nestlè, Nike ecc., con diffusione di relativo materiale informativo nei Licei e Università.
2) Attività culturali: programmazione di un cineforum a tema, con appuntamento settimanale;
3) Attività interna: corso di formazione di obiettori di coscienza;
4) Parte tecnica: si prevede la tessera “Giovani nonviolenti” (possono iscriversi tutti coloro che non abbiano ancora compito 35 anni). La quota di iscrizione è di L. 20.000, l’abbonamento alla rivista Azione nonviolenta L. 20.000; l’iscrizione con l’abbonamento L. 35.000.
Nuove esperienze di gestione dell’organizzazione
(approvata con 7 astenuti e 3 contrari)
1. Cosa significa dare possibilità alle diverse forme espressive degli individui nella vita di un’organizzazione? Come eliminare una superstizione? Come dice Peter Kammerer, “le organizzazioni non hanno successo se il corpo parla”.
2. Sembra che dare voce, nei momenti organizzati di “alto” e “basso” profilo al “pensare del corpo” sia improduttivo, eppure le organizzazioni produttive di beni e servizi, che devono misurarsi ogni giorno con il consenso interno dei loro collaboratori ed esterno dei loro clienti, stanno lavorando molto per valorizzare anche la parte creativa, emozionale dei loro collaboratori e dei destinatari dei loro prodotti/servizi.
3. Sembra utile usare nei prossimi due anni, fino al prossimo congresso, il lavoro gli stimoli ed eventuali contributi successivi di Kammerer o altri interlocutori per mettere a disposizione, attraverso Azione nonviolenta, di un gruppo di discussione il seguente materiale: a) esperienze di vita organizzata dove si realizzano queste indicazioni; b) riflessioni sulle esperienze; c) materiale di aiuto per introdurre tutti i sensi nella gestione dell’organizzazione. I risultati vanno valutati sia nella gestione del processo (i diversi momenti di incontro organizzati) sia nella realizzazione degli obiettivi che i diversi tipi di incontro debbono produrre (decisioni, discussioni, approfondimenti…).
DECALOGO MEDITERRANEO / 9
Coltivare l’imprudenza per raccogliere la vita a piene mani
di Christoph Baker
Tre tipi di anime, tre preghiere:
1) Sono un arco nelle tue mani, Signore, tendimi affinchè io non marcisca.
2) Non tendermi troppo, Signore, che mi romperò!
3) Tendimi troppo, Signore, e chi se ne importa se mi rompo!
– Nikos Katzanzakis
Basta!
Basta chinare la testa. Basta dire sempre di sì. Basta adeguarsi.
Se questo fine millennio non è il trionfo della borghesia!!! Quelli con l’alito sempre pulito. Che odiano la puzza, anche se invece è sapore di aglio e timo, se è alga dopo la tempesta, se è cantina di Montefalco. Quelli che hanno i bambini iscritti a tutti i dopo scuola, e la babù-sitter con la patente e la monovolume che così neanche il gusto dei piedi nelle pozzanghere. E le vacanze al villaggio turistico, che sia Repubblica Dominicana, Bali, Malindi o Marina di Bibbona, non vedi nessuna differenza. E cambiare la macchina ogni anno, e sai lo strazio di dover decidere fra la tedesca e la giapponese.
E la scuola che continua a riempire la testa dei nostri figli con cifre, operazioni, date, regole, teorie, sistemi, equazioni che non c’entrano niente con la vita, la vita vera. Scuola che fa finta che non esiste la pubertà, che non esistono i disastri dell’amore fra i genitori, che non esistono le menzogne degli stati e delle chiese, che non esistono le domande senza risposte, il dubbio, la meraviglia. E che ancora l’educazione all’ambiente te la sogni, al massimo se una maestra brava trova il modo di infilarla verso sera, fuori programma. E poi vai a fare il picnic e trovi la foresta come una discarica.
E la scuola materna – già, anche la scuola materna – che dice alla tua bimba di tre anni che i conigli comunque sono bianchi, neri o marroni, ma blu: NO!!! Mai blu!
Che dire poi del posto di lavoro? Obbedire, stare alle regole, fregare il tuo collega, imparare a fare copie a tutti dei tuoi memorandum. Costruire la tua carriera sulla non iniziativa, aspettare il passaggio automatico di livello (e se sono passati dieci anni della tua unica vita, pazienza!). Perdere il senso del perché fai quel lavoro e non accorgertene.
Vogliamo affondare la spada? Parliamo del piacere. A pagamento, ormai, strettamente a pagamento. Cinema. Concerto. Teatro. Discoteca. Ristorante. Gita sul lago. Arrivi al rifugio a 3000 metri e il pranzo costa 30.000 Lire: sono 10 lire al metro… La spiaggia? Ombrellone, lettino, doccia e piscina (tanto l’acqua del mare h sporca) e sborsi altrettanto! Ma io dico, se vedessi facce felici, sentissi risate spontanee, avessi l’impressione insomma che questo approccio garantisca l’allegria, non mi preoccuperei più di tanto. Ma non mi risulta…
Ma dove crollo, è di non sentire il minimo grido di protesta. Non ci sono moti di popolo. Non c’è un tentativo, anche approssimativo, di rivoluzione. Sembra che questo grigiore vada bene a tutti. Sembra che parole come esagerazione ed esuberanza siano diventato tabù, o patrimonio della letteratura dei secoli andati. Se uno si mette a urlare la propria gioia, il proprio dolore, la propria confusione, il proprio sogno mezzo alla folla, mezzo al ristorante, mezzo alla metropolitana, mezzo al condominio, mezzo alla piazza, tutti girano la testa dall’altra parte, tutti mugugnano. Si sentono i “fatelo star zitto!”, i “che schifo”, i “bisognerebbe rinchiuderlo”, e così via. Nessuno che gli vada incontro a condividere qualcosa.
Mamma mia!
Viviamo l’epoca del conformismo grigio, appiattito, glauco, dall’encefalogramma dei desideri piatto. Come robot, accettiamo di incanalarci sui binari predisposti della società del lavoro, della produzione, del consumo. Ogni pubblicità che ci bombarda di stupidità ci caccia sempre più in un angolo lontano e buio della nostra esistenza. E l’ordine regna sovrano: l’ordine dell’egoismo, l’ordine della solitudine, l’ordine del lento spegnersi. Non si spiega altrimenti com’è possibile che accettiamo silenziosi di essere ogni giorno più alienati dalla nostra vita, di essere sempre di più un numero, una statistica, un pezzo di una grande macchina che ci è scapata dalle mani. Solo per conformismo, per non smuovere le acque, per non fare piangere le mamme, per non disturbare i padri. Per non farsi mostrare col dito dai vicini, che chissà cosa pensano di noi, i vicini? I vicini con cui a malapena scambiamo un buongiorno ogni tanto, anzi sperando proprio di non trovarseli davanti sul pianerottolo troppo spesso…
Ecco il vero volto dell’illuminismo occidentale, del positivismo indottrinato, della dialettica hegeliana, del riduzionismo materialista, del determinismo utilitaristico: un oceano di svogliati alla deriva. Di poveri cristi che sperano solo di arrivare a stasera senza sussulti, senza confronti, senza crisi di coscienza. Di sparire nel proprio buco, accendere il televisore, e non chiedersi mai se oggi non sia stata l’ennesima occasione perduta, l’ennesimo passo avanti sui binari morti di una esistenza svenduta in nome della “normalità”. Parola orrenda.
Che cos’è normale?
E’ normale fare le guerre? E’ normale sopraffare gli altri? E’ normale accettare di abbandonare i propri sogni? E’ normale riempire il cervello dei nostri figli con delle regole, teorie e definizioni che non servono a niente? E’ normale vedere chiudere i piccoli alimentari e aprire sempre più iper-supermercati? E’ normale essere bloccati per ore in un ingorgo? E’ normale perdere l’olfatto ed il sentire? E’ normale che non si insegni musica a scuola? E’ normale che uno guadagna miliardi? E’ normale che ancora si muoia di fame?
Sembrerebbe di sì…
Ebbene, non mi interessa la normalità allora! Vuoi per un retaggio “protestante” di cui mi risulta difficile sbarazzarmi del tutto, vuoi per averne proprio pieno le tasche di annoiarmi così tanto, vuoi per un istinto di sopravvivenza dell’anima e del cuore, mi sembra che sia urgente creare un po’ di scompiglio nell’ordine oleato delle cose. Mi guardo dentro e mi spaventa come ho perso l’attitudine alla sovversione, come mi sembrano lontani i tempi dei voli pindarici, dello stupore genuino, dell’arrabbiatura sacrosanta, del buttarsi senza freni nella mischia, dell’urlare a pieni polmoni tutto il proprio dissenso. Certo, mi rendo conto che questo è invecchiare, che non è altro che il lento scorrere del fiume tranquillo della vita. Tuttavia, non riesco a convincermi dentro che il fuoco è ormai spento, che tocca ad altri portare avanti le battaglie.
Probabilmente il nodo più grosso da superare è la propensione inculcata che abbiamo a calcolare tutto. Ogni nostro gesto, ogni nostra azione ancora prima di esistere deve tendere ad un risultato per cui “vale la pena” eseguirlo. Così, ovviamente, finiamo con fare ben poco per cambiare lo status quo. E non facendo nulla, lo rafforziamo.
Oggi, è imperativo riscoprire il valore del rischio. Il rischio che è innanzitutto rimettersi continuamente in discussione e in gioco. Rischio che è abbracciare la gratuità e la generosità, cose che per definizione muoiono se devono avere una finalità, che diventano sotterfugio, bugia, presa in giro, se non sono innocenti e pure. Rischio che è linfa vitale, richiamo ancestrale dell’abisso, istinto spontaneo proveniente dalle viscere. Siamo stati fin troppo prudenti negli ultimi secoli (non parlatemi dell’uomo nello spazio, vi prego…), ad inseguire filosofie materialiste che cercano di soffocare le nostre paure, dopo che le religioni (più precisamente le baracche che hanno costruito sopra le religioni) hanno miseramente fallito in questo intento.
Allora, dobbiamo coltivare l’imprudenza. Dobbiamo esagerare. Avanzare sul ramo senza timore, nuotare verso l’orizzonte, e quando serve, sputare nel vento. C’è una tempesta dentro ognuno di noi che aspetta di esplodere. Oggi come oggi, quando succede l’esplosione, finiamo dal medico, dallo psichiatra, comunque in qualche “officina di riparazione” per eliminare il guasto. Invece, io sogno questa esplosione come liberazione. Dov’è scritto che un’esplosione è per forza negativa, da evitare, da disinnescare? Se fosse invece un cerchio di fuoco attraverso il quale saltare verso la leggerezza, lo stupore, l’immensità dello sconosciuto?
La vita va bevuta a grandi sorsi. Va presa per la vita e portata a spasso in un tango vertiginoso. Va inseguita a perdifiato come si insegue un amore impossibile. Per lei, si deve anche contemplare il salto nel vuoto, lo schianto contro le leggi della fisica, l’abbandono di tutte le certezze. Si tratta di guardare l’assurdo negli occhi – e ridere. Prendere il dolore per le corna – e sviscerarlo. Conoscere a memoria la propria inadeguatezza – e ridicolizzarla. Se sappiamo di non essere niente, che c’importa di tuffarci nella solitudine più eclatante, più pura, più salutare: quella dei falliti? La solitudine che h punto di partenza e richiamo al nostro destino.
L’imprudenza non è mica un segno di distrazione. L’imprudente non è per forza uno sprovveduto, nè un irresponsabile. Cercare di essere meno sotto controllo, non vuol dire automaticamente essere inaffidabili. Lasciamoci alle spalle i nostri auto-inganni, questa maledetta tendenza a castrarci da soli. Ben vengano gli schiaffi duri per gli sbagli madornali, a me i pugni nello stomaco per aver osato troppo, mi sia dato il gusto amaro di troppe parole giuste dette nei momenti sbagliati. Voglio chiedere scusa, dopo avere fatto qualcosa per cui chiedere perdono. Il peccato non lo delego agli altri! Non accetto che me lo abbiano già codificato.
Tutto questo per dire che si può anche errare, ma solo se ci si mette in cammino. Ogni vero viaggiatore, poi, sa bene che mettersi in cammino vuole dire per forza essere pronto a commettere chissà quante infrazioni ai codici, prendere chissà quante strade sbagliate, tornare chissà quante volte sui propri passi, dubitando a volte di avere mai fatto un benedetto metro in avanti. L’importanza non h il traguardo in quei casi, ma il movimento. Anche il movimento sublime dell’ozio: quel stare ore senza fare un tubo è a volte l’imprudenza più grande che uno possa compiere. Vuole dire lasciare perdere appuntamenti, impegni, lavori, progetti che ci aspettano. Può essere la rottura definitiva con un comodo status quo, con convenzioni appaganti, con un conformismo subconscio. Ma può essere anche il risveglio dal letargo, il fulmine a ciel sereno, che ci butta in aria tutte le carte da gioco che avevamo faticato così tanto ad imparare ad usare. Solo per rendersi conto che alla fine non servono a molto.
Imprudenza mia, che mi hai fatto scoprire posti mai sognati, gesti ignorati, musiche sconvolgenti. Che mi hai spinto a scavalcare muri, scendere sotto terra, inseguire poeti maledetti, prendere per mano gnomi e furetti. Tu, che mi hai portato in alto sopra lo strapiombo un giorno di violento Mistral e mi hai sussurrato: “vola”. E io mi sono buttato e ho volato davvero. Rimarrà per sempre l’emozione di un istante, sospeso nell’aria, senza più toccare terra. Quel giorno ho capito Icaro. A quella falesia ci torno spesso, per inquadrare bene gli ottanta metri di vuoto che mi aspettavano se quel giorno il vento avesse smesso per un attimo di soffiare. Ho imparato che l’imprudenza ha molto a che fare con la fiducia.
Imprudenza che mi hai gettato nelle braccia dell’amore, quando pensavo erano quelle di una donna. E poi di un altra. Senza “pause di riflessione”, promettere tutto per sempre dal profondo del cuore. Entrare dentro un altro essere umano e sentire l’amore passare da un corpo all’altro e uscire dagli occhi dell’amata per rientrare nei propri occhi. Avere fatto il viaggio senza bagaglio, essere partito alla cieca, senza paure e senza rimpianti. E un giorno scoprire che l’amore se n’è andato, che in mezzo a tutte le sciocchezze che ci inventiamo per regolare i nostri impulsi amorosi, non c’era più spazio per respirare. E così dover rendersi all’evidenza che abbiamo perso il sogno per mancanza d’imprudenza. Perché ad un certo momento sembra più importante tranquillizzare la vita in comune, che non alimentarla di sorprese e di dubbi. L’amore non sopravvive alle convenzioni e alle certezze.
Imprudenza che mi hai fatto naufragare sulla spiaggia della malinconia e della disperazione. Per avere creduto – come credo ancora – che l’uomo non sia fondamentalmente cattivo. Che vi è in ognuno di noi fino alla fine la possibilità di ricominciare a sognare. Di avermi fatto scommettere sulla generosità e la gratuità, mentre tutto intorno è egoismo e calcolo. Anni ad inseguire utopie umane, fatte di fragilità ed emozioni, cariche di speranza e di calore, utopie via via ridicolizzate dal trionfo del freddo razionalismo. Non avere fatto in tempo ad imparare le difese d’ufficio, non aver costruito una corazza di cinismo (come i nostri maestri ci vorrebbero insegnare), non essere stato capace di nascondere le emozioni…
Ed ecco il resto della vita davanti a me.
E cosa fare? Imparare oggi quello che in quarant’anni non è riuscito a convincermi? Montare la guardia? Scavare un fosso tra me e gli altri? Affilare le armi? Blindare porte e finestre? Parlare in codice? Nascondere il male dentro? Fare finta? Spegnere il fuoco volontariamente? Bere solo acqua???
Giammai!
Si riparte peggio di prima. Tanto vale prendersi altre belle paure! E anche senza nessuna garanzia, scommettere di nuovo che il viaggio verso l’incognito sarà sempre più ricco del parcheggio dei nostri luoghi comuni. Certo, più ammaccato, il cuore magari zoppicante, l’animo forse rauco, gli occhi un po’ più socchiusi, ma si riparte. Si riparte all’incontro con l’abisso. Si lasciano dietro le terre tranquillizzanti delle spiegazioni, delle equazioni, delle regolazioni. Come compagni di strada, il caos fuori e il caos dentro. Camminare sul filo teso sopra il baratro. Imparare a ingoiare insieme l’amarezza del rifiuto e la dolcezza dell’affetto. Provare di non avere mai più ragione, anche subendo tutti i torti. Abituarsi alle catastrofe, soprattutto a quelle di produzione propria. Sapere che i porti sono per salpare più che per attraccare. Diffidare della felicità che si nutre di se stessa. Non aspettarsi niente in cambio di una totale fiducia nella vita. Spogliarsi di tutti gli strati e lasciare che il vento gelido come il sole di piombo riempiano le vene e le viscere. Ricordarsi che il mondo non è solo fatto di esseri umani.
Alzo un calice medievale di peltro, colmo di vino nero alcolico assai. Lancio la sfida a tutti i demoni e a tutti i miraggi, alle lusinghe come ai rimproveri. Do appuntamento a tutti in fondo al viale del tramonto. Voglio vedere chi ci sarà, come saremo ridotti, e soprattutto chi saprà ancora cantare a squarciagola e ballare fino all’alba sotto il cielo stellato. Se non ce la faccio, mi rimarrà comunque per sempre il dolce ricordo di averci provato…
LA NONVIOLENZA NELLA LETTERATURA / 9
I promessi sposi e la lotta all’ingiustizia
dI Claudio Cardelli
Se mi si chiede di indicare un romanzo italiano in cui la nonviolenza è il tema centrale, rispondo senza esitazione: I promessi sposi del Manzoni (1785-1873) . Ricordiamone brevemente la trama.
In un paesino vicino a Lecco un signorotto locale, don Rodrigo, circondato da una masnada di “bravi”, ha adocchiato una bella popolana (Lucia) e vuol farla sua . Ordina al parroco (don Abbondio) di non celebrarne il matrimonio con Renzo e tenta anche di rapirla, ma la spedizione dei suoi uomini fallisce .
Si rivolge, nel suo intento, a un signore più potente, l’innominato, il quale la rapisce dal convento di Monza, ma poi è preso dal rimorso, incontra il cardinale Federigo Borromeo e la libera . La peste, che infuriava nel milanese (1630), si porta via don Rodrigo: Renzo e Lucia, dopo tante traversie, possono finalmente sposarsi .
L’intero romanzo può essere visto come uno studio sui vari modi di reagire a un’ingiustizia: la prevaricazione di don Rodrigo .
Don Abbondio, che “non era nato con un cuor di leone”, è spaventato dall’intimazione fattagli dai “bravi”: “questo matrimonio non s’ha da fare”; si chiude in casa e l’indomani, quando Renzo si reca da lui per gli ultimi accordi, cerca di prendere tempo, di imbrogliare le carte . Col suo comportamento pavido e docile ai comandi di don Rodrigo, si fa complice dell’ingiustizia .
Fra Cristoforo prende coraggiosamente le parti dei “promessi” e cerca di convincere don Rodrigo, di farlo recedere dal suo proposito, ma non vi riesce (cap.VI) . Don Rodrigo, valendosi dell’aiuto di un parente potente, il conte zio, lo fa allontanare dal convento e trasferire d’autorità a Rimini . Il frate, che in giovinezza ha ucciso in duello un prepotente, ha fatto una scelta rigorosa di nonviolenza cristiana e, nel finale del romanzo (cap.XXXV), convince Renzo a perdonare don Rodrigo morente al lazzaretto .
Renzo, che è un giovane impulsivo, vorrebbe farsi giustizia da sé; tenta anche di sorprendere don Abbondio e di sposare Lucia col sotterfugio, ma il tentativo fallisce per la pronta reazione del parroco . Riparato a Milano, manifesta pubblicamente la propria rabbia verso gli oppressori, viene considerato un pericoloso agitatore e deve fuggire a Bergamo nel territorio della Repubblica Veneta .
La nonviolenza del cardinale
Un’adesione consapevole alla nonviolenza è presente nel cardinale Federigo Borromeo, che in un intenso colloquio (cap.XXIII) porta l’innominato alla conversione e lo indirizza sulla via del bene, consigliandogli di liberare immediatamente Lucia prigioniera nel suo castello.
In visita pastorale al paese dei “promessi” ammonisce poi don Abbondio, richiamandolo ai doveri di sacerdote: quello del cardinale è un discorso organico in cui viene illustrato il comportamento del cristiano nei confronti dei violenti .
Don Abbondio stava a capo basso: il suo spirito si trovava tra quegli argomenti, come un pulcino negli artigli di un falco, che lo tengono sollevato in una regione sconosciuta, in un’aria che non ha mai respirata . Vedendo che qualcosa bisognava rispondere, disse, con una certa sommissione forzata: “Monsignore illustrissimo, avrò torto . Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire .
Ma quando s’ha che fare con certa gente, con gente che ha la forza, e che non vuol sentir ragioni, anche a voler fare il bravo, non saprei cosa ci si potesse guadagnare .
E’ un signore quello, con cui non si può né vincerla né impattarla”.
“E non sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vincere? E se non sapete questo, che cosa predicate? Di chi siete maestro? Qual è la buona nuova che annunziate ai poveri? Chi pretende da voi che vinciate la forza con la forza? Certo non vi sarà domandato, un giorno, se abbiate saputo fare stare a dovere i potenti; che a questo non vi fu dato né missione né modo . Ma vi sarà ben domandato se avrete adoprato i mezzi ch’erano in vostra mano per far ciò che v’era prescritto, anche quando avessero la temerità di proibirvelo (cap.XXV) . (….)
Ma quell’uomo che fu tanto ardito, credete voi che non gli si sarebbe scemato punto l’ardire, quando avesse saputo che le sue trame eran note fuor di qui, note a me, ch’io vegliavo, ed ero risoluto d’usare in vostra difesa tutti i mezzi che fossero in mia mano?
Non sapevate che, se l’uomo promette troppo spesso più che non sia per mantenere, minaccia anche non di rado, più che non s’attenti poi di commettere? Non sapevate che l’iniquità non si fonda soltanto sulle sue forze, ma anche sulla credulità e sullo spavento altrui?” (cap.XXVI) .
La nonviolenza è disseminata a piene mani nel capolavoro del Manzoni: se si volessero portare altri esempi, non si finirebbe più . Tutta l’opera è pervasa da uno spirito aperto, fraterno, fiducioso nella bontà della vita e nella Provvidenza divina .
Annotava Benedetto Croce: ”Soglio rileggere questo libro periodicamente e ne traggo sempre commozione e conforto, e sempre rinnovata ammirazione per la perfezione della sua forma” .
FINO A FINE ANNO
Servizio Civile: pochi soldi, tanti congedi
di Stefano Guffanti
Nei mesi scorsi si era evidenziato che lo stanziamento previsto, per il Servizio Civile, dalla Finanziaria 99, non fosse sufficiente a coprire le spese dell’anno in corso, con conseguente sospensione della partenza di nuovi scaglioni di obiettori e blocco delle paghe agli obiettori e rimborsi agli enti.
Ora il Governo, con il D.L. 324, 16.09.99 e la successiva Circolare del 22.09.99, ha stabilito:
Uno stanziamento di 51 miliardi, per consentire la conclusione dell’esercizio 99 del servizio civile.
Una quota massima di obiettori da avviare al servizio civile (60.000 persone per il 99), non disponendo di risorse finanziarie sufficienti a coprire l’immissione in servizio di tutti gli obiettori in attesa di assegnazione.
Le modalità per dispensare dal servizio gli obiettori in esubero.
Le condizioni per ottenere la dispensa, sono:
particolari situazioni economiche o familiari e responsabilità lavorative, di conduzione d’impresa o assistenziali;
svolgimento di attività scientifica, artistica, culturale, con acquisizione di particolari meriti in campo nazionale o internazionale;
grado di idoneità somatico-funzionale o psico-attitudinale attribuito in sede di visita di leva, rispetto all’area vocazionale e al settore di impiego;
disponibilità all’impiego di obiettori nell’area vocazionale indicata dall’obiettore e/o nell’ambito della regione indicata nella dichiarazione di obiezione; quest’ultimo punto è di particolare interesse perché, viste le modalità di assegnazione adottate dal Ministero della difesa in teoria, permetterebbe di chiedere la dispensa a migliaia di giovani.
Di congedare, su apposita richiesta degli interessati, gli obiettori già in servizio che rientrano nelle condizioni suddette.
Di concedere un precongedo, fino ad un periodo massimo di 30 gg, ad interi scaglioni di obiettori già in servizio, nel caso in cui, malgrado la concessione delle dispense agli obiettori in attesa e dei congedi agli obiettori in servizio, risultassero ancora obiettori in esubero.
La documentazione per la concessione della dispensa va inviata all’Ufficio Nazionale per il Servizio Civile, Via S. Martino della Battaglia, 6 – 00185 Roma; la mancata risposta, da parte dell’Ufficio Nazionale, entro il termine di 60 gg, comporta l’accoglimento automatico della richiesta di dispensa o di congedo.
Si ricorda, infine, che i giovani dichiarati abili prima del 01.01.99 e, attualmente, sotto rinvio, avranno tempo solo fino al 31.12.99 per dichiararsi obiettori di coscienza (Legge 230/98, art. 4 comma 3).
Dopo tale termine, infatti, non sarà più concesso di presentare dichiarazione di obiezione di coscienza a chi è stato fatto abile in base alla vecchia normativa sulla visita di leva, modificata dal D.L. 504.
La presentazione della dichiarazione di obiezione non impedirà di continuare ad usufruire del beneficio del rinvio se, il giovane, continua ad averne titolo.