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Azione nonviolenta – Novembre 2007

DiFabio

Feb 2, 2007

Azione nonviolenta  novembre 2007

– Bullismo dentro e fuori scuola, l’effetto perverso dei media, di Elena Buccoliero
– Da Edipo a Narciso. I bulli ci fanno un favore?, di Gustavo Pietropolli Charmet
– Il successo è d’obbligo. La società premia il bullismo, di Vittorio Zucconi
– Tornare ad essere pensatori di futuro. La scuola come laboratorio culturale, di Franco Floris
– RelAzioni disarmate tra scuola ed extrascuola, di Pasquale Pugliese
– La conoscenza di sé come antidoto al bullismo, di Luigi Tribioli
– Il comitato italiano a sostegno del Decennio per l’educazione alla nonviolenza nel mondo, di Sergio Bergami
– Strumenti didattici per contrastare il bullismo nella scuola, a cura della Redazione

Le rubriche:

– Educazione. Studenti dai 18 agli 80 anni per la Scuola della Nonviolenza, a cura di Pasquale Pugliese
– Economia. Mangiare e bere bene, insieme, per salvare ambiente e paesaggio, a cura di Paolo Macina
– Per esempio. Come fermare una guerra partendo dal mercato rionale, a cura di Maria G. Di Rienzo
– Giovani. Seminario invernale “Disonora il denaro”, a cura di Elisabetta Albesano
– Musica. Liberare i musicisti da ingiustizie e burocrazia, a cura di Paolo Predieri
– Cinema. Il petrolio che inquina l’ambiente, l’economia, le culture, le coscienze, a cura di Enrico Pompeo

Bullismo dentro e fuori scuola, l’effetto perverso dei media

di Elena Buccoliero

Stando alla cronaca il primo problema della scuola di oggi è il bullismo, un termine inflazionato che rischia di non significare più nulla se non viene riportato al suo senso iniziale: una relazione asimmetrica, prolungata nel tempo, che si esercita in un contesto di gruppo in cui il forte agisce sul debole prevaricazioni verbali, psicologiche e fisiche.
Intorno al tema si stanno muovendo molte energie per comprendere e contrastare il bullismo, per esaltarlo o minimizzarlo. Convegni, seminari, pubblicazioni, corsi di formazione, tavole rotonde impegnano le più diverse professionalità. Due di questi, avvenuti a Piacenza e a Carpi in questi primi mesi di scuola, hanno offerto materiali interessanti che riportiamo nelle pagine seguenti per tentare delle chiavi di lettura nuove. Ci sono dentro i mutamenti della famiglia, l’influsso della violenza strutturale sui comportamenti dei giovani, il valore di tornare ad investire nella scuola, e con essa sul senso di comunità. Presentiamo inoltre due esperienze svolte nello scorso anno scolastico nel campo della gestione dei conflitti o della prevenzione del bullismo.
Se il bullismo scolastico fa ancora notizia è forse per l’inquietudine che lascia la violenza quando è esercitata dai piccoli o dagli adolescenti. Mentre scrivo mi torna alla mente il quotidiano di oggi, dove erano riportati tre casi di genitori che hanno ucciso i figli. Non è bene confondere tutto con tutto, ma impressiona la frequenza e la facilità apparente con cui la violenza viene scelta come “soluzione”.
Uno strano concetto di “legittima difesa”
Affiora un sospetto di ipocrisia quando ci si scandalizza del comportamento dei giovani, che certo trovano negli esempi degli adulti tutti gli elementi per sviluppare questi comportamenti. Né vale ad esaurire il problema il discorso di quanta aggressività venga stimolata dai media, dai film, dai videogame d’uso più comune.
Il dato di fatto è ben chiaro: la prevaricazione è una possibilità praticata fin dall’infanzia. Riguarda una prima elementare la storia di una bambina che comincia a stare sveglia di notte per paura di andare a scuola, dove alcune compagne di classe la tengono ferma e la costringono a baciare i bambini.
Anche tra gli adolescenti la violenza è sempre più vicina, attingibile, legittima. Il concetto di legittima difesa, ad esempio, mi è stato spiegato così, da un gruppo di studenti di scuola superiore: “Quando litighi con qualcuno, stuzzichi l’altro fino a che reagisce fisicamente, così lo puoi picchiare e poi dici che era legittima difesa”.
Non c’è l’ombra della proporzionalità degli atti, né della loro necessità per rispondere ad un’offesa che è in corso. Nel pensiero di quei ragazzi era legittima difesa anche presentarsi in dieci contro uno il giorno dopo la prima provocazione, per rimettere le cose a posto. E la gelosia verso il partner è tra i motori della violenza che legittimamente ragazzi o ragazze possono esercitare verso i rivali in amore. Il delitto d’onore è scomparso da qualche decennio dal codice penale e questi adolescenti sembrano pronti a riammetterlo. Quelli erano quindicenni di buona famiglia, in una scuola di provincia delle più tranquille.
Una sanzione sociale verso la diversità
Nello stesso periodo in un liceo sociale una ragazza si è ritirata dopo aver ricevuto minacce di morte dalle compagne. Tra le cose per cui veniva derisa c’era l’aver subito, in terza media, un intervento e una chemioterapia. La ragazza è uscita di scena e nessuno è sembrato accorgersene granché. Con un anno di distanza ora la scuola chiede aiuto. Un gruppetto di studenti di estrema destra cantano “Faccetta nera” e esprimono posizioni fortemente razziste, e nella scuola ci sono diversi ragazzi stranieri, si ha paura che succeda qualcosa…
È noto come la violenza possa essere un modo di rispondere alla minaccia di ciò che è diverso da noi o poco comprensibile, e il bullismo non fa eccezione. Chi gioca il ruolo di vittima è quasi sempre un ragazzo o una ragazza che ha caratteristiche significativamente diverse dai compagni. L’incremento nella presenza dei ragazzi stranieri porta con sé un elemento di diversità oggettiva che va trattata con estrema delicatezza perché adolescenti tanto diversi possano imparare a stare insieme. I ragazzi stranieri sono più spesso oggetto di prepotenze ma ne sono anche autori, e non sempre l’appartenenza culturale è rilevante rispetto alla genesi del comportamento, ma lo diventa quando il fatto viene raccontato, spiegato eccetera.
Come i ragazzi stranieri, anche i portatori di handicap, o chi ha un diverso orientamento sessuale, e in ogni caso tutti i portatori di una differenza evidente sono particolarmente a rischio di vittimizzazione. Per contro va ricordato che prevenire il bullismo significa agire sulle dinamiche di gruppo per costruire apertura e accettazione verso la diversità, così come ogni programma educativo orientato in questo senso è anche sempre prevenzione del bullismo.
Una storia di piccoli poteri, privilegi e irresponsabilità
In una prima superiore è avvenuto che un ragazzo affetto di nanismo venisse steso, sollevato dai compagni e utilizzato come ariete a tutti gli intervalli e ogni volta che l’insegnante era fuori dall’aula. Dopo qualche tempo la parete dei cartongesso riportava i segni delle testate nel muro di quel ragazzo, evidentemente incapace di difendersi e probabilmente paralizzato all’idea di chiedere aiuto agli adulti.
La situazione emerge in un corso di formazione con insegnanti di classi diverse. Una tra i corsisti presenta la situazione, appresa dalla figlia che è in quella classe. Lei non insegna in quel corso ma è della scuola. Accade però che la madre del leader tra i prepotenti sia, guarda un po’, la preside dell’istituto e questo rende il ragazzo al riparo da qualsiasi richiamo.
Tra i docenti la preoccupazione più spontanea è come far emergere la cosa senza irritare la dirigente, oppure come assicurarsi che i genitori del ragazzo vittima non vengano a conoscenza dei fatti perché “è inutile dare loro una preoccupazione in più, ne hanno già tante, poverini…”.
Al termine dell’incontro si decidono alcune cose da fare per interrompere la sequenza delle prevaricazioni e per coinvolgere la mamma-dirigente ma all’incontro successivo chi si è assunto dei compiti non viene al corso e la storia rimane in sospeso.
Il bullismo trasgressivo e dirompente è una sola specie delle violenze che accadono nella scuola e probabilmente non la più grave, quantomeno perché può essere visto e arginato dagli adulti. C’è appunto anche quest’altro bullismo, perfettamente omogeneo con i meccanismi di potere che avvengono nell’istituzione scolastica. È quello del figlio del preside ma è anche quello dei più bravi della classe, o dell’insegnante che affida il suo insegnamento alla paura, alla competizione e alla selezione, e di fatto incita alla violenza anche i ragazzi.
Un problema di contesto, di gruppo, di relazione. C’è bisogno di investire sulla scuola
Quando il contesto scolastico è così poco pulito da non sapersi guardare schiettamente per correggersi, le prepotenze si moltiplicano. Ma ci sono anche altri elementi, vincoli culturali e strutturali della scuola, che permettono o perfino incentivano le prepotenze. Per esempio l’assenza di regole riconosciute e rispettate da adulti e ragazzi, uno spazio inadeguato, una classe troppo numerosa, un programma scolastico proposto senza accorgersi delle persone favoriscono la violenza anche tra i ragazzi. Per questo a volte anche chi come me lavora nella prevenzione e contrasto del bullismo ha la sensazione di mettere delle toppe su un tessuto liso e auspica l’avvento di interventi strutturali sulla scuola fuori da un’ottica emergenziale.
Da circa un anno e per la prima volta il Ministero della Pubblica Istruzione ha ritenuto di assumere il problema costituendo una commissione ed emanando delle linee guida nazionali. I primi passi del progetto sono la costituzione di osservatori regionali sul bullismo presso le direzioni scolastiche regionali, l’avvio di una campagna informativa, un numero verde nazionale e una ricerca nazionale significativa per quantificare e approfondire il fenomeno di cui, ancora, non si hanno dati omogenei.
Il primo augurio è che questi obiettivi, tutti necessari, vengano effettivamente e seriamente raggiunti. Il numero verde è attivo, gli osservatori sono stati istituiti con impostazioni regionali anche molto diverse, tutto il resto è probabilmente in cantiere.
Il secondo auspicio è che al progetto speciale possa aggiungersi, chissà, un maggior investimento sulla scuola. Cose come una riduzione del numero di allievi in classe, un incremento delle lezioni in compresenza, una migliore formazione dei docenti come conduttori di gruppi di apprendimento avrebbero probabilmente una efficacia nella riduzione del bullismo maggiore di alcuni progetti estemporanei costruiti sull’emergenza e spesso privi di valutazione. Gli interventi strutturali però sono molto costosi e per ora si aspetta.
La solidarietà difficile, l’effetto perverso dei media
In un istituto superiore che conosco bene e che presenta davvero forti problematicità è accaduto lo scorso anno un fatto orribile: un gruppetto di ragazzi maghrebini ha fotografato un’azione di sodomia nel bagno della scuola, ai danni di un compagno di classe portatore di un lieve handicap. Di per sé è violenza e non bullismo, ma può in qualche modo avvicinarsi ad esso perché è l’ultimo atto di una lunga serie di prevaricazioni snocciolate lungo tutto l’anno scolastico tra questi stessi protagonisti.
Il fatto è passato sotto silenzio per alcune settimane finché il dirigente scolastico ha avuto notizia di strane fotografie che giravano tra gli studenti e le ha intercettate. A questo punto ha svolto bene il suo dovere: ha parlato con chi aveva subito cercando di capire, ha chiamato le forze dell’ordine, ha convocato la mamma del ragazzo suggerendole di sporgere denuncia, ha mosso gli organi della scuola per prendere almeno provvedimenti secondo i metodi e i linguaggi della scuola.
Ma che cosa è successo poi? I media, locali e non solo, hanno riservato ampio spazio all’accaduto. Lo hanno fatto con tutti i sentimenti, esaltando al massimo gli aspetti drammatici, con l’effetto collaterale di spossessare i protagonisti della loro storia. Per tutti loro, una volta sulla pagina, la stessa evenienza è diventata altro, più vicina e anche più lontana dalla propria vita, certo diversa da come era stata percepita fino a quel momento. Chi l’aveva sottovalutata ha gridato allo scandalo, così come chi si era sentito coinvolto e dispiaciuto ha fatto di tutto per sottrarsi. Si potrebbe forse dire che la lente mediatica ha alterato ulteriormente la fiducia, sempre compromessa dalla violenza. Ed ecco allora che cosa è avvenuto:
gli altri studenti maghrebini della scuola hanno espresso il desiderio di “farla pagare” ai compagni violenti per rivendicare il buon nome dei maghrebini;
gli studenti stranieri ma non maghrebini della scuola hanno pensato di organizzarsi per picchiare i compagni maghrebini, per rivendicare la correttezza degli stranieri della scuola;
gli studenti italiani si sono caricati di aggressività contro tutti gli stranieri della scuola, per tenere alto il buon nome dell’istituto;
chi aveva ricevuto le immagini sul cellulare ha cercato di distruggerle nel più breve tempo possibile in modo da non essere interpellato dalle forze dell’ordine.
parecchi studenti a conoscenza della situazione hanno affermato che la vittima era omosessuale e per di più consenziente;
i compagni di classe hanno ammesso che fatti di prevaricazione verso quel ragazzo avvenivano frequentemente ma nessuno difendeva il più debole perché lo sentivano distante, e del resto “era lui a stare alla larga da noi”.
Questo è certamente uno tra i fatti più estremi intorno ai quali mi sia capitato di lavorare ed evidenzia meccanismi relazionali interessanti, pur all’interno di una relazione violenta. O meglio, in una trama di violenze concomitanti, di cui quella sessuale è la più eclatante ma non è certamente l’unica di cui ci importa soprattutto trattando della scuola, ovvero di un contesto di persone in crescita.
Nei giorni successivi all’emersione dei fatti l’effetto etichettante dei media agiva sui ragazzi spingendo al massimo il rifiuto di sentire dentro di sé la portata dei fatti. Per molti le differenze interpersonali (l’handicap pur lieve della vittima, il carattere scontroso, la fragilità, il sospetto di omosessualità…) erano il tocco finale per sentirsi liberi da ogni responsabilità che deriva dall’empatia, dalla comprensione dell’altro. L’unica reciprocità possibile resiste quando si difende in realtà se stessi, il proprio onore, o si vendica l’offesa di una propria qualsiasi identità sociale.
D’altra parte molti ragazzi si sottraevano a qualsiasi responsabilità concludendo che la vittima era consenziente, magari si era pure divertita, ed era quindi in una posizione di assoluta reciprocità – e qui era interessante chiedersi insieme ai ragazzi se dove vi è reciprocità possa essere riscontrata violenza e se questa debba essere interrotta.
Ma anche chi non credeva a questa versione e riconosceva la portata dei fatti non si era sentito coinvolto se non quando l’irruenza dei giornali aveva insinuato il “dubbio” che l’essere parte della medesima scuola o classe fosse di per sé una buona ragione per sentirsi parte in causa.
Tutto questo per testimoniare sia l’effetto a volte perverso delle prime pagine, che congelano la comunicazione tra le persone, polarizzano i ruoli e acuiscono le ferite, sia la difficile maturazione di relazioni empatiche e solidali anche di fronte a fatti molto gravi.
Tra gli adulti della stessa scuola le cose sono andate diversamente… ma non troppo. Si sono costituiti un gruppo di insegnanti e uno di genitori con il proposito di rendere la scuola migliore, ma le intenzioni sbiadiscono nel tempo e ora, dopo tutta un’estate, non è certo permangano le disponibilità per lavorare insieme. Così i fatti di violenza dentro alla scuola si susseguono, esplodono, fanno rumore. Poi tutto si insabbia, come sempre, come tutte le cose, e non è semplice capire quale risposta sia possibile. Così, all’ombra, in tanti insegnanti ed operatori si lavora testardamente nel quotidiano. Per promuovere apertura, confronto, comprensione, legalità, ascolto. Sono le parole della nonviolenza, e appaiono quanto mai necessarie.

Da Edipo a Narciso.
I bulli ci fanno un favore?

di Gustavo Pietropolli Charmet*

Il bullismo è un comportamento non nuovissimo ma forse inedito per la diffusione e la risonanza avuta nell’ultimo anno scolastico, e forse anche per la finalità che persegue. Se gli adolescenti non avessero adottato questo comportamento e i media non gli avessero fatto attenzione non si sarebbe avuto questo fatto straordinario, che così tanti adulti competenti, motivati e interessati si riunissero per regalare senso a gesti insensati, con l’effetto di aumentare la competenza educativa della comunità degli adulti che attuano una azione educativa nei confronti dei ragazzi.
Siamo di fronte a comportamenti sregolati, prevaricatori, impertinenti, disobbedienti, poco rispettosi delle regole, delle tradizioni e dell’autorità. Si esercitano in gruppo vari tipi di prepotenze verso vittime designate, troppo vicine alla protezione della mamma o dell’insegnante di turno per non destare l’attenzione ed essere appunto vittimizzate.
Il bullismo come forma di comunicazione
Al di là dell’analisi di comportamenti specifici, raccoglierei l’intenzione comunicativa dei ragazzi: farsi vedere per diventare famosi, secondo intenzioni in parte inconsapevoli; sacrificarsi a nome della loro generazione per ottenere la nostra attenzione, affinché appunto dedichiamo tutta la nostra intelligenza a regalare senso ai loro gesti insensati.
Dietro al fenomeno del bullismo e a ciò che ci sta intorno possiamo riconoscere un cambiamento nel modo di gestire il passaggio dalla preadolescenza all’adolescenza, nella stessa interpretazione della giovinezza, ed è un nostro difetto tentare di ridurre al già noto ciò che ci appare opaco, scarsamente comprensibile, poco rispettoso delle nostre aspettative.
Il cambiamento in atto, che ha contribuito a determinare nuovi comportamenti tra i ragazzi nelle nuove scuole, dipende da scelte che non appartengono ai ragazzi bensì alle loro famiglie, alla scuola, alla società degli adulti… Sono i “grandi” ad influenzare in modo radicale il loro percorso di crescita, gli idoli, le mode, i gusti eccetera.
Il contesto non è propriamente la causa dei comportamenti violenti ma contiene alcuni tra i fattori che hanno influenzato questa trasformazione, tanto che penso vada colta al volo “l’occasione del bullismo” per mobilitare le buone volontà degli adulti e capire come riorganizzare la nuova alleanza tra scuola, famiglia, enti locali, servizi, organizzazioni di volontariato… che spesso conducono vite appartate, separate l’uno dall’altro, e che solo le grandi emergenze riescono a fare collaborare per star dietro alle novità che i ragazzini ci propongono.
Stiamo osservando un nuovo modo di soffrire e di esprimere la sofferenza. Il bullismo è un linguaggio giovanile ma di prevaricazioni è piena – non da adesso – la società degli adulti. La goliardia e il nonnismo erano ampiamente tollerati, e anche lì c’erano spettatori, autorità consenzienti… La precocizzazione di questi comportamenti, la loro crudeltà e imprevedibilità, ci impongono una riflessione in più, senza banalizzare l’argomento né differire le risposte. Il problema è anche capire quale risultato hanno portato i nostri modelli educativi degli ultimi venti anni, quali inconvenienti e vantaggi, e se considerare il bullismo di gruppetti che si muovono in uno stile prettamente mafioso come un pezzo della crescita e del territorio della scuola, fatto di omertà, silenzio, sofferenza delle vittime… Un fenomeno che si crea quando gli adulti non riescono a presidiare il territorio, ad amministrare la giustizia, ad erogare punizioni dissuasive per chi non rispetta le regole concordate.
C’era una volta il senso di colpa
Fino ad alcuni decenni fa nel nostro paese le mamme e i papà, affacciati sulla culla dei loro piccini, vedevano un neonato un po’ cattivello, un piccolo selvaggio da civilizzare, di fronte al quale occorreva esercitare una notevole pressione educativa per convincerlo del valore della civiltà, nonché produrre i giusti sensi di colpa verso la propria natura, bisogni, desideri. Regole, principi, valori imposti da sempre dagli adulti hanno il compito di dissuadere il piccolo selvaggio dal seguire i propri istinti e desideri, abituandosi a ritenerli colpevoli. E spaventato dei castighi che gli adulti minacciavano, il bambino frenava le trasgressioni.
Mamme e papà non rimproveravano il bambino a titolo personale, o perché stanchi e nervosi dopo una giornata di lavoro, ma in nome di un’autorità che stava molto più in alto di loro, in là nel tempo e nella costruzione sociale. Il bambino riconosceva la validità di queste regole in virtù dell’autorità che le emanava, ed era portato a seguirle o a sentirsi in colpa per le trasgressioni quasi al di là del fatto che quelle regole apparissero ai suoi occhi come giuste o sbagliate. I castighi che i genitori gli attribuivano esprimevano un’autorità e un significato strepitoso.
Negli studi di noi psicoterapeuti arrivavano perciò i figli di Edipo: ragazzini schiantati dalla colpa, inibiti oppure furibondi, aggressivi, terroristi, kamikaze… ma comunque in colpa rispetto ai valori, ai principi e alle regole che riconoscevano validi e che non riuscivano a seguire.
Piccoli Narcisi senza più confini
Da un po’ di anni a questa parte il modello educativo della colpa è stato radicalmente abbandonato. I ragazzini che incontriamo in psicoterapia non sono più adolescenti spaventati dagli adulti, dai castighi che la scuola o la famiglia possono minacciare. Questa tipologia di adolescente è scomparsa. Vediamo invece il prodotto del nuovo modello educativo.
Quando quel ragazzo è nato, nella culla i genitori hanno visto un bambino buonissimo, palesemente alla ricerca della mamma non perché perverso e polimorfo ma perché desideroso di fare cose bellissime: mettersi in relazione, trasformarla da donna in madre interagendo con lei in una danza interattiva, con una qualità della relazione straordinaria. Un cucciolo straordinariamente interessato a costruire rapporti. È lui il vero fondatore della famiglia umana, colui che trasforma una coppietta qualsiasi in una famiglia, con l’aspirazione a diventare il modello del Mulino Bianco. Un bambino sicuramente talentuoso, geniale, precocissimo.
È chiaro il passaggio: non più genitori intenti ad un piccolo selvaggio da civilizzare, bensì in ginocchio e adoranti di fronte a questa piccola meraviglia.
Abbiamo scelto di vedere il bambino non come chi vuole disfare la famiglia ma come un essere buono e con dispositivi genetici naturali che, oltre a permettergli di imparare a leggere, a scrivere e a parlare inglese a tre anni, partecipare a campionati nazionali eccetera, è competentissimo nella capacità di costruire relazioni sociali precoci. Se infatti un piccolo va al nido a un anno o due, subito interagisce coi coetanei e si attiva un dispositivo interno che lo porta a desiderare la relazione sociale e gli consente di svilupparla.
E del resto la mamma che lavora ha bisogno di un bambino autonomo, non appiccicato alla gonna. Quando lo consegna alla scuola materna gli mostra un gruppo dei coetanei e nuovi giochi. Gli psicologi dicono che un neonato ha bisogno di una buona relazione di attaccamento con la madre, in realtà la crisi economica incombente, il doppio lavoro, il carico familiare ecc. impone alla mamma di organizzare delle buone separazioni. Quindi, potrebbe concludere la nostra mamma ipotetica, “fai il piacere di inserirti e di stare bene, non farmi lo scherzo di farti trovare isolato, mogio mogio in un angolino con nessuno che ti invita al suo onomastico nella tavernetta o al Mac Donald perché vuol dire che non sei famoso, non sei bello, non sei un bel bambino”.
La mamma consegna il piccolo al gruppo dei pari perché lo nutra affettivamente, sapendo che questo davvero svilupperà nel bambino una competenza sociale precoce. La cosa che gli interessa di più è uscire, varcare la porta di casa. Cerca il contatto con gli animali piccoli, con i bambini. Se posto in un recinto tutelato da educatori competenti si trova da dio. Il mondo è cambiato: ci sono bimbi di quattro anni che piangono di domenica perché non possono andare a scuola. Un po’ perché abbiamo le più belle scuole materne del mondo, ma certo anche perché il bambino si abitua precocemente a vedere i genitori solo alla sera e a crescere in una famiglia sociale parallela alla famiglia naturale, in una situazione in cui l’una sponsorizza l’altra.
Si apre una questione importante. La famiglia ha bisogno della scuola come contesto parafamiliare e socializzante, per permettere la lunga separazione quotidiana e per dare accesso ad un nutrimento affettivo che non è alternativo a mamma e papà ma parallelo.
Quando il bambino torna a casa, spesso per i genitori è difficile sapere qualcosa. Chiedono come è andata e ricevono in cambio il silenzio, risposte evasive, il segnale di mondi separati. Eppure nel gruppo succedono cose importantissime.
Il bisogno parossistico di specchiarsi nel gruppo
Dieci, dodici anni dopo abbiamo ragazzini abituati ad avere sempre vicino dei coetanei con i quali affrontare il mondo e dare senso all’esperienza, con cui condividere visioni e regole e ricevere il sostegno affettivo necessario. Uno degli effetti secondari e certamente non voluti di tutto questo è una dipendenza particolare dai legami di gruppo. Alcuni diventano parossisticamente dipendenti dai compagni e pretendono che il gruppo dia loro ciò che temono di non poter mai avere, cioè il successo, la fama, la complicità, il riflesso positivo, l’occhio delle telecamere che sostituisce l’occhio della mamma. Osserviamo confini incerti tra la fisiologia, la normalità, la sociopatologia. Assistiamo alla nascita, lo sviluppo, la trasformazione di gruppi di coetanei che pian piano sviluppino una visione paranoica della vita e passano dalle relazioni di amicizia alle relazioni di piccola banda, con una gerarchia che nel gruppo di amici non c’è perché tra amici nessuno comanda – per questo a volte non si riescono a prendere decisioni e si resta sul muretto tutto un pomeriggio a chiedersi quale film vedere. Nelle gang invece troviamo il capo, la donna del capo, l’esecutore materiale del diritto. In questi gruppi due funzioni fondamentali sono cercare il nemico e individuare la vittima. Negli studi si è soliti occuparsi di quest’ultima, ma sarebbe molto interessante concentrarci anche su chi è il nemico e sulla figura del bullo.
E non è un caso che il bullismo si svolga prevalentemente all’interno o nei paraggi della scuola. Siamo lì a raccogliere vittime, dolori, sofferenze, piccoli gruppi di ragazzi violenti e prevaricatori. Nel contesto attuale i ragazzini non hanno altri posti dove portare tutto se stessi. Convogliano tutto a scuola – l’affetto, il desiderio, il corpo, l’amore, ma anche la morte e la violenza. Gli altri ambiti si sono ridotti a teatrini intermedi.
Una risposta sistemica
Concordo con il piano del Ministero che risponde a tutto questo con un approccio sistemico. Sembra retorico parlare di comunità educante ma non è così. Spesso la mamma e papà si trasformano in sindacalisti dei loro figli. Schiantati dal sestuplo lavoro, affaticati, si sentono dire che dovrebbero ascoltare i figli molto di più, mentre io dico che dovrebbero compiacerli molto di meno!
Abbiamo bisogno di una mobilitazione generale, sistemica, dove davvero la comunità degli adulti, di fronte ai pochissimi bambini che facciamo, si mobilita per cercare di capire e per non ricadere nei vecchi sistemi repressivi, autoritari, perché occorre una risposta molto articolata.
Dubito che una normale insegnante di seconda media riesca a far paura ai ragazzini maschi o a farli sentire in colpa quando dice loro: “Guarda cosa hai fatto!” Una volta il colpevole sentiva il bisogno di chiedere perdono, adesso pensa: “La prof è nervosa stamattina, dice cose stranissime, si è montata la testa. Vuol farmi sperimentare delle passioni invece di stare lì al suo posto a insegnare”.
Nei casi di bullismo, se una delle parti si rivolge ad un avvocato non se ne esce più, il bullo rimarrà per sempre prepotente e la vittima per sempre indifesa senza conquistare una reale autonomia, senza uscire dal ruolo. Quando invece riusciamo a mettere a confronto la mamma e il papà del bullo con la mamma e il papà della vittima, gli adulti si accorgono che è un problema avere un figlio prepotente ma anche un ragazzo che non riesce a difendersi e trovano delle strade per collaborare. E dove è possibile coinvolgere, oltre ai genitori, anche i docenti, i servizi, il volontariato, il parroco, il giudice… insomma la comunità, rendiamo possibile la distillazione di fenomeni di violenza che provocano dolore e sofferenza.
Credo che i genitori siano troppo soli. Nessuno avverte la solitudine come le mamme o le insegnanti. Questi bulli ci stanno facendo un favore, è come se dicessero: “Il vostro progetto educativo è seriamente minacciato, forse solo se vi alleate e vi sostenete reciprocamente vi si accende l’ingegno e vi sento dire qualcosa di nuovo, perché se mi dite ancora che mi date una nota vi licenzio”.
Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e psicoterapeuta, autore di numerose pubblicazioni sull’adolescenza e presidente dell’Istituto di Analisi dei Codici Affettivi “Minotauro” di Milano.
Questo testo, non rivisto dall’autore, è stato raccolto dal suo intervento al convegno “SbulloUniamoci” tenuto a Carpi il 5 e 6 ottobre u.s. Trascrizione a cura di Elena Buccoliero

Il successo è d’obbligo
La società premia il bullismo

di Vittorio Zucconi*

In America il bullismo è un fenomeno molto più radicato che in Italia, anche perché la vittima – quasi sempre la vittima – ha la possibilità di impadronirsi di una mitragliatrice e rifarsi delle proprie umiliazioni ammazzando una dozzina di coetanei o compagni di scuola. Rimane celebre il drammatico episodio del Liceo di Columbine, dove coloro che hanno sparato non erano i bulli della scuola bensì le vittime, quelli che venivano oppressi dai compagni perché erano diversi. Lo stesso è avvenuto quest’estate, quando un ragazzo di origine coreana, studente al Politecnico della Virginia e con indubbi problemi psichiatrici, ha fatto una strage di compagni.
Per fortuna in Italia non è così semplice comprarsi una rivoltella.
Chi di cognome si chiama Zucconi è destinato a non passare una infanzia serena. Dalle elementari alle medie, e ancora oggi nelle polemiche…, sono stato zucca, zucchino, zucchetto. Piangevo molto da bambino, poi per reagire sono diventato giornalista. Dovrei avere molte buone ragioni per contrastare il bullismo: crea moltissimi giornalisti.
Il bullismo non è soltanto il problema di quello che avviene a scuola, in classe. Noi cresciamo i nostri figli in una società che premia il bullismo. Noi esaltiamo il vincitore. In un mondo che ha perduto la cultura della sconfitta si dimentica che non possiamo vincere tutti, e tutti diventare ricchi, o famosi, tutti i primi della classe. Fa più danni Miss Italia dei film dove si sgozzano, perché insegna ai ragazzi che bisogna vincere.
Non sopportiamo l’idea che nostro figlio sia un po’ più bruttino, o stupido o meno ricco di un altro. Viviamo in una civiltà che ci vuole tutti come in una foresta dove soltanto il lupo deve prevalere e gli altri lupi si levano dai piedi e creano un branco per conto loro. Siccome non è possibile essere tutti lupi, se noi non cominciamo a smontare il mito che bisogna vincere a tutti i costi, che chi perde è un idiota e chi arriva secondo un cretino… se non ritroviamo un equilibrio, abbiamo poche possibilità. D’altra parte non siamo più nella società statica in cui crescevi nel vaso dove eri stato piantato, se eri il figlio di qualcuno di importante viaggiavi in carrozza, se no le carte erano già state smazzate dalla vita e dovevi solo trovare la casetta dove infilarti. La piccionaia è stata disfatta, la società patriarcale agricola non esiste più, è crollata fortunatamente quella impalcatura sociale ma non abbiamo ancora creato un modello alternativo che non sia quello del “winner takes all”, come dicono negli Stati Uniti, ovvero “chi vince prende tutto”.
Per un insegnante trasferire un modello implica prima di tutto conquistare, catturare l’attenzione. Se non lo fa, che gli alunni abbiano 3 anni o 30, li perderà come allievi, come persone umane. Un modello può essere proposto se passa attraverso la conquista dell’attenzione – ma intendo conquistare l’intelligenza, cercando di non essere paradossale come purtroppo le scuole spesso sono. Quando un bambino ha 3 anni gli insegnanti ci dicono “è bravissimo, sa stare con gli altri e condivide i giocattoli con gli altri bambini”. Più va avanti e più gli insegnano che deve essere il migliore, portare via l’automobilina al compagno, e se alla fine della giornata ha in mano tutti i giocattoli vuol dire che è stato bravo perché ha fregato tutti. Ovviamente tutto questo si scatena nell’adolescenza. “Devo essere il buon amico di tutti o quello che fotte tutti? Mettetevi d’accordo voi adulti, perché io non ci capisco più niente”.
*Vittorio Zucconi, giornalista, è corrispondente di Repubblica dagli Stati Uniti e direttore di Repubblica On-Line. Questo testo, non rivisto dall’autore, è stato raccolto dal suo intervento al convegno “SbulloUniamoci” tenuto a Carpi il 5 e 6 ottobre u.s. Trascrizione a cura di Elena Buccoliero

Tornare ad essere pensatori di futuro
La scuola come laboratorio culturale

di Franco Floris*

Sul tema del bullismo e della violenza nella scuola vorrei iniziare con alcune affermazioni raccolte tra le persone che mi sono più vicine, vale a dire i miei figli, che la scuola la frequentano, e mia moglie, insegnante.
Mio figlio, un ragazzo di 12 anni, persona seria, sensibile, che rifiuta di essere perfettino per non essere malvisto dai compagni, ha riassunto tutto in una considerazione: “Brutta faccenda la guerra dei bambini”.
Mia figlia, 16 anni, frequenta un liceo. “Puoi dire che a scuola nostra non c’è bullismo, perché dove cresce la cultura – nella sua classe quest’anno si comincia lo studio della filosofia, un maggior approfondimento della letteratura… – si abbassa il livello di prepotenza”.
Vero che negli anni precedenti, nella sua scuola, sono stati cacciati via quelli che non ce la facevano, con un meccanismo di selezione molto severo. Ma, insomma, l’idea di mia figlia è che il bullismo sia un dato di fatto in alcune scuole o zone d’Italia, ma dove è presente la motivazione allo studio, cioè dove si fa cultura davvero, la violenza sparisce.
Mia moglie, che è insegnante, mi ha trasmesso questo messaggio: “Dì che gli insegnanti non sanno più nulla di dinamica di gruppo dentro la classe. Non riuscendo a gestire il gruppo, non riescono minimamente a entrare in quelle logiche di abbandono, violenza, solitudine, che sono il bullismo”.
Il bullismo è una parola rifugio?
Il bullismo è una parola che non amo. Sta diventando una parola rifugio. O lo sbulloniamo e proviamo a scavare i molti mondi che si nascondono dietro a questa parola, o rischiamo di creare un paravento che sistema tutto e non apre mai discorsi approfonditi.
Ogni forma di bullismo è un appello rivolto verso l’esterno. E dice: non possiamo continuare a comunicare in questo modo. Secondo dati di ricerca per il 30% dei ragazzi la scuola è insignificante, ed è un dato enorme, gravissimo, ben più grande che non lo stesso bullismo. Se l’idea di cultura, di maturazione culturale, se l’avventura dello studio sta perdendo di significato, questo significa che dobbiamo scavare profondamente nel nostro tempo.
Il bullismo non riguarda solo i ragazzi, tocca anche noi adulti. In questa guerra siamo tutti un po’ bulli. Perché lo siamo? Perché viviamo in un tipo di società e in un insieme di macrofenomeni – l’economicismo, la globalizzazione… – che da una parte hanno portato alla nascita dell’idea di individuo come centro dell’azione sociale, e non rimpiango certo la società tradizionale, ma dall’altra ci ha lasciati soli. Siamo individui che non riescono a diventare soggetti. Stiamo annaspando tutti, non solo i ragazzi. Siamo dentro alla crisi dell’esperienza della gruppalità, della continuità tra l’io e il noi, e la stiamo vivendo dentro le classi ma dentro la famiglia, che è anch’essa un gruppo. La fatica gruppale della famiglia andrebbe nuovamente esplorata.
L’indispensabile esperienza del gruppo
I fatti di bullismo che vengono rimbalzati dai media ci propongono il gruppo come luogo distruttivo ed oppressivo verso i più deboli. Eppure la gruppalità è un passaggio indispensabile per la crescita della persona. La democrazia stessa cade per l’inesperienza della gruppalità nelle fasi cruciali dell’esistenza. Se non ce ne rendiamo conto rischiamo di scaricare sugli adolescenti quel brodo culturale in cui tutti siamo immersi e che non sono certo i ragazzi a produrre per primi.
Il gruppo è il luogo dove si svolge il processo di crescita fondamentale per gli adolescenti, cioè la costruzione di una identità personale.
Il gruppo ti denuda un po’, ti svela, ti mette a contatto con ciò che sei facendo a patti con la tua immagine ideale.
Il gruppo crede in te, ti aiuta a scommettere su di te. L’amore per se stessi nasce nel gruppo.
Il gruppo ti aiuta a investire le tue energie e tutto te stesso per produrre beni collettivi, da mettere a disposizione degli altri.
Il gruppo ti chiede, a volte duramente, di canalizzare le tue energie e di seguire delle regole, chiede di accettare la fatica, e la dilazione del piacere, per raggiungere un obiettivo comune.
Il gruppo ti può aiutare a rielaborare, quotidianamente o intenzionalmente, il senso dell’esperienza che stai facendo.
Eppure oggi il gruppo è per molti versi una inesperienza. Perché bisogna tenere conto che gruppo si diventa. Non è sufficiente vivere nella stessa aula per nove mesi di seguito per diventare membri di un insieme che si riconosce e si relaziona alla pari, in modo costruttivo. Il compito di un docente nella classe è proprio quello di conoscere e accompagnare questo processo, utilizzandolo per l’insegnamento dei contenuti e, viceversa, approfittando delle discipline per creare gruppo. Una competenza che, secondo quello che vediamo, non è affatto scontata e andrebbe ricostruita nel corpo docente, per dare quegli strumenti che sono ben lontani dall’essere acquisiti.
Manca la fatica di cercare risposte
Quello che ci manca davvero oggi non è la buona educazione, ma è la fatica di provare a cercare risposte inedite, parziali, che pur non mettendoci al sicuro da ogni insicurezza, rappresentino comunque un tentativo di rimettere insieme i nostri punti di vista e quelli dei ragazzi. La paura che ci assale ci invita piuttosto a trovare di volta in volta il nemico da combattere, piuttosto che a prenderci la responsabilità di pensare insieme a quello che stiamo facendo.
Chiediamoci ad esempio che laboratorio culturale è la famiglia, qual è la qualità dei ragionamenti che svolgiamo intorno alle sfide di ogni giorno…
È chiaro che rispetto a questo l’antipolitica è la via più corta. È bullismo anche l’antipolitica, diciamolo ai ragazzi. Invece la fatica di trovare vie di uscita dai problemi, è questa che dobbiamo sobbarcarci. Solo che in noi adulti convive una doppia personalità, quella che si considera onnipotente e deve essere depotenziata, e l’altra, opposta, che vede gli adolescenti come onnipotenti e si ritira nella passività o nella rinuncia. Il tema allora è se si possano trovare nuove possibilità di incontro e di dialogo culturale. Questo però ci porta a prenderci le nostre responsabilità di adulti. A fronte di problemi grossi sul futuro di questa società ci stiamo crogiolando, non stiamo riprendendo in mano un filo di discorso e di ragionamento.
Quale produzione culturale avviene oggi a scuola?
Lo sguardo di chi insegna deve essere necessariamente strabico, tenere conto contemporaneamente del contenuto da trasmettere e del modo in cui si sta insieme. Entrambi gli aspetti sono la scuola, il cui vero compito è produrre cultura assieme. Cioè stimolare nei ragazzi e nelle ragazze la capacità, di fronte alle contraddizioni in cui siamo immersi, di produrre significati, cioè intenzioni generatrici di futuro.
Per far questo dobbiamo distaccarci dal disagio o dal controllo e guardare ai ragazzi come ricercatori culturali. Solo nell’incontro tra la cultura già fatta e la cultura da fare, e le intuizioni di questa generazione di adolescenti, possiamo intravedere il nostro cammino. Però non a prescindere dalle materie, ma dentro di esse. Qui cade la distinzione tra trasmissione e relazione, perché la materia si impara attraverso dei processi. Una lezione solo frontale non è sufficiente per dare competenze di gruppo. Allora però dobbiamo chiederci se abbiamo un buon metodo di insegnamento. Se condividiamo che la cultura è la capacità, a fronte dei problemi che abbiamo, di co-produrre dei significati, delle elaborazioni, che ci permettano di intravedere in avanti, è chiaro che questo tempo chiede alla scuola, ma anche alla famiglia e a tutte le istituzioni educative, chiesa compresa, di essere un po’ più laboratorio culturale.
Giovani e adulti come ricercatori culturali
Cosa fare, allora? Non partiamo dal virus, dalle malattie, dai problemi. Non partiamo neanche dal bullismo. Chiediamoci che investimento fare con questa generazione che ha mille problemi ma può lavorare con noi solo se scommettiamo con loro che sono ricercatori culturali, hanno pensieri e interrogativi e chiedono a noi adulti un metodo di ricerca, una competenza con cui rielaborare un minimo di significato per la loro esperienza.
Questo vuol dire restituire la parola ai ragazzi. Ritrovare il modo perché a scuola, intorno a determinati contenuti, si possa uscire da certi vincoli, che servono agli insegnanti per stare comodi in classe, ed entrare da capo dentro determinati nodi culturali attraverso un fare insieme che costruisca legame tra le persone intorno ad obiettivi ambiziosi e riconosciuti. Facendo il mestiere della scuola, che è produrre cultura. O facendo il mestiere dei genitori, che è ruminare continuamente quello che sta succedendo, con pazienza.
Dal bullismo, o dalla fatica del fare spazio all’altro, non ne usciamo troppo velocemente. Perché è qualcosa di cui oggi siamo costituiti e ci vorrà molto lavoro per uscirne.
Stiamo tornando indietro su molte cose, anche sul rapporto uomo-donna e lo vediamo proprio nelle giovani generazioni. Si sta affermando l’idea che se io ho una forza devo poterla usare, che se io ho una idea la devo imporre. Dovunque nasce un assoluto che pretende di imporsi, lì dentro nasce la violenza, nasce il bullismo.
Qual è allora il nostro compito? Secondo me uscire dalle case, uscire dai punti di vista delle professioni, e provare da capo a costruire dei luoghi intermedi tra scuola e territorio, tra famiglia scuola e territorio, dove gli adulti tornino ad essere pensatori di futuro.
* Franco Floris è il direttore di “Animazione Sociale”, rivista sul sociale dell’associazione Gruppo Abele. Questo testo, non rivisto dall’autore, è una sintesi dai suoi interventi ai convegni “La sostenibile cura dell’incontro”, Piacenza 4-5 settembre 2007, e “SbulloUniamoci”, Carpi 5-6 ottobre 2007. A cura di Elena Buccoliero.

RelAzioni disarmate tra scuola ed extrascuola

di Pasquale Pugliese

A scuola come in trincea?
All’inizio dello scorso anno scolastico sulla prima pagina della Stampa di Torino un titolo di taglio basso suonava più o meno così: “In Francia gli studenti picchiano i professori”. L’articolista rimandava il lettore ad una pagina interna dove l’elemento violento era reso con toni ancora più accesi nel titolo: “Francia, a scuola come in trincea”. La notizia era che il Ministero dell’Educazione francese aveva fatto obbligo agli insegnanti di entrare in classe con un manuale di difesa dal titolo “Come reagire di fronte alla violenza”, iniziativa che definiva “una pietra angolare”. Sarà pure una “pietra angolare” nella storia dell’istruzione francese, ma un manuale di difesa per gli insegnanti in reazione alla violenza degli studenti, è sicuramente segno della sconfitta dell’azione educativa. Nel campo dei conflitti educare significa agire in un’ottica opposta: non quella della “reazione” di fronte alla violenza, ma quella della “prevenzione”, dell’intervento consapevole nella fisiologia dei conflitti, e non nell’emergenza, quando hanno ormai assunto carattere patologico, sotto forma di violenza e bullismo.
Le aule scolastiche sono contenitori nei quali convivono, e spesso si amplificano, malesseri individuali legati ai processi generali di cambiamento presenti nella società. Al loro interno i conflitti rientrano nelle normali dinamiche di relazione tra soggetti portatori di valori, norme, storie e comportamenti differenti. Per questo “consapevolezza” e “prevenzione” sono le parole chiave, perché rappresentano gli elementi che ci aiutano a elaborare visioni e pratiche della mediazione e della trasformazione nonviolenta dei conflitti, contro un approccio riduzionista che vede come unica modalità possibile quella dello scontro in un’ottica vincente-perdente. Spesso diffusa, purtroppo, anche sul piano educativo.
Un percorso tra scuola ed extrascuola
Il proposito di attrezzare educatori ed insegnanti sui piani della “consapevolezza” e della “prevenzione” rispetto ai conflitti, alle loro dinamiche ed alla loro gestione, ci ha guidato nell’elaborazione del progetto “relAzioni disarmate” che si è svolto a Reggio Emilia nel corso dell’anno scolastico 2006-2007, e nel quale sono state coinvolte cinque scuole medie della città. I criteri in base ai quali sono state individuate le scuole a cui proporre la partecipazione al progetto sono stati, da un lato, gli elementi di complessità presenti nei contesti territoriali in cui esse hanno sede e, dall’altro lato, la collaborazione con i Gruppi Educativi Territoriali (G.E.T) che operano nei rispettivi territori: il G.e.t. M.K.Gandhi, il G.e.t. M.L.King, il Get C.Mendes, il Get don Bosco, il Get sant’Antonio. L’obiettivo del progetto non era deconflittualizzare la vita di tutti i giorni dentro le aule scolastiche, bensì aiutare ragazze e ragazzi a costruire gli strumenti personali per gestire i propri conflitti in maniera più appropriata, aiutandoli a sperimentare che non esistono solo reazioni di aggressione o sottomissione, di vittoria o sconfitta, ma che è possibile una terza via alternativa che passa attraverso l’espressione dei propri punti di vista e delle proprie emozioni, dell’ascolto attivo delle ragioni dell’altro, della pratica della mediazione e della trasformazione.
L’idea del progetto nasce nell’anno scolastico precedente dalla percezione, comune ad alcuni insegnanti ed educatori, di una conflittualità sempre più accentuata e diffusa che spesso degenera nello scontro duro, verbale o fisico, dentro le classi e fuori dalla scuola.
Che cosa ci proponete in alternativa alle botte?
Inoltre, la frequenza dei litigi in cui si trovavano spesso personalmente coinvolti i ragazzi che frequentano i G.E.T. ha portato alcuni di questi a porre agli educatori, all’interno delle animate assemblee che aprono i pomeriggi insieme, anche una serie di riflessioni e domande specifiche: “va bene, voi ci dite che fare a botte non serve a niente, che bisogna trovare delle altre modalità, ma quali sono queste modalità? Che cosa ci proponete in alternativa alle botte? Dobbiamo prenderle?” Abbiamo ricevuto una richiesta esplicita di strumenti, una manifestazione chiara del bisogno di apprendere modalità altre per agire diversamente nei conflitti nei quali i ragazzi spesso si trovano invischiati. All’interno dei diversi GET, poi, queste domande si sono intrecciate con il lavoro svolto durante l’anno scolastico sulla figura ed il messaggio di Martin Luther King e quindi sulle lotte dei neri d’America per la conquista dei diritti civili attraverso la pratica della nonviolenza. In particolare, il gruppo di ragazzi dalle più diverse provenienze culturali che frequentano il GET che porta il suo nome, insieme agli educatori, ha visionato documenti filmati originali, guardato foto delle azioni, letto testi e lavorato con tecniche teatrali per costruire uno spettacolo multimediale: i ragazzi hanno capito che su un piano macro, politico e sociale, sono state sperimentate, e lo sono tuttora, modalità alternative a quelle della violenza per affrontare conflitti anche pesanti. Il passaggio successivo che ci è stato chiesto è come riuscire a trasferire quell’approccio nonviolento anche su un livello micro, sul piano interpersonale, nella gestione dei loro conflitti quotidiani, a scuola e fuori dalla scuola.
Le tappe di un progetto co-costruito
“RelAzioni disarmate” ha coinvolto circa 250 ragazzi distribuiti nelle diverse scuole della città. Vi hanno partecipato attivamente dieci insegnanti, quindici educatori e cinque volontari in servizio civile, con il supporto della equipe della Casa dei conflitti del Gruppo Abele di Torino.
Si è partiti con una fase di formazione congiunta per gli insegnanti e gli educatori, pensata allo scopo di far crescere una consapevolezza condivisa tra i diversi professionisti dell’educazione sul tema dei conflitti, cercando di mettere al lavoro, e a valore, le competenze sul tema già presenti sia tra gli educatori che tra gli insegnanti. I primi, infatti, operano in luoghi nei quali, occupandosi prevalentemente degli apprendimenti relazionali, si misurano quotidianamente con i conflitti, la cui mediazione spesso diventa l’oggetto stesso del loro lavoro; i secondi, pur concentrandosi prevalentemente sugli apprendimenti cognitivi, negli anni hanno accumulato anche sui conflitti un bagaglio di esperienze non indifferente, anche se più spesso visti in un’ottica di interferenza rispetto allo svolgimento dei programmi didattici.
La seconda fase è stata quella della ideazione, della progettazione e della costruzione, congiunta dei percorsi tra educatori ed insegnanti: si sono create perciò cinque micro-equipe, una all’interno di ciascuna scuola. Esse, attraverso periodici momenti di incontro scuola per scuola, e alcuni altri collettivi con la supervisione delle formatrici della Casa dei Conflitti, hanno elaborato i percorsi che sono poi stati portati in classe. Nelle diverse classi non è stato così proposto un percorso precostituito e omogeneo, perché ciascuna micro-equipe ha rielaborato i riferimenti culturali e metodologici comuni con gli elementi specifici derivati dalla conoscenza dei ragazzi e delle loro dinamiche relazionali all’interno di ciascun gruppo-classe.
Nella terza fase, che si è svolta nella seconda parte dell’anno scolastico, i percorsi elaborati sono stati proposti alle classi dagli educatori e dall’insegnante di riferimento. Le attività sono state svolte attraverso alcune tappe – dai 6 ai 10 incontri di due ore ciascuno – durante i quali i ragazzi e le ragazze sono stati aiutati a lavorare sulla conoscenza di sé e degli altri, sulle emozioni, la comunicazione e i differenti punti di vista, sull’esplorazione della propria relazione con i conflitti, la ricerca delle soluzioni nonviolente possibili ecc., attraverso modalità dinamiche, che hanno coinvolto le dimensioni del pensare, del sentire e del fare.
Verso un paradigma nuovo
Un’ulteriore tappa importante è stata la valutazione finale tra tutti gli insegnanti e gli educatori coinvolti nel progetto e la documentazione del percorso. La sua riproducibilità è infatti un elemento importante per l’efficacia dell’investimento educativo: ci aiuta ad uscire dalla dimensione episodica ed occasionale degli interventi e ad iniziare ad operare su un livello di produzione culturale, attraverso la formazione, le sperimentazioni e le pratiche di mediazione diffuse nel tempo, fino a strutturare un paradigma nuovo e condiviso per affrontare i conflitti nei luoghi educativi.
In questo nuovo anno scolastico, mentre riprogettiamo il percorso articolandolo tra classi nuove e classi che approfondiscono i temi, sviluppando un “secondo livello”, abbiamo diversi motivi che ci confermano nell’impegno assunto. Tra i tanti mi pare utile citarne due.
Una delle scuole medie che ha partecipato al percorso, in passato era finita più volte sui giornali locali per episodi legati alla cattiva gestione dei conflitti tra alcuni ragazzi e il resto del micro-mondo scolastico. Alla fine dello scorso anno scolastico la classe che ha svolto “relAzioni disarmate”, ha mandato alla stampa un articolo in cui i ragazzi hanno descritto la propria esperienza, intitolandolo “Alla Galilei una classe è stata disarmata…”. Quest’anno le classi di quella scuola sono raddoppiate.
Il 4 ottobre, intanto, il ministro italiano della pubblica istruzione ha firmato le linee guida per l’educazione alla pace nelle scuole. Considerando quanto fanno circolare altri analoghi ministeri europei, quella di Fioroni è sicuramente un’iniziativa apprezzabile. Tra le altre cose, così scrive il ministro “una scuola di pace è una scuola che riflette su se stessa e che si “ripensa”. Tutti, dal dirigente scolastico agli insegnanti, dagli studenti ai collaboratori e ai genitori devono rispondere alla domanda: cosa possiamo fare noi per trasformare la nostra scuola in un luogo di pace?”
Magari imparare a trasformare i conflitti, cominciando a relazionarsi in maniera disarmata…
Le “linee guida” sull’educazione alla pace nelle scuole
Il 4 ottobre scorso, ad Assisi, il Ministro dell’istruzione Giuseppe Fioroni ha firmato le linee guida per l’educazione alla pace nelle scuole. Il documento – alla cui stesura ha contribuito il tavolo tecnico istituito presso il “dipartimento per l’istruzione” cui partecipa anche il “Comitato Decennio” – ha diversi aspetti apprezzabili ed altri più discutibili. E’ comunque il primo documento ministeriale su questo tema.
Per una disamina più approfondita rimandiamo alla rubrica “educazione” di un prossimo numero di Azione nonviolenta.
Qui ci limitiamo a elencare i titoli dei paragrafi per fornire il senso generale del documento:
Pace come educazione allo sviluppo;
Pace come promozione del dialogo interculturale
Pace come gestione costruttiva e nonviolenta dei conflitti
La pace si insegna e si impara, per questo la scuola ha una responsabilità speciale
Che cos’è la pace che vogliamo insegnare?
La pace a scuola
La pace come base dell’offerta formativa
Il ruolo degli insegnanti
Valorizzare le innumerevoli esperienze realizzate dalle scuole
La pace si fa a scuola
Il documento integrale è scaricabile dal sito: http://www.pubblica.istruzione.it/normativa/2007/prot4751_07.shtml
Vedi “Azione nonviolenta” n.3/2007

La conoscenza di sé come antidoto al bullismo

di Luigi Tribioli*

Mi è stata data l’opportunità di realizzare, in una scuola pubblica, un corso formativo rivolto ai ragazzi con l’obiettivo di potenziarne l’autostima, la capacità di esprimere le emozioni e i sentimenti, migliorare le relazioni all’interno del gruppo classe; ed anche di far conoscere il fenomeno del bullismo, il ruolo che ciascuno può svolgere in situazioni di prepotenze e attivare le strategie necessarie per superare e/o gestire situazioni di difficoltà.
Non si trattava dunque di affrontare dei casi di bullismo in quella scuola, ma di educare alla conoscenza di sé e alle relazioni costruttive per contrastare comportamenti aggressivi o distruttivi.
Il metodo utilizzato è stato interattivo, di continuo coinvolgimento dei ragazzi, attraverso esercitazioni ed attività educative tratti dal libro “Bullismo, bullismi” (E. Buccoliero e M. Maggi, FrancoAngeli 2005). Quasi tutte le attività e i giochi sono stati svolti in cerchio, a significare la circolarità della comunicazione interpersonale e la pari dignità di ogni membro del gruppo.
I temi di fondo del percorso educativo
I concetti fondamentali che hanno guidato il percorso sono stati: l’ascolto, il gruppo–classe, l’autostima, le emozioni.
L’ascolto
Ascoltare è conoscere se stessi e gli altri, è possibilità di comunicare e di esprimersi. Il tempo scolastico, scandito dall’acquisizione del sapere, deve tener conto di uno spazio relazionale per il confronto, la discussione e il racconto. Imparare ad ascoltare se stessi e l’altro è un importante esercizio di consapevolezza, di navigazione nel mare delle possibilità, di prevenzione dei conflitti, di potenziamento della capacità simbolica, di costruzione della direzione di senso.
L’empatia è la capacità di mettersi nei panni dell’altro, di guardare il mondo dal suo punto di vista. Mettersi in contatto con l’altro significa ascolto, non necessariamente condivisione. Significa decentrarsi dal proprio io dando centralità e attenzione al racconto, nel rispetto dei propri confini e nella consapevolezza che, a volte, i “no” sono indispensabili per crescere.
L’ascolto dell’altro comprende oltre al linguaggio verbale anche quello non verbale. L’ascolto comprende inoltre lo spazio del silenzio.
Saper ascoltare è una competenza che si può acquisire. C’è la possibilità di realizzare progetti finalizzati a migliorare le relazioni a scuola e la comunicazione tra studenti e insegnanti; i colloqui, la consulenza e l’orientamento, sono diventati patrimonio comune della nostra realtà scolastica tesa al successo formativo e alla prevenzione della dispersione e del disagio.
Il gruppo-classe
La classe è la struttura portante della nostra organizzazione scolastica e rappresenta anche un microcosmo nel più ampio contesto sociale. Qui gli insegnanti, è scritto nel volume “Relazionarsi oggi”, svolgono una funzione istituzionale decisiva come mediatori relazionali degli alunni, nell’essere “impalcatura” e fattore di protezione per la crescita.
La classe si configura, inoltre, come una comunità di apprendimento in cui gli insegnanti assumono la funzione di facilitatori del processo di conoscenza condividendone con gli alunni, pur nella differenziazione dei ruoli, la responsabilità.
Il clima della classe influisce sulla crescita personale degli studenti e sulla motivazione all’apprendimento. Si impara di più e meglio se si hanno chiari i percorsi su cui ci si sta muovendo e se si percepisce il sostegno degli insegnanti.
L’appartenenza a un gruppo consente di stabilire la nostra identità sociale. Tutti i gruppi sviluppano un sistema di norme, forme di interdipendenza, una rete di comunicazione e di legami, ruoli e aspettative comportamentali. In ogni gruppo si presentano i medesimi processi interattivi: leadership, cooperazione, conflitti, competizione, marginalità, costruzione di un linguaggio comune e via di seguito. Lo stile di insegnamento e l’organizzazione del lavoro in classe incidono sulle dinamiche relazionali e sulla motivazione: una struttura individualizzata tende a collegare il successo all’impegno personale; una struttura competitiva tende a creare vinti e vincitori; una struttura cooperativa tende a produrre un incremento del piacere di andare a scuola e incide positivamente sulla motivazione all’apprendimento per il sostegno che ciascun componente del gruppo sente di poter ottenere.
La coesione sociale del gruppo è inoltre garantita da reciproci ruoli di tutoraggio e dalla condivisione delle elaborazioni cognitivo-relazionali. Risulta quindi evidente l’importanza del ruolo del docente nel monitorare e comprendere i processi interattivi del gruppo classe, con l’obiettivo di contenerli quando è necessario e di valorizzare le diversità.
Le emozioni
Per tanto tempo le emozioni sono state trattate come fattori non decisivi dell’azione sociale, come una minaccia alla razionalità. Del tutto residuali per la vera conoscenza scientifica o fonte di disturbo. Ora, le cose sono cambiate e le emozioni, come la rabbia, la gioia, la tristezza e la paura, che si manifestano attraverso la voce, le posture e le espressioni facciali, sono considerate strumento di comunicazione diretto ed efficace basato su segnali prodotti spontaneamente e immediatamente riconosciuti. Questo diverso approccio alle emozioni deriva da una visione più ampia del nostro essere umano.
L’essere umano, preso nel suo insieme, può essere considerato un sistema complesso costituito da molteplici dimensioni (corporea, emozionale, intellettuale, spirituale) e da plurimi livelli di coscienza (subconscio, conscio, super conscio, inconscio collettivo).
Ora si dà il fatto che – come scrive il prof. Enrico Cheli nel suo volume “Relazioni in armonia” – il sistema scolastico si rivolga essenzialmente all’intelligenza cognitiva, trascurando o addirittura ignorando altre dimensioni rilevanti quali quella corporea, espressiva, relazionale, emotiva. Nessuno insegna ai ragazzi a comunicare efficacemente e ad impostare in modi sani e costruttivi i nostri rapporti con gli altri. Nella scuola impariamo a parlare e a scrivere, ma non ad ascoltare e comprendere realmente l’altro in quanto diverso da noi. Ci viene insegnata una storia umana fatta di guerre, ma non ci viene detto nulla su come poterle evitare. Riceviamo una formazione professionale senza alcuna preparazione ai rapporti che avremo con i colleghi e con i superiori; rapporti che incideranno in modo determinante sul grado di soddisfazione e di rendimento in ambito lavorativo. In alcune scuole ci si preoccupa di dare una educazione sessuale agli studenti, ma poco viene fatto per fornire loro una qualche educazione sentimentale e relazionale. Insomma, viviamo in una società tecnologicamente avanzata, ma siamo poco più che analfabeti sul piano comunicativo, emozionale, relazionale.
Eppure, come possiamo educare l’intelligenza razionale, così possiamo educare anche le altre forme di intelligenza, quali, appunto, quella emotiva e la comunicativo-relazionale. Questi aspetti dell’educazione dovranno essere tra le priorità dei prossimi anni se vogliamo perseguire politiche imperniate sulla qualità della vita e sulla prevenzione del disagio sociale.

Le attività con i ragazzi
Sull’autostima
Il tema dell’autostima è stato affrontato in due momenti attraverso l’attività “Cosa dicono di solito gli altri di me”, che prevede delle schede di lavoro già pronte da fotocopiare e utilizzare in classe. L’obiettivo era riflettere sulla propria immagine di sé e su come viene rimandata dalle persone più vicine quali familiari, amici, compagni di classe, insegnanti e educatori.
La discussione ha messo in evidenza una maggiore consapevolezza delle proprie potenzialità, abilità, qualità ed anche di alcuni limiti personali.
Sull’educazione alle emozioni e ai sentimenti
Due sono state le attività, condotte attraverso delle carte stimolo inserite nel cd rom allegato al testo che erano state opportunamente stampate. Il gioco “Come mi sento” aveva l’obiettivo di favorire un clima di confidenza, attenzione e ascolto, e di aprire un dialogo sul vissuto emotivo dei ragazzi rispetto ad alcune situazioni comuni all’esperienza di tutti, e rappresentate appunto dalle carte – es. quando faccio i regali di Natale, il giorno del mio compleanno ecc.
In seguito “Il mercato delle emozioni” era finalizzato a aiutare i ragazzi a capire le proprie emozioni, a riconoscerle e ad esprimerle con le parole. In questo caso venivano utilizzate le carte delle emozioni, distribuite casualmente e poi scambiate tra gli allievi, come in un mercato, fino a che ogni ragazzo ne aveva almeno tre che riportavano loro stati d’animo, del presente o del passato, di cui erano disposti a parlare. Ogni allievo è stato invitato a mostrare le proprie carte e a condividere i motivi per cui le avevano scelte.
Star bene in gruppo
In questa fase del percorso lo scopo era aiutare i ragazzi a riflettere su che cosa significhi star bene in gruppo, ad esplicitare le richieste e i bisogni individuali e a concordare regole di comportamento condivise.
“Il gioco dei dieci passi” ha condotto gli allievi ad esprimere, in uno scavo progressivo, la propria esperienza nella classe, i bisogni non soddisfatti e gli impegni per il futuro. Le frasi da completare, su dieci foglietti colorati erano: Io credo che la mia classe sia…Ad alcuni miei compagni chiedo che… Da alcuni miei compagni mi aspetto che… Da alcuni compagni ho bisogno di… Da alcuni compagni non accetto che… Da alcuni compagni ho paura che… Dalla mia classe mi aspetto che…Per cui sono disposto a… Sicuramente farò… E per concludere.
Successivamente con un fotolinguaggio ogni studente ha scelto, tra una cinquantina di immagini sulla condizione umana e sul mondo della natura, quella che più illustrava le sue emozioni, per poi illustrarla per iscritto e descriverla ai membri del gruppo.
Per aiutare i ragazzi a confrontarsi sui vantaggi e gli svantaggi di essere parte di un gruppo, con l’attività “Vorrei una classe dove…” hanno discusso in sottogruppi quattro classi-tipo: una classe cooperativa che dà valore alla scuola; una classe centrata sullo studio e sulla competizione; una centrata sulle relazioni e disinteressata all’apprendimento; una classe anomica e divisa sia rispetto allo studio, sia rispetto ai rapporti tra compagni. L’attività si è conclusa con un momento di confronto e di convidisione del lavoro dei gruppi.
Alla scoperta dell’identità
Con il gioco “Io sono” è stato chiesto ai ragazzi di descriversi e, successivamente, di riconoscersi reciprocamente. Quindi con un collage ognuno ha dato una rappresentazione di sé ritagliando e incollando su grandi fogli di carta da pacchi immagini tratte da riviste. Ci sono voluti due incontri per portare a termine i lavori. Dopo una lunga discussione, si è anche deciso di proporre una mostra e di mettere in palio dei premi. Alla mostra sono stati invitati tutti i ragazzi della scuola, il preside, gli insegnanti, i bidelli e i genitori.
La conoscenza del bullismo
Dopo aver introdotto i ragazzi al fenomeno del bullismo, inteso come prepotenza ripetuta e asimmetrica di tipo verbale (prese in giro, offese), fisico (calci, pugni, furti…) o psicologico (esclusioni), sono state distribuite a tre sottogruppi le schede “E’ bullismo oppure no?” nella quale venivano presentate 18 azioni. Da questo elenco, i ragazzi avrebbero dovuto scegliere tre esempi di bullismo e tre che non lo fossero, motivando per iscritto le loro scelte.
Con “Scene di scuola” fumetti o vignette che rappresentavano scende di bullismo, e dove erano stati lasciati in bianco i dialoghi o i pensieri dei personaggi, sono stati completati dai ragazzi cercando di mettersi nei panni dei protagonisti, di immaginare le loro emozioni e aggiungendo i testi mancanti partendo dai loro vissuti, esperienze, fantasie. Al termine i ragazzi hanno letto le loro storie.
Ancora con delle carte stimolo – ma questa volta le “carte del bullismo” – sono stati letti e discussi in gruppo alcuni testi, ad esempio: “A volte per delle semplici battute ci sono ragazzi che se la prendono troppo”, “Non è un problema danneggiare le cose dei compagni. Basta pensare che c’è chi picchia selvaggiamente la gente…!”, “ Chi si fa difendere dai genitori perché qualcuno lo prende in giro è un debole e uno sfigato”, “Alcune persone meritano di essere trattate come animali”, (su quest’ultima frase si è discusso a lungo sulle differenze e sulle somiglianze tra la specie umana e quella animale), “Ci sono ragazzi che danno denaro o oggetti per la paura di essere picchiati”.
I ragazzi hanno contestato a un compagno comportamenti poco corretti e il compagno ha riconosciuto qualche sua mancanza e si è impegnato a modificare i propri comportamenti.
Conclusioni
Al termine del corso di formazione sia il conduttore sia gli insegnanti hanno riconosciuto che era migliorato il modo di relazionarsi da parte dei ragazzi, anche se erano ancora presenti alcuni comportamenti aggressivi in senso fisico o verbale. A ciò si deve aggiungere che anche i ragazzi ai margini della classe, come risultava dal test sociometrico somministrato inizialmente, sono riusciti a partecipare alle attività.
È importante sottolineare, infine, come la stragrande maggioranza della classe abbia stigmatizzato alcuni comportamenti eccessivamente aggressivi.
Per concludere, ricordiamo che problemi di aggressività e prepotenze sono presenti ovunque, anche nelle migliori classi e non solo in quelle particolarmente disagiate. Non è affatto vero che le scuole dove si affrontano questi problemi siano quelle in cui i fenomeni si presentano in maniera più grave. È un pregiudizio che bisogna cercare di sconfiggere se si vuole che le cose cambino davvero. *Sociologo Mediatore

Il comitato italiano a sostegno del Decennio
per l’educazione alla nonviolenza nel mondo

Di Sergio Bergami

I documenti dell’ONU

Su proposta di tutti i premi Nobel per la Pace viventi, già nel 1997 L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (risoluzione 52/15 del 20 novembre 1997) proclamava l’anno 2000 “Anno internazionale della cultura della pace”; nel 1998 (risoluzione 53/25 del 10 novembre 1998) sempre l’Assemblea Generale proclamava il periodo 2001-2010 “Decennio Internazionale per una Cultura di Pace e nonviolenza per i Bambini del Mondo”; nel 1999 (risoluzione A/53/243 del 13 settembre 1999) essa ha prodotto una Dichiarazione e un interessantissimo Programma d’azione per una cultura di Pace. L’UNESCO ha realizzato un manifesto per l’anno 2000 che è stato firmato da oltre 65 milioni di persone nel mondo.
Questi documenti sono in realtà molto importanti perché “Gli Stati Membri sono incoraggiati a prendere dei provvedimenti per promuovere una cultura di pace a livello nazionale“(art. 2 del Programma d’azione); e ancora “L’applicazione efficace del Programma d’azione richiede la mobilitazione di risorse, ivi comprese le risorse finanziarie, grazie ai governi, alle organizzazioni, e agli individui interessati”(art. 8).
Nell’art. 9 si parla di “Fare in modo che i bambini ricevano, fin dalla più tenera età, una educazione al riguardo dei valori, delle attitudini, dei comportamenti e dei modi di vita che debbano loro permettere di risolvere le controversie in maniera pacifica” […] e di “Far partecipare i bambini ad attività che instilleranno in loro i valori e gli scopi di una cultura di pace.” Come si vede da questi pochi passi tratti dalle dichiarazioni lo spazio di intervento è veramente molto grande.Cosa è stato fatto dal Comitato Italiano

Nella primavera del 2003 è stato costituito il “Comitato Italiano per il Decennio di educazione alla pace ed alla nonviolenza per i bambini del mondo” composto da:
Associazione per la Pace
Beati i Costruttori di Pace
GAVCI (Gruppo Autonomo Volontariato Civile in Italia)
Movimento Internazionale Riconciliazione
Movimento Nonviolento
Banca Popolare Etica
Nel 2006 si sono aggiunti il Centro Studi “Domenico Sereno Regis” di Torino e l’ASSEFA Italia, nel 2007 si è ulteriormente allargato grazie all’adesione del Centro di formazione Santos-Milani (CN), di “Disegnami un sorriso” di Torino, della Comunità di Mambre a Busca (CN) e della Scuola di Pace di Boves (CN).
Il Comitato Italiano in questi anni ha fatto varie azioni:

si è dotato di uno statuto e regolamento di funzionamento che ne definiscono gli scopi e le attività per l’Italia
ha realizzato un logo per il Decennio italiano, le brochure ed i manifesti per pubblicizzare il decennio, si è dotato di un suo sito (www.decennio.org).
ha realizzato una scheda per rilevare le esperienze di educazione alla pace che si organizzano nelle scuole
ha aderito alla Coalizione Internazionale per il Decennio ( http://www.decennie.org/internationale.html) che ha sede a Parigi e mantiene i contatti con l’estero
ha realizzato nel maggio 2003 un primo incontro internazionale nell’ambito di Civitas la fiera del Terzo Settore che si tiene annualmente a Padova e poi via via altri appuntamenti: a Torino, a Genova, ad Assisi ecc. Di particolare importanza i tre convegni internazionali a cadenza annuale, realizzati grazie al contributo fondamentale del Centro Studi Sereno Regis di Torino, che è stato un vero motore di iniziative, “Se vuoi la Pace educa alla pace” a Sanremo nel 2005, a Chieri nel 2006 e a Boves (CN) nel settembre 2007.
ha attuato varie iniziative nelle scuole
E’ stato prodotto il CD-ROM “Mattoni di pace”, destinato alle scuole medie superiori. E’ stato tradotto e stampato il libretto Programma per l’educazione alla nonviolenza ed alla pace scritto dal Coordinamento francese per il decennio: questo opuscolo è rivolto agli insegnanti della scuola dell’obbligo.
Ha ripreso l’azione di lobbing sui parlamentari che ha sortito un positivo risultato perché anche nella presente legislatura sono state ripresentate due proposte di legge sulla creazione di un Istituto di ricerca sulla pace e la risoluzione dei conflitti (n. 1958 del 16/11/2006), assegnata alla Commissione Esteri della Camera, e per finanziare l’educazione alla pace nelle scuole (n. 1957 del 16/11/2006) assegnata alla commissione cultura della Camera, proposte che erano state presentate anche nella precedente legislatura, ma che non si erano mosse dalle rispettive Commissioni a cui erano state assegnate.

La riforma dei programmi scolastici e la direttiva sull’educazione alla pace
In questi ultimi anni è stata avviata una riforma della scuola con una revisione dei programmi e delle competenze che gli studenti devono possedere in uscita dai vari ordini di scuola. Era l’occasione che si aspettava per dare attuazione alle indicazioni dell’Assemblea generale dell’ONU. Infatti il già ricordato art. 9 del Programma d’azione I.; si incoraggia “la revisione dei programmi di insegnamento, ivi compresi i manuali, nello spirito della Dichiarazione […] riguardante l’educazione alla pace”.
Invece nelle “Indicazioni nazionali per i Piani di studio personalizzati nella Scuola Secondaria di I e di II grado” emanati dal Ministero dell’Istruzione a guida Moratti questo tema è quasi del tutto assente
Il Ministro Fioroni ha già emanato nuove “Indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e quella del primo ciclo di istruzione” rivedendo quelle emanate dal precedente Ministro. E all’interno di questo processo il Ministro ad Assisi il 4 ottobre scorso ha emanato delle interessanti Linee guida per l’educazione alla pace nelle scuole. Il testo delle Linee guida appena firmato (e presente anche sul dito del Comitato Italiano Decennio www.decennio.org) è stato il frutto del lavoro di un Comitato tecnico apposito istituito ufficialmente presso il Ministero della P. I. a cui è stato chiamato a partecipare anche il Comitato Italiano Decennio. In questo Comitato tecnico erano presenti parecchie associazioni che si occupano della pace come la Tavola per la Pace, la Caritas di Roma, l’E.I.P. (École Instrument de Paix), l’UNESCO Italia, le ACLI di Roma, l’Arca di Pace, l’UNICEF Italia l’Università Roma 3 con il prof. Casula, ecc.
In realtà però bisogna chiarire che questo Comitato tecnico non ha avuto solo il compito di elaborare la direttiva sull’educazione alla pace, ma anche di sostenere l’iniziativa governativa che ha mandato dei soldati in Libano in “missione di pace”. Pertanto è stato creato un sito www.lapacesifascuola.it cogestito dal Ministero della P.I. e da quello della Difesa con lo scopo di promuovere gemellaggi tra scuole italiane e scuole libanesi nell’area in cui operano i soldati della missione in Libano. E’ chiaro l’intento di creare consenso attorno all’ennesima “missione di pace” italiana. E’ stato chiaro quindi che chi ha aderito a questo progetto complessivo si assumeva anche il compito di creare consenso attorno a questa operazione militare.
Il Comitato Italiano Decennio si è impegnato solo sulla parte relativa all’elaborazione della Direttiva e devo dire che il testo finale recepisce quasi tutti i contributi di idee che erano stati proposti dal Comitato Italiano.
La dimensione internazionale
La presenza all’interno di questo Comitato Tecnico istituito presso il Ministero P.I. del Comitato italiano Decennio è stata importante perché al Ministero non si conoscevano i documenti dell’ONU né si conosceva l’esistenza in altri paesi europei di iniziative specifiche, che invece ci sono. In Spagna, infatti, nel 2005 è stata emanata una importantissima legge (reperibile sul sito del Decennio) che trae ispirazione proprio dai documenti dell’ONU ed in questi anni il governo spagnolo la sta vigorosamente attuando.
Il Comitato italiano è stato l’unico tra gli esistenti comitati nazionali per il decennio che ha tenuto un workshop a Parigi in occasione del II Salone internazionale della cultura di pace che si è tenuto nel giugno del 2006. Il Comitato italiano è entrato a far parte del Consiglio di Amministrazione del Coordinamento Internazionale.
E’ in preparazione il III Salone internazionale sulla cultura di pace che si svolgerà nel 2008 a Parigi dal 30 maggio al 1 giugno.
La Coalizione Internazionale Decennio ha elaborato una “Proposta di Dichiarazione” che ha presentato all’UNESCO a Parigi nel settembre 2007 perché venga adottata da tutti gli stati membri. La Dichiarazione è sul diritto ad una educazione senza violenza e ad un’educazione alla nonviolenza ed alla pace.
Questa dichiarazione si inserisce in una serie di iniziative dell’Assemblea Generale dell’ONU che ha tra l’altro proclamato il 21 settembre di ogni anno giornata internazionale della pace ed il 2 ottobre giornata internazionale della nonviolenza.
Ad Assisi era presente, oltre al Ministro, anche Christian Renoux presidente della Coalizione Internazionale Decennio che ha voluto presenziare all’emanazione delle Linee Guida per poter portare anche in sede internazionale l’esperienza italiana: pur non avendo ancora una legge come in Spagna, abbiamo adesso una direttiva del Ministero che pone l’Italia all’avanguardia nel settore dell’educazione alla nonviolenza ed alla pace rispetto a molti altri stati. Confidiamo che oltre alla direttiva arrivino anche finanziamenti su questo settore.

CD ROM “MATTTONI DI PACE”
E’ disponibile presso Azione Nonviolenza il CD-ROM “Mattoni di pace” prodotto dal Comitato Italiano decennio 2001-2010 per l’educazione alla nonviolenza ed alla pace per i bambini del mondo e quindi anche con il contributo del MN che fa parte del Comitato.
Il CD contiene utilissimi materiali per l’educazione alla nonviolenza ed alla pace. E’ suddiviso in 10 aree navigabili ed è fortemente interattivo. Infatti linkando i collegamenti presenti, se il computer è collegato ad Internet, consente una grande possibilità di navigazione verso siti interessanti. I materiali presenti si rivolgono agli studenti delle scuole secondarie superiori per un utilizzo personale ed agli insegnanti per un utilizzo organizzato nelle classi. Al suo interno ci sono anche delle guide per utilizzare al meglio le sue aree di lavoro.
Il CD può essere richiesto versando un libero contributo di almeno 10 Euro.
Per ulteriori informazioni visitate il sito del Decennio
www.decennio.org

Strumenti didattici per contrastare il bullismo nella scuola

Una delle difficoltà che si incontrano quando si vuol fare prevenzione della violenza nelle scuole è trovare un’idea per incominciare. Quelli che seguono sono strumenti didattici che ricalcano i linguaggi familiari ai ragazzi e agli insegnanti e possono diventare spunti di facile utilizzo per strutturare percorsi educativi nella scuola.
Storie da raccontare, da proiettare, da ascoltare
Kit no-bullismo, ed. Berti 2007
Una storia illustrata e cantata e un fumetto che raccontano ai bambini della scuola primaria storie di emarginazione o di prevaricazione tra compagni. Le schede di lavoro finali sono strumenti immediatamente utilizzabili per affrontare il tema con leggerezza e in forma traslata, arrivando però alla espressione delle emozioni e promuovendo sentimenti di solidarietà ed empatia verso chi è più fragile.
Game Over, ASL di Milano
Una fiction prodotta dalla ASL di Milano con gli studenti di una scuola milanese coinvolti nel progetto “Stop al bullismo”. Si racconta la storia di Luca, un ragazzino di prima media che fatica ad inserirsi nella classe, e di Marco, il compagno ripetente che lo opprime con le sue prepotenze.
È inserito nel testo “Stop al bullismo” di Nicola Iannaccone, ed. la meridiana, che propone anche schede di attività per l’utilizzo del video, e sul sito del programma “Screensaver”.
Tutto normale. Bulli, vittime, spettatori, la meridiana
Storie di bullismo realmente avvenute nella scuola secondaria raccontate attraverso lo sguardo dei protagonisti: “bulli” e “vittime” ma anche insegnanti, compagni, difensori, genitori, vicini di casa… Con la forza proiettiva delle storie possono costituire un aggancio per introdurre il tema, per entrare nel profondo, per parlare di sé.
Percorsi didattici sperimentati
Togliamoci la maschera, Comune di Ferrara
Un dvd composto da interviste a studenti e insegnanti delle scuole superiori suddivise per temi e inframmezzati da frammenti teatrali. Il video parla di: che cos’è il bullismo, la vittima, il bullo, gli astanti, i professori, il bullismo indiretto, le soluzioni, ed è pensato per le scuole superiori.
Può essere richiesto gratuitamente tramite la cartolina inserita nell’ultima pagina di “Bullismo, Bullismi” o semplicemente inviando una email al servizio PROMECO, promeco@comune.fe.it
Bullismo, bullismi, FrancoAngeli 2005
Un manuale per interventi di prevenzione o contrasto del bullismo dedicato agli insegnanti e agli operatori che lavorano nella scuola secondaria di I e II grado. La parte pratica distingue quattro percorsi: i fattori protettivi, l’identificazione del bullismo, il contrasto alle situazioni accertate, la gestione dei conflitti.
Il bullismo nella scuola primaria, FrancoAngeli 2007 (in corso di stampa)
Un manuale analogo al precedente, ma specifico per la scuola primaria e ricco di attività sull’autostima, le emozioni e i sentimenti, le attese verso i compagni, la gestione della rabbia, la convivenza civile, i litigi, il bullismo.

EDUCAZIONE
A cura di Pasquale Pugliese
Studenti dai 18 agli 80 anni
per la Scuola della Nonviolenza

Nata quasi per gioco, la Scuola della Nonviolenza a Ferrara prosegue con incontri settimanali da ormai cinque anni scolastici, grazie alla collaborazione di diverse associazioni e degli enti locali.
L’impulso venne dal Gruppo Ferrara Terzo Mondo, associazione delle botteghe del commercio equo e solidale, che nel 2003/04 propose al Movimento Nonviolento di attivare una “Scuola della Nonviolenza”. I promotori erano Movimento Nonviolento, Ferrara Terzo Mondo, Legambiente, Pax Christi e Commercio Alternativo.
Il primo ciclo era una presentazione dei maestri italiani della nonviolenza. Ci sembrava infatti che figure come Gandhi o Luther King fossero già molto conosciute, e fosse meglio privilegiare per una volta personaggi di grande valore ma di minore notorietà come don Zeno Saltini, Danilo Dolci, don Lorenzo Milani ed altri, oltre ovviamente a Aldo Capitini. Era un programma ambizioso, non avevamo idea di quale eco avrebbe avuto in città.
Accaddero subito alcune cose. La sala si riempì di tante persone, tra cui molti studenti universitari desiderosi di saperne di più sulla nonviolenza. C’erano figure di riferimento dell’impegno sociale e culturale cittadino ma anche insegnanti o semplici interessati. Un pubblico bellissimo ed eterogeneo dai 18 agli 80 anni di età.
Dopo quel primo ciclo il Comune di Ferrara mise a disposizione i suoi canali per aiutarci a dare notizia delle attività, mentre alcuni giovani chiesero di approfondire la figura di Aldo Capitini. Si creò così un gruppo di lettura, in tutto sette o otto persone che per quattro settimane, una sera alla settimana, leggevano e commentavano la “Teoria della Nonviolenza” di Capitini. Eravamo in pochi ma la cosa non ci dava pensiero. Il nostro scopo non era fare scalpore né occupare le pagine dei giornali. Da sempre cerchiamo di promuovere momenti ricchi di contenuto e aperti a quanti possano essere interessati. Per questo facciamo del nostro meglio affinché le iniziative siano conosciute in città ma non vogliamo convincere, stupire o manipolare.
Un altro aspetto che mi piace sottolineare, e che ho imparato dal “preside” Daniele Lugli, è l’attenzione verso tutti coloro che si avvicinano alla Scuola; l’importanza di chiedersi ogni volta che cosa si sta facendo realmente e con chi si vuole farlo, così da trovare punti di contatto reali con altre persone e associazioni; il fatto che hanno lo stesso valore incontri di 8, 80 o 800 persone, purché si condivida un atteggiamento sincero di ricerca e confronto; il piacere di dialogare con i giovani a scuola come nelle università, tra gli scout o nelle associazioni, perché il tempo impegnato insieme a loro non è mai sprecato.
Dopo un avvio basato soprattutto su conversazioni con ospiti esterni il programma si è arricchito con proiezioni, giochi di ruolo, laboratori e gruppi di discussione, perché la conoscenza della nonviolenza proceda nel pensiero e nella prassi. Per alcuni il passaggio è stato più concreto. Nell’arco di questi cinque anni sono cresciuti gli abbonati della nostra provincia ad Azione nonviolenta e alcuni hanno deciso di iscriversi al Movimento o hanno partecipato a seminari nazionali sul tema, organizzati dalla nostra o da altre associazioni.
Alla fine del terzo anno un gruppetto di irriducibili si è incontrato per immaginare il programma dell’anno successivo, rendendo la Scuola sempre più partecipata. A questo si aggiunge il fatto che la Scuola è ormai punto di riferimento cittadino, tanto che anche figure istituzionali – docenti universitari, amministratori locali… – cercano un contatto con la Scuola della Nonviolenza per organizzare insieme momenti o incontri significativi. È così che, nel 2006/07, si sono aggiunti due graditi fuori programma: un incontro sul genocidio degli Armeni ed un altro con una docente universitaria tunisina impegnata a favore dei diritti delle donne.
Proprio di donne abbiamo parlato più volte, dapprima in un ciclo interamente dedicato alle “maestre” (Simone Weil, Etty Hillesum, Hannah Arendt…), poi in una rassegna sulla violenza contro le donne e, quest’anno, con un progetto specifico sulla nonviolenza al femminile che ci impegnerà per circa tre mesi.
L’apertura è avvenuta con Irfanka Pasagic, psichiatra bosniaca di Tuzlanska Amica. La sua presenza ha avuto un significato particolare perché, su proposta del Movimento Nonviolento, da due anni il nodo ferrarese della Rete Lilliput destina i fondi della campagna ispirata all’obiezione alle spese militari al progetto “Adopt Srebrenica”. Il secondo appuntamento ha avuto come relatrici le ospiti dell’ONU dei Popoli a Ferrara, due attiviste per la pace, una arabo-israeliana ed una palestinese.
Il terzo incontro è stato dedicato alla campagna contro il nucleare, presentata da Lisa Clark di Beati i Costruttori di Pace.
Elena Buccoliero

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Mangiare e bere bene, insieme,
per salvare ambiente e paesaggio

Si è chiusa il 24 settembre scorso a Bra la rassegna “Cheese”, che ogni due anni si intervalla con il Salone del Gusto torinese. Grande successo di pubblico (150 mila visitatori in quattro giorni) e di vendite (addirittura 1000 chili di parmigiano, pari a 27 forme) per tutti i formaggi di qualità che la rassegna intende far conoscere e tutelare attraverso i cosiddetti presìdi.
Il perché una piccola cittadina cuneese sia luogo designato di una simile manifestazione è a tutti noto: Carlo Petrini, per gli amici Carlin, ideatore di questa e altre iniziative è nato e vive a Bra, e non ama molto spostarsi per il mondo, nonostante i suoi impegni da presidente di Slowfood lo portino ovunque. Vale la pena conoscere più a fondo il personaggio, che può essere considerato a pieno titolo un vero operatore di pace.
Nato con l’aiuto di una levatrice di nome Gola (quando si dice il caso) nel 1949, Carlin studia sociologia a Trento e partecipa al gruppo del Manifesto, per il quale viene anche eletto consigliere al comune di Bra. Nel 1977 sostiene la nascita dell’inserto mensile del Manifesto Il Gambero Rosso, dal quale si staccherà per diventare la rivista di riferimento dell’associazione Arcigola (1986). Ma l’intuizione più geniale è del 9 dicembre 1989, quando a Parigi viene fondato il Movimento Internazionale Slow Food. Dopo tre giorni di confronto e dibattito all’Opéra Comique, oltre venti delegazioni provenienti da tutto il mondo sottoscrivono il manifesto del movimento, che recita: “Contro coloro, e sono i più, che confondono l’efficienza con la frenesia (…) contro l’appiattimento del Fast Food riscopriamo la ricchezza e gli aromi delle cucine locali. Se la Fast Life in nome della produttività ha modificato la nostra vita e minaccia l’ambiente e il paesaggio, lo Slow Food è oggi la risposta d’avanguardia”.
Il movimento conoscerà una crescita inarrestabile: oggi Slowfood è una realtà che conta 83 mila iscritti, 40mila in Italia, sparsi in 122 Paesi, con un giro di affari di 20 milioni di euro tra corsi di degustazione, riviste enogastronomiche e finanziamenti che arrivano da amministrazioni e fondazioni di ogni colore politico. Promuove le due rassegne sopra citate e gestisce un’università di Scienze Gastronomiche a Pollenzo, nella dimora che fu sabauda, con l’obiettivo “di creare un centro internazionale di formazione e di ricerca, al servizio di chi opera per un’agricoltura rinnovata, per il mantenimento della biodiversità, per un rapporto organico tra gastronomia e scienze agrarie”.
Il pensiero di Petrini è condensato in decine di aforismi, il più incisivo dei quali è forse questo: «Un ambientalista non gastronomo è triste. Un gastronomo non ambientalista è sciocco». Secondo lui, mangiare è un ‘atto agricolo’: selezionando cibi di buona qualità, prodotti con criteri di rispetto per l’ambiente e le tradizioni locali, favoriamo la biodiversità e un’agricoltura equa e sostenibile. E questo lo pone tra i più strenui difensori dell’ambiente al fianco delle popolazioni del sud del mondo. Proprio per conoscere meglio le opinioni di questi ultimi, e diffondere il loro bagaglio culturale, ha affiancato dal 2004 al Salone del Gusto torinese la rassegna Terra Madre, aperta solo agli operatori del settore agricolo.
Circa 5.000 contadini, giunti da tutte le parti del mondo e depositari, secondo l’ottica del Carlin, di saperi incredibili hanno concluso nel 2006 l’happening mondiale delle comunità del cibo con una dichiarazione di guerra al modo di pensare imperante: «Le forme di vita non appartengono alle multinazionali, ma ce le ha date il Creatore. Vogliamo restare sulle nostre terre senza che nessuno ci tolga la linfa vitale». Seguendo una filosofia di sobrietà che contraddistingue il Petrini-pensiero (ma non quello di Slowfood), i contadini sono ospitati da volontari torinesi che fanno la fila per accogliere in casa, rifocillare e trasportare per la città persone che provengono dai più sperduti angoli del pianeta, in modo da scoprire, attraverso essi, realtà appassionanti a rischio di estinzione.
“Mangiate meno, mangiate insieme” continua a propagandare il nostro amico. E poi: “Malnutrizione e obesità sono facce della stessa medaglia. L’economia di mercato sta palesando limiti insostenibili, sta consumando se stessa e le risorse del pianeta, condannando il cibo a un triste futuro, la Terra a un inverosimile logorio e, di conseguenza, anche noi.” E mentre la rivista internazionale «Time Magazine» lo inserisce tra gli “eroi del nostro tempo” nella categoria «Innovator», lui riscopre una antica tradizione contadina, «cantè ij ouev», e con compagni di scorribande percorre le Langhe piemontesi suonando e ballando nei cortili delle cascine, in perfetto stile Glocal.

PER ESEMPIO
A cura di Maria G. Di Rienzo
Come fermare una guerra
partendo dal mercato rionale

Il distretto di Wajir, nel Kenya del nordest, è abitato prevalentemente da clan somali. Alla caduta del governo somalo, nel 1989, il distretto si disgregò ed ebbe inizio una guerra tra clan, con conseguente flusso di rifugiati e di armi. Dekha Ibrahim ricorda bene la notte del 1993 in cui le sparatorie eruppero accanto a casa sua. Corse a prendere suo figlio e si nascose con lui sotto il letto, mentre le pallottole attraversavano la stanza fischiando: di colpo, Dekha ricordò se stessa bambina, fra le braccia della madre, nella medesima condizione. Al mattino, aveva deciso che questo non doveva più accadere.
Altre donne del vicinato avevano storie simili da condividere. All’inizio si riunirono in circa una dozzina: “Volevamo semplicemente mettere insieme le nostre teste, capire cosa sapevamo e cosa potevamo fare.”, racconta Dekha Ibrahim, “Decidemmo che il posto da cui cominciare era il mercato. Il mercato doveva essere sicuro per ogni donna che vendesse o comprasse, di qualsiasi clan facesse parte.” Poiché sono in maggioranza donne ad occuparsi del mercato nel Wajir, la decisione fu subito condivisa e si propagò velocemente. Le donne sorvegliavano il mercato, e se qualche infrazione all’accordo avveniva, il piccolo comitato iniziale era chiamato ad intervenire. A questo punto si diedero un nome: erano l’Associazione di Donne del Wajir per la Pace.
Presto scoprirono, però, che quella vittoria non era abbastanza. Il conflitto continuava ad interessare pesantemente le loro vite. Sedettero insieme di nuovo, e la seconda decisione fu quella di andare a parlare con gli anziani di tutti i clan. Non era una cosa facile, in una società altamente patriarcale: “Temevamo che ci rispondessero: Chi sono le donne per venire qui a darci consigli o a fare pressioni? Perciò riflettemmo parecchio su come il sistema degli anziani era strutturato, su chi erano le persone-chiave, su che connessioni e contatti potevamo utilizzare.”, dice ancora Dekha.
Facendo portare la loro proposta ai vari clan da uomini che conoscevano, l’Associazione ottenne di riuscire ad organizzare un incontro di tutti gli anziani. Quello che più sembrava simpatizzare con le donne apparteneva ad uno dei clan minori e meno coinvolti nella guerra, e divenne di fatto il loro portavoce. “Per quale ragione, in realtà, stiamo combattendo?”, chiese agli altri, “Chi sta beneficiando della guerra? Non certo le nostre famiglie, che ne sono distrutte.” Le sue parole provocarono lunghe discussioni. Tuttavia, al termine dell’assemblea, persino gli anziani che avevano progettato e promosso rappresaglie si dissero d’accordo sul cessare i combattimenti: erano diventati il Consiglio degli Anziani per la Pace.
Le donne capirono presto che il passo successivo doveva essere il coinvolgimento del governo, su base locale e nazionale. Sempre con gli anziani al loro fianco, incontrarono deputati e rappresentanti governativi, descrivendo loro ciò a cui avevano dato inizio, e come il processo si sviluppava. Accordandosi sul fatto che il governo sarebbe stato puntualmente informato, le donne ottennero la sua benedizione.
La questione, ora, era come coinvolgere direttamente i giovani, perché erano i giovani a combattere e morire. Un nuovo progetto prese vita, La Gioventù per la Pace, e le donne sapevano bene che se tramite esso avessero convinto i ragazzi ad abbandonare le armi dovevano essere in grado di fornire loro un’alternativa, qualcosa che occupasse il loro tempo e provvedesse benefici a loro ed alle loro famiglie. A questo punto, mobilitarono la locale comunità di investitori e costruttori, ed un piano di ricostruzione con conseguenti offerte di lavoro venne messo a punto. Insieme, le donne del mercato, gli anziani, i giovani ex combattenti, gli uomini di affari e i leader religiosi locali formarono il Comitato del Wajir per la Pace e lo Sviluppo.
Commissioni del Comitato vennero create negli angoli più remoti per facilitare il processo di disarmo delle varie fazioni, in collaborazione con i distretti di polizia. Squadre di pronto intervento si formarono, al fine di spegnere ogni più piccolo focolaio che avrebbe potuto riattizzare la guerra.
Tutto questo è ancora in moto, perché ogni conflitto somalo si riflette sulla regione. Ma il Consiglio si riunisce regolarmente ed un grande senso di cooperazione vive tra i villaggi, i clan, i funzionari governativi locali. E le donne che fermarono la guerra tengono ancora d’occhio il mercato.

GIOVANI
A cura di Elisabetta Albesano

Seminario invernale
“Disonora il denaro”

Seminario 2008 del Movimento Nonviolento per giovani
Quest’anno il Movimento Nonviolento ha pensato di organizzare un seminario invernale rivolto esclusivamente ai giovani, il cui obbiettivo è quello di riflettere su tematiche importanti insieme a nostri coetanei, per confrontarsi e per divertirsi. Di seguito troverete tutte le informazioni utili. Vi invito a partecipare.
Per chi: Il seminario è rivolto ai ragazzi dai quindici ai vent’anni.
Quando: Dal pomeriggio di venerdì 4 al pomeriggio di domenica 6 gennaio 2008.
Tema: L’obiettivo del seminario è quello di proporre ai giovani un rapporto equilibrato con il denaro, senza trasformarlo nel proprio dio come ci invita a fare la società in cui viviamo, ma dandogli un valore relativo, inferiore ad altri valori quali l’amicizia, la condivisione e l’amore.
Formatore: Beppe Marasso.
Dove: Centro per la nonviolenza, via Milano 65, Brescia, tel. 030 31 74 74.
Posti disponibili: 16.
Organizzatore: Movimento Nonviolento.
Quota di partecipazione: € 27 a persona, comprensiva di vitto, alloggio e copertura assicurativa. Eventuali resti di cassa saranno devoluti al Movimento Nonviolento.
Notizie logistiche: Il Centro per la nonviolenza è situato a circa un chilometro dalla stazione di Brescia.
Notizie organizzative: Il seminario è autogestito e quindi tutti dovranno portare il loro contributo lavorativo per le esigenze fondamentali: cucina e pulizia.
Programma: Il seminario sarà organizzato con la seguente impostazione:
venerdì pomeriggio: arrivi, cena e incontro di presentazione;
sabato mattino: lavori manuali per aiutare la manutenzione del luogo;
sabato pomeriggio: presentazione del tema, riflessione, interventi, dibattito e decisioni;
sabato sera: festa;
domenica mattina: visita del centro cittadino;
pranzo comunitario con i genitori dei ragazzi partecipanti.
L’alimentazione sarà vegetariana. Il campo è riservato ai ragazzi, ma si invitano i loro genitori a partecipare comunitariamente al pranzo della domenica.
Coordinatori: Cinzia Regini (tel. 3474493043) e Sergio Albesano (tel. 3494031378; e-mail: sergioalbesano@tiscali.it)
Iscrizioni: da effettuarsi entro il 20 dicembre 2007, rivolgendosi ai coordinatori.
Ospitante: Adriano Moratto.
Scarico di responsabilità: I genitori dei partecipanti minorenni dovranno firmare e consegnare a uno dei coordinatori la seguente dichiarazione firmata in originale:
Il sottoscritto …….., padre/madre di …….., dichiara di essere d’accordo che suo/a figlio/a …….. partecipi al seminario “Disonora il denaro” organizzato dal Movimento Nonviolento che si terrà a Brescia dal 4 al 6 gennaio 2008 e con la presente dichiara di assumersi in toto la responsabilità degli atti che suo/a figlio/a potrà fare, dei danni che potrà arrecare a persone e cose e degli infortuni che potrà eventualmente subire, ritenendo il Movimento Nonviolento e i coordinatori del campo esenti da qualsiasi responsabilità al riguardo.
In fede.
Data e firma.

MUSICA
A cura di Paolo Predieri

Liberare i musicisti
da ingiustizie e burocrazia

Non c’è solo la difficoltà di trovare luoghi adatti per provare, la taverna o lo scantinato opportunamente insonorizzati o la saletta di fortuna messa a disposizione dall’oratorio o dal circolo tal dei tali. Non c’è solo la difficoltà di trovare spazi per esibirsi da parte dei gruppi o cantautori esordienti. “Quando riescono finalmente ad avere una possibilità – spiega il chitarrista Giorgio Cordini – devono scontrarsi con mostri burocratici come l’Enpals, l’ente di previdenza dei lavoratori dello spettacolo, che sembra fare tutto il possibile per frenarli. Nessuna distinzione esiste fra professionisti e non, così qualsiasi gruppo che magari non fa più di dieci serate all’anno in piccoli locali, deve versare i contributi anche se non riceve nessun compenso. Fra l’altro questi contributi andranno a fondo perduto perché non sono cumulabili con quelli versati all’Inps. D’altronde la certificazione di agibilità che rilascia l’Enpals è obbligatoria per chiunque salga su un palcoscenico senza distinzioni fra dilettanti e professionisti.”
Fra i concertisti classici è in corso una raccolta di firme che ha già superato le 12000 adesioni, su una petizione al Presidente della Repubblica che segnala gravissime ingiustizie tributarie. “Per ogni concerto tenuto in Italia – affermano i firmatari – la legge ci obbliga a versare all´Enpals una percentuale del nostro cachet, e anche gli enti organizzatori devono pagare un´ulteriore quota. In totale, per ogni nostro concerto viene versato all´Enpals più del 30% del nostro cachet ma, in pratica, nessuno di noi avrà mai diritto alla pensione da parte dell´Enpals. Infatti, la legge prevede che la pensione per la nostra categoria professionale venga erogata dopo almeno 20 anni di contributi e per raggiungere un anno occorrono 120 giornate lavorative. Poiché generalmente un concerto viene conteggiato come una giornata contributiva, per raggiungere un anno di contributi sarebbero necessari circa 120 concerti effettuati in Italia con regolari contributi versati. Per raggiungere la quota necessaria per la pensione, ossia 20 anni, sono quindi necessari 2400 concerti effettuati in Italia: un traguardo che nella storia della Repubbica Italiana forse nessun concertista classico è mai riuscito a raggiungere. Per di più molti di noi svolgono la propria attività principalmente all´estero, la quale si solito non rientra nei conteggi Enpals.”
“Tra Enpals, ritenuta d´acconto, Iva e altre trattenute – prosegue la petizione – più del 60% dei nostri cachet è versato in tasse. E,sia all´estero che in Italia, spesso costiamo agli organizzatori molto di più dei nostri colleghi stranieri, i quali godono di molte agevolazioni che a noi non sono concesse.”
Possibile che nessuno abbia pensato a vie d’uscita ?
“Quest’anno – spiega ancora Cordini – sembrava si fosse aperto uno spiraglio che avrebbe risparmiato appunto i dilettanti, ma è stato recentemente chiarito dal ministero del Lavoro che la tipologia degli spettacoli interessati a questa esenzione deve considerarsi esclusivamente quella delle esibizioni musicali connesse alla celebrazione di tradizioni popolari e folcloristiche. Eppure non sarebbe difficile semplificare le modalità di adesione all’Enpals, proporzionando il versamento dei contributi all’effettivo compenso ricevuto”.
Nel frattempo è possibile sottoscrivere la petizione sul sito: www.petitiononline.com/enpals/

CINEMA
A cura di Enrico Pompeo
Il petrolio che inquina l’ambiente,
l’economia, le culture, le coscienze

SYRIANA
Regia: Stephen Gaghan
Con: George Clooney, Matt Damon, Amanda Peet

Il giovane e carismatico principe Nasir, erede al trono di un Paese del Golfo produttore di petrolio, sta cercando di modificare le relazioni commerciali che da lungo tempo sono state favorevoli agli uomini d’affari degli Stati Uniti. Nasir, infatti, ha appena vantaggiosamente ceduto ai cinesi i diritti di sfruttamento del gas, in precedenza detenuti dal gigante texano Connex, danneggiando così gli interessi americani nella regione. Jimmy Pope, proprietario della Killen, una piccola compagnia petrolifera, ha da poco ottenuto i diritti di trivellazione nei giacimenti del Kazakhstan destando l’interesse della Connex. Quando le due compagnie decidono di fondersi, il Dipartimento della Giustizia e lo Sloan Whiting, potente studio legale di Washington, devono verificare la stipula dell’accordo tra loro. A Bob Barnes, veterano agente della CIA, che potrebbe passare gli ultimi anni della carriera svolgendo un comodo lavoro d’ufficio, viene promessa una promozione dopo un’ultima missione il cui scopo è l’assassinio del principe Nasir. L’esito imprevisto di questa missione lo metterà nelle condizioni di riesaminare il ruolo che ricchi e poveri, sceicchi e lavoratori, ispettori governativi e spie internazionali svolgono inconsapevolmente all’interno del complesso sistema mondiale.
Film complesso, con una trama che si dipana seguendo direzioni spesso poco contaminanti le une con le altre, per un intreccio di situazioni giocato su rimandi e segnali che si susseguono quasi a realizzare un rebus che cattura l’attenzione dello spettatore e ne stimola la capacità di attenzione e di coinvolgimento. Questa scelta stilistica è funzionale allo sviluppo del messaggio che l’autore vuole trasmettere, cioè quello della rappresentazione di una realtà, quella legata agli interessi perversi che gravitano sulle piste dell’oro nero, che è, prima di tutto, farraginosa, complicata, intricata, in cui ogni aspetto è simultaneamente se stesso e il suo esatto contrario, prima di rivelarsi anche corrotta, meschina e priva di qualsivoglia sentore di barlume etico. Risiede, proprio, in una tale scelta il valore di questo film, che si distacca dai molti titoli che , inserendosi nel filone del cinema di denuncia, si limitano ad osservare gli aspetti sporchi degli interessi delle industrie multinazionali che, come avvoltoi, si muovono in cerchio, oscurando la luce del sole, aspettando che le proprie pedine concludano il loro sinistro giuoco, per poi planare sulla preda e spogliarla di ogni suo avere. Nel nostro caso, il punto di vista è più ampio: si cerca di indagare più a fondo, evidenziando come e quanto lo spaccato del gas e del petrolio sia solo una faccia di un volto che ha molte maschere, tante espressioni e più di una sfaccettatura, trovandosi al centro e facendosi spesso motore di meccanismi che mescolano politica, ambizione, religione, economia.
Altro merito innegabile di questo lavoro è il racconto, partecipato ed onesto, che viene fatto di alcuni paesi islamici del Medio Oriente, ponendo al centro dello sguardo paesi, mentalità sui quali, spesso, noi occidentali riceviamo immagini e parole che sono quasi sempre prive di qualunque spinta all’autenticità, ma che si limitano a ripetere luoghi comuni o litanie scontate. Mi riferisco a tutto il ciarpame che alberga nei titoli hollywoodiani o alle piatte ricostruzioni giornalistiche in cui la dinamica del bianco e nero, del bene e del male che si dividono la piazza in due settori contrapposti ed univoci, impera fastidiosamente, ma incessantemente. Qui di questo non c’è traccia, ma nemmeno si ritrova quell’altro atteggiamento consolatorio e buonista, per cui si arriva ad un abbraccio tra diversità solo per sentirsi in pace con la propria coscienza, che è, sì, disposizione meno urtante della zizzania e della divisione, ma che, alla fine, non aiuta a tentare di capire, comprendere i problemi, senza arrogarsi il compito di risolverli, ma intanto con la vera volontà di conoscerli, per iniziare veri percorsi di relazione interculturale.
Per questo, nonostante alcuni momenti in cui il regista si lascia un po’ troppo trasportare dalle sue capacità tecniche e gigioneggia un po’, questo è un film da consigliare a tutti, e per vari motivi: il primo, forse il più futile, è rappresentato dalla presenza di un George Clooney in una delle sue solite interpretazioni da applauso; il secondo è per la possibilità di essere portati per mano dentro il dedalo labirintico dei rapporti tra i vari paesi che si spartiscono i proventi del mercato delle fonti più inquinanti di energia; oppure per l’analisi pungente delle relazioni amorfe e prive di umanità che si strutturano dentro la C.I.A. come nelle rigide famiglie reali delle monarchie orientali.

Di Fabio