• 18 Dicembre 2024 16:11

Azione nonviolenta – Novembre 2002

DiFabio

Feb 4, 2002

Azione nonviolenta novembre 2002

– 1972-2002 Dall’obiezione di Coscienza al servizio civile, trent’anni dopo
– Diario di un’obiezione dal carcere militare
– Le 10 parole della nonviolenza: Coscienza
– La pace di Bozen, la Vittoria di Bolzano
– Nella città laboratorio della convivenza è riscattata la trappola dell’etnicità

Rubriche

– Lilliput
– Alternative
– Economia
– Musica
– Cinema
– Educazione
– Libri

Il vero volto del terrorismo non è quello che vediamo

di Mao Valpiana

Non sapremo mai come sono andate veramente le cose nel teatro di Mosca dove un gruppo di 50 sequestratori ceceni (terroristi? partigiani? disperati?) ha preso in ostaggio 700 persone del pubblico; non sapremo mai cosa è accaduto quando le teste di cuoio sono entrate nel teatro; non sapremo mai che tipo di gas è stato usato; non sapremo mai come sono morti i terroristi e perché non hanno fatto saltare le loro bombe. Anche questa volta la cosiddetta “ragion di stato” ha prevalso sulla vita umana (una storia che in Italia abbiamo già conosciuto, da Piazza Fontana al caso Moro). Sappiamo solo che la loro richiesta era il ritiro dell’esercito russo dalla Cecenia e che il blitz militare ha prodotto centinaia di morti innocenti.
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La Cecenia è una delle tante “guerre dimenticate”, che il mondo non conosce perché da quel lontano angolo non filtrano le informazioni. Non ci sono telecamere e inviati speciali di grandi televisioni a mostrarci i massacri quotidiani. E quando ci sono, vengono fatti fuori. E’ il caso di Roderick John Scott, un giornalista britannico nato nel 1973 e morto in Inguscezia il 26 settembre 2002, mentre cercava di documentare, forse troppo da vicino, le azioni dell’esercito russo contro i guerriglieri ceceni. Dalle scarsissime notizie su questo crimine di guerra risulta che Roddy era un collaboratore della tv londinese “Frontline Television News”, e portava con sé una videocamera, delle cassette, e un passaporto britannico con visto georgiano. Come mai questo giornalista non ha meritato neppure una riga di commemorazione, mentre per Maria Grazia Cutuli si è mobilitata la stampa internazionale? Forse morire ammazzati da un soldato russo è meno interessante che morire uccisi da un talebano?
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Il territorio della Cecenia è militarmente occupato dall’esercito russo. Il popolo ceceno, che resiste alla truppe di occupazione, sta subendo un vero e proprio genocidio. Del tutto simile a quello perpetrato verso i Curdi per mano del regime di Bagdad. E per lo stesso motivo: sbarazzarsi di una etnia radicata che impedisce il processo di omologazione nazionale e conquistare un territorio strategico per le fonti energetiche. Dunque se Saddam Hussein è colpevole di crimini contro l’umanità per il massacro di curdi, Vladimir Putin lo è altrettanto per il massacro di ceceni.
Nonostante il Muro di Berlino sia stato abbattuto da più di dieci anni, il mondo è ancora spartito fra le due superpotenze: Putin ottiene il via libera contro la Cecenia, ed in cambio Bush si porta a casa il nulla osta contro l’Irak. Il terrorismo attuato da gruppi di ceceni, di palestinesi, di afghani, di thailandesi, è certamente disumano, criminale, inaccettabile, ma è semplicemente lo specchio di un terrorismo (questo sì internazionale) mille volte più potente, messo in atto dalle superpotenze e dalle loro politiche di potere. Violenza chiama violenza, morte chiama morte.
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Una domanda intrigante. Facciamo finta che un gruppo di terroristi palestinesi faccia un sequestro di centinaia di persone in un teatro americano; facciamo finta che Bush decida di intervenire con il gas nervino e riesca a sterminare i sequestratori, facendo però centinaia di vittime anche fra i sequestrati. Cosa accadrebbe nel mondo? Cosa direbbe l’opinione pubblica? Cosa farebbero i pacifisti? Non penso che la reazione sarebbe così “misurata” come lo è stata per la vicenda di Mosca. Forse c’è un’inconfessabile differenza di simpatia verso gli americani e verso i russi? La causa cecena ha un peso minore della causa palestinese?
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La nonviolenza attiva, dei forti, cerca la verità ovunque essa si trovi; vuole l’alternativa alla guerra a partire dal rifiuto della sua preparazione. “Contro la guerra dobbiamo essere duri come pietre” diceva Aldo Capitini, che nel fondare il Movimento Nonviolento ha voluto mettere al primo punto “l’opposizione integrale alla guerra”. A tutte le guerre. Anche alla guerra “preventiva” contro Saddam Hussein. Anche alla guerra del regime irakeno contro i curdi. Anche alla guerra contro il terrorismo. Anche alla guerra di Bin Laden contro l’America. Anche alla guerra dei kamikaze palestinesi contro gli israeliani. Anche alla guerra di Sharon contro la Palestina. Anche alla guerra dei russi contro i ceceni. Gandhi preferiva i violenti ai codardi, è vero. Ma per sé ha scelto la terza via (o l’unica via) della nonviolenza: una via stretta e difficile che oggi passa insieme per le strade della Cecenia e dell’Iraq, contro ogni dittatura e contro ogni guerra.
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L’Obiezione ha 30 anni

La Legge che riconosce per la prima volta in Italia l’obiezione di coscienza al servizio militare e avvia il servizio civile è stata approvata nel dicembre 1972.
Dedichiamo gran parte di questo numero di Azione nonviolenta alla ricostruzione della storia di questi 30 anni, per capire quale futuro ci attende. Nel prossimo numero pubblicheremo interviste e commenti degli obiettori di ieri e di oggi.

1972 – 2002
DALL’OBIEZIONE DI COSCIENZA AL SERVIZIO CIVILE
Quale futuro per il servizio civile? Quale futuro per l’obiezione di coscienza?

1. Il primo riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza.
La legge “Marcora”: una legge approvata dietro pressioni dal basso.

Quando si arriva, dopo un ventennio di mobilitazione e numerosi tentativi di regolamentazione legislativa abortiti, all’approvazione definitiva della legge (1972) l’obiezione di coscienza in Italia è già fortemente politicizzata: nel febbraio ’71 c’era stata la prima dichiarazione collettiva di obiettori che motivavano politicamente il loro rifiuto del servizio militare. Nel ’72 ce ne furono altre tre. Gli obiettori, non Testimoni di Geova, sono chiaramente antimilitaristi e sono sostenuti da un Movimento sempre più diffuso e aggressivo. Nel biennio 71-72 la pressione antimilitarista sul Parlamento è fortissima ma all’interno di esso non ci sono forze politiche disposte a soddisfare la richiesta di una “legge giusta” per gli obiettori. Un primo testo di legge approvato al Senato nel Luglio 1971 è considerato dai diretti interessati limitativo, punitivo, repressivo. Le elezioni politiche anticipate della primavera del ’72, con la vittoria di uno schieramento di centro-destra, non migliora la situazione, anche se un PSI, non più al governo, sembra più disponibile a farsi portavoce delle istanze del movimento per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza.
Nell’estate-autunno 1972, una forte pressione dal basso (manifestazioni pubbliche in numerose città e di fronte ai Tribunali e alle carceri militari per solidarizzare con gli obiettori processati e incarcerati, invio di 12 mila cartoline ai presidenti delle due Camere per sollecitare la discussione dei progetti di legge, ma soprattutto un drammatico digiuno a oltranza di Alberto Gardin e Marco Pannella durato 39 giorni, cui si uniscono, l’ultima settimana, centinaia di militanti nonviolenti, radicali e obiettori in tutta Italia) costringe il governo a mettere all’ordine del giorno la discussione del progetto Marcora che, essendo stato già approvato dal Senato nel ’71, godeva della procedura abbreviata.
Si arriva così, senza perdere tempo, con una strozzatura del dibattito apparentemente giustificata dalla necessità di scarcerare prima di Natale un centinaio di giovani detenuti nelle carceri militari per motivi di coscienza, respingendo qualsiasi emendamento migliorativo, all’approvazione della famosa legge Marcora n. 772 del 15 dicembre 1972, che è il primo riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza in Italia.
Fu il risultato di un compromesso in Parlamento tra forze politiche assolutamente contrarie ed altre non del tutto persuase e anch’esse rispettose della logica della “ragion di stato”, tuttavia incalzate dalla propria base elettorale e dalle iniziative di qualche deputato più sensibile. Tutte comunque preoccupate di chiudere la partita perché le vicende degli obiettori incarcerati avevano provocato un notevole interesse dell’opinione pubblica intorno alle questioni militari e allargato il consenso verso l’antimilitarismo.
La retorica del momento volle che la stampa sottolineasse trionfalisticamente la “grande conquista di civiltà”, il “grande avanzamento fatto nell’affermazione dei diritti civili”, “l’allineamento del nostro Paese alle più avanzate democrazie occidentali”. Ma così non era, anche se una breccia era stata aperta nel nostro Ordinamento e si usciva da una situazione di immobilismo durata vent’anni. Così non era soprattutto per quanti la legge l’avevano sollecitata (gruppi antimilitaristi, nonviolenti, radicali, obiettori). Da questi fu subito salutata, a ragione, come una “legge truffa”. Tutto questo bisogna dirlo perché si capiscano successivamente le difficoltà relative all’applicazione della legge e alla istituzione del Servizio Civile.

2. Gli obiettori denunciano la “legge truffa” e fondano la Lega Obiettori di Coscienza (L.O.C.).

Quegli stessi obiettori, a cui questa legge apre le porte del carcere, sono i primi a restare insoddisfatti, a denunciarne i limiti, le contraddizioni, il carattere punitivo. E’ subito chiaro che essa non avrebbe posto fine al problema degli obiettori di coscienza. L’insoddisfazione per quella legge derivava da una crescita di coscienza degli obiettori, che era anche maturazione politica dei gruppi che avevano riflettuto e fatto riflettere sul problema dell’esercito, sulla funzione del potere militare nella nostra società, sul militarismo, sul problema della difesa armata e sulle spese militari.
Tutta la consapevolezza raggiunta (antimilitarista e nonviolenta) non poteva essere buttata via per una “legge qualsiasi”. L’obiezione di coscienza non era (come voleva qualcuno) un fatto esclusivamente personale, intimistico, espressione di fanatismo religioso, un disagio irrazionale e asociale da gestire legalmente con concessioni dall’alto per circoscrivere e arginare il contagio, ma aveva acquistato un più ampio significato sociale e politico che comportava l’impegno per la trasformazione di una società violenta in una società nonviolenta.
La legge appena votata stabiliva in modo restrittivo: a) i tempi entro i quali i giovani potevano dichiararsi obiettori e far domanda di riconoscimento sulla base di documentati e “imprescindibili motivi di coscienza”; b) l’accertamento della sincerità e fondatezza delle motivazioni affidato ad una commissione ministeriale di esperti. Inoltre assicurava alle autorità militari lo strumento repressivo della parificazione (a tutti gli effetti penali, disciplinari, economici) dell’obiettore al militare di leva. Riconfermava il suo carattere punitivo stabilendo per l’obiettore riconosciuto l’obbligo di svolgere un servizio civile 8 mesi più lungo di quello militare (allora erano 23 mesi, 32 per la Marina). La legge non specificava comunque le caratteristiche del servizio civile sostitutivo. Concedeva enormi poteri decisionali al Ministro della Difesa. Triste sorte prevedeva per gli obiettori non riconosciuti come “buoni” e per quanti dopo il riconoscimento avessero rifiutato il servizio civile sostitutivo: per essi erano previsti processi e condanne a pene variabili da 2 a 4 anni di reclusione. Mancavano, o risultavano stravolte, le condizioni che il movimento degli obiettori aveva dichiarato irrinunciabili in una legge che si potesse considerare “giusta”:- il riconoscimento automatico dell’obiezione di coscienza come diritto soggettivo;- la pari durata del servizio civile e di quello militare;- la smilitarizzazione del servizio civile.
Per questi motivi la legge approvata dal Parlamento venne considerata solo un parziale successo. Nella carta programmatica della LOC (Lega Obiettori di Coscienza), tempestivamente costituita il 21 gennaio 1973 da coloro che avevano partecipato alle lotte precedenti, si legge: “Questa legge è inadeguata, repressiva, discriminatrice, punitiva, ma rappresenta una prima conquista che va utilizzata, violata, superata perché la lotta riprenda più dura, più vasta, meno costosa, e numericamente più consistente”.

3. I primi tempi di applicazione della legge. Una interpretazione restrittiva e repressiva.

I primi tempi di applicazione della legge, che da un lato riconosceva il principio e l’esistenza dell’obiezione di coscienza e dall’altro sanciva e puniva severamente il “reato” di obiezione, per coloro che l’esprimevano in forma scomoda e non gradita, confermano il giudizio negativo già dato.
Non intendo qui raccontare tutti i fatti e misfatti relativi a questo periodo caratterizzato dalla continuazione dell’atteggiamento repressivo nei confronti degli obiettori politicizzati, dalla mancata regolamentazione della legge e dalla incapacità (ovvio!) del Ministero della Difesa di istituire un servizio civile nazionale. Ci limiteremo all’essenziale.
Il 31 dicembre 1972 in base alle norme transitorie della legge, tutti gli obiettori ancora in carcere sono scarcerati ma nei primi mesi del ’73 il Ministero della Difesa torna all’attacco contro gli obiettori. La Commissione che in base alla legge deve accertare “la validità dei motivi addotti dagli obiettori”, riunitasi per la prima volta il 25 gennaio, su 29 domande esaminate ne respinge 9. Gli obiettori “respinti” avevano già scontato periodi di carcere prima che entrasse in vigore la legge, ma la loro domanda ricalcava un modello in cui si adducevano motivazioni esclusivamente politiche. Ora la legge non riconosceva l’obiezione politica. Agli stessi viene subito consegnata la cartolina precetto con l’invito a presentarsi al CAR di destinazione. Il 17 febbraio viene persino arrestato il segretario nazionale della LOC, Roberto Cicciomessere. L’arresto avviene sulla base di un mandato di cattura, spiccato nel settembre ’72 in occasione della sua seconda obiezione di coscienza, che era stato sospeso per l’approvazione della legge Marcora. Nei mesi successivi ci sono anche le prime condanne per il reato di obiezione di coscienza “non autorizzata”, per aver presentato la domanda in ritardo o per non averla presentata. Pesanti condanne vengono inflitte ai Testimoni di Geova, i quali, per motivi religiosi, continuano a rifiutare il servizio militare e non intendono utilizzare l’alternativa di un servizio civile che è loro offerta dalla nuova legge. E’ in base a questa legge che il 7 aprile 1973 il Tribunale Militare di La Spezia condanna sette testimoni di Geova a un totale di 22 anni di carcere.
Non c’è bisogno di aggiungere altri esempi per far capire in che misura restrittiva e repressiva si muoveva l’interpretazione della legge e il riconoscimento giuridico dell’obiezione. Su questo fronte decisiva è stata la reazione della LOC che, con iniziative che hanno ampio risalto sulla stampa italiana ed estera, costringe il Ministro della Difesa a ritirare le cartoline precetto agli obiettori non riconosciuti, consentendo loro di presentare ricorso al Consiglio di Stato, e a rimettere in libertà Cicciomessere. Intanto la stessa LOC elabora tre progetti di legge per l’interpretazione autentica e la modifica degli aspetti più repressivi e contraddittori della legge 772, affidandone la presentazione a parlamentari democratici.
Anche riguardo all’organizzazione del servizio civile il Ministero della Difesa non prende iniziative costruttive e mira al logoramento delle persone e delle proposte. Ad esempio, una richiesta inoltrata il 10 aprile ’73 dal Presidente della Regione Toscana (Lelio Lagorio) al Ministro della Difesa per l’inserimento degli obiettori di coscienza negli enti di competenza della Regione, non ottiene alcuna risposta. Per giunta il 10 giugno tutti gli obiettori già riconosciuti ricevono dal Ministro della Difesa un invito a rinunciare al servizio civile sostitutivo per un servizio militare non armato da svolgersi in un ospedale militare. Nessun obiettore aderisce all’invito. Sicuramente è per una precisa scelta, e non per inefficienza, che le autorità militari non organizzarono mai un servizio civile nazionale.
Fin dall’inizio il Ministero della Difesa, che ha l’obiettivo di disinnescare le potenzialità dirompenti dell’obiezione di coscienza come utopia concreta di conversione delle strutture e spese militari in strutture e spese civili, si è guardato bene dal porre le basi di una controparte civile del servizio militare e rischiare di perdere il controllo dei cittadini obiettori. Oltre al servizio militare non armato, le sole alternative considerate ufficialmente sono l’impiego degli obiettori nel corpo dei vigili del fuoco e in quello forestale, corpi notoriamente militarizzati. Se avessero prestato servizio in questi corpi, gli obiettori sarebbero stati sottoposti a regolamenti di tipo militare, minacciati di decadenza e ricattati in caso di comportamenti non conformi allo spirito di queste organizzazioni.
Mentre continuano ad andare in carcere obiettori la cui domanda non è stata accettata in base ad una interpretazione restrittiva della legge, il 10 dicembre 1973 (il 15 ricorre l’anniversario dell’approvazione della legge) il Ministro della Difesa Tanassi decide di inviare un dono tutto speciale agli obiettori. Tutti gli obiettori riconosciuti fino a quel momento (107 obiettori) ricevono la cartolina precetto con l’ordine di presentarsi il 14 gennaio successivo presso la colonna mobile dei Vigili del fuoco di Passo Corese (Rieti) per prestarvi il servizio civile sostitutivo.

4. Le proteste degli obiettori e della società civile.

Di fronte alle inevitabili proteste e alle manifestazioni di solidarietà con gli obiettori, le autorità assumono un atteggiamento irragionevolmente e ridicolmente repressivo. A Roma, a piazza Colonna, un gruppo di 5 sacerdoti che digiunano per protesta contro la decisione del Ministro, viene sciolto dalla polizia con la forza. A Peschiera un obiettore detenuto per aver presentato la domanda in ritardo viene punito con 10 giorni di cella di isolamento, per aver rifiutato di mangiare il panettone inviato ai detenuti del carcere militare dal ministro della Difesa Tanassi.
Intanto viene reso pubblico un appello al Presidente del Consiglio da parte di uomini della cultura e religiosi (tra cui lo scrittore Ignazio Silone e il vescovo Bettazzi) “perché la legge non sia completamente vanificata costringendo gli obiettori ad un servizio militarizzato che escluda l’impegno nelle diverse realtà sociali e di emarginazione”.
Da parte loro 40 obiettori aderenti alla LOC comunicano al Ministro la loro indisponibilità a svolgere il servizio nei pompieri, chiedendo la piena applicazione della legge, che prevede diversi servizi sostitutivi adeguati alle capacità e disponibilità di ciascun obiettore. Al Congresso della LOC (Napoli, 5-6 gennaio 1974) gli obiettori confermano la loro indisponibilità e decidono un’opposizione dura al provvedimento di Tanassi che si concretizza nel rifiuto collettivo di presentarsi il 14 gennaio a Passo Corese. Di fronte a questa decisa resistenza, l’8 gennaio 74, il Ministro revoca per tutti gli obiettori l’ordine di presentarsi a Passo Corese, facendo capire ufficiosamente di essere ormai disposto a stipulare le convenzioni come previsto dall’art. 5 della legge.

5. Gli obiettori inventano il servizio civile.

E’ a questo punto che la LOC conquista per tutti gli obiettori il diritto all’autodeterminazione e autogestione del servizio civile. Il Ministero della Difesa cede apparentemente su tutto il fronte, lasciando il servizio civile in completa gestione alla LOC, che si impegna a individuare forme di servizio civile adeguate presso enti e organizzazioni disponibili ad accogliere obiettori e a predisporre un programma. I vincoli c’erano, ma erano relativamente poco importanti e comunque superabili nel corso delle trattative.
Come organizzare un servizio civile libero da ipoteche militari? Già nel corso del 1973, di fronte ai ritardi e alle inadempienze del Ministero, alcuni obiettori avevano iniziato in modo autonomo il proprio servizio civile impegnandosi in enti privati dove venivano assistiti ragazzi caratteriali e disadattati e si praticava qualche esperimento di deistituzionalizzazione. Queste esperienze non furono mai riconosciute dal Ministero della Difesa ma servirono a dare la spinta e a porre le basi della successiva mobilitazione della LOC per un servizio civile non militarizzato. Gli stessi obiettori in attesa avevano incominciato a prendere contatti con enti pubblici e privati, sollecitandoli a presentare al Ministero la richiesta di convenzione. Incredibile la giustificazione fornita in seguito dai funzionari militari dello smarrimento delle richieste di convenzione avvenuto negli uffici del Ministero della Difesa.
Il programma, di cui abbiamo detto sopra, viene definito dal basso nel corso di uno stage sul servizio civile convocato a Roma nei giorni 9-10 marzo 1974 presso la Comunità di Capodarco. Vi partecipano un centinaio di obiettori e i rappresentanti degli enti che avevano fatto richiesta di convenzione per l’utilizzazione degli obiettori.
Dal momento che gli obiettori erano riusciti ad ottenere di potersi “assegnare” ad attività più congeniali, a servizi civili conformi alle capacità e aspirazioni di ognuno e rispondenti alle esigenze di coerenza determinate dalla condizione di obiettori, si esponevano a grossi rischi e contraddizioni perché, pur non essendo preparati, si assumevano il compito di inventare letteralmente il servizio civile. D’altronde non era loro intenzione avallare con la propria presenza enti e istituzioni screditati da una politica assistenziale paternalistica o clericale, servire da tappa-buchi, risolvendo carenze la cui responsabilità era propria dello Stato, ma creare nuovi spazi di libertà e nuovi fronti di lotta. Si cercò di uscirne collegandosi con quelle organizzazioni che già operavano nel settore della medicina preventiva e si battevano per la deistituzionalizzazione dell’assistenza.
Alla LOC sembrava si dovessero privilegiare soprattutto due direzioni: 1. enti pubblici (comuni, regioni province, tribunali dei minori, ospedali psichiatrici, ecc.); 2. sindacati.
Un servizio civile negli enti pubblici avrebbe permesso agli obiettori di inserirsi come “operatori sociali” direttamente nei luoghi di confronto e di dibattito tra le forze politiche, quindi con ampie possibilità di mobilitare l’opinione pubblica sui vari problemi, contribuendo attivamente alla sperimentazione e attuazione di nuove prassi di assistenza e di istruzione.Un servizio civile nei sindacati, considerato il ruolo storico di queste organizzazioni nella lotta contro lo sfruttamento dei lavoratori, era quello che offriva agli obiettori le ipotesi di lavoro più allettanti.
C’era un terzo livello, quello delle strutture più arretrate (enti privati e clericali operanti nel campo dell’assistenza ai portatori di handicap, ai disadattati e agli emarginati). Senza avallare le situazioni di arretratezza, un servizio civile in questo settore doveva prima di tutto essere scelto dall’obiettore (nessuna imposizione ministeriale!), non doveva occupare come manodopera gratuita posti di lavoro retribuibili (l’obiettore non è un crumiro!), doveva entrare in relazione con le esperienze di quelle organizzazioni che portavano avanti progetti alternativi di deistituzionalizzazione dell’assistenza, di medicina preventiva, di istruzione popolare.

6. I corsi di formazione e di orientamento per gli obiettori.

Un altro problema che preoccupava la LOC: che il servizio civile non venisse inteso, alla stregua della vita in caserma, come naja, come parentesi negativa da superare con il minor costo possibile (e conseguente ricerca di privilegi personali e imboscamenti), come seccatura di cui liberarsi al più presto per ritornare alla normalità del proprio lavoro e della propria vita sociale. Da qui l’idea di istituire corsi di formazione e di orientamento per gli obiettori.
Questa idea rendeva possibile nell’immediato il collegamento tra il precedente movimento di lotta antimilitarista, i suoi obiettivi, le esperienze dei vecchi obiettori e i nuovi, spesso isolati, sconosciuti prima dell’utilizzazione della legge, deboli di motivazioni antimilitariste, per la loro giovane età piuttosto impreparati nello stesso specifico dell’obiezione di coscienza.
L’intuizione del corso di formazione era venuta da una analogia con il servizio militare. Come – si diceva – il servizio militare “raddrizza la schiena” così il servizio civile “raddrizzerà il cervello”. Se il servizio militare uniforma pensieri e comportamenti abituando al servilismo e all’obbedienza, alla passività, al consenso cieco nei confronti di strutture e valori, il servizio civile formerà la coscienza, rafforzerà la capacità di autodeterminarsi e responsabilizzarsi sulla base di una visione antiautoritaria dei rapporti sociali che predisponga anche a pagare di persona una eventuale disobbedienza e noncollaborazione. Nel periodo di formazione sarà l’obiettore stesso a confrontarsi con idee e proposte, a maturare la scelta di un servizio civile più adatto alle sue capacità e più rispondente alle sue aspirazioni.
Riguardo al metodo il corso viene strutturato in questo modo: vita in comune degli obiettori, prestazione di opera per 7-8 ore al giorno presso l’ente ospitante, incontri periodici con esperti e operatori nei vari settori (relazioni e dibattiti), gruppi di studio in cui si favoriscono le discussioni collettive e la preparazione di materiali di documentazione, incontri-confronti con rappresentanti delle forze politiche, sociali e sindacali. Tra i temi privilegiati: analisi del potere militare e della sua ideologia, antimilitarismo, nonviolenza, politiche sociali ed economiche, problemi dell’assistenza e metodologie alternative, difesa dell’ambiente, animazione culturale, ecc. Durante il corso gli obiettori prendono contatti con gli enti di destinazione definitiva, visitandoli personalmente.
Il progetto di servizio civile che viene elaborato in un convegno presso la Comunità di Capodarco e che viene presentato al Ministero della Difesa è di immediata attuazione. Esso è articolato in tre corsi di formazione della durata di uno o due mesi da svolgersi presso un ente disponibile e nella successiva destinazione presso gli enti convenzionati dove nei mesi restanti l’obiettore svolgerà il suo servizio. Il Ministero della Difesa accetta.
Poiché i corsi di formazione sono autogestiti dagli obiettori e praticamente affidati alla LOC, questa si preoccupa nella composizione dei partecipanti di assicurare dei punti di riferimento, per i nuovi obiettori, nei vecchi obiettori antimilitaristi. Si offriva così l’occasione di un confronto tra gli obiettori giunti al servizio civile dopo una lunga militanza nei gruppi e movimenti antimilitaristi e nonviolenti e i nuovi giunti al servizio civile attraverso la strada dell’utilizzazione della legge; un’occasione dunque di testimonianza, di confronto di esperienze per una crescita comune culturale e politica degli obiettori.
Il primo corso di formazione della durata di un mese (22 aprile – 22 maggio 1974) si tiene presso la Comunità di Capodarco di Roma con la partecipazione di 29 obiettori. Obiettivo del corso è individuare un progetto di utilizzazione di questi obiettori nel campo dell’assistenza agli handicappati fisici e sensorali, disadattati in genere, ragazzi caratteriali, anziani. Partecipano alla individuazione di programmi e progetti anche alcuni enti che operano nel settore. Alla fine del corso, gli obiettori si dividono in 5 gruppi e si recano presso i rispettivi enti a prestare servizio civile. Il secondo corso di formazione della durata di 2 mesi (15 maggio – 5 luglio 1974) si svolge presso la “Casa dell’ospitalità” di Ivrea, con la partecipazione di 20 obiettori. Ha come obiettivo l’individuazione di un progetto di assistenza a varie categorie di emarginati e uno nel campo dell’istruzione popolare. Il terzo corso della durata di 2 mesi (15 luglio – 15 settembre 1974) si tiene presso l'”Ospedale Psichiatrico Provinciale” di Trieste, diretto dal dott. Franco Basaglia, con la partecipazione di 30 obiettori. Ha come obiettivo l’individuazione di progetti che coinvolgano nel campo dell’assistenza gli enti locali.
Dopo i primi tre corsi del ’74, per così dire “sperimentali”, ci furono negli anni successivi (1977-78) molti altri corsi, per i quali si riuscì anche ad ottenere il finanziamento da parte del Ministero. Ma non poche furono le difficoltà che dovettero affrontare gli obiettori sempre costretti a riprendere la lotta contro il Ministero per ribadire il proprio diritto alla formazione autogestita.

7. Una nuova patria da servire.

Vediamo ora cosa è successo agli obiettori dopo i corsi di formazione e il loro distacco presso gli enti di servizio civile. Giunti nei vari enti, gli obiettori cercano di inserirsi secondo le loro aspirazioni e le modalità scaturite dai corsi. Lasciandosi coinvolgere nell’opera di assistenza scoprono una nuova patria da servire, quella degli handicappati, degli emarginati, degli anziani. Ma al di qua dell’entusiasmo idealistico e volontaristico c’è l’impatto con una realtà complessa e piena di contraddizioni che mette a dura prova i loro propositi. Gli obiettori ovviamente non intendono sottrarre posti di lavoro a nessuno e neppure essere sfruttati indiscriminatamente come forza-lavoro a basso costo, oppure essere strumentalizzati per conservare enti e istituzioni squalificati, pratiche assistenziali superate e deprecabili. Si pongono subito problemi di identità e di ruolo. Spesso gli obiettori, immessi senza esperienza alcuna nelle situazioni più difficili si ritrovano disorientati.
Come esempio analizziamo una di queste realtà di servizio civile sperimentale. A Trieste, nell’Ospedale Psichiatrico Provinciale (una delle realtà più avanzate, dove operava il dott. Basaglia con una équipe di medici di Psichiatria Democratica) gli obiettori sono immessi nei reparti a contatto con la realtà manicomiale, senza alcun preambolo. Nessuno spiega loro cosa fare e come farlo, come comportarsi. Sentono di essere osservati e giudicati dagli infermieri e dal personale in organico, diffidente, scettico, prevenuto, poco disponibile alla collaborazione. Posti in mezzo tra il mondo e le esigenze dei malati e le abitudini cristallizzate degli infermieri, rischiano di restare schiacciati dimostrando il proprio fallimento. Chiedono un incontro con il dott. Basaglia ma questi, pur mostrando comprensione per il problema degli obiettori e pur incoraggiandoli non vuole offrire loro alcuna soluzione preconfezionata.
Indubbiamente Basaglia conosceva il problema. A suo modo, da tempo faceva l’obiettore di coscienza per trasformare i manicomi da luoghi di custodia e di segregazione in luoghi di cura. “Andate, vedete e fate!” – diceva. Gli obiettori chiedevano a lui un modello, ma Basaglia non l’aveva o si rifiutava di offrirlo. Gli obiettori furono “costretti” all’autogestione. E’ evidente che per tutti si trattava di una situazione sperimentale. A distanza di tempo, facendo un bilancio a modo suo di questa esperienza, Basaglia ebbe a dire: “Noi a Trieste cerchiamo di vedere l’obiettore come una persona che catalizza, che esprime delle contraddizioni all’interno dell’istituzione. L’obiettore non è un tecnico, non è nulla, è una persona che viene ingaggiata dalle istituzioni e la cui presenza crea costantemente contraddizioni e complica la vita dell’organizzazione. I volontari e gli obiettori per noi complicano costantemente il mondo della nostra organizzazione perché la mettono costantemente in discussione”.
Basaglia vedeva nella figura dell’obiettore una figura nuova che definiva “agente di trasformazione”. Far esplodere contraddizioni, faceva parte dell’essenza dell’obiettore. Per questo, inevitabilmente, all’interno degli enti dove andavano a svolgere servizio civile, gli obiettori rompevano… gli equilibri già cristallizzati e ponevano all’ordine del giorno sempre nuovi problemi.
Ma non tutti gli enti erano così all’avanguardia, non tutti i direttori così illuminati, pazienti, amici degli obiettori. Questi si scontrarono spesso con realtà molto più arretrate e con atteggiamenti autoritari e repressivi. Non è il caso di fare esempi. Diciamo che furono essi stessi, nelle varie circostanze, con la lotta, a far progredire la situazione in direzione di un servizio civile più qualificato.
Pur non nascondendo dunque l’esistenza di molte esperienze negative e le inevitabili delusioni cui andarono incontro a volte reciprocamente enti ed obiettori, considerato il carattere “sperimentale” delle prime esperienze di servizio civile, possiamo ritenere che il bilancio di questo periodo sia sostanzialmente positivo.

8. Fine del servizio civile autogestito.

Quando finì e perché finì il servizio civile cosiddetto “autogestito”? Non è possibile periodizzare con date precise. Di fronte ad una situazione formale (la legge 772) poco garantista, l’autodeterminazione e l’autogestione erano conquiste sempre in pericolo, continuamente rimesse in discussione e quindi da difendere e riconfermare continuamente con l’impegno e la lotta degli obiettori.
Gli ostacoli erano prevedibili. Fin dai primi mesi il Ministero della Difesa cercò di recuperare i corsi inviando d’autorità gli obiettori che avevano scelto un corso di formazione presso un altro che non avevano scelto. A livello locale ci furono problemi anche con i distretti militari che interpretavano alla lettera l’equiparazione degli obiettori in servizio civile ai militari di leva. L’aumento stesso degli obiettori portò inevitabilmente problemi di qualificazione del servizio civile, accrebbe l’eterogeneità degli obiettori, rese il movimento sempre più confuso ideologicamente e politicamente. Spesso, dobbiamo dirlo, l’autogestione fu minata alla base dal comportamento privo di senso di responsabilità di qualche obiettore che interpretava male gli spazi di libertà conquistati. Divenne sempre più difficile trovare enti qualificati e in sintonia con l’essenza degli obiettori. Nuovi enti, scavalcando e ignorando l’organizzazione degli obiettori antimilitaristi, presero l’iniziativa di rapporti diretti con il Ministero della Difesa e imposero autoritariamente agli obiettori il lavoro da fare, utilizzandoli anche in sostituzione del personale.
A determinare questa situazione di crisi certamente influì il fatto che negli anni successivi nessun serio aggiornamento della legge 772 arrivò mai in porto. Il Ministero della Difesa adottava la politica dei ritardi e da una parte favoriva servizi civili non qualificati, dall’altra boicottava quelli politicamente più avanzati, in cui si tendeva a valorizzare l’impegno pacifista, nonviolento, antimilitarista. Il Ministero non rispettava i tempi, non concedeva i corsi di formazione, bocciava le domande di alcuni obiettori in modo pretestuoso, favoriva il disimpegno, l’opportunismo e il qualunquismo con la famosa circolare dei 26 mesi che autorizzava a non svolgere il servizio civile chi aveva atteso troppo il riconoscimento della domanda.
Tutto questo era prevedibile. Nessuna conquista viene regalata e conservata senza un prezzo. Si può quindi sostenere che il servizio civile autogestito finisce quando gli obiettori non sanno più assicurarselo; finisce quando l’organizzazione politica degli obiettori antimilitaristi nonviolenti, la LOC (indebolita al suo interno da contrasti politici e ideologici) non è più in grado di lottare efficacemente contro tutti i tentativi di boicottare e frenare l’avanzata degli obiettori e nello stesso tempo di estendere gli spazi di libertà concessi al diritto di obiezione di coscienza.

9. Venticinque anni dopo la legge Marcora: finalmente una legge moderna.

Nel 1992 una nuova legge, già approvata dai due rami del Parlamento, venne bocciata in dirittura di arrivo dall’allora Presidente Cossiga, che si rifiutò di apporre la sua firma a una legge non gradita ai militari. Quel Presidente, molto amico dei militari, aveva così da solo, con un semplice colpo di spugna, vanificato il lavoro pluriennale delle commissioni parlamentari e del Parlamento stesso, beffando le attese degli obiettori, degli enti di servizio civile, degli Italiani democratici. Dovranno passare altri sei anni perché si veda, il 16 giugno 1998, una vera novità nel campo dell’obiezione di coscienza e del servizio civile. In quella data il Senato italiano approvò in via definitiva il testo di una nuova legge che regolamenta ancora oggi l’obiezione di coscienza, in sostituzione della storica prima conquista degli obiettori, la legge 772 del 15 dicembre 1972.
Dopo 25 anni di lotte sostenute da obiettori, parlamentari, responsabili di enti, personalità del mondo religioso e politico, associazioni, movimenti, dopo vari ostruzionismi e polemiche, c’è finalmente la “nuova legge”, la legge tanto desiderata. Non è esattamente quella bocciata dal Presidente Cossiga nel 1992 perché nel frattempo sono state apportate varie modifiche al testo con emendamenti a volte peggiorativi. Tuttavia l’approvazione della legge, che pone fine a una telenovela di infiniti rinvii, risponde alle attese generali, è una pietra miliare, un salto di qualità. Un capitolo è chiuso, se ne apre un altro, che inizia con questa legge, pubblicata ufficialmente come la n. 230 del 8 luglio 1998.
E’ sicuramente una legge di difficile e complessa regolamentazione. Anch’essa parte dal riconoscimento dell’obiezione di coscienza e fa un grande passo avanti quando la riconosce come “diritto soggettivo”, cioè come manifestazione della libertà di coscienza. Non toccherà più a nessuno riconoscere la validità delle motivazioni addotte dall’obiettore. La famosa commissione, prevista dalla 772, è abolita. Non c’è più il “tribunale della coscienza”. La vocazione e il modo di sentire dei giovani ora contano di più e ciò che avviene nel foro interiore è insindacabile. La legge pone le basi per un servizio civile più moderno, efficace, qualificato riconoscendo l’importanza della formazione. Viene prescritto infatti un periodo di formazione civica e di addestramento generale al servizio civile e una attività di formazione anche per i responsabili degli obiettori. Il servizio viene scorporato dalle competenze del Ministero della Difesa. Una volta avvenuto il riconoscimento è realtà autonoma rispetto al servizio militare. Una importante novità della legge è l’inserimento della famosa DPN. La legge istituisce ufficialmente, nell’ambito della formazione degli obiettori, la sperimentazione di forme nonviolente di soluzione dei conflitti e l’uso degli obiettori in missioni umanitarie e per il mantenimento della pace in zone di conflitto. Dunque: una buona legge. In realtà cosa è successo? Nonostante l’enunciata smilitarizzazione del servizio civile, il passaggio alle novità è gestito per altri due anni dai militari, con i soliti problemi burocratici e le difficoltà a far partire il nuovo Ufficio Nazionale per il Servizio Civile. Poi altri problemi a livello di regolamentazione e applicazione amministrativa. Dove sono i regolamenti organizzativi e disciplinari? Nonostante le buone intenzioni del legislatore che aveva provveduto a dare indicazioni opportune su questo aspetto, il problema principale degli obiettori è ancora la mancanza di formazione e di addestramento specifico, che continua a generare un senso generale di frustrazione e una bassa qualità del servizio. Anche riguardo ai responsabili l’attività di formazione è stata quasi nulla. Negli enti di servizio civile ha continuato ad essere assente quella figura necessaria del formatore/tutore degli obiettori, aggiornato, fornito di professionalità, capace di gestire le risorse umane. E che ne è stato della sperimentazione di forme di difesa nonviolenta (DPN)? Anche qui: nulla. A quattro anni di distanza le principali novità della legge non hanno ancora raggiunto gli interessati, ma sono rimaste ferme all’orizzonte lontano. E non è ancora finita.

10. La sospensione della leva obbligatoria.

Dopo l’emanazione della legge n. 233 del 1998, lo scenario in questo settore si è modificato ulteriormente e molto velocemente. Infatti con una nuova legge, la 331 del 14 novembre 2000, il Parlamento ha deciso la “sospensione” della leva obbligatoria a partire dal 1 gennaio 2007, quando anche l’Italia avrà, come gli altri paesi dell’Unione Europea, il suo esercito costituito esclusivamente da professionisti. Fra quattro anni dunque, quando non ci sarà più la coscrizione obbligatoria, verranno a mancare i presupposti dell’obiezione di coscienza. La nuova legge sull’obiezione di coscienza andrà in soffitta senza neanche essere stata completamente attuata.

11. Istituzione del Servizio Civile Volontario.

Sparirà anche il servizio civile? La sospensione della leva rischia di soffocare tante esperienze di servizio civile nate e sviluppatesi in trent’anni dietro la spinta del riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza. Oggi, dopo 30 anni di esperienze, il servizio civile, che prima del riconoscimento legale dell’obiezione di coscienza, semplicemente non esisteva, è una realtà complessa che ha fatto nascere nuovi bisogni e ha aperto nuove prospettive in cui sono coinvolti interessi di nuovi settori, come quello del non-profit o terzo settore, del volontariato, della cooperazione, del lavoro socialmente utile. Ci sono strutture ed enti che si reggono quasi esclusivamente sul lavoro prestato dagli obiettori. Molti di questi enti potrebbero essere costretti a interrompere le attività per mancanza di personale. Dopo la riforma del servizio militare la CNESC (Conferenza Nazionale Enti per il Servizio Civile) già registrava con amarezza il calo di attenzione delle istituzioni sui temi del servizio civile. Pensando alle difficoltà degli enti e anche ai valori espressi in tanti anni nelle esperienze di servizio civile, alla fine della precedente legislatura è stata approvata la legge n. 64 del 6 marzo 2001, che istituisce il Servizio Civile Nazionale. In base a questa legge, anche dopo la sospensione della leva obbligatoria, ci sarà la possibilità per i giovani di svolgere un servizio civile su base volontaria. Ora la prospettiva è completamente cambiata. Il servizio civile non avrà più alcun legame con il servizio militare in quanto attività ad esso sostitutiva, così come è sempre stato dal primo riconoscimento giuridico del 1972. Il servizio civile entra nella legislazione italiana come attività autonoma e, nonostante i trent’anni di storia alle spalle, come qualcosa in gran parte ancora da inventare.
La legge n. 64 è un’occasione importante per produrre innovazioni sociali, sperimentare metodi e soluzioni. Occorrerà liberare e valorizzare ogni forma di creatività per inventare nuove inedite possibilità. Importante, anche se non è un’innovazione rispetto alle indicazioni della legge n.230, rimaste lettera morta, è l’insistere sulla qualificazione del servizio civile, sulla formazione, la progettualità. Lavorare per progetti è il metodo serio che la nuova legge prescrive. Il passato del servizio civile servirà come base di partenza, come patrimonio di esperienze necessarie per affrontare le novità del futuro. Una cosa è chiara: essendo su base volontaria, non è una certezza ma una possibilità. Esisterà se e nella misura in cui ci saranno volontari. La grande speranza, che suscita questa legge, è data dalla più importante delle sue innovazioni, l’istituzione del servizio civile femminile. Se nel 1999, la considerazione delle cosiddette “pari opportunità” aveva concesso alle donne di poter svolgere un servizio militare professionale, ora si riconosce alle donne una naturale capacità di svolgere efficacemente attività nel campo della solidarietà sociale.

12. E che sarà dell’obiezione di coscienza?

I valori dell’obiezione di coscienza vanno preservati. L’obiezione di coscienza, svincolata dalla sua forma istituzionalizzata (il riconoscimento giuridico) troverà se stessa, la sua autenticità di azione nonviolenta, di risposta della coscienza ai problemi più gravi del mondo. Non mancheranno occasioni in cui i giovani, i cittadini, veramente persuasi della verità della nonviolenza, si troveranno a fare, nelle circostanze più diverse delle scelte morali e accetteranno, per richiamare al bene tutti, di pagare di persona il prezzo di una obiezione di coscienza.
Matteo Soccio

Vicenza, 18 ottobre 2002
Diario di un’obiezione dal carcere militare

Di Alberto Trevisan *

Durante il tragitto in treno ripensavo alla mia scelta, non sapevo bene che cosa sarebbe successo: sì ero convinto, avrei detto di no, avrei rifiutato la divisa militare, ma le caserme, il carcere non erano per me ancora delle realtà ben definite, per fortuna i ragazzi che viaggiavano con me non sapevano della mia scelta .

Erano le otto di sera: iniziava così il 9 Giugno 1970 la mia lunga obiezione di coscienza, fatta di arresti, di condanne, di carcerazioni, ma anche di grandi amicizie, di bei ricordi, di grandi soddisfazioni. Per quasi tre anni, sino al momento dell’approvazione della legge sul riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza e della mia immediata scarcerazione dal carcere militare di Peschiera del Garda, il 23 Dicembre 1972, alla vigilia di Natale, ho vissuto completamente questa scelta, sempre condizionato dall’arrivo della “cartolina precetto” anzi delle “cartoline “ dato che per ben tre volte mi hanno chiamato a fare 1’alpino a L’Aquila e per altrettante volte ho risposto Signornò’!
Lo dissi per la prima volta il 10 Giugno a L’Aquila. Ancora in abiti civili, tutti frastornati, assonnati, un po´ affamati quella mattina fummo brutalmente “sbrandati” dalle camerate: bisognava correre all´alzabandiera, l’inizio di ogni giornata in caserma, così per tutto il servizio militare. Poi la colazione di corsa, e ancora più in fretta al magazzino: la consegna del vestiario, della divisa soprattutto. Ora ci siamo, pensavo tra me: da giorni cercavo di immaginare questo momento, avevo cercato di preparare le parole adatte, volevo subito far capire che non ero disposto a vestire la divisa, che ero un obiettore di coscienza al servizio militare. Non ebbi neppure il tempo per riflettere, per ripassare la lezione, che già il maresciallo del magazzino aveva cominciato a riempirmi di divise, di scarpe, di biancheria, di vettovaglie e quant´altro mi sarebbe servito nel corso del servizio militare, insomma il mio corredo militare era quasi completo. Sì, ho avuto un momento di imbarazzo: le parole non mi sono uscite subito, e già mi ritrovavo tra le mani qualche camicia militare: solo pochi attimi e poi con grande determinazione : “guardi maresciallo, io questa divisa non me la metto” gli dico. Il maresciallo quasi non mi ascolta, così indaffarato a vestire centinaia di reclute, e continua a rifornirmi di materiale: allora decido di fermarlo, e con voce più ferma e con più determinazione, gli ripeto, “io la divisa non la vesto ne´ ora ne´ domani ne’ mai “.
Lui con grande ingenuità e simpatia, devo ammettere, e sicuramente senza cattiveria, così mi rispose: “figlio mio che cosa ci posso fare io se le divise sono tutte grigioverdi ! di altri colori non ne tengo proprio!”.
Non gli rimase che accompagnarmi al Comando, tra lo scompiglio generale, ma anche tra la solidarietà di molti ragazzi che avevano assistito al mio rifiuto, e molti erano proprio arrivati assieme a me, con lo stesso treno, il giorno precedente.
Iniziarono i primi colloqui con gli ufficiali, con il Comandante: tutti volevano evitare che la mia scelta di obiezione fosse conosciuta in caserma, soprattutto tra le reclute appena arrivate, volevano evitare in tutti i modi la “contaminazione” si direbbe ora. Mi riscoprivo teso, ma anche molto sereno, sicuro di me stesso: riscoprivo una forza interiore che prima non avevo mai conosciuto. Certo da tempo mi ero preparato a questo momento, ma non pensavo di reagire così bene: alle ore 12 ero già in cella e iniziava una lunga attesa, tra quattro mura e un duro tavolato. Ho trascorso così circa 20 giorni, isolato, sorvegliato, sempre in attesa di essere trasferito al più vicino carcere militare di Forte Boccea a Roma.
Il comandante del Battaglione spedì una lettera ai miei genitori per informarli dell’accaduto: quasi con meraviglia scoprii che anche un uomo preparato alla gestione del potere, e in questo caso persino alla preparazione di una possibile guerra, risulta una persona con la quale si possono stringere rapporti di rispetto, di stima reciproca. Lui, comandante militare, responsabile di migliaia di giovani ragazzi, era sinceramente dispiaciuto di non potere impedire la mia scelta di obiezione di coscienza, sapendo che per anni avrei subito delle conseguenze pesanti.
“ Sono stato costretto- così scriveva ai miei genitori – a denunciare suo figlio Alberto alla Procura Militare della Repubblica in quanto lo stesso, dichiaratosi “obiettore di coscienza” si è rifiutato di indossare l’uniforme militare. Ogni mia parola è stata vana, ho fatto intervenire anche il Cappellano militare. Ma il ragazzo è irremovibile. Ho avuto di lui un’ottima impressione e mi dispiace pensare alle gravi conseguenze cui andrà incontro. Attualmente è rinchiuso presso la camera di punizione di questo Comando. Vi esprimo il mio dolore.”

* Ringraziamo Alberto Trevisan per averci messo a disposizione alcuni stralci del suo diario di obiettore di coscienza nel 1970. Oggi Trevisan ha 55 anni, vive a Rubano, in provincia di Padova, ed è membro del Coordinamento Nazionale del Movimento Nonviolento.

 

Coscienza

Di Sandro Canestrini*

Voglio iniziare queste brevi osservazioni ricordando a me e a chi legge il più osceno proverbio italiano: “ognuno per sé e dio per tutti”.
In queste poche parole è condensato tutto l’egoismo e il rifiuto di ogni solidarietà e di ogni cum-scire e cioè della coscienza, della consapevolezza di dover fare “i conti con la vita” di dover collocare se stesso in un campo dignitoso durante la propria esistenza.
Sembrano osservazioni del tutto ovvie e persino inutili ma purtroppo l’attività pubblica di oggi ha fatto tramontare queste idee come se si dovesse trattare di concezioni bizzarre.
E invece è, come sempre, di “attualità” riflettere sul significato della parola coscienza: cos’è la coscienza come si forma una coscienza retta.
Ha scritto Dante: “pur che tua coscienza non ti falli”. Ma si tratta di allargare il campo della propria coscienza come ad una forza che ha influito positivamente nella storia. Ha cambiato situazioni che parevano eterne come l’India di Gandhi, ha indicato soluzioni di vita valide ora e sempre come le parole di Capitini.
Sul mio tavolo ho sempre il volume “Lettere di condannati a morte della resistenza italiana”. Leone Ginsburg prima di morire in carcere a Regina Coeli, torturato, scriveva così alla moglie: “una delle cose che più mi addolora è la facilità con cui le persone intorno a me (qualche volta io stesso) perdono il gusto dei problemi generali dinnanzi al pericolo personale”. Appunto, “dio per tutti” era il proverbio per il quale agli ebrei in fuga dal fascismo si chiudevano le porte e non si dava ospitalità; é lo stesso principio per cui oggi di fronte alla Palestina massacrata, si fanno spallucce e si dice che tanto si tratta di persone lontane che non si conoscono, che si arrangino.
E’ per questo che la “coscienza retta” la “voce della coscienza” trova fonte eterna nei filoni di cultura che sottolineano i bisogni morali della collettività.
Norberto Bobbio ha scritto delle parole davvero eterne su questo tema nei confronti di una cultura di destra che, forte della situazione politica odierna, cerca di farsi strada. Soros ha scritto: “la cultura di destra esalta l’egoismo privato come una virtù pubblica”.
L’indifferenza dei valori sui quali può fondarsi seriamente una società è tipica di correnti cosiddette “liberali” che al posto della solidarietà e della coscienza hanno messo il raggiungimento di soddisfazioni economiche sempre più folli. Addirittura abbiamo i dirigenti della vita pubblica di oggi che dicono che la società si deve reggere senza richiamarsi ad altri principi se non a quelli con cui si regge un’azienda: il Presidente del Consiglio ha detto che gli stessi principi che inducono un uomo a dirigere una sua azienda valgono per reggere la società. Cioè guadagnare, fare la concorrenza sui guadagni ad eventuali concorrenti, disprezzare e mistificare chi attacca il tuo prodotto. Esattamente l’opposto di quanto il nostro grande poeta scriveva: “o dignitosa coscienza e netta quanto t’è picciol fallo amaro morso”.
Non c’è più nessuno che senta “amaro morso”, e cioè pentimento, per aver fatto qualcosa di antisociale. Non solo ciò non viene considerato “un fallo”, cioè un errore, ma anzi diventa un motivo di merito. Parliamo chiaro: esiste ancora un opinione pubblica democratica, un’opinione pubblica che si basi su principi di coscienza e di onestà, capace di reagire quando – a quanto si dice – l’attività del governo è tale da suscitare riprovazione generale? Io non parlo delle grandi scelte economiche e politiche, parlo proprio dell’attività di tutti i giorni, di un Presidente che si lascia andare a battute cosiddette di spirito e ad atteggiamenti che dovrebbero suscitare repulsione quando – sempre a quanto si sostiene – tutto ciò viene percepito come una simpatica notazione per la quale chi così agisce merita forse una risata ma non una riprovazione.
E allora la domanda è questa: dove sono andati a finire i grandi ideali su cui la nostra società è sorta? In quale angolo sono state relegate le lettere dei condannati a morte della resistenza? La lotta contro la mafia è ancora un obiettivo valido per tutti o dobbiamo convenire con quel ministro che diceva che la mafia è un fenomeno con il quale bisogna convivere? Le lotte sociali e politiche nelle fabbriche e nei girotondi rappresentano qualche cosa di più che una occasione del momento?
Io penso ora ad una situazione particolare: l’approvazione della legge sull’obiezione di coscienza compie trent’anni. 1972 – 2002. Migliaia di ragazzi hanno affrontato gravissimi disagi, non escluso il carcere per tener fede alla propria coscienza. Non compresi dall’opinione pubblica e forse neppure dai parenti ma fieri di percorrere una strada dove finalmente politica e cultura atteggiamenti pratici e coscienza morale coincidevano. Che debito abbiamo nei confronti di questi ragazzi ora, dopo trent’anni? Qualcuno si pone questo interrogativo.
Penso che l’esempio di questi ragazzi vada messo di fronte a quegli altri ragazzi che, come leggiamo purtroppo sui giornali non sospettano neanche che esiste un altro mondo che non sia quello delle motociclette ai 200 all’ora o degli squallidi corteggiamenti che talvolta finiscono nel delitto o anche peggio.
La fin troppo facile condanna di troppi atteggiamenti giovanili ricade su di noi: molti hanno guardato a come ci comportavamo noi, a come siamo stati fedeli ai nostri ideali….
Quanti di noi possono oggi domandarsi se hanno fatto il loro dovere umano e sociale per essere in pace con la propria “coscienza”.
Oppure, come diceva Ruggero Zangrandi nel suo volume “Il lungo viaggio attraverso il fascismo” ci stiamo preparando ad un altro lungo viaggio attraverso le stesse forze?

* Avvocato, ha difeso gli obiettori di coscienza al servizio e alle spese militari. E’ stato Presidente del Movimento Nonviolento.
La pace di Bozen
La vittoria di Bolzano
Di Francesco Comina

E’ un peccato che il movimento nonviolento sia rimasto ai margini della bufera politica e civile che si è scatenata su Bolzano la mezzanotte del 6 ottobre scorso dopo mesi di lacerazioni ideologiche, tensioni istituzionali e dibattiti culturali. A quell’ora della notte, infatti, il gelo è piombato sulla città “laboratorio di convivenza” e la Pace è stata strozzata da uno dei tanti nomi della guerra: la Vittoria.
E’ questo l’esito del referendum voluto da Alleanza nazionale all’indomani della decisione presa dal sindaco del centrosinistra (appoggiato dalla Volkspartei), Giovanni Salghetti Drioli, di cambiare il nome della piazza più contesa dell’Alto Adige (piazza della Vittoria con il monumento fascista di Piacentini che celebra l’esito della prima guerra mondiale con l’annessione del Sudtirolo all’Italia) trovando un ampio consenso nella maggioranza con la denominazione “Pace”. “Un termine – ha più volte ricordato il sindaco – che ci consente di lasciarci alle spalle le provocazioni del passato per guardare avanti ad un orizzonte di convivenza suggellata dalle aspirazioni di una pace vera e giusta fra i gruppi linguistici”. E nel mettere mano al “depotenziamento” della piazza (operazione tentata e fallita da tutti i sindaci precedenti) Salghetti aveva dato un segnale di prospettiva facendo approvare (non senza difficoltà) il regolamento di un “laboratorio per la gestione nonviolenta dei conflitti”, una istituzione comunale con il compito preciso di monitorare i conflitti urbani e intervenire, attraverso personale specializzato, nell’intento di risolverli.
Insomma, una grande sfida culturale in un territorio fortemente minato.
Piazza della Vittoria a Bolzano, infatti, non è solo un luogo che richiama a sé i fasti di una memoria storica (come hanno detto i ministri Gasparri e Fini nelle loro scorribande bolzanine), ma è principalmente il centro di una contrapposizione etnica fra l’orgoglio di sentirsi italiani da una parte (la piazza con il suo monumento marcano i confini identitari) e l’offesa dei sudtirolesi di madrelingua tedesca di essere stati violati e conquistati dall’altra (sul frontone del monumento campeggia la scritta latina: “Hinc ceteros excoluimus lingua, legibus, artibus”, di qui abbiamo acculturato gli altri (barbari) nella lingua, nelle leggi, nelle arti.
Nella campagna referendaria la destra ha messo in campo tutta la sua potente macchina propagandistica per solleticare, nel gruppo italiano, le paure e le minacce di uno spaesamento della identità culturale e linguistica. Non ha parlato solo ai propri militanti, ma ha provocato la reazione dei cittadini contro “un centrosinistra succube delle pretese egemoniche della Volkspartei”, contro una “politica del carciofo che vorrebbe eliminare gradualmente tutte i toponomi italiani”, contro “un sindaco che decide arbitrariamente sul destino dei suoi abitanti” e contro “chi vorrebbe cancellare i libri di storia”.
Al comizio del vicepresidente del Consiglio dei ministri, Gianfranco Fini, sono giunti oltre quattromila cittadini dai quartieri “caldi” della città, dove An aumenta, di anno in anno, i suoi iscritti e dove può consolidare il primato di consensi fra i partiti della città (l’intervento di Fini “per la Vittoria fascista” ha provocato fortissime polemiche in tutta l’Europa).
Alla fine il risultato referendario ha premiato, oltre ogni previsione, la politica di An contro la Pace perché fra quel 62 per cento di cittadini che sono andati a votare oltre il 61 per cento ha votato per il ripristino della Vittoria e ciò equivale a dire che nel “nuovo partito di raccolta degli italiani che si è formato a Bolzano in risposta al Sammelpartei tedesco” (Florian Kronbichler su “il mattino di Bolzano”) figura una consistente fascia di elettori del centrosinistra per nulla concordi con i propri eletti nel cedere “il simbolo” italiano tout court.
Il giorno dopo la bufera bolzanina, molti giornalisti, editorialisti, sociologi e politologi da buona parte dell’Europa registravano il ritorno dello spirito fascista in Sudtirolo. I quotidiani e le televisioni tedesche non riuscivano a capire come fosse stata possibile, alle soglie del terzo millennio, una contesa politica contro la Pace. Altri si mettevano a riflettere sulle derive della storia e sull’ignoranza culturale che regna in molti ambienti della società altoatesina.
La maggioranza in consiglio comunale ora si trova davanti alle sue responsabilità politiche. Traballa, recalcitra, ridiscute le alleanze, ma tenta di rimanere in sella. Oltre ai falchi della Volkspartei che hanno contribuito a fomentare le paure dei cittadini con le loro uscite sui cambiamenti di nomi di prossime vie e piazze, tutta la campagna referendaria del centrosinistra a favore della pace si è dimostrata debolissima: nessuna iniziativa degna di nota all’infuori di un girotondo politico intorno al monumento; nessun dialogo con la società civile; nessun tipo di incontro sulla storia della prima guerra mondiale; nessuna risposta alle richieste provenienti dai movimenti pacifisti di base di far rientrare nelle riflessioni della piazza anche quelle più ampie sulla guerra preventiva e permanente contro il terrorismo voluta da Bush; nessuna grande manifestazione conclusiva con la partecipazione dei testimoni della pace e della nonviolenza; nessun investimento di risorse e di energie dal basso. Nulla di nulla.
Solo il pellegrino della pace e dei diritti Alex Zanotelli è salito a Bolzano grazie a Pax Christi (che sul referendum ha preso spesso posizione anche attraverso un documento del consiglio nazionale) per chiedere, con le parole di Mandela, perdono e riconciliazione. Nel giorno del comizio di Fini, Padre Alex faceva, a modo suo, la contromanifestazione. In una chiesa affollata leggeva don Tonino Bello e don Lorenzo Milani. E chiudeva: “Non dividetevi in italiani da una parte e tedeschi dall’altra, ma cercate nella pace una piazza dove fare comunità perché avverto un grande gelo in questa città”. Parole di profeta. Parole di pace in una città piombata indietro nel tempo, quando Almirante faceva i suoi comizi davanti al monumento alla Vittoria e gli Schützen replicavano alzando i toni dello scontro. E dalle aule del Consiglio provinciale, Alex Langer rilanciava il depotenziamento della Vittoria: per rafforzare la pace e rilanciare la convivenza.
Ma la strada è ancora lunga.
LA TRAPPOLA DELL’ETNICITA’

Nato nel Wisconsin nel 1934, John W. Cole è Professore Emerito di antropologia all’università del Massachusetts. Insieme a Eric R. Wolf ha svolto tra il 1961 ed il 1969 una ricerca antropologica in Alta Val di Non, laddove un confine linguistico e culturale separa «nonesi» e «Nonsberger», cioè i trentini del paese di Tret dai sudtirolesi del vicinissimo paese di San Felix. Ne scaturì il bellissimo saggio «La frontiera nascosta», un classico dell’etnografia alpina: il racconto di due realtà poste alla stessa altitudine e di fronte agli stessi problemi di sopravvivenza, che tuttavia interpretano il proprio rapporto con l’ambiente alla luce di culture profondamente diverse. John Cole ha ricevuto a Trento la laurea «honoris causa» insieme al premio Nobel Daniel Kahnemann.

Professor Cole, Lei conosce la nostra Regione e il Sudtirolo. La scorsa settimana a Bolzano è successo qualcosa che potrebbe entrare in un manuale di antropologia: dopo anni di pacifica convivenza, la città si è spaccata sul nome di una piazza dedicata alla vittoria italiana della prima guerra mondiale. Tutti i tedeschi hanno votato per il nome «Pace», la grandissima parte degli italiani per la loro «Vittoria». Un trionfo dell’etnicità?
In effetti è così. Conosco bene quella piazza e il monumento. Capisco che questo scontro abbia deluso chi pensava che certe divisioni appartenessero ormai al passato. Tuttavia non mi pare così drammatico: il conflitto etnico è riesploso, ma è stato gestito al livello della politica democratica, attraverso un voto. Se penso alla storia del Sudtirolo, all’annessione, all’oppressione fascista, all’occupazione nazista dal 1943 al 1945 quando personaggi come il mio amico Volgger finirono nei campi di concentramento. Se penso alle bombe degli anni ’60, ai nuovi attentati negli anni ’80 – ebbene, se penso a tutto ciò, vedo una storia attraversata da scontri di etnicità contro etnicità, un’etnicità che a volte resta sotto traccia, a volte esplode nel conflitto. Una volta un mio interlocutore definì quello dei bombaroli del Tirolo un «terrorismo umanistico», per dire quanto il conflitto anche violento appartenga in qualche modo alla normalità della vostra terra. Ebbene, stavolta il conflitto è riemerso, ma integrato nella politica, in una delibera sottoposta a referendum. Per me questa è l’indicazione che in fondo c’è stato un progresso.

Tuttavia si era sperato che il conflitto si fosse esaurito.
In effetti, ricordo una ricerca sociologica uscita negli anni ’80, in cui si era cercato di scoprire come i cittadini di entrambi i gruppi linguistici si relazionassero da una parte a Piazza Walther, dall’altra a Piazza Vittoria. Venne fuori che la gente ne sapeva molto poco e non faceva grandi distinzioni. Dunque è abbastanza sorprendente che il problema sia scoppiato adesso, dopo 20 anni.

Come lo spiega?
Credo che da entrambe le parti ci siano personaggi che lavorano per fomentare occasioni di discordia, portando al centro della discussione l’etnicità ed estremizzandola. Tuttavia, se si guarda ad altre città divise, da Gerusalemme alla Beirut di un tempo a Sarajevo… beh, allora quello che accade a Bolzano è nulla.

Si era pensato che l’autonomia avesse cancellato il conflitto.
Certo, una generazione interetnica, come la teorizzava Alexander Langer, credo sia cresciuta. Conosco un italiano che ha sposato una sudtirolese di San Felix, e mi dice di non capire assolutamente più quali differenze ci siano tra i due gruppi. Parla italiano e tedesco e dopo una conversazione non saprebbe dire in quale lingua si è svolta. Però bisogna sapere che in ogni situazione in cui ci sono lingue, culture, o religioni differenti, ci saranno anche persone che cercheranno di enfatizzare queste differenze per farne un uso politico.

Che forza hanno le differenze?
Dipende. Il fatto è che la cultura è un costrutto politico e l’etnicità è quella particolare cultura che viene alimentata per compattare un gruppo. Allora, ovunque vi siano gruppi linguisticamente diversi, c’è sempre la possibilità di scegliere questa differenza per farne il fondamento principale di un’etnicità, cioè di un’identità di gruppo contrapposta alle altre.

Non c’è la possibilità di costruire una terza identità che sia comune?
Diciamo che l’etnicità è una possibilità latente. Essa può informare di sé un’identità, oppure può assumere un ruolo periferico, secondario, inoffensivo, per esempio quando diventa folklore. Allora l’identità culturale sarà data da altri fattori: per esempio l’Unione Europea sta cercando di creare una cittadinanza comune tra i cittadini dei suoi paesi membri. Può diventare prevalente l’essere donna, il mestiere, le passioni letterarie, il comune abitare in un quartiere, l’impegno sociale e così via. In questo modo l’etnicità viene relegata nella periferia. L’altro caso, invece, è che l’etnicità e i suoi simboli vengano posti al centro della propria identità e ne costituiscano il fondamento esclusivo. Ci sono sempre, in situazioni come le vostre, delle forze o delle persone che scommettono su questo, che tentano di fare dell’etnicità un fattore politico. Allora si produce il conflitto etnico.

Dunque l’etnicità dorme in modo permanente dentro di noi?
Mi sembra di sì. Pensi all’America, il paese della multietnicità, del «melting pot». Eppure perfino a Boston, dove non c’è alcun motivo di scontro etnico, la maggior parte delle alleanze politiche si svolgono su base etnica. Il candidato sindaco italo-americano cerca di mobilitare a proprio favore gli italo-americani, quello di origine polacca i polacchi. L’etnicità è uno dei modi in cui si esprime la cultura e emerge nel momento in cui un gruppo decide di differenziarsi dagli altri attraverso questo tipo di discorso, tirando in ballo qualche sua vera o presunta specificità.

L’etnicità è rappresentata da «oggetti sensibili», come la piazza di Bolzano. Che fare di questi oggetti?
Le faccio io una domanda: la divisione era solo etnica o anche politica, per esempio tra destra e sinistra?

Anche tra destra e sinistra, anche se nella Svp alleata della sinistra è presente anche la destra.
Beh, questo complica ulteriormente le cose. E un’altra domanda: il cambiamento del nome della piazza era presente nel «patto con gli elettori» fatto dai partiti al momento delle elezioni?

È stato inserito dopo nel programma di giunta, ma i partiti italiani del centro sinistra non lo avevano presentato agli elettori al momento del voto.
Ecco, vede che cosa vuol dire agire con leggerezza trattando gli oggetti che rappresentano l’etnicità? Quella piazza rappresenta evidentemente, e per entrambi i gruppi, il momento in cui gli italiani sono arrivati a Bolzano; la cosa migliore sarebbe lasciarla lì com’è, dicendo che rappresenta tempi difficili e quindi la affidiamo alla storia, cerchiamo di imparare dal passato in modo che tempi infelici non tornino più. Se invece ci si vuole mettere le mani sopra, con un intervento più forte, allora bisogna aver parlato chiaro agli elettori già prima ed essere sicuri che ci sia il loro consenso.

Intervista a cura di Riccardo Dello Sbarba
Pasquale Pugliese: I GAN: un progetto di azione diretta per la Rete

Venerdì 27, sabato 28 e domenica 29 settembre si è svolto a Roma Ciampino il Seminario Nazionale: “Nonviolenza: attivarsi per un mondo diverso” organizzato dal GLT “Nonviolenza e Conflitti” della Rete di Lilliput. Ai lavori seminariali hanno partecipato attivamente più di cento persone. Divisi in gruppi di lavoro si è cercato di lanciare concretamente il progetto del Gruppi di Azione Nonviolenta (GAN). Riportiamo qui sotto una sintesi dell’intervento di Pasquale Pugliese, referente per Lilliput del progetto GAN e membro attivo del Movimento Nonviolento.

Il sistema nel quale viviamo è profondamente in crisi dal punto di vista energetico, ecologico e sociale. E’ in atto un drammatico conflitto tra il modello economico dominante e la biosfera. Il potere imperiale che governa il pianeta sta operando una trasformazione violenta di questo conflitto, sovrapponendo alla violenza strutturale, sulla quale è fondato, la violenza diretta della repressione verso il dissenso interno e della guerra permanente verso l’esterno. In questa fase di conflitto l’uso della violenza diretta ha anche, e forse soprattutto, la funzione mimetica di nascondere le ragioni della crisi e puntare tutte le attenzioni sul/sui “nemico/ci”, causa di tutti i mali.
Ciò pone ai movimenti di resistenza e costruzione delle alternative una doppia sfida, una doppia alternativa:
di contenuto: ridurre l’impatto del sistema energetico-economico-sociale sulla biosfera, ossia ridurre l’impronta ecologica e sociale, per uscire della crisi planetaria;
di metodo: ribaltare la trasformazione violenta del conflitto operando la sua trasformazione in senso nonviolento, per svelare ed affrontare le vere ragioni del conflitto.

In questo quadro, sono almeno due le ragioni principali per operare la scelta consapevole della nonviolenza:
1) per superare la scissione tra etica e azione politica (macchiavellicamente “il fine giustifica i mezzi”) e reinserire l’etica nella politica (gandhianamente “il mezzo sta al fine come il seme sta all’albero”);
2) perché può essere efficace, per le seguenti ragioni:
a) la nonviolenza interviene sui processi per modificare le strutture profonde della società e non solo sugli eventi indotti. E’ pro-attiva pittosto che re-attiva. Ha una propria agenda che cerca di realizzare, anche attraverso il lavoro al “programma costruttivo”, e non risponde solo ad input esterni;
b) ha un approccio complesso al conflitto nel quale non considera solo i due soggetti esplicitamente avversari – oppresso ed oppressore – ma tiene conto delle fondamentali terze parti, delle quali cercare la simpatia, il consenso ed infine l’alleanza.
E’ quest’ultimo un punto cruciale sul quale soffermarsi.
Già nel ‘500 Etienne de La Boétie nel suo Discorso sulla servitù volontaria, ha evidenziato come le vere radici del potere stanno nella “complicità” di chi lo subisce. Secondo Sharp le ragioni dell’obbedienza sono l’abitudine, la paura delle sanzioni, l’obbligo morale, l’interesse personale, l’identificazione psicologica con il governante, le “zone d’indifferenza”, la mancanza di fiducia in se stessi. Ciò è ancor più vero nel sistema capitalista nel quale il sostegno principale al sistema non è dato tanto dall’esercito o dalla polizia quanto da quel venti per cento di cittadini del mondo ricco che da un lato dissipa le risorse economiche, ecologiche ed energetiche di tutti e dall’altro comincia, per lo più inconsapevolmente, a pagarne le conseguenze.
Si tratta, pertanto, di agire parallelamente nei confronti del potere e delle ”terze parti” che, consapevolmente o meno, lo sostengono. E dunque anche su noi stessi.

Ma, nella situazione data, affinché la scelta della nonviolenza da parte di Rete Lilliput sia effettivamente efficace bisogna soddisfare tre condizioni di efficacia:
1) uscire dal generico della a-violenza e della non violenza ed entrare nello specifico della nonviolenza, ossia del metodo satyagraha come proposto dai movimenti gandhiani. Ciò significa che non si tratta di non rompere le vetrine durante un corteo pacifico, ma di appropriarsi di un metodo complessivo di azione che ha propri principi, strategie (nel senso di agire su più strati), tattiche e tecniche;
2) passare dal dire nonviolenza al fare nonviolenza. Ossia cominciare a praticare ciò che scriviamo sui nostri documenti, considerando che nella suddivisione dei saperi – sapere, saper essere, saper fare – in ambito lillipuziano siamo probabilmente abbastanza concentrati sui primi due (di più sul secondo che sul primo), ma assolutamente in ritardo sul terzo, cioè sul saper fare nonviolenza;
3) avviare seri e diffusi percorsi di formazione teorico-pratica alla nonviolenza.
L’insieme di queste tre condizioni ci consentirebbe di acquisire la nonviolenza come metodo, ossia di passare da una dimensione puramente ideale della nonviolenza ad una metodologica. Perché la nonviolenza è metodo ed è metodo sperimentale, nel quale la teoria si confronta sempre con la pratica e in questo confronto il metodo stesso evolve, arricchendosi di sempre nuove dimensioni e producendo imprevedibili risultati.

I Gruppi di Azione Nonviolenta possono diventare lo strumento lillipuziano per l’uso consapevole e complessivo del metodo nonviolento.
Denominare GAN i nascenti gruppi lillipuziani, che s’affacciano oggi sulla strada della nonviolenza, significa non partire da zero – vizio spesso diffuso nei nostri gruppi e movimenti – ma riallacciarsi ad una storia che è all’origine della diffusione in Italia della nonviolenza attiva. Infatti, nella nonviolenza italiana GAN non è una sigla nuova: nei primi anni ’60 un gruppo di sei giovani di diverse città, coordinati da Pietro Pinna, diedero vita al primo Gruppo di Azione Diretta Nonviolenta che sparse i semi per l’introduzione anche in Italia delle tecniche di azione nonviolenta, già da tempo sperimentate all’estero. Il gruppo confluì poi nel nascente Movimento Nonviolento fondato da Aldo Capitini (2).
L’obbiettivo è quello di avere nei prossimi anni un GAN per ogni nodo Lilliput, allo scopo di poter mettere in campo una vera strategia lillipuziana, reticolare e nonviolenta.
Lillipuziana: perché si attiva dal basso, dai territori locali nei quali si comunica a viso aperto con i propri concittadini, utilizzando al meglio la dimensione comunicativa delle azioni dirette nonviolente, e dove si può lavorare concretamente ed efficacemente alla realizzazione dei programmi costruttivi;
reticolare: perché la costituzione dei GAN presso i nodi consente di sviluppare una rete di attivisti diffusa su buona parte del territorio nazionale capace, se opportuno o necessario, di attivarsi anche sincronicamente;
nonviolenta: perché usa il metodo nonviolento come propria specifica modalità di attivazione, gestione e trasformazione dei conflitti, ed in particolare le azioni dirette nonviolente.

Il Gruppo di Lavoro Tematico Nonviolenza e conflitti indica ai nodi i seguenti quattro possibili ambiti d’intervento dei GAN, quattro possibili piste di lavoro o sentieri da esplorare, che non ne esauriscono le possibilità ma propongono dei punti di avvio.

“- i GAN sarebbero lo strumento di azione attraverso il quale le campagne lillipuziane possono agire con il metodo nonviolento, attivando, tra l’altro, la gandhiana “legge della progressione” che prevede il passaggio graduale dalle forme più blande di azione a quelle via via più incisive e radicali fino alla realizzazione dell’obbiettivo essenziale stabilito, per passare poi ad un nuovo obbiettivo…;
i GAN agirebbero, nei propri territori, sulle conseguenze nel tessuto locale dei fenomeni globali, attivando un conflitto sul tema più sentito nelle proprie comunità con il metodo nonviolento che prevede parallelamente l’azione diretta ed il “programma costruttivo”;
una rete di GAN diffusa sul territorio nazionale sarebbe di fatto un presidio democratico di fronte alle involuzioni autoritarie alla quale stiamo assistendo in Italia, e non solo, una volta acquisite le capacità di attivarsi come “difesa popolare nonviolenta” da un aggressore interno alle istituzioni democratiche.
i GAN potrebbero divenire gruppi d’appoggio e di supporto per i Corpi Civili di Pace in missione in situazioni di guerra.”

Naturalmente tutto ciò potrà avvenire solo nella misura in cui i nodi ed i singoli lillipuziani decideranno di dare testa e gambe a questo progetto, all’interno delle realtà locali.
Ricordando che la Rete Lilliput, e dunque di tutti noi, ha una doppia responsabilità:
una responsabilità nei confronti degli altri movimenti, che hanno delle attese rispetto alla nonviolenza che la Rete ha avuto il coraggio di scegliere e proclamare, e adesso deve fare e dimostrare;
una responsabilità verso la deriva violenta del conflitto strutturale in corso, che se non proviamo a trasformare noi in senso nonviolento, e prima che sia troppo tardi, nessun altro, almeno in Italia, potrà farlo.

ALTERNATIVE
A cura di Gianni Scotto

L’esperienza del Servizio Civile di Pace (SCP) in Germania è ormai consolidata. Il recente risultato elettorale (la conferma della coalizione “rosso-verde” al governo) garantisce la prosecuzione di questo tipo di progetti. I progetti di SCP vengono finanziati dallo stato e realizzati da organizzazioni indipendenti, tra cui gruppi pacifisti e nonviolenti e ONG di cooperazione. Un ruolo importante nel lancio e nella creazione dei progetti viene svolto da alcuni “consorzi” di organizzazioni: AGDF, che riunisce le ONG di ispirazione evangelica, AGEH, il consorzio di organizzazioni cattoliche, e il Forum “Ziviler Friedensdienst”, che raduna le organizzazione pacifiste che si sono battute per l’introduzione dello SCP e che ora gestisce progetti sul campo in prima persona . Il limite dello SCP tedesco è forse quello di avere in qualche misura perso la connotazione originaria di strumento di costruzione della pace per diventare in alcuni casi una forma di cooperazione allo sviluppo.
Fin dalla fase iniziale è stata data grande attenzione alla formazione degli operatori, in particolare dai grandi consorzi e dalle organizzazioni più grandi: ad esempio il progetto pilota di formazione alla nonviolenza finanziato dal Land Nord Reno-Westfalia è partito nel 1997 e ha permesso negli ultimi anni sviluppare l’approccio del training nella formazione degli operatori di pace in moduli di 2-3 mesi.
Una tappa importante nello sviluppo di forme civili di intervento in situazioni di conflitto internazionale è stata la nascita della rete europea EN.CPS “European Network for Civilian Peace Service” ( si veda il sito internet www.4u2.ch/EN.CPS/ ).
La rete conta circa venti organizzazioni partecipanti da 11 paesi europei. Nell’aprile scorso la rete si è riunita a Milano, dando l’occasione a rappresentanti di diverse realtà italiane di entrare in contatto con le altre organizzazioni europee: tra queste il Movimento Nonviolento, l’Associazione per la pace il Centro Studi Difesa Civile, l’associazione papa Giovanni XXIII.
Nell’immediato futuro le associazioni della rete intendono mettere in cantiere un progetto di intervento civile dal basso più ambizioso dei progetti, pur importanti, realizzati finora. L’intento è quello di interagire con le istituzioni europee e segnalare l’importanza degli strumenti civili di trasformazione dei conflitti, in particolare per la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione Europea. A Milano si è deciso di effettuare uno studio di fattibilità di un intervento civile a Cipro: l’isola è rimasta divisa come risultato un lungo conflitto tra i due gruppi etnici che vi abitano, turchi e greci, culminato con l’invasione turca nel nord dell’isola nel 1974. La stessa capitale Nicosia è divisa in due dalla linea verde che separa il nord controllato dai turchi dal sud. Oggi la prospettiva di entrare a far parte dell’Unione europea ha reso improvvisamente dinamica una situazione che non era mutata in quasi trent’anni. Lo studio è stato finanziato dal ministero degli esteri tedesco ed è ora disponibile in Internet sul sito della rete e si concluderà nell’aprile del prossimo anno.
Lo scopo della prima fase dell’indagine è stato anzitutto di analizzare la situazione politica e la possibilità di un intervento, e di identificare gli attori interni al conflitto intenzionati a lavorare per la pace e il dialogo. Nonostante che a livello della politica ufficiale la situazione sia bloccata, nella società civile si sta verificando una evoluzione graduale. Sia nella parte turca che in quella greca nascono nuove organizzazioni di base, e molte di esse sono interessate a perseguire attivamente i l dialogo con l’altra parte. Nel corso degli ultimi anni diversi programmi di formazione alla gestione costruttiva dei conflitti (in particolare dell’organizzazione statunitense “Institute for Multi-Track Diplomacy” hanno portato alla creazione di un gruppo di mediatori e formatori locali, attivamente impegnati per costruire ponti tra le due comunità. Il conflitto cipriota ha attirato già da molti anni l’attenzione di fondazioni e governi interessati a una soluzione negoziata: anche per questo forse gli attivisti dell’isola sono assai preparati e hanno spesso un background accademico e una solida formazione specifica.
I segnali dalla società cipriota sono stati incoraggianti: c’è interesse a un progetto di servizio di pace ed è unanime l’opinione che una presenza di organizzazioni della società civile europea possa fornire un contributo rilevante alla trasformazione del conflitto e al riavvicinamento tra le due comunità. Il profilo professionale dei componenti del gruppo dovranno corrispondere all’alto grado di maturità e preparazione degli attivisti locali. Resta ancora da comprendere l’evoluzione del conflitto in una fase della storia cipriota caratterizzata da grande incertezza: a seconda dell’evoluzione politica una presenza civile internazionale potrà lavorare separatamente nelle due zone o – se si aprirà, come è possibile, una fase di distensione – lavorare attivamente da “ponte” tra nord e sud dell’isola. Il progetto di una presenza di pace a Cipro promette di diventare un test importante per la fattibilità e l’efficacia delle strategie di intervento civile nei conflitti internazionali. Mi auguro che le realtà italiane già impegnate nella rete europea seguano con attenzione questo progetto.

BANANE IN… FERMENTO

Cosa sta succedendo al mercato delle banane? Dopo il passaggio della sudafricana Del Monte alla Cirio del finanziere italiano Cragnotti (quello della squadra calcistica del Lazio) a causa delle pesanti difficoltà economiche in cui versava, anche le altre due big del settore, Dole e Chiquita, non se la passano bene.
La prima è stata oggetto di acquisizione da parte del suo amministratore delegato, David Murdock, che per pochi dollari ha deciso di investire in quella che evidentemente è la società che conosce meglio. La seconda invece ha dovuto addirittura portare i libri al tribunale fallimentare, dopo più di cento anni di attività nel settore bananiero.
Personaggio tra i più ricchi d’America, da 18 anni Murdock dettava la linea del gruppo Dole, che essendo però quotato alla borsa di New York doveva pur sottostare ai requisiti minimi di trasparenza societaria imposti dalle autorità di controllo statunitensi. Evidentemente per avere le mani più libere in questo momento critico, e per non dover soddisfare continuamente le richieste dei fastidiosi azionisti di minoranza, Murdock ha deciso di fare da sé, troncando ogni obbligo di informativa sull’operato dell’azienda. Possiamo star certi che i raccoglitori degli sterminati campi di coltivazione subiranno direttamente le conseguenze di questa decisione.
Nata nel 1899 con sede a Panama, e nono marchio più conosciuto al mondo, la Chiquita ha invece il triste merito di aver fatto coniare il detto “repubblica delle banane” ai giornalisti che avevano scoperto il suo operato nel sud del mondo. Le inchieste del Cincinnati Inquirer e del settimanale Fortune negli anni ’80 iniziarono un processo di distruzione dell’immagine della compagnia, che portò anche un suo presidente, Eli Black, a togliersi la vita per delle bustarelle; ma quello stesso processo lasciò impunita l’attività di commercio di armi, di sostegno al golpe in Guatemala, di continue violenze a danno dei lavoratori per merito del costante sforzo della società nel comprarsi il sostegno politico necessario ad insabbiare le indagini.
La Famiglia Lindner, ultima proprietaria del gruppo, ha elargito più di 5 milioni di dollari al partito democratico e a quello repubblicano, dal ’93 al ’99, per fare eliminare le barriere doganali europee che agevolano l’acquisto di banane dai paesi ACP, in pratica tutti i paesi che un tempo erano colonie di Francia, Belgio, Olanda e Gran Bretagna. Un patto sottoscritto per lavare la coscienza sporca dell’Occidente prevedeva infatti che il costo di acquisto delle banane fosse a loro più favorevole, danneggiando così le multinazionali americane. Il rinnovo del trattato, conseguente alla battaglia commerciale che gli USA hanno scatenato all’interno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) sobillati dalle famiglie Lindner e Murdock, non ha impedito alla Chiquita di dichiarare la bancarotta nel novembre 2001.
Nel gennaio 2002 il consiglio di amministrazione della Chiquita ha presentato un piano di ristrutturazione nel quale i creditori sono stati rimborsati in azioni, che nel frattempo avevano però perso la metà del loro valore. Ma nello stesso mese è stata pubblicata in Nicaragua, dopo più di due anni e mezzo di dure lotte dei lavoratori del banano, la ”Legge Speciale per Promuovere Processi Richiesti dalle Persone Colpite dall’Uso di Pesticidi Fabbricati a base di DBCP”, unica legge specifica in tutta l’America Latina che mette le basi per costringere le multinazionali fabbricanti, distributrici, applicatrici e commercializzatrici dei pesticidi a pagare gli enormi danni provocati, durante tutti questi anni, ai lavoratori ed alle lavoratrici delle piantagioni di banane.
A seguito di questa legge le vittime di sostanze come il Nemagón e il Fumazone, hanno presentato le prime denunce per danni e lesioni. In Nicaragua sono quasi 4000 i nuovi lavoratori che operano all’interno delle piantagioni appaltate a Chiquita e Standard Fruit, che hanno rilanciato la produzione delle banane fino a farla tornare a quella degli anni ’70, ma anche la loro condizione non differisce da quella di quegli anni.
In maggio, a Tegucigalpa (Honduras), dove Chiquita possiede circa 3.400 ettari coltivati a banane, iniziava lo sciopero dei 2.200 lavoratori della Tela Railroad Company, filiale della statunitense Chiquita Brands. Tra le ragioni della protesta anche l’uso di un erbicida che, secondo il sindacato, era pericoloso per la salute dei lavoratori.
In questo scenario, un fatto di grande rilevanza è stato sicuramente l’accordo siglato, sempre in maggio, tra la Uita (il sindacato internazionale degli alimentaristi), la Colsiba (il Coordinamento dei sindacati delle banane dell’America latina) e la Chiquita Brands International sui diritti sindacali e le norme minime di difesa contrattuale e sull’impiego, con la supervisione del Direttore generale dell’Oil, Juan Somavia.
L’Accordo, diviso in tre parti, riconosce i diritti fondamentali di ogni lavoratore ad essere eletto o rappresentato dal sindacato e viene anche riconosciuto il diritto alla contrattazione collettiva. Si afferma il diritto dei lavoratori a migliorare le proprie condizioni di lavoro come una condizione che rafforza gli interessi sia dei lavoratori che delle imprese, si proibisce il lavoro infantile e ogni forma di discriminazione in genere.
L’accordo infine prevede talune clausole di verifica e di controllo per il rispetto dell’intesa con la creazione di commissioni bipartitiche dei sindacati e dell’impresa, ma per il suo effettivo impatto sulle condizioni dei bananeros occorrerà aspettare ancora un po’ di tempo.

14 ottobre 2002, Paolo Macina
Musica

La notizia ha colto di sorpresa non solo me: il 7 ottobre Pierangelo Bertoli, a poco più di un mese dal sessantesimo compleanno, ha smesso di cantare fra di noi. Restano le sue canzoni a farci compagnia. Come l’anima dei poeti cantata da Charles Trenet, che vive nelle loro parole che risuonano per le vie, così le sue canzoni, come il vento che soffia ancora e “spruzza l’acqua alle navi sulla prora/ sussurra canzoni tra le foglie/ bacia i fiori li bacia e non li coglie/ sfiora le campagne/ accarezza sui fianchi le montagne/ scompiglia le donne fra i capelli/ corre a gara in volo con gli uccelli”..
Ci lascia più di 220 canzoni in 22 album, le prime scritte a 23 anni con una chitarra ricevuta in regalo. Forse ne riscopriremo tante che ci erano sfuggite, piene dell’energia che ha messo in tutto quello che ha vissuto. Costretto in carrozzina dalla poliomielite e per questo emarginato per anni dalla tv, ha cercato di vivere una vita normale: “ Mi è andata bene. – diceva in una recente intervista – Avevo un fisico ‘stortignato’ dalla metà in giù ma molto forte. E l’ho trattato malissimo: ho faticato e fumato troppo, guidato tanto, fino a 800 chilometri al giorno per 300 giorni all’anno. Oggi il corpo mi dà e con ragione, qualche segnale di stanchezza…” Uno spot televisivo della “Lega per l’emancipazione dell’handicappato” gli ha anche permesso di vincere un Telegatto. Papà di 4 figli, cantastorie senza peli sulla lingua pronto a lanciare messaggi immediati e genuini per l’emancipazione popolare, contro gli ingabbiamenti, le disonestà e i falsi moralismi, ha attraversato esperienze politiche e artistiche su svariati fronti: dai comizi in musica con Dario Fo alle Feste dell’Unità anni sessanta, all’esperienza amministrativa al Comune di Sassuolo, al grande palcoscenico di Sanremo dove ha portato con “Italia d’oro” una delle prime denunce di Tangentopoli. E’ stato l’apripista verso avventure musicali sempre più importanti per personaggi come Fiorella Mannoia che ha duettato con lui in “Pescatore”, per i Tazenda, portati sempre a Sanremo con “Spunta la luna dal monte”, per Ligabue che, ancora sconosciuto, si è visto incidere due canzoni da Pierangelo.
L’ho incontrato alcune volte e lo ricordo sempre disponibile e voglioso di ragionare sulla musica ‘impegnata’ e su tutti i meccanismi che entrano in gioco quando si mette in moto l’organizzazione del mondo dello spettacolo collegata a obiettivi sociali e politici, in particolare in una lunga chiacchierata a Cervia nell’estate 1988.
Della guerra ha cantato ricollegandosi alla tradizione popolare, attraverso la storia delle vittime, per affermare la voglia di riscatto dell’uomo di fronte alla sua parte peggiore: “Soldato ignoto che riposi nell’Afganistan/ in Palestina tra i silenzi dei boschi in Vietnam/ dentro ai Balcani nelle antiche città dell’Iraq/per l’interesse che cuore non ha l’alba non ti sveglierà/ (…)Al scender della sera l’ombra della libertà/ innalza una preghiere a tutta l’Umanità/ fai che riposi in pace il figlio che non ritornò/ manda i potenti a morire per noi risparmia i figli tuoi” (“Valzer lento”).
La nonviolenza? Non ne abbiamo mai parlato e, per quel che mi risulta, immagino non fosse un persuaso al 100%. In “Non vincono”, scritta pensando al golpe di Pinochet in Cile, raffigura con grande efficacia la mobilitazione popolare:”se oggi nessuno ha timbrato è perché non serviva/ e nelle galere ha portato chiunque reagiva/ peccato che il tempo sia stato fissato da loro/ invece che nascere prima dal nostro lavoro/ Il prossimo fuoco sarà ravvivato da noi/ nel posto nel tempo e nel modo fissato da noi/ nessuno potrà soffocarlo diventerà immenso/ mi sembra già di vederlo se solo ci penso/ non vincono non vinceranno non hanno domani/ la forza è nel puntello impugnato da oneste fortissime mani”. Forse quel ‘puntello’ non era esattamente la nonviolenza, ma noi possiamo pensarla così, certi che oggi anche lui sarà d’accordo: quel puntello è la nonviolenza pronta a entrare nel varco della storia…
Lo ricorderò sempre per una canzone che mi ha aiutato più di una volta a non abbandonare definitivamente uno spazio creativo nella mia vita: “E allora con la falce taglio il filo della luna/ la musica mi sembra più vicina/ e prendo a pugni e schiaffi la tristezza e la sfortuna/ e cerco di tornare come prima”(“La fatica”).

Cinema
Il figlio di Luc e Jean-Pierre Dardenne

Le fils-Il figlio: un altro, il terzo della straordinaria galleria dardenniana. Figlio, come il protagonista maschile de La promesse, primo lungometraggio dei fratelli Luc e Jean-Pierre: figlio e inconsapevole complice di un padre, meccanico di professione, che sfrutta nella maniera più bieca ed aberrante la necessità di lavoro della manovalanza immigrata clandestinamente in terra belga. Ed è pure figlia Rosetta, miglior film e miglior interprete femminile al festival di Cannes 2001; figlia di una madre che di professione fa la prostituta e la costringe a vivere in una baracca, periferia disperata dei suoi sogni e dei suoi desideri di adolescente. Le fils-Il figlio, dunque: l’ennesimo struggente interprete della disperazione minorile nella società contemporanea? La terza straordinaria icona di un’adolescenza a rischio per le colpe dei padri e delle madri? Nulla di ciò, ma anche tutto di ciò. Nulla di tutto questo, perché nel terzo ed ultimo lungometraggio dei Dardenne la macchina da presa “pedina” un padre: Olivier (premiato con la palma d’oro a Cannes 2002), insegnante di carpenteria in un centro per il recupero di delinquenti minorili. Ma anche tutto di ciò perché, un giorno si presenta al centro Francis, figlio apparentemente di nessuno o di qualcuno, forse, che lo aveva messo al mondo per sbaglio; ma Francis è proprio il ragazzino che cinque anni prima aveva ucciso, strangolandolo, il figlio di Olivier, nel tentativo di rubare lo stereo dalla sua macchina. Di nuovo la costante, per i Dardenne, del rapporto tra il mondo di un padre e quello di un figlio; ma stavolta innestata su una dinamica molto più complessa, rispondente ad un quesito di natura esistenziale e filosofica: “può un padre perdonare l’assassino del figlio?”
I Dardenne cercano di rispondere a questo grande interrogativo, che potrebbe tra l’altro costituire una riflessione di estrema attualità anche rispetto ai fatti di cronaca del nostro paese, attraverso un uso del mezzo cinematografico minimale ma assolutamente coerente con il proprio più che ventennale passato di documentaristi sociali, costellato di numerosi e agguerriti video militanti: il “fatto”, il dato di realtà, costituiscono l’unità narrativa del cinema dei cineasti di origine belga, il faticoso quotidiano degli anonimi protagonisti delle loro storie, letteralmente “inseguiti” dalla macchina da presa: una macchina da presa, che comprime i personaggi principali all’interno di frenetici primissimi piani (per certi versi finanche claustrofobici), spesso alle spalle, a volte di fronte quando non di lato, tali da descriverne il concreto itinerario psicologico, che si sviluppa all’interno della vicenda; una macchina da presa quasi caricata sulle spalle di Olivier, autentico soggetto scopico, colui che per tutta la narrazione offre il proprio sguardo allo spettatore in una lunghissima, quasi interminabile, soggettiva. Il cinema dei fratelli Dardenne è un cinema estremo e rigoroso, che se ad una prima e superficiale impressione stilisticamente potrebbe far pensare al Dogma di Von Trier (uso della camera a mano, illuminazione naturale, niente musiche di fondo ma soltanto rumori d’ambiente, dialoghi ridotti al minimo…) in realtà se ne discosta totalmente per la radicalità, l’anti-retorica e la coerenza concettuale: nel cinema dei Dardenne non ci sono colpi di scena, non si gioca con il dolore dei personaggi e degli spettatori, non vi è traccia di compiacimenti stilistici e narcisistiche infrazioni delle regole, e il “verismo” della narrazione non decade mai nel melodramma. Il loro è un cinema al servizio del frammento di realtà prescelto; uno sguardo al servizio dei personaggi, dei quali sposano politicamente la causa, ma dai quali riescono a mantenere un certo distacco emotivo; uno sguardo, per tornare al film in analisi, concentrato nell’arduo tentativo di fornire una risposta alla domanda “può un padre perdonare l’assassino di suo figlio?”. Olivier si carica questa croce sulle spalle, un po’ come i ragazzi del centro, Francis compreso, si caricano sulle spalle le assi di legno; il suo è un volto carico di sofferta e indicibile angoscia: ciò che i Dardenne descrivono, è il turbamento interiore, del tutto laico, di un uomo che accetta di vivere la dimensione del perdono come un lungo e faticoso percorso, proteso nello sforzo costante di capire, conoscere, comprendere l’altro (in questo caso, Francis) e i motivi o i non motivi che lo hanno spinto al tragico gesto, rinunciando, in questo modo, alla facile scorciatoia del giudizio e alle lusinghe della vendetta.
Gianluca Casadei
Cooperativa FuoriSchermo – Cinema & Dintorni

Educazione

Non so se qualcosa sia veramente cambiato nel mondo dopo l’11 settembre.
A guardare i politici, gli economisti, le multinazionali, i giornalisti, i militari…sembrerebbe di no.
‘Segavano i rami sui quali erano seduti e si scambiavano a gran voce le loro esperienze di come segare più in fretta, e precipitarono con uno schianto. E quelli che li videro scossero la testa segando e continuarono a segare…’.
Brecht e il suo leggendario ottimismo…!
Ma forse qualcosa è cambiato… tra i nonviolenti ? Mi arrischio a dire: sì.
Un segno ulteriore di questo, all’interno dei percorsi aperti in Rete Lilliput e ‘Verso i Corpi Civili di Pace’, è stato il Corso per la formazione di nuovi formatori che si è tenuto a Pruno di Stazzema ( un piccolo, splendido paese incastonato tra le Alpi Apuane, in Lucchesia) tra il 25 agosto e il 1 settembre scorsi.
Cinque trainers (oltre a chi scrive, Alberto L’Abate, Antonella Sapio, Marianella Sclavi e Roberto Tecchio), venti partecipanti (provenienti da tutto il Centro Nord, per metà lillipuziani), hanno dato vita ad un’esperienza comune che, crediamo, lascerà un segno nei percorsi di ciascuno e ciascuna di noi.
Non è stato soltanto, infatti, un corso di formazione, ma uno scambio ‘in rete – senza rete’, in primo luogo tra gli stessi trainers: forse è proprio per questo che abbiamo voluto iniziare a presentarci assumendo giocosamente le vesti di cinque ‘autorità religiose’ che tentavano un dialogo ed una collaborazione tra loro per costruire insieme un ‘Villaggio ecumenico della pace’: l’Abate di Saint Gimignen ha accolto nella sua chiesa, con l’appoggio di Don Mario, il fantastico parroco di Pruno e dei suoi infaticabili e generosissimi collaboratori, Lorenzo e Aniceto, gli altri quattro ‘maestri spirituali’: Osama Bin Euladen (islamico), Cantonellasabbia (aborigena australiana), la Rev. Lady Slaves (protestante americana) e Tich Tech Chio (monaco buddista).
Per tutta la settimana, giorno e notte, si sono alternate fasi di riflessione, di lettura e studio, giochi ed esercizi, video e conferenze…un lavoro intenso ed intensivo, che ha permesso a tutti i partecipanti, trainers inclusi, di mettersi in gioco, di elaborare i loro percorsi, di innovare i patrimoni, di confrontarsi e collaborare, anche –talvolta- attraversando conflitti, differenze, territori sconosciuti…
Il gruppo è stato motivatissimo, esigente, attento e curioso. E, forse possiamo finalmente dirlo, si sono poste le condizioni per una nuova generazione di trainers alla nonviolenza in Italia.

Il programma prevedeva sei temi formativi fondamentali, variamente intrecciati tra loro:
1.l’ascolto attivo e l’empatia
2.il conflitto
3.il metodo del consenso
4.l’azione diretta
5.la riconciliazione e la giustizia non vendicativa
6.le campagne e le strategie nonviolente.

I pomeriggi erano dedicati alle proposte dei trainers, che hanno lavorato sempre in coppia; le mattine seguenti, sullo stesso tema, i corsisti si provavano, a loro volta, in veste di formatori ‘in erba’. La formula, innovativa e sperimentale, ha funzionato: ci è sembrato che, pur nelle differenze di ruolo e di esperienza, si sia creato un clima positivo, di forte equivalenza e di scambio reale, trasparente e aperto, non reticente, serio e ludico, ironico e autoironico, leale e coinvolgente.

E ora ?
E’ importante che questa prima iniziativa prosegua e si sviluppi, sia attraverso trainings locali, sia all’interno di campagne nazionali e di ulteriori attività formative su ampia scala.
In collegamento con i GAN (Gruppi d’azione nonviolenta) ed il GLT-Nonviolenza di Rete Lilliput (che ha sostenuto anche economicamente la partecipazione dei suoi ‘nodi’), con i movimenti nonviolenti, all’interno del percorso che va verso la formazione dei Corpi Civili di Pace e con le organizzazioni in esso coinvolte.
E’ giunto il momento di coordinarsi, di superare vecchie ruggini e personalismi, di collaborare superando costruttivamente le differenze e i conflitti, lavorandoci sopra, trasformandoli in positivo.

Molte sono le domande da cui partirei, come formatore impegnato nei movimenti, per andare oltre la situazione attuale:
come possiamo rendere più rapida, all’altezza dei tempi e delle urgenze di oggi, la diffusione della nonviolenza attiva ?
perché è così difficile ‘agire’ e cosa cambia nel lavoro di trainer quando si vuole formare all’’azione’ ?
cosa dobbiamo rivedere nel patrimonio tradizionale dell’azione nonviolenta, cosa innovare, e come ?
come favorire i contatti e i rapporti con aree di attivisti (ad es. i ‘disobbedienti’) che compiono azioni dirette, spesso al nostro fianco, ma sono ancora distanti da una impostazione coerentemente nonviolenta ?
in che rapporto può stare l’azione nonviolenta con l’opposizione sociale ‘moderata’ espressa dai ‘girotondi’ ?
come favorire un circolo virtuoso tra formazione e azione, che le veda in connessione e non in alternativa come ancora oggi spesso accade ( chi fa formazione non agisce, chi agisce non fa formazione…) ?
che contributo possiamo dare ad una politica che non espunga da sè le emozioni, la bellezza, l’immaginazione, il senso delle relazioni, il valore delle idee ?

Mi rendo conto, non è poco.
C’è molto lavoro da fare, per i formatori di ieri, di oggi e di domani.
Non stiamo partendo da zero.
In questi anni, la formazione alla nonviolenza nelle sue varie anime (riviste e libri, conferenze e seminari, training, azioni…) è cresciuta, anche nel rispetto di chi ci guarda e vuole fare politica oggi. A questo proposito concludo ricordando che a fine settembre, al Seminario nazionale del GLT-Nonviolenza, sarà presentata la ‘Guida per l’azione diretta nonviolenta’, un agile ‘libellulo’ edito dalla Berti, che ricostruisce un itinerario storico sugli ultimi vent’anni in Italia, e offre un ‘kit’ per ‘veterani’ e nuovi attivisti orientati all’azione nonviolenta.
Ma di questo parleremo meglio, spero, una prossima volta…

Cagliari 16.9.02 enrico euli

Riferimenti utili:
Chi volesse approfondire questi temi o contattarci può farlo attraverso il link:
www.peacelink.it/amici/glt
oppure scrivere a diabeulik@libero.it
o iscriversi alla mailing list RFN ( mag6-a@iperbole.bologna.it ).
Da Troia e dall’Iliade un’ode alla pace

Simone Weil, Sui conflitti e sulla guerra, Edizioni Centro di Ricerca Nonviolenta, Brescia, 2001

Una settantina di pagine in tutto, il volume propone due opere ormai pressoché introvabili in traduzione italiana. Si tratta dei saggi “Non ricominciamo la guerra di Troia” e “L’Iliade poema della forza”, nei quali la pensatrice francese riflette sulle motivazioni e sulle modalità dello scoppio dei conflitti, offrendo preziose indicazioni anche per l’interpretazione delle dinamiche di sviluppo della guerra oggi in corso in Afghanistan e domani forse in Iraq.
Nel primo lavoro, apparso originariamente nell’aprile 1937 su “Nouveaux Cahiers”, la Weil esamina con lucida e spietata razionalità i meccanismi dell’agire politico nella prima metà del secolo (ma anche oltre, potremmo dire oggi con il senno di poi) che esige sacrifici “in virtù di astrazioni cristalline”. I conflitti bellici sono tanto più pericolosi quanto più indefinita è la posta in gioco. E questo “vuoto di senso” che cogliamo nella guerra fra Achei e Troiani è proprio non solo di quella ma della guerra in quanto tale. A Troia la posta in gioco era Elena, una donna di perfetta bellezza della quale però non importava nulla a nessuno salvo il guerriero dilettante Paride. “La sua persona – scrive la Weil – era tanto evidentemente sproporzionata rispetto a quella gigantesca battaglia che agli occhi di tutti lei era solo il simbolo dell’autentica posta in gioco: ma l’autentica posta in gioco nessuno la definiva, e non poteva essere definita poiché non c’era”. E’ un po’ quello che accade quando si mandano a morire milioni di persone per parole che – “adorne di maiuscole” – vengono svuotate di ogni significato. E quindi “chiarire le nozioni, screditare le parole congenitamente vuote, definire l’uso delle altre parole grazie a precise analisi” è “un lavoro che potrebbe preservare molte vite”.
La Weil sottolinea inoltre l’assurdità delle opposizioni e distinzioni fra i diversi totalitarismi, forieri tutti di sanguinose conseguenze per i popoli che ne sono vittime. Caratteristiche comuni alle dittature sono l’assoluto predominio dello Stato (elevato a modello etico per i cittadini), il tentativo di plasmare con la coercizione una nuova umanità artificiale, la militarizzazione e l’asservimento della società all’élite al potere e, soprattutto, la tendenza a fingere di vedere ognuna nell’altra dei mostri da combattere per preservare la propria esistenza.
La seconda opera, scritta nel 1939 e magistralmente tradotta dalla poetessa Cristina Campo, è un commento all’Iliade di straordinario impatto emotivo. Simone Weil legge il poema omerico come l’espressione di una visione in cui la forza è rappresentata in continuazione ma è anche sentita come qualcosa da respingere. Narrando la triste vicenda della sconfitta di Troia, Omero ripudia la forza nel momento stesso in cui la rappresenta, pur consapevole del fatto che essa è ineliminabile e che quindi tutti debbono farci i conti, sia nei rapporti interpersonali che in quelli internazionali. Insomma, il fatto che sia necessaria non implica che la forza sia un bene. Esservi sottoposti non esclude quindi la possibilità di continuare a sentire nel profondo del cuore che i valori a cui si aspira sono il bello, la pienezza, la felicità. Quindi la dialettica fra bene e necessità, finché è viva e alimentata, secondo Simone Weil può trattenere gli individui dal perpetuare un uso illimitato della forza.

Flavio Marcolini

L’opuscolo è disponibile presso la Redazione di Azione nonviolenta al costo di € 2,50

Di Fabio