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Azione nonviolenta – Ottobre 2001

DiFabio

Feb 5, 2001

Azione nonviolenta ottobre 2001

– Persuasi della nonviolenza per sconfiggere ogni terrorismo, di Nanni Salio
– Dopo l’11 settembre mai più come prima, di Christoph Baker
– E’ possibile una risposta nonviolenta al terrorismo internazionale, di Arun Gandhi
– Gli Stati Uniti, l’Occidente ed il resto del mondo, di Johan Galtung
– Prime riflessioni sul terrorismo e il diritto internazionale, di Kolja Canestrini
– La nonviolenza che non si vede, ma c’è, in Israele e Palestina, di Elena Buccoliero
– Chi marcia per la pace, è contro la guerra?, di Enrico Peyretti
– Da perugia ad Assisi, il 24 settembre 1961, di Gianni Rodari
– Per fare la guerra (e la pace) ci vogliono i soldi

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Persuasi della nonviolenza per sconfiggere ogni terrorismo

di Nanni Salio

“Non vedo nessun’altra soluzione, veramente non ne vedo nessun’altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. È l’unica lezione di questa guerra, dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove”.
È da queste parole di Etty Hillesum, scritte nel suo Diario 1941-1943, durante la seconda guerra mondiale, poco prima di morire nel lager, che bisogna partire per riflettere sulla tragica serie di attentati dell’11 settembre negli USA. “Il regno di Dio è in voi”, diceva Tolstoi, ma potremmo aggiungere: “…anche quello di satana”.
Per i persuasi della nonviolenza, il compito è oggi più difficile che mai. Bisogna riuscire a interrompere la spirale della violenza che quasi certamente verrà alimentata dalla ritorsione che il governo USA sta pianificando. La via maestra è quella del dialogo con tutte le parti in causa, conoscerne e riconoscerne torti e ragioni, vedere e far vedere la sofferenza e il dolore di tutte le vittime, aiutare i persecutori a riumanizzarsi, analizzare i traumi subiti mediante una sorta di grande terapia collettiva che apra la strada alla riconciliazione del genere umano.
Dobbiamo aiutare i cittadini americani a prendere coscienza della irresponsabilità della loro classe politica e del fallimento delle dottrine militari, anch’esse basate sul terrorismo (di stato), che li hanno resi più insicuri e vulnerabili. Così come a suo tempo aiutammo i cittadini sovietici a scrollarsi di dosso un regime che cadde quasi senza colpo ferire, attraverso una strabiliante lotta nonviolenta culminata nel 1989, ora dobbiamo aiutare i cittadini americani a liberarsi dal giogo altrettanto odioso e pericoloso del complesso militare-industriale-scientifico che li ha portati in un vicolo cieco.
Al contempo, occorre aiutare le popolazioni dell’islam e più in generale i popoli oppressi a non cadere nella trappola della violenza e del terrorismo.
È necessario un gigantesco impegno di educazione alla lotta nonviolenta, l’unica strada che nel secolo scorso ha consentito di ottenere risultati significativi e duraturi senza seminare odio, vittime, vendette, massacri, tragedie ricorrenti e senza fine.
Non ci sarà vera pace senza giustizia e non ci saranno nè pace nè giustizia senza una cultura della nonviolenza attiva. È la globalità dei problemi che impone di riconoscere sia i limiti, i fallimenti e gli errori sia gli aspetti positivi, creativi, costruttivi di ciascuna cultura. Non ci sono popoli eletti nè reietti, ma ciascuno ha il suo bagaglio di esperienze storiche, miti, traumi, successi e insuccessi dai quali partire per costruire una cultura che riconosca nella nonviolenza il seme comune dell’umanità, le verità antiche come le colline.
Chi si farà carico di questo progetto, della trasformazione nonviolenta di ogni conflitto, dal micro al macro? In tutte le principali tradizioni culturali e religiose sono presenti uomini e donne che hanno saputo assumere su di sè il dolore del mondo per compiere un’opera di redenzione: sono i “giusti” della tradizione ebraica, il redentore della religione cristiana, i bodhisattva della cultura buddhista, i rishi degli antichi Veda, i sufi dell’islam. Oggi, questa eredità culturale dev’essere raccolta e disseminata da tutti coloro che hanno effettivamente a cuore le sorti dell’umanità intera e che intendono dare alla propria esistenza un senso più profondo e autentico. Se ci sono persone disposte a immolare la propria vita per seminare il terrore, dovrà esserci un numero ancora più grande di satyagrahi preparati a donare la vita perchè persuasi della nonviolenza, come ci hanno insegnato Gandhi, Martin Luther King, Etty Hillesum e tanti altri che hanno vissuto in momenti della storia umana non meno drammatici del nostro.
Il “movimento di movimenti”, venuto alla ribalta negli ultimi due anni per le sue iniziative di contestazione dei vertici dei potenti, si trova ora di fronte a una scelta ineludibile: deve farsi carico consapevolmente di questo ambizioso progetto e imboccare chiaramente e con determinazione la strada della nonviolenza attiva, costruttiva e creativa per non soccombere nella stretta fra i due terrorismi. La sua agenda diventa ancora più fitta e una priorità assoluta dovrà essere assegnata alla lotta contro lo strapotere degli apparati militari, ovunque nel mondo, alla realizzazione di modelli di difesa basati sulle tecniche di lotta della nonviolenza, alla democratizzazione delle Nazioni Unite, al boicottaggio delle industrie belliche, all’abolizione degli eserciti, alla disobbedienza civile di massa.
Solo così la lotta per la giustizia sociale, per la salvaguardia del pianeta, per la difesa dei deboli non si avviterà nell’eterna e drammatica spirale autodistruttiva della violenza diretta.

Dopo l’ 11 settembre Mai più come prima

Di Christoph Baker

L’immagine dell’aereo che colpisce la seconda torre è così carica di simboli, che ci fa quasi dimenticare che prima di tutto è un’immagine di morte, della morte di migliaia di persone che si erano recate in ufficio come tutti i giorni, come l’abbiamo fatto noi quello stesso giorno.
Ma la morte può essere un muro di incomprensione, può spingerci a rifugiarsi nel buio dei nostri istinti più vili, può farci diventare schiavi della violenza. Di fronte a quell’orrore, facciamo fatica a individuare una speranza, o almeno uno spiraglio fuori dalla follia omicida dell’uomo. Quel giorno, un grande sipario nero è calato sul mondo a cui eravamo abituati. Ognuno di noi in occidente si è risvegliato orfano della speranza. Sconvolto. Disorientato. Svuotato.
La polvere che stagnava sopra Manhattan si è ora lentamente riposata al suolo. Ha coperto le macerie di una città, di un mondo che pensavamo indistruttibile. Ha lasciato nel cielo di New York due grandi buchi. Manca oggi all’appello uno dei simboli più riconosciuti del trionfalismo occidentale, del nostro immaginario collettivo. Come sembrano piccoli gli uomini davanti a tanta devastazione.
E come sono piccole le prime reazioni, i primi riflessi, i primi istinti. Guerra, vendetta, morte, odio, violenza. Il rimedio proposto uguale al male. L’umanità ripiomba nel buio della sua condizione, cadono tutte le parvenze di quello che chiamiamo civiltà: vogliamo sangue per sangue, morti per morti, distruzione per distruzione. Ed è pericoloso fare finta che non sia questo uno degli sentimenti più primordiali, atavici, “naturali” di questo strano animale di nome “uomo”.
Ma è altrettanto pericoloso dimenticare che questo strano animale sa anche riflettere, pensare e immaginare mondi diversi. E va detto subito che qui non serve a niente imbarcarci in una dialettica sul male e il bene, o mettere l’istinto assassino dell’uomo di fronte alla sua capacità di compassione per vedere chi ne esce vincitore. Anzi, vi è in questo esercizio uno dei difetti micidiali della civiltà occidentale. Vogliamo sempre che una cosa trionfi sull’altra, incapaci di immaginare che a volte gli opposti devono camminare insieme per farci uscire da una strada buia, da un “errore di civiltà”.
Invece sarebbe così importante adesso imboccare una nuova strada, o meglio andare a pascolare su altri campi, nuotare in altri mari, arrampicarci su altri alberi, sfidare altri mulino a vento. Vorrei cercare nel mio mondo interno, che è crollato insieme alle Twin Towers, le indicazioni, le intuizioni e le utopie che ci possano permettere di andare all’incontro di questa nuova era dell’umanità.

L’altra America

Ho mia figlia e le mie sorelle a Boston. Queste prime due settimane del “dopo” sono state cariche di scambi telefonici e elettronici. Mentre i nostri media sparano titoli a nove colonne sulla vendetta militare, anche negli USA c’è chi si chiede qual è la soluzione giusta, c’è chi si chiede che senso ha aggiungere orrore all’orrore, terrore al terrore, morte alla morte. Non tutta l’America la pensa uguale, non tutti si sono arruolati per andare ad ammazzare gli Arabi. Dalla vecchia penisola italica, si ha spesso una idea un po’ storta del mondo nuovo: in fondo si scopre che si sa tanto poco degli americani quanto degli arabi. Quanto vorrei che la tragedia dell’undici settembre duemilauno segnasse un risveglio della curiosità, del non giudicare subito, del non soccombere ai partiti presi, ai pregiudizi, ai superficiali luoghi comuni verso qualsiasi civiltà.
Quello che è successo quel giorno ha significati enormi per chi vuole aprire gli occhi, il cuore e l’anima. Nell’andirivieni di sentimenti, fra disperazione, rabbia, fredda consapevolezza della propria impotenza e empatia per il mondo, vi è anche una voglia di risalire alla sorgente di tutto questo casino. Fosse solo per rispetto dei morti degli attentati, va posta la domanda del perché di tutto questo orrore. E non ci si può fermare ad una sua banalizzazione (scontro di civiltà, poveri contro ricchi, medievali contro moderni), ad un recupero di griglie di lettura dualiste o partigiane. Siamo chiamati ad un nuovo modo di porre lo sguardo, un nuovo uso delle parole, una maggiore consapevolezza delle nostre azioni.
Mentre scrivo, mi rendo conto che non ho ancora (ci sarà mai?) la tranquillità per afferrare il quadro completo della situazione. Mi sembra a volte di risvegliarmi da un letargo, da una sbornia, da un colpo basso. Il mondo oleato di ieri è scomparso. Si può anche fare finta di “ritornare alla routine”, di mandare avanti la baracca come prima, ma dentro rimane un qualcosa di squilibrato, di pericolante. Non si riesce a scrollarsi da dosso il sentimento di essersi svegliati dall’altra parte di tante vecchie certezze. Di dovere per forza ricominciare in qualche modo.

Sulla porta del pensiero

In ordine sparso affiorano immagini forti: il gioco degli scacchi è stato inventato in Medio Oriente, inclusa la mossa del cavallo. Io non parlo una benedetta parola di Arabo. Amo troppo il Mediterraneo per vederlo riempirsi di sangue ancora una volta. Il tè alla menta. I tappeti persiani. Il deserto – che ne so io del deserto? Afghanistan. Mullah. Islam.
Parole.
Tutto ad un tratto la consapevolezza che non ho niente da dire, niente di nuovo, di sconvolgente che cambierebbe qualcosa. Mi rendo conto che non posso pretendere ancora una volta che il nemico programmato sia lui a fare la prima mossa di pacificazione. Quanta superbia ci portiamo dentro! Quanta granitica certezza culturale! Quanto sangue nella nostra scia.
Un sentimento stasera prende il sopravvento sugli altri: fare pulizia interna. Prima di osare una qualsiasi mossa dirompente, prima di andare all’incontro dell’altro, qui bisogna levare numerosi strati di immondizia filosofica e culturale.
Voglio immaginare una banda di amici intorno al tavolo, un buon bicchiere in mano, il tempo davanti a se, e la voglia di approfondire. Vorrei dire queste cose qua: dobbiamo sfatare i miti della tolleranza, della solidarietà e del dialogo.
La tolleranza.
Troppo spesso è l’accettazione dell’altro per quiete vivere, per convenienza, per consuetudine. E’ un concetto che sa di spazi definiti, di frontiere, di ruoli, di convenzioni, di interessi. Una parola transitiva: io ti tollero, tu mi tolleri. Ma se non ti sopporto? Ma se ti amo? Ma che è ‘sta minestra tiepida della tolleranza?
E siamo tutti gli stranieri di qualcuno.
La solidarietà.
Solidali dell’africano che sta a duemila chilometri, ignari del vicino di pianerottolo. E non parliamo degli Albanesi. Se c’è un popolo che avrebbe dovuto partorire centinaia di Osama Ben Laden… Solidali perché non costa niente. Perché non ci fa star male, non ci fa cambiare modo di vivere, di pesare, di rompere tutto, e ci permette di rimandare in eternità le scelte coraggiose. Non ci appiccica al muro costringendoci a spogliarci delle comode ricette esistenziali: lavorare, guadagnare, risparmiare, consumare, elemosinare, accendere la tivù e sprofondare in una ebetitudine ovattata. Ma ci siamo mai chiesti se il morto di fame dell’Afghanistan è solidale con noi???
Se fossimo intanto un po’ più onesti con noi stessi.
Il dialogo.
Nobile idea. Ponte sopra il fossato. Mano tesa. Ascoltare, comunicare, avere compassione, mettersi sullo stesso piano, abbattere i muri. Ma sempre l’altro è altro. Ma io sto comunque qui, e tu stai comunque là. Il dialogo è un primo passo verso la nonviolenza, ma non è la nonviolenza. E domando onestamente: ma oggi posso andare a dialogare con un Talebano? Eppure so che un Talebano non è altro che un essere umano, che esprime in modo eclatante una povertà di spirito che ognuno di noi potrebbe avere date le circostanze. Ma non posso andare a dialogare con lui. Allora che cavolo è il dialogo? Solo quando le acque sono calme, il cielo sereno, e l’orchestra suona il Danubio Blu???
Forse servono altri linguaggi, altri segni, altri simboli di convivenza…

La soluzione che non ho

Non ho nessuna ricetta sicura. Anzi, vorrei che cominciasse oggi il percorso dell’insicurezza permanente. Vorrei non avere più nessuna certezza, per quanto le certezze hanno saputo creare di incomprensione, esclusione, odio. Vorrei non avere mai più soluzioni facili, per quanto mi hanno accecato davanti alla complessità, per quanto mi hanno rubato di vita. Vorrei potere camminare con la paura in una mano e il rischio nell’altra.
Comunque sento il bisogno di rimettermi in viaggio. E’ importante mettersi in cammino oggi quando i bastioni si chiudono, la gente viene chiamata a raccolta, le armi vengono distribuite, e si invita a non menarla troppo con la fratellanza fra gli uomini. Ora più che mai, bisognerebbe andare all’incontro dell’incognito senza timore. Senza programma. Senza cercare di capire. Ma con la voglia di bere a grande sorsate dalla fontana dello stupore. Aggrapparsi per ore ad una liana impazzita nel vento. Ululare anche noi con un lupo solitario sopra una roccia a strapiombo sul vuoto. Scommettere non più sul buon esito dei nostri progetti, ma sull’impossibilità dei nostri sogni.
L’orrore non sarà mai sconfitto. Il terrore ce lo portiamo dentro come specie. La perversione è pane quotidiano e atavico. Che bisogna c’è di altre illusioni? A che servono tutti questi richiami all’ordine, ai valori fondanti, alla superbia culturale? Mentre aspettiamo il prossimo lancio di missili, in questo momento in cui batto sulla tastiera, va in onda il silenzioso orrore abituale dei bambini che non vedranno domani, o che saranno stuprati, o abbandonati. Comunque dimenticati. Come saranno dimenticati tutti i perdenti.
Allora ci ritroviamo davanti allo specchio della storia. Come ci sono stati davanti i nostri nonni, avi e antenati. Hanno tutti guardato in faccia la pochezza di essere umani. Certi hanno deciso di rompere lo specchio. Altri di abituarsi a vedere se stessi così. Altri ancora hanno provato ad ingannare lo specchio con atteggiamenti pomposi. Poi c’è chi è partito alla conquista dell’inaccessibile stella, ma s’è portato lo specchio appresso per non dimenticare mai…
Non ci sono rimedi miracolosi oggi. Ma sarà importante ricordare.
E ricordare a lungo.

 

E’ possibile una risposta nonviolenta al terrorismo internazionale?

Di Arun Gandhi *

“Quando sono disperato mi ricordo che lungo tutta la storia la via della verità e dell’amore ha sempre vinto; ci sono sempre stati tiranni e assassini, e per qualche tempo essi possono sembrare invincibili, ma alla fine cadono sempre.” M. K. Gandhi

Comprensibilmente, dopo la tragedia di New York e di Washington DC dell’11 settembre molti ci hanno scritto o telefonato per chiederci quale potrebbe essere una risposta nonviolenta appropriata a questo incredibile e disumano atto di violenza.
Innanzi tutto, dobbiamo capire che la nonviolenza non è una strategia che possiamo usare in tempo di pace e abbandonare in un momento di crisi. La nonviolenza riguarda gli atteggiamenti personali e il nostro divenire promotori del cambiamento che vorremmo vedere nel mondo. Infatti, l’atteggiamento collettivo di una nazione si basa su quello dei singoli individui. La nonviolenza ha a che fare con la costruzione di relazioni positive con tutti gli esseri umani, fondate sull’amore, la compassione, il rispetto, la comprensione e l’apprezzamento.
La nonviolenza richiede anche di non giudicare le persone per come noi le percepiamo: un assassino non è nato assassino, un terrorista non è nato terrorista. Le persone diventano assassini, ladri e terroristi in seguito alle circostanze e alle esperienze della vita. Uccidere o imprigionare assassini, ladri e terroristi, o altri soggetti simili, non significa liberare il mondo da essi. Per ognuno
di loro che uccidiamo ne creiamo altre centinaia che ne prendono il posto. Ciò di cui abbiamo bisogno è un’analisi spassionata sia delle circostanze che contribuiscono a creare tali mostri sia di come possiamo eliminarle. Concentrando i nostri sforzi sui mostri, invece che su ciò che li crea, non risolveremo i problemi della violenza. Giustizia dovrebbe voler dire trasformazione e non vendetta.
Vediamo persone in Iraq e in Palestina e oserei dire in molti altri paesi rallegrarsi per le tragedie del World Trade Center e del Pentagono. Questo ci fa inorridire, come ci aspetteremmo anche da parte loro. Ma non dimentichiamoci che noi ci comportiamo allo stesso modo. Quando gli israeliani bombardano i palestinesi, anche noi ci rallegriamo o non mostriamo alcuna compassione. Il nostro atteggiamento è quello di chi pensa che essi si meritano quello che gli capita. Quando i palestinesi bombardano gli israeliani ci indigniamo e li condanniamo come dei criminali che bisogna sterminare.
Reagiamo senza compassione quando bombardiamo le città dell’Iraq. Sono uno dei milioni di cittadini che negli Stati Uniti sta seduto incollato davanti alla televisione e guarda il dramma come se fosse un film e non la realtà. Migliaia di uomini, donne e bambini innocenti sono stati spazzati via in un attimo e, invece di sentirsi addolorati per loro, siamo compiaciuti per l’efficienza dei nostri militari. Da oltre dieci anni continuiamo a compiere distruzioni in Iraq (si stima che 50.000 bambini muoiano ogni anno a causa delle sanzioni che abbiamo imposto) e tutto questo non ha suscitato la nostra compassione. Ci viene detto che ciò è necessario per liberarci da quel satana chiamato Saddam Hussein.
Ora ci stiamo di nuovo preparando a intervenire ovunque per liberarci di un altro satana chiamato Osama bin Laden. Bombarderemo le città dell’Afghanistan perché esse nascondono il satana e così facendo creeremo migliaia di altri bin Laden.
Alcuni potrebbero dire, “Non ci importa che cosa il mondo pensa di noi finché essi rispettano la nostra forza. Dopo tutto, abbiamo i mezzi per ridurre questo mondo a pezzi poiché siamo l’unica superpotenza sopravvissuta.” Non sono d’accordo di volere che gli altri ci rispettino nello stesso modo con cui uno scolaro rispetta un bullo. E’ questo il nostro ruolo nel mondo? Se quello che vogliamo è fare il bullo, allora dobbiamo essere pronti ad affrontare le stesse conseguenze che un bullo affronta durante la ricreazione nel cortile di una scuola. D’altra parte non possiamo dire che il mondo “ci lascia soli”. Questo mondo non è stato costruito per l’isolazionismo.
Tutto ciò ci riporta alla domanda: come possiamo rispondere in maniera nonviolenta al terrorismo?
Le conseguenze di una risposta militare non sono molto rosee. Molte migliaia di persone innocenti morirebbero sia qui sia nel paese o nei paesi che subiranno il nostro attacco. I militanti crescerebbero esponenzialmente e, infine, ci troveremmo di fronte a questioni moralmente più pertinenti: che cosa ci guadagneremo a distruggere mezzo mondo? Saremo in grado di vivere con la coscienza pulita?
Dobbiamo riconoscere il nostro ruolo nell’aiutare a creare i mostri in questo mondo, e trovare modi per contenerli senza colpite altra gente innocente, e quindi ridefinire il nostro ruolo. Penso che dovremmo passare dal cercare di essere rispettati per la nostra forza militare all’essere rispettati per la nostra forza morale.
Dobbiamo riconoscere che ci troviamo nella posizione di giocare un potente ruolo nell’aiutare l’”altra metà” del mondo a raggiungere un migliore tenore di vita non limitandoci a gettare poche briciole ma coinvolgendoci in modo significativo in programmi economici costruttivi.
Per troppo tempo la nostra politica estera si è ispirata al principio di cercare solo “ciò che va bene per gli Stati Uniti”. Essa sa di egoismo. D’ora in poi, la nostra politica estera dovrebbe basarsi su ciò che è bene per il mondo e su come fare la cosa giusta per aiutarlo a diventare più pacifico.
A coloro che hanno perso i loro cari in questo e in altri attentati terroristici dico: condivido il vostro dolore. Sono profondamente dispiaciuto che siate diventate vittime di una violenza insensata. Ma fate in modo che questo triste episodio non vi renda vendicativi perché nessuna ulteriore violenza vi permetterà di raggiungere la pace interiore. La rabbia e l’odio non riusciranno mai in tale compito. La memoria delle vittime che sono morte in questo e in altri incidenti violenti ovunque nel mondo sarà meglio preservata e commemorata in modo più significativo se noi tutti impareremo a perdonare. Dedichiamo le nostre vite a costruire un mondo di pace, di rispetto reciproco e di comprensione.

* Arun Gandhi è nipote del Mahatma e dirige il Gandhi Institute for Nonviolence che ha fondato nel 1991 presso la Christian Brothers University di Memphjis, negli USA, www.cbu.edu/Gandhi
Questo articolo è stato scritto il 13 settembre 2001 e l’originale si trova all’indirizzo www.interfaithalliance.org/Newsroom/press/2001/010911ag.html )
Traduzione a cura del Centro Studi Sereno Regis
Gli Stati Uniti, l’Occidente e il resto del mondo

di Johan Galtung e Dietrich Fischer

Il mondo non sarà più lo stesso dopo il terribile attacco agli Stati Uniti, alla loro economia, alle forze armate, alla politica estera e a esseri umani come noi tutti. Abbracciamo le vittime della violenza, di tutte le violenze, con profondo cordoglio e ci auguriamo che i perpetratori siano condotti di fronte alla giustizia.

Una violenza di questa portata può essere spiegata solamente attraverso un alto livello di deumanizzazione delle vittime nelle menti degli aggressori, spesso dovuto a uno stato molto grave di conflitti di base non risolti. Il termine “terrorismo” può descrivere le tattiche, ma come quello di “terrorismo di stato” può solo rappresentare i responsabili come malvagi, satanici e non va alle radici del conflitto.

La scelta degli obiettivi può essere interpretata come rappresaglia per l’uso che gli Stati Uniti fanno del loro potere economico ai danni dei paesi poveri e delle popolazioni povere, del loro potere militare contro popoli indifesi e del loro potere politico contro i senza potere. Questo ci fa ricordare i molti paesi in tutto il mondo dove gli USA hanno bombardato o comunque esercitato, direttamente o indirettamente, il loro terribile potere; che si aggiungono ai 100.000 morti al giorno tra coloro che si trovano al fondo di un sistema economico identificato da molti con il potere economico, militare e politico statunitense. Considerati i milioni, non le migliaia, di vittime ci si doveva aspettare che prima o poi, da qualche parte, si generasse un desiderio di ritorsione.

La principale linea di separazione in questo conflitto è la divisione in classi di paesi e di popoli. Questa non è civiltà, nonostante il senso di missione e predestinazione degli Stati Uniti e il senso di giustizia islamico ne facciano parte. Allo stato attuale, il confronto sembra essere tra USA/Occidente e mondo Arabo/Musulmano. Ma potrebbe anche essere un errore di interpretazione della realtà: può darsi che quest’ultimo sia più intenzionato e abbia maggiori capacità delle altre vittime della smisurata violenza che gli USA e l’Occidente hanno esercitato dopo la seconda guerra mondiale. Non è neppure da sottovalutare l’ondata di solidarietà da parte del “resto del mondo”, né quella delle classi sociali più altolocate dell’Occidente; e la costruzione di una solidarietà con le vittime in ogni parte del mondo.

Cercare di collocare il terribile attacco agli USA nel contesto di un ciclo di rappresaglie non significa affatto attribuire un elemento di giustificazione, di scusa, o di colpa. C’è solo il profondo rimpianto che questa catena di violenza e ritorsione sia un fatto umano. Tuttavia può essere utile per spezzare questo circolo vizioso.

Ci sono state dimostrazioni di simpatia e offerte di aiuto anche da parte di governi da sempre molto distanti dagli USA come Russia, Cina, Iran, Cuba e Libia. C’è un crescente desiderio di porre fine a tali atrocità, in modo non dissimile da come la pirateria nei mari aperti fu debellata quando tutti i governi cominciarono a collaborare per opporvisi e i pirati persero i porti sicuri che li ospitavano.

Misure di sicurezza più rigide, come le guardie sugli aerei, una sorveglianza più stretta delle comunicazioni e una condivisione delle informazioni tra i servizi segreti, possono portare a qualche risultato ma non vanno alla radice del problema. I bombardamenti in Afghanistan potranno uccidere qualche terrorista, ma causeranno anche la morte di civili innocenti, ed è probabile che ne arruolino molti di più che desiderano diventare martiri.

Dobbiamo eliminare le armi di distruzione di massa per mezzo di rigidi controlli internazionali, o saranno usate prima o poi da terroristi che non si fanno spaventare da minacce di ritorsione.

Continuando a parlare di Crociate da parte degli USA, e di quarta fase della jihad, la guerra santa, da parte di alcuni settori dell’Islam, il mondo potrebbe cadere a capofitto nel più vasto e violento scontro di tutti i tempi. La prima jihad contro i Crociati (1095-1291), durata 196 anni, fu vinta dai musulmani. La seconda, contro Israele, è ancora in corso. La terza, contro il comunismo in Afghanistan, sostenuta dagli USA, terminò con il ritiro e il collasso sovietico. Alcuni musulmani vogliono morire per la loro fede pensando di guadagnarsi il paradiso. Molti religiosi musulmani hanno posto l’accento sul fatto che il Corano proibisce il sacrificio di vite innocenti. Equiparare tutti i musulmani ai terroristi sarebbe come equiparare tutti i cristiani al Ku Klux Klan.

Per evitare di scivolare in una grande guerra con enormi, diffuse sofferenze, gli USA, e tutti quanti, non dovremmo passare immediatamente all’azione. C’è bisogno di una profonda auto-analisi per cercare di identificare i conflitti, i problemi, risolverli e riconciliarsi. Solo il dialogo e l’educazione globale per comprendere il pensiero degli altri e rispettarne le culture, e non un dibattito che si prefigga di sconfiggerli mediante argomenti più forti, possono aprire la strada verso la rimarginazione delle ferite e la risoluzione dei dissidi.

Per raggiungere questi obiettivi non si può far affidamento sui governi occidentali, e neppure del sud; essi sono troppo vincolati agli USA, e anche troppo timorosi di incorrere nelle loro ire. Solo la gente può farlo, solo la società civile globale. Ciò di cui c’è bisogno, quanto prima è umanamente possibile, è un movimento per la pace di massa, questa volta Nord-Sud. L’ultima volta ha funzionato, tra l’Est e l’Ovest. Il futuro del mondo è più che mai nelle mani dell’unica fonte di legittimazione: la gente in ogni luogo.

Un proverbio cinese recita: “Se una spina si è conficcata nel corpo di una persona, non è sufficiente staccare la parte visibile. Se non rimuoviamo la punta che sta all’interno del corpo, la ferita infetta persisterà”. Per quanto sia doloroso per molti in questo momento della tragedia, se vogliamo avere successo nella lotta contro il terrorismo, dobbiamo comprenderne le origini e rimuovere le cause dell’odio estremo che muove alcune persone a suicidarsi e commettere omicidi di massa.

(Traduzione di Antonella Cafasso per il Centro Studi Sereno Regis. L’articolo originale si trova all’indirizzo: www.transcend.org)

 

Prime riflessioni su terrorismo, diritto internazionale e ordine mondiale

Di Kolja Canestrini *

Il 12 settembre 2001 il Consiglio atlantico ha approvato una Dichiarazione in cui afferma che gli attentati terroristici contro gli Usa rientrano nell’articolo 5 del Patto Atlantico, che equipara un’aggressione armata contro uno Stato membro ad un attacco a tutta l’Alleanza.
Il segretario generale dell’Alleanza Atlantica, George Robertson, dichiarando che “if it is determined that this attack was directed from abroad against the United States, it shall be regarded as an action covered by Article 5 of the Washington Treaty”, ha lasciato agli Stati Uniti l’ultima parola sull’azionamento di tale strumento di tutela. Infatti, si aprono 3 possibili alternative di reazione armata nel contesto del diritto internazionale:
intervento solo degli Stati Uniti invocando il diritto all’autodifesa (ai sensi dell’articolo 51 del trattato Onu);
formazione di una Coalizione di intervento;
richiesta da parte degli stati Uniti di un’azione comune Nato.
In quest’ipotesi, il Consiglio Atlantico deve deliberare all’unanimità una reazione comune. A questa reazione ogni Paese liberamente decide che tipo di apporto dare. Si noti che ogni alleato può decidere che tipo di assistenza vorrà dare e che «l’assistenza non è necessariamente militare e dipende dalle risorse materiali di ogni Paese». A questo punto, terminata la ‘giurisdizione’ Nato, entra in campo la legislazione dei singoli Stati.
Anche se qualcuno fa notare che la dichiarazione di sostegno della Nato non si riferisce a un “atto di guerra”, come il Presidente Bush ha definito l’attentato, bensì ad un “atto di barbarie”, come richiesto da alcuni partiti belgi, Jack Straw, ministro degli Esteri in Gran Bretagna, ha detto alla CNN che certamente l’invocazione dell’articolo 5 significa che la Nato offrirà all’America sostegno militare e non solo morale.
Al di là del fatto se l’invocazione possa o meno considerarsi una “dichiarazione politica”, è comunque la prima volta nella storia della Nato che l’articolo 5 esplicitamente invocato. Il Consiglio ha chiesto al segretario generale di informare il segretario generale delle Nazioni Unite di questa decisione.
L’articolo 5 prevede la possibilità di rispondere tutti insieme con tutti i mezzi ritenuti necessari, inclusi quelli militari. La Nato potrà dunque offrire agli Stati Uniti la propria collaborazione diretta per eventuali azioni di ritorsione per gli attacchi subìti.
In particolare, l’articolo 5 recita
“Le Parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o nell’America settentrionale, costituirà un attacco verso tutte, e di conseguenza convengono che se tale attacco dovesse verificarsi, ognuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa individuale o collettiva riconosciuto dall’art.51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate, intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’impiego della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale. Qualsiasi attacco armato siffatto, e tutte le misure prese in conseguenza di esso, verrà immediatamente segnalato al Consiglio di Sicurezza”.
Tali misure dovranno essere sospese non appena il Consiglio di Sicurezza avrà adottato le disposizioni necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali.
L’articolo 6 del Patto Atlantico specifica poi che
“per attacco armato contro una o più parti si intende un attacco armato contro il territorio di una di esse in Europa o nell’America settentrionale”.
Gli articoli del Trattato NATO vanno letti alla luce del cd. nuovissimo concetto strategico dell’Alleanza Atlantica, approvato dal Consiglio del Nord Atlantico – composto dai Capi di stato e di governo dei paesi facenti parte dell’Alleanza – a Washington D.C. il 23 e 24 aprile 1999.
In particolare, il punto 24 del suddetto concetto strategico, recita che “un qualsiasi attacco armato sul territorio degli Alleati, da qualunque parte provenga, sarebbe coperto dagli Articoli 5 e 6 del Trattato di Washington. Tuttavia, la sicurezza dell’Alleanza deve anche prendere in considerazione il contesto globale. Gli interessi di sicurezza dell’Alleanza possono andare soggetti ad altri rischi di una natura più ampia, inclusi atti di terrorismo, di sabotaggio e di crimine organizzato, o anche alla interruzione del flusso di risorse vitali. I movimenti incontrollati di un gran numero di persone, in particolare come conseguenza di conflitti armati, possono anche porre problemi per la sicurezza e la stabilità, che colpiscano l’Alleanza”.
Esistono accordi all’interno dell’Alleanza per consultazioni tra gli Alleati, regolate dall’Articolo 4 del Trattato di Washington, e, dove risulti appropriato, accordi per coordinare le loro azioni, incluse quelle di risposta a rischi di questo genere.
Da qui, si è prospettato che sul piano del diritto internazionale l’attacco terroristico agli USA del 11 settembre 2001 legittimamente possa dare luogo all’invocazione dell’articolo 5, con tutte le conseguenze che ne derivano.

Evoluzione della NATO ed ordinamento costituzionale italiano
Il Concetto Strategico della Nato del 1999 sostituisce quello adottato nel 1991. Infatti, nel luglio 1997 i Capi di stato e di governo dei paesi NATO, prendendo atto che la situazione aveva di nuovo subito un profondo cambiamento, convennero che, sebbene i principi fondamentali del Concetto rimanessero validi, questo doveva essere riesaminato per assicurarsi che il Trattato NATO – mai formalmente modificato – rimanesse “pienamente conforme alla situazione ed alle sfide relative alla sicurezza della nuova Europa
Una autorevolissima costituzionalista italiana, Lorenza Carlassare, sottolinea che questa vera e propria trasformazione del ruolo della NATO compiuto con l’adozione del Concetto strategico del 1999 pone un problema di controllo democratico (e dunque di legittimità costituzionale) sull’accordo internazionale di cui si ragiona.
Infatti, secondo l’art. 72 della Costituzione
“ogni disegno di legge, presentato ad una Camera è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una commissione e poi dalla Camera stessa, che l’approva articolo per articolo e con votazione finale”.
La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge…di autorizzazione a ratificare trattati internazionali
L’art 80 della Costituzione prosegue:
“Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi.”
L’ordinamento costituzionale italiano prevede dunque una garanzia del controllo parlamentare da parte delle Assemblee rappresentative del popolo sovrano.
Anche in sede politica queste preoccupazioni sono oggetto di riflessione. In occasione della discussone parlamentare sulla legittimità della partecipazione italiana all’intervento in Kossovo, un esponente politico di primissimo ordine del dopoguerra italiano, l’onorevole Andreotti, il 16 giugno 1999, disse:
“Se si vuole cambiare il Patto Atlantico, lo si deve fare con le forme con le quali si cambiano i patti. Non è possibile sotto la dizione generica di “nuova strategia” dare per acquisito, quindi per valido, l’insieme dei documenti che sono stati adottati nel Consiglio di Washington. Questo è illegittimo.”
Il timore è che l’invocazione dell’articolo 5 del trattato Nato, la cui evoluzione fino ad ammetterne l’operatività anche nel caso di un attacco dall’interno non è mai stata vagliata dal controllo parlamentare, possa eludere anche l’articolo 11 della Costituzione italiana (“L’Italia ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali”) e l’articolo 78 Cost., che stabilisce che “le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”.
Chi decide sulla guerra è il Parlamento, deve essere il Parlamento, dato che le conseguenze di questa decisione ricadono direttamente su tutto il paese (…)
Forse varrebbe la pena riflettere su ciò che scrive Pogany: “Le minacce all’ordine mondiale sono sempre state intese come provenienti dall’ uso della forza da parte degli Stati. Di conseguenza, l’ordine mondiale è stato identificato con l’astensione dell’uso della forza armata.
Tuttavia, questa è una semplificazione pericolosa.
Relazioni pacifiche e sistematiche fra gli Stati richiedono qualcosa di più del ripudio della forza delle armi. Richiedono l’elaborazione di principi che controllino le cause dei conflitti armati. Richiedono, inoltre, un sistema internazionale in grado di promuovere condizioni di effettiva stabilità all’interno degli Stati, senza le quali non può sussistere alcun ordine internazionale.”
E’ arrivato il momento di riflettere su come costruire un nuovo ordine mondiale, basato sul consenso democratico, rinunciando ad un dominio – rivelatosi terribilmente fragile – basato su logiche di potenza economico-militare?

* direttore del Centro studi per la pace www.studiperlapace.it.
Articolo scritto il 16 settembre 2001
La Nonviolenza che non si vede, ma c’è, in Israele ed in Palestina

a cura di Elena Buccoliero

Il popolo palestinese è sotto assedio. L’esercito israeliano taglia fuori città e villaggi dai rifornimenti di acqua, cibo, servizi sanitari, scuole e posti di lavoro. Gli studenti che si recano all’università, i lavoratori che cercano di raggiungere i loro uffici, la gente che esce per fare acquisti viene attaccata indiscriminatamente dalla polizia israeliana che spara e uccide.
Resta solo la sensazione che non c’è niente che la gente può fare e non c’è un posto dove andare.
Più di sempre, noi membri della società civile palestinese sottolineiamo la necessità di un immediato sviluppo di una forza di protesta internazionale, la cui presenza possa prevenire ulteriori perdite di vite umane da entrambe le parti.

Questo l’appello lanciato il 17 settembre scorso da Mustafa Barghouthi, del Comitato Palestinese per il Soccorso Medico, che come molti altri – e non soltanto tra i palestinesi – si rivolge alla comunità internazionale invocando la risoluzione pacifica del conflitto. Una comunità internazionale che, neppure troppo paradossalmente, proprio mentre si appresta alla guerra, sembra voler con più forza riportare la pace in questa terra dissanguata.
Mentre scriviamo si è svolto da poco più di ventiquattro ore il tanto atteso incontro tra Shimon Peres e Yasser Arafat, al quale tutti – a partire dagli Stati Uniti – hanno affidato la speranza di un rinnovato processo di pace. I risultati dell’incontro, secondo la stampa, non sono entusiasmanti, ma incoraggianti sì, dal momento che entrambi i capi di stato si sono impegnati, pur a mezza bocca, a lottare ciascuno contro i propri terroristi ed estremisti, in collaborazione reciproca e con gli Stati Uniti.
Nelle settimane che seguiranno, anche solo fino all’uscita di questa rivista, molte altre cose potranno cambiare sullo scenario internazionale, e queste considerazioni essere superate dalle lunghe falcate dell’attualità. Ciò che la stampa non dice, e forse non dirà, sono le testimonianze sempre più numerose del desiderio di pace che si propaga in entrambi i popoli, mette radici e dà forza per affrontare scelte coraggiose, di resistenza nonviolenta, pagate dolorosamente e di persona.
(Le notizie raccolte in queste righe provengono dalla War Resisters’ International, l’Internazionale dei Resistenti alla Guerra, della quale il Movimento Nonviolento è sezione italiana. Siti internet ed indirizzi e-mail verranno via via segnalati. Per maggiori informazioni sul documento di Mustafa Barghouthi, visitare il sito www.palestinemonitor.org).

11 settembre 2001: non tutti in Palestina hanno fatto festa

Mentre il mondo occidentale rabbrividiva di fronte alla morte di migliaia di persone, coinvolte dall’attacco contro le torri gemelle, tv e giornali ci hanno mostrato le manifestazioni di giubilo del popolo palestinese che sembrava finalmente sentirsi rappresentato e vendicato per mano dei terroristi.
Tutto ciò è vero, ma non corrisponde esattamente a verità.
“Non v’è alcun dubbio che gruppi di palestinesi abbiano festeggiato l’attacco contro gli Stati Uniti, intesi come il maggior fornitore di armi e denaro ai loro oppressori”, scrivono dalla War Resisters’ International. “Ma i media ufficiali sono in errore quando non riportano la mescolanza di opinioni e i profondi disaccordi che attraversano il popolo palestinese. Molti hanno guardato con orrore questo attacco, così come ogni attacco sui civili israeliani”.
Forse nessuno ci ha informato della manifestazione pacifica voluta da una organizzazione palestinese di fronte al consolato americano di Gerusalemme, ognuno con una candela accesa in segno di solidarietà per le vittime, mentre dal Comune di Beit Sahour, nei territori occupati, giunge una dichiarazione di cordoglio e solidarietà:
“Esprimiamo il dolore più profondo all’intero popolo americano per la perdita orribile di vite innocenti come risultato di tragici atti di terrore. Condividiamo il cordoglio di tutte le famiglie delle vittime e preghiamo Dio affinché dia loro pazienza e forza.
Come palestinesi che soffrono ogni giorno gli atti di aggressione israeliani contro la nostra gente innocente, non sappiamo trovare le parole per esprimere quanto sia scioccante per noi vedere queste scene orribili in TV. (…) Vi preghiamo di lasciare che si lavori insieme per fermare questi atti di terrorismo in tutto il mondo. Lavoriamo mano nella mano per stabilire un mondo sicuro in cui vivere.
P.S. Passate queste righe a tutti i nostri amici; vogliamo che sappiano che ogni persona di Beit Sahour condivide il nostro messaggio”.
Mentre l’attenzione era puntata sugli Stati Uniti, gli scontri in Israele e Palestina non sono cessati. Il 13 settembre, due giorni dopo l’attacco, in tre ore di scontro a fuoco, sono morti per errore quattro civili palestinesi, tra cui una ragazzina di 12 anni, e 50 sono stati feriti. La notizia è stata riportata, seppure parzialmente, dai media israeliani, mentre in network internazionali sono rimasti in silenzio.
Complessivamente, almeno 18 palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano tra l’11 e il 12 settembre. Tra questi, un uomo di 71 anni, ucciso dai soldati per aver osato attraversare la barriera che blocca l’unica strada di uscita dal suo paese; e un poliziotto ferito, palestinese, morto perché l’ambulanza è stata rallentata dai soldati, che per il terzo giorno consecutivo mantenevano sotto assedio la città di Jenin.
In condizioni così drammatiche possono fiorire risposte nonviolente, dalla distribuzione di aiuti nei piccoli villaggi superando l’appartenenza etnica e religiosa, fino ad esperienze di presenza per la pace.
“Il Movimento Internazionale di Solidarietà e i suoi componenti israeliani e palestinesi hanno deciso, per due settimane, una loro presenza nel villaggio di Harres, in una casa minacciata dall’esercito, per costituire un punto di osservazione”, scriveva War Resisters’ intorno alla metà di settembre. “Avranno il compito di monitorare e registrare la situazione scattando fotografie, girando filmati e inviando report. Saranno formati su come reagire all’attacco di soldati o colonizzatori in un modo non-violento, che potrà essere per quanto possibile sicuro ed efficace”.

62 futuri obiettori di coscienza

Ha destato notevole attenzione nella “Israele media” la lettera che 62 studenti di scuola superiore hanno inviato al primo ministro Ariel Sharon, annunciando anticipatamente la loro opposizione alla leva.
“Intendiamo rifiutarci di prendere parte all’azione di oppressione contro il popolo palestinese”, scrivono gli studenti nel motivare la loro scelta. “Ognuno di noi rifiuterà di collaborare con questa occupazione orribile: alcuni rifiuteranno di arruolarsi, altri non serviranno nelle unità di terra e/o nei territori occupati, altri ancora solleveranno il pretesto dell’instabilità mentale, allo scopo di evitare il servizio”.
La limpidezza, la fermezza che contraddistingue il loro agire nonviolento arriva fino in fondo, fino al tentativo di trasmettere ad altri la stessa persuasione: “Durante l’anno scolastico che viene, organizzeremo manifestazioni di fronte all’ingresso della scuola per persuadere il maggior numero di giovani a seguire il nostro esempio, e sosterremo coloro che sceglieranno di condividere la nostra causa”.
War Resisters’ ci assicura che il loro numero sta crescendo rapidamente ed è già ben oltre le 62 firme iniziali. “Sono un gruppo di giovani che agiscono interamente per loro volontà”, precisa Yesh Gvul, “è inutile dire che noi li copriamo fino in fondo”.
La loro scelta non è isolata. Già in passato, sulle pagine di Azione Nonviolenta, abbiamo avuto occasione di segnalare l’obiezione di alcuni soldati israeliani. E’ di questi giorni il caso di Avia Atai, in servizio di leva, la prima donna israeliana conosciuta dall’organizzazione Yesh Gvul come obiettore di coscienza.
Avia Atai si è rifiutata di venire trasferita a Gilo, una colonia nei territori occupati che viene considerata dagli israeliani e dalla stampa quartiere periferico di Gerusalemme, dove avrebbe dovuto insegnare nelle scuole ai bambini israeliani come comportarsi nel caso vi fossero attacchi palestinesi dal villaggio di Beit Jala.
Nella sua difesa Atai ha sostenuto: “Non credo nella brutalità o nell’uso della forza. Penso che l’esercito e i politici ci abbiano portato in questa guerra. Io non voglio entrarci, non presterò servizio nei territori occupati nel 1967. Non credo alla politica di espansione di Israele…. Sono veramente dedita al mio lavoro e voglio insegnare ai bambini ad amare la terra di Israele – gli alberi, le piante, i fiori, gli uccelli. Non voglio educarli alle bombe”.

Adotta un obiettore di coscienza!

L’8 settembre scorso Yesh Gvul ha organizzato una manifestazione davanti alla Prigione Militare 6 in solidarietà con 5 soldati, tra cui riservisti e soldati di leva, di cui due capitani, che stanno scontando la loro sentenza per essersi rifiutati di prendere parte alla campagna di repressione contro la popolazione palestinese. Ascoltiamo che cosa è accaduto.
“Centocinquanta supporters intonavano slogan e messaggi di auguri per Dan Tamir e Sefi Sendik nella prigione Athlit. Dan e Sefi hanno risposto con un cenno di apprezzamento, e siamo anche riusciti a scambiarci una breve telefonata che ha dato loro la possibilità di ringraziarci per la nostra presenza che “riscalda il loro cuore”.
Un messaggio di aiuto è stato letto dal gruppo PAJU di Montreal, che ha adottato Tamir e aveva tenuto una veglia al locale consolato israeliano poche ore prima. Un altro messaggio di simpatia è venuto da Diktio Spartakos, venuto da un gruppo di militari greci che hanno dichiarato di non voler prendere parte ai piani governativi per l’espansione nella vicina repubblica di Macedonia. Il “rifiuto selettivo” si diffonde attraverso il Mediterraneo!
Con noi sulla collina c’era Hadass, la madre di Tamir, e Yehuda, il padre di Avia Atai. Presente anche una rappresentanza dei 62”.
In questa fase l’appoggio deve esserci anche a livello internazionale, un filo sottile da non interrompere che significa speranza, comunicazione ampia, denuncia dei soprusi, sostegno morale ed economico. Per questo Yesh Gvul promuove la citata “adozione” degli obiettori da parte di gruppi o singoli, anche in altri paesi.
“Dopo i buoni risultati dell’adozione di Tamir, siamo impazienti di espandere l’esperienza ad altri obiettori. Invitiamo simpatizzanti e supporters a organizzare progetti simili nelle loro comunità, per fornire appoggio morale, copertura finanziaria e politica così disperatamente necessari per i prigionieri che si trovano in prigione e per la campagna di Yesh Gvul contro i crimini di guerra commessi nei territori occupati”.
Scrivono ancora i membri di Yesh Gvul, “speriamo che gruppi di donne si occuperanno del caso di Avia Atai, la cui prigionia è stata marcata da un trattamento umiliante di gran lunga peggiore di quanto è generalmente inferto agli obiettori maschi: perquisizioni dure, censura sulla possibilità di leggere e appellativi offensivi – Sei una traditrice! – da parte degli ufficiali che l’hanno giudicata”.
Al di là dei singoli casi, il lavoro non manca.
“Gli avvenimenti attuali ci suggeriscono che le dichiarazioni di obiezione, e le condanne al carcere, si incrementeranno nelle settimane a venire, poiché riservisti sono stati richiamati per un secondo turno di servizio militare dall’inizio dell’intifada. Per favore, contattateci con offerte di adozioni!”.

Iniziative di pace comuni a israeliani e palestinesi

Noi sottoscritti, intellettuali e attivisti israeliani e palestinesi (…) non possiamo rimanere immobili mentre la sofferenza dei palestinesi e la violazione dei loro diritti umani e politici continua senza interruzioni. Le recenti misure prese dalle istituzioni palestinesi a Gerusalemme e nei sobborghi può solo esacerbare la situazione e portare altri spargimenti di sangue ed altra sofferenza tra la gente innocente. Noi sentiamo che è nostro dovere sostenere l’appello per l’immediato invio di una forza internazionale per proteggere il popolo palestinese nella sua lotta per l’esercizio della libertà e dei diritti di auto-determinazione, e porre fine all’occupazione militare di questa terra.
Preghiamo quanti sono interessati, dovunque essi siano, ad unirsi a noi esprimendo la loro forte opposizione alla occupazione della West Bank, inclusa la parte orientale di Gerusalemme e la Striscia di Gaza, e per sostenere il nostro appello per l’invio di una protezione internazionale efficace per difendere i palestinesi dall’aggressione e dalla repressione dell’occupazione israeliana. Una forza internazionale, noi crediamo, potrebbe essere di grande facilitazione alla ripresa di un negoziato serio e significato tra Palestinesi e leader israeliani, e a stabilizzare il conflitto sulla base delle risoluzioni delle Nazioni Unite verso una soluzione condivisa.
E’ solo una parte della petizione comparsa sulle pagine dei giornali israeliani in lingua ebraica, araba e inglese, in cui oltre 600 cittadini israeliani e palestinesi chiedono l’intervento immediato di una forza internazionale per “proteggere tutti noi dalle politiche pericolose e imprudenti di un Governo israeliano sul piede di guerra”. (Per unire anche la propria firma è sufficiente scrivere una e-mail a: ye_harel@netvision.net.il
Il testo, inviato anche a Koffi Anan e alle ambasciate di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Germania, Russia, Cina e Giappone, è sottoscritto da centinaia di docenti universitari, fisici, avvocati, scrittori, artisti e attivisti politici.
L’iniziativa nasce da un gruppo di accademici e intellettuali di Israele e Palestina particolarmente preoccupati dalla crescente ondata di violenza. E, mentre deplorano e condannano senza riserve gli atti terroristici contro civili innocenti a New York e a Washington, denunciano il governo di Sharon che “sta sfruttando la tragedia per intensificare il brutale assalto militare e la repressione contro i Palestinesi, con il falso pretesto di combattere il terrorismo”.
Al contrario, ci dicono i sostenitori di questo testo, proprio il difficile momento internazionale dovrebbe rafforzare la determinazione a lavorare per la pace. “Mentre il governo USA sta rivedendo le sue politiche in Medio Oriente e in tutto il mondo, una delle conclusioni necessarie dovrebbe essere che l’occupazione di Israele è illegittima, pericolosa ed esplosiva”.
La seconda iniziativa che segnaliamo proviene da un gruppo di lettori e studenti dell’università “Hakampus lo shotek” che mercoledì 19 settembre hanno promosso una manifestazione di fronte alla casa del Ministro degli Esteri Shimon Peres, in segno di solidarietà con gli studenti palestinesi di Bir Zeit.
“L’Università di Birzeit, che doveva dare inizio all’anno scolastico lo scorso sabato, è rimasta sotto assedio per alcuni giorni”, si legge nel loro appello. “Agli studenti e docenti era impedito l’accesso, e quelli che cercavano di entrare erano fermati per ore, con insulti e dispute ai posti di blocco. Il passaggio attraverso strade laterali era reso impossibile dai gas lacrimogeni. Gli studenti hanno tenuto una dimostrazione pacifica ma sono stati dispersi dai soldati, alcuni sono stati feriti. Gli studenti e i docenti dell’Università di Birzeit hanno chiesto aiuto e solidarietà. Noi dimostreremo contro questa brutale repressione, come contro altre atrocità che sono avvenute durante le ultime settimane, mentre l’attenzione del mondo era rivolta all’attentato alle Torri Gemelle. Unitevi a noi domani… Portate con voi poster e cartelli”.
(Per contatti con Hakampusloshotek: Anat Biletzki anatbi@post.tau.ac.il ).

La lettera dei 62

Al Primo Ministro Ariel Sharon

3 settembre 2001

Noi sottoscritti, giovani cresciuti e educati in Israele, siamo in procinto di venire chiamati a servire il paese nell’esercito israeliano.
Noi protestiamo contro la politica aggressiva e razzista condotta dal governo israeliano e dalle forze armate, e la informiamo che non intendiamo prendere parte all’esecuzione di questa politica. Resisteremo con forza alla distruzione dei diritti umani da parte di Israele.
Espropriazioni delle terre, arresti, esecuzioni senza processo, demolizioni delle case, blocchi, tortura e impossibilità di accedere ai servizi sanitari sono solo alcuni dei crimini di cui si macchia lo stato di Israele, in palese violazione delle convenzioni internazionali che ha ratificato.
Queste azioni non sono soltanto illegittime; esse non raggiungono mai i loro obiettivi dichiarati – aumentare la sicurezza personale dei cittadini. Tale sicurezza sarà raggiunta solo attraverso un giusto accordo di pace tra il governo israeliano e il popolo palestinese. Perciò noi obbediremo alla nostra coscienza e rifiuteremo di prendere parte ad atti di oppressione contro il popolo palestinese, atti che dovrebbero più propriamente essere chiamati azioni terroristiche.
Invitiamo le persone della nostra età, i giovani di leva, i soldati in servizio e i riservisti a fare lo stesso.

Haggai Matar, Amir Melanki, Nave Avimor, Shani Werner, Neta Zalmanson, Ya’el Aydan, Yair Hilo, Ra’anan Forschner, Michal Bar-Or, Matan Kaminer, Guy Arnon, Yosi Bartal, Reut Katz, Rotem Yaniv, Yemima Fink, A’lmah Yitzhaki, Ya’el Skilevski, Amir Zemer, Asaf Shtul-Trauring, Yonathan Zvik, May O’mer, Spiltzki Lihi Rothchild, Yoni Cohen, Emily Ya’aqov, Nitzan Shlush, Uriah Oren, Avi Ya’aqov, Yigal Rosenberg, Tali Lerner, A’di Sneider, Asher Shechter, Uri Brahav, A’mit Stark, Yuri Ronen, Stav Bar-Shani, Daniela Freund, Gali Rabinovitz, Yoni Ben-Dor, Shira Gertner, Uri Shamgar, Itamar Ben-Zaken, Roy Golan, Ya’el Polak, Re’ut Ben-Zur, Itay Greenstein, Ziv Kraus, Alon Elkin, Noa Levi, Tal Paz, Idan Hadash, Jacky Levi, Tzofit Kommemi, Maor Heumann, Gil Kremer, Elad Or, Gilad Itamar, Tia Levi, Yuval Kojman, Fracesca Katz, Merav Melamed, Alon Kess, Aya Michlin
Per informazioni: http://www.gush-shalom.org/

 

14 ottobre, in Marcia da Perugia ad Assisi
La Marcia di quest’anno si preannuncia carica di significato. Fioccano le adesioni e le polemiche. Il Movimento Nonviolento, mancando la necessaria chiarezza, ha ritenuto di non aderire, ma di offrire ugualmente il proprio contributo. I nonviolenti marceranno dietro lo striscione “Mai più eserciti e guerre”.

Chi marcia per la pace, è contro la guerra?

Di Enrico Peyretti

Tra i molti ottimi obiettivi della Marcia Perugia-Assisi del 2001 non vedo l’esclusione della guerra.
In tal modo si può invitare alla Marcia anche il governo che oggi si associa alla guerra Usa.
E’ vero che la pace si costruisce positivamente con gli obiettivi indicati, ma il primo passo è il “no assoluto” alla guerra: un No da dire oggi. Quella porta chiusa permette di aprire tutte le altre. Se resta aperta l’opzione della guerra non si aprono mai davvero le altre porte.
Il “no” esplicito alla guerra è il fondamento insostituibile di tutti i “sì” costruttivi di pace.
Va bene promuovere un pacifismo largo, ma quale pacifismo è se non dice esplicitamente, prima di tutto, il no alla guerra, a tutte le guerre, a questa guerra?
Nel momento di una guerra sacralizzata, che ripete e moltiplica una violenza orrenda, facendo credere di opporvisi, e dando l’illusione di sradicarla mentre la consolida, la Marcia per la Pace, insieme agli altri ottimi obiettivi, deve mettere al primo posto il NO A QUESTA GUERRA. Naturalmente, un no sano e costruttivo diventa subito un sì.
Ma non si può omettere quel NO fondamentale, specialmente oggi. Allora, riporto qui una proposta sintetica che si ispira alla riflessione circolata nel Movimento Nonviolento:
1) il no alla guerra è necessario, assoluto, ed è creativo, apre le altre vie.
2) un’azione di polizia davvero dell’Onu, non di una fazione, sarebbe più giusta, perché la polizia, quando agisce correttamente, limita e riduce la violenza, mentre la guerra per sua natura la accresce, dando la cosiddetta “vittoria” non a chi ha ragione, ma al più violento e spregiudicato. Perciò la guerra è “l’antitesi del diritto” (Norberto Bobbio). La Carta dell’Onu, mentre vieta la guerra, prevede una forza di polizia, ma gli stati non l’hanno mai voluta costituire.
3) un tribunale internazionale dovrebbe individuare e giudicare i colpevoli, secondo le regole di diritto. Il progetto di tale tribunale è avviato dalle Nazioni Unite, ma ad esso si oppongono strenuamente alcuni stati, tra cui gli Usa, che dichiarano di non accettare un giudizio internazionale sui propri cittadini, per ossessione di superiorità.
4) poiché parlare è umano e sparare è disumano, poiché parlare è sempre possibile, la via da praticare è una conferenza mondiale sul terrorismo e su ogni situazione che gli dà pretesto. I popoli vogliono vivere. Indubbiamente ci sono forze e atteggiamenti molto pericolosi. Non sarà la forza militare né la supponenza culturale a sradicarli. Se tutti i popoli potranno mettere sul tavolo i loro diritti, attese, speranze, dolori, nel reciproco riconoscimento, solo allora potranno essere isolati i poteri oscuri che sfruttano frustrazioni e disperazioni delle masse, potranno nascere la politica e la democrazia mondiali, potranno essere rivitalizzate e migliorate le istituzioni che l’umanità seppe darsi, in un momento di saggezza, al termine di una tragedia come la seconda guerra mondiale. Allora sarà possibile, al di là della stolta vendetta bellica, con ragione e pazienza, senza ultimatum né forzature di tempi, trovare quei contemperamenti e compromessi vitali che la saggezza del vivere sa trovare, in tutte le civiltà. La forza bellica è cattiva consigliera, non pone vero rimedio ma alimenta la violenza che ci ha offeso tutti.
Ma tutto comincia dal NO ALLA GUERRA,
Nel 40° della prima Marcia, nel nome di Capitini, buon cammino alla pace e a tutti i suoi cercatori.

 

Da Perugia ad Assisi Il 24 settembre 1961

Di Gianni Rodari *
Settecento anni sono passati da quando il più umile e il più grande figlio dell’Umbria, Francesco, lanciava da questi colli, all’Italia e al mondo, il suo messaggio di umana fratellanza, di amore per la vita, per le sue creature. Nel secolo dei satelliti artificiali e della bomba all’idrogeno, una folla diversa all’ombra dell’antica rocca si raccoglie per ascoltare un nuovo messaggio di pace; è la stessa folla che oggi, domenica, riempie gli stadi e si sgrana lenta all’ora del passeggio cittadino. Ma su di essa piovono tristi e solenni le parole che il poeta turco Nasim Hikmet ha scritto in memoria delle 70 mila vittime di Hiroshima, di una bambina giapponese che vive ormai solo in quei versi: avevo dei lucenti capelli: il fuoco li ha strinati, avevo dei bei occhi limpidi: il fuoco li ha spenti, un pugno di cenere: quello son io, poi venne il vento e ha disperso la cenere.
Si conclude ad Assisi, poco prima del tramonto, la Marcia della Fratellanza e della Pace: venti, trentamila persone sono partite stamattina da Perugia e hanno percorso a piedi i lunghi e faticosi chilometri che separano il capoluogo dell’Umbria verde dalla città di san Francesco, solo per dire all’Italia e al mondo, in questa penultima ora del giorno: vogliamo vivere, vogliamo che il mondo viva, vogliamo che da un continente all’altro le mani si stringano.
Il professore Aldo Capitini che ha ideato e organizzato la marcia, in collaborazione con associazioni democratiche, sindacati e uomini di cultura prende la parola per primo: “questa marcia era necessaria ed altre marce saranno necessarie nel nostro e negli altri paesi, per porre fine ai pericoli della guerra, per liberare i popoli dai mali dell’imperialismo, del colonialismo, del razzismo e dello sfruttamento economico”. Lo scrittore Guido Piovene dichiara di aver aderito alla marcia per dire alto e forte il suo no alla morte. Renato Guttuso dice: “Le parole non potranno mai esaltare la bellezza, il vigore di questa marcia; diciamo che noi oggi siamo in grado di decidere del nostro destino: bisogna battersi per il disarmo totale, atomico e non atomico”.
Ecco, nel mattino ancora fresco, muovere da Perugia l’interminabile colonna dei volontari della Pace; c’è tra loro gente di ogni condizione sociale, vi sono nomi illustri e oscuri; il deputato cammina fianco a fianco al mezzadro, lo scrittore famoso accanto al professionista, al contadino umbro, allo studente romano. Delegazioni sono giunte da Cosenza, da Messina, da Palermo, da Trento, da Pescara, da Torino, da Genova, da Milano da Taranto. Professori universitari, artisti, dirigenti sindacali si mescolano alle famiglie venute al completo, con la borsa per la merenda, alle ragazze in costume, agli sportivi. Vedremo apparire un grande ritratto di Lumumba, l’eroe della resistenza congolese, e quello di Gandhi, l’apostolo della nonviolenza. Dietro gli stessi cartelli, con lo stesso passo sostenuto e pieno d’entusiasmo, camminano i rappresentanti di un gruppo teosofico e quelli degli esperantisti, gli obiettori di coscienza e gli invalidi di guerra, operai e mutilati.
Le bandiere hanno il colore dell’arcobaleno, ma il richiamo alla natura ha un significato speciale: l’arcobaleno, questa volta, lo vogliamo prima della tempesta, non dopo. La pace deve precedere, impedire la guerra, per non essere soltanto un doloroso bilancio di rovine.
Molte città sono rappresentate dal loro sindaco. Di quando in quando un canto si leva dalle file del corteo, giovani e ragazze non si contentano dei muti cartelli: alla loro volontà di vita vogliono dare una voce più robusta. Avvoltoio vola via! Dicono le parole dalla canzone, il cielo umbro risponde con un azzurro sorriso: l’avvoltoio della guerra non deve rigarlo con il suo volo minaccioso.
Due giovani e già famosi scrittori, Italo Calvino e Giovanni Arpino, aprono il corteo reggendo lo striscione che reca la scritta: Marcia della Pace e della Fratellanza. Il corteo si snoda di colle in colle come un discorso nel quale confluiscano argomenti diversi; lo vedete dai cartelli che fioriscono tutti dalla stessa profonda aspirazione alla pace, ma alla figura della pace recano ciascuno un tocco particolare. Così sarà, del resto, se vorremo la pace; essa potrà essere soltanto la somma e la moltiplicazione di volontà diverse, e non già il frutto uniforme dell’imposizione di una sola volontà sulle altre.Dopo cinque ore il corteo giunge ai piedi di Assisi; rimangono d’affrontare gli ultimi chilometri fino alla rocca, la salita stretta e ripidissima tra le antiche case. Il passo è sempre fermo e sicuro, ma più lento; quando la testa del corteo raggiungerà la cima della colonna e l’ombra degli ulivi, la sua coda serpeggerà ancora lontano, in basso, nella dolce valle del Subasio. Ma dove giungerebbe, fin dove il corteo dei 26 milioni di europei morti nella Seconda Guerra Mondiale, quello dei 6 milioni di ebrei trucidati nei campi di sterminio.
La colonna ha raccolto per via sempre nuovi gruppi e ad un certo punto la strada non basta più: la marcia rompe gli argini, invade sentieri e scorciatoie; la colonna pacificamente conquista la sua trincea più alta, sopra i tetti di Assisi.
Una mozione conclusiva riassume gli obiettivi della marcia: cessazione degli esperimenti nucleari d’ogni genere, disarmo universale, aiuto reciproco tra i popoli, alleanza di tutti gli uomini che vogliono la pace.

* Questo è il testo di commento al video La Marcia per la Pace Perugia Assiis del 1961. Il Video, 12 minuti in VHS, può essere richiesto in contrassegno ad Azione Nonviolenta, via Spagna 8, 37123 Verona email: azionenonviolenta@sis.it Tel. 045 8009803. L. 20.000
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Hai affidato i tuoi risparmi ad una banca?
Sai cosa fanno molte banche con i nostri soldi?
Li usano anche per finanziare il commercio di armi!

L’ELENCO DELLE BANCHE COINVOLTE:

Arab Bank PLC
Arab Bankin Corporation
Banca Carige
Banca Commerciale Italiana
Banca d’America e d’italia (anno 1999)
Banca di Roma
Banca Nazionale Agricoltura
Banca Nazionale Lavoro
Banca Pop. Bg-Cr. Varesino (anno 1999)
Banca Popolare di Brescia
Banca Popolare di Intra
Banca Popolare di Lodi
Banca Popolare Novara
Banca S.Paolo di Brescia
Banca Toscana
Banco Ambrosiano Veneto
Banco Bilbao Vizcaya
Banco di Brescia
Banco di Napoli
Banco di Sicilia
Banco do Brasil SA. – Milano
Banque Nationale de Paris (anno 1999)
Barclays Bank PLC
Cariverona Banca Spa
Cassa di Risparmio di Firenze
Cassa Risparmio La Spezia
Cassa Risparmio prov. Lombar.
Credit Agricole Indousez
Credito Agrario Bresciano (anno 1999)
Credito Bergamasco
Credito Italiano
Gruppo Bancario s. Paolo IMI
Monte Paschi Siena
UGBI BANK
Unicredito Italiano (questa banca ha dichiarato di non voler più essere coinvolta)

NOTA: I nomi delle suddette banche, eccetto quelli contraddistinti con (anno1999), compaiono tutti nella relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione importazione e transito dei materiali di armamento nonchè dell’esportazione e del transito dei prodotti ad alta tecnologia (anno 200) doc. LXVII n.5 del Senato della Repubblica

Se la tua banca è tra quelle sopracitate, invia il modulo che trovi qui sotto.

Al direttore della banca ______________________
Nella relazione 2001 che il Governo ha presentato in Parlamento sulle esportazioni di armamenti autorizzate e svolte nel 2000, e in particolare nella parte curata dal Ministero del Tesoro, ho trovato il vostro nome come banca coinvolta in operazioni connesse con l’export (legale) di armi.
Ritengo che l’attività economica e finanziaria non possa sottovalutare il suo impatto sui diritti umani.
Banche e imprese dovrebbero considerare le conseguenze sociali ed etiche delle loro azioni economiche.
Da questo punto di vista il commercio delle armi continua ad alimentare guerre e violazioni dei diritti umani in tutto il mondo.
L’Africa in particolare, pur non essendo in assoluto l’area maggiormente destinataria di forniture di armamenti, è la regione dove i traffici hanno l’impatto più grave in termini umani e materiali.
L’Italia continua ad avere un ruolo non marginale in questo mercato: è tra i primi dieci esportatori nelle vendite di armi leggere.
A quanto vedo dai dati, un ruolo cruciale nel mercato delle armi lo svolgono gli intermediari finanziari, cioè le banche.
Poiché ho un deposito presso di voi (________________________), mi trovo nella situazione per cui anche il mio risparmio alimenta indirettamente questi gravi fenomeni.
Sono pertanto a chiedere una Vostra eventuale presa di posizione che dichiarasse l’impegno a uscire da queste attività.
Riterrei opportuno, in questo caso, un’informazione trasparente ai risparmiatori sul percorso per arrivare a questo risultato.
Cordiali saluti.
STORIA

A cura di Sergio Albesano
Le radici storiche dell’antimilitarismo italiano

Mentre fra la base socialista si diffondeva un senso sempre più acuto di opposizione all’impianto militare, Bissolati e il gruppo dirigente del P.S.I. lavoravano sull’argomento a livello diplomatico. Già nel 1904 i socialisti italiani e quelli austriaci organizzarono, pur fra notevoli difficoltà, un convegno contro il pericolo di una guerra fra i due Paesi. L’incontro si tenne a Trieste il 21 e 22 maggio 1905 ma, oltre a dichiarazioni astratte contro la guerra, peraltro non sempre convincenti e talvolta persino oscurate da desideri irredentisti, non si riuscirono a definire pratici mezzi di lotta. Il convegno fallì pertanto il suo obiettivo principale, anche se rimane innegabile l’importanza dell’avvenimento, considerando il valore esemplare al quale assurse l’azione comune per la pace. Messo alla prova, l’internazionalismo non aveva retto. “Il ripiegamento sul programma possibilista, il costante sacrificio dell’obiettivo finale rivoluzionario agli obiettivi intermedi di un riformismo economico, spesso a carattere corporativistico, per il quale le grandi linee strategiche del socialismo si subordinavano ai criteri opportunistici della tattica quotidiana, finivano per forza di cose con l’assorbire l’attenzione e l’impegno dei partiti socialisti sui temi della politica interna, chiudendoli nel cerchio magico di un ‘socialismo nazionale’” 1. Tra l’ottobre 1908 e l’ottobre 1910 fu organizzato un nuovo convegno che si sarebbe dovuto tenere a Roma il 9 e 10 aprile 1911. In esso sarebbe stato affrontato il problema della crisi balcanica, fonte di attrito fra l’Austria e l’Italia. Ad aprile, però, il Parlamento austriaco fu sciolto e furono indette le elezioni; il convegno fu così spostato a data da destinarsi. Ma la socialdemocrazia austriaca fu duramente sconfitta a quelle elezioni e di conseguenza il convegno fu più volte rimandato, finché venne definitivamente annullato.
All’inizio del secolo i rapporti fra Santa Sede e Stato italiano andavano lentamente migliorando ed era avvertibile un riavvicinamento fra le due istituzioni. Dal punto di vista militare il nuovo accordo si esplicitò con l’inserimento di numerosi cappellani militari nell’esercito 2. La manovra avvantaggiò sia la Chiesa che lo Stato. Infatti attraverso i cappellani la Santa Sede poteva svolgere un lavoro di propaganda religiosa fra i giovani italiani e, in un quadro più ampio, il riavvicinamento allo Stato le offriva una protezione politica che le era mancata negli ultimi decenni. D’altro canto Giolitti e i suoi uomini ottennero un grande prestigio nell’essere riusciti a rimarginare una ferita che era causa di problemi per molti italiani. Il riaccostamento fu lento e si sarebbe concluso soltanto nel 1929 con i Patti Lateranensi, ma importanti segnali si mostrarono fin dai primi anni del nuovo secolo. Ad esempio durante la guerra di Libia del 1911, anziché criticare la politica colonialista italiana, “la Santa Sede aveva autorizzato le orazioni pro tempore belli per la vittoria (in occasione delle quali si parlò talvolta di ‘guerra santa’)” 3. Un atteggiamento simile pochi anni prima sarebbe stato inimmaginabile.
“La guerra libica fu un duro colpo per quei pacifisti sinceri speranzosi nella possibilità che il modo di pensare ‘moderno e civile’ fosse capace di trovare una via diversa dalle armi per sistemare le cose dei popoli e delle nazioni” 4.
Nei riguardi dell’impresa tripolina il P.S.I. non riuscì ad assumere una linea coerente e decisa. Soltanto i giovani socialisti, che però non erano inquadrati nel partito, ebbero una parte rilevante nell’opposizione alla guerra e nella lotta contro la reazione. Essi organizzarono convegni e comizi e distribuirono manifestini e opuscoli, riuscendo a collaborare con i giovani sindacalisti rivoluzionari e con gli anarchici. Mentre il gruppo dirigente del P.S.I. aveva diminuito il proprio impegno nella battaglia antimilitarista, soprattutto rifiutando di opporsi alle nuove spese militari previste da una legge dal 1907, i giovani della F.I.G.S. lottarono contro il nazionalismo e intesero l’antimilitarismo in senso ampio come critica della società e dello Stato. La loro iniziativa più importante fu la campagna del “soldo al soldato”, cioè il sovvenzionamento dei socialisti chiamati sotto le armi perché diffondessero tra i soldati libri e materiali antimilitaristi. L’iniziativa, che si sviluppò dal 1911 al 1913, ebbe un notevole successo e il Ministero degli Interni reagì con severità, inviando numerosi circolari alle prefetture, con le quali incitava alla repressione del movimento 5.

CINEMA

A cura di Flavia Rizzi

La confessione di un torturatore debole

TITOLO: L’APRES-MIDI D’UN TORTIONNAIRE (Il pomeriggio di un torturatore)

Dal romanzo La strada per Damasco
Regia e Sceneggiatura : Lucian Pintilie
Fotografia: Calin Ghibu
Scenografia e Costumi: Gloria Papura
Montaggio: Nita Chivulescu
Romania/Francia 2000
Con Gheorghe Dinica, Radu Beligan, Ioana Macaria

Vagone di un treno, interno-giorno. Un uomo anziano e una giovane donna conversano seduti l’uno di fronte all’altro. Piano sequenza con carrello laterale: il regista ci mostra la varia umanità presente sugli altri scompartimenti del treno. La discussione è filosofica, il professore, così verrà chiamato per tutto il film l’anziano signore, si interroga sulla causa ultima delle umane sofferenze: sul finestrino del treno, reso opaco dall’usura e dalla polvere, disegna un triangolo, simbolica rappresentazione di Dio, incarnazione divina delle sofferenze umane. Al centro del triangolo compare la sagoma di un personaggio che aspetta sulla passerella che costeggia i binari: il suo nome è Tandara, cittadino rumeno, e tutto il film si svolgerà nella sua poco rassicurante casa di campagna.
Oggi, in Romania, centinaia di ragazzi vivono di espedienti per le strade e nelle fogne di Bucarest, “tirando” di colla e rubacchiando qua e là; oggi, in Romania, decine di piccoli imprenditori del nordest italiano aprono stabilimenti o piccoli insediamenti produttivi, attratti dal bassissimo costo della mano d’opera locale; e sempre oggi, in Romania, viene pubblicata un’enciclopedia nella quale compaiono i nomi degli oltre 1700 torturatori del regime comunista di Ceausescu, dei quali, solo uno ha deciso di raccontare la propria terribile esperienza. Quest’unico superstite della barbarie è Tandara, quello che aspetta sui binari, un uomo sulla sessantina, dalla corporatura robusta e dall’aria schiva ma dai modi gentili ed accoglienti; l’uomo e la donna del treno sono, rispettivamente, un ex prigioniero politico vittima delle torture ma pacificato con il passato e con i suoi carnefici, e una giovane giornalista.
Il film, attraverso una narrazione caratterizzata dal sostanziale rispetto delle tre unità tragiche della Poetica di Aristotele, tempo, luogo e azione, descrive l’angosciata confessione della vita di questo torturatore.
Il regista Lucian Pintilie, già premiato a Venezia nel ‘98 per il film Terminus paradis, mette in scena il racconto degli orrori commessi dal protagonista nella propria vita a partire dall’infanzia, con l’educazione ricevuta in collegio e l’assassinio del padre autoritario e manesco. Nel rievocare episodi e personaggi cruciali del proprio passato questi ultimi si materializzano nel presente, in un’atmosfera onirica e visionaria, come accadeva al professor Isak Borg de Il posto delle fragole di Bergman. Ma fin dal principio la confessione presenta dei problemi: il registratore non funziona, Tandara parla troppo in fretta o troppo lentamente descrivendo i fatti in maniera a volte molto evasiva, la moglie di Tandara interviene per chiedere di smettere di torturare suo marito, il figlio tossico e alcolizzato lo minaccia assieme ad un gruppo di tifosi della nazionale di calcio che gli intimano di interrompere la confessione urlando slogan di stampo neo-fascista ed ultra-nazionalistico.
Problemi che sembrano voler rappresentare metaforicamente, l’inerzia e le innumerevoli difficoltà che incontra oggi una nazione come la Romania nel fare, una volta per tutte, i conti con il proprio imbarazzante passato.
Ma il passato di Tandara, che è quello di un intero popolo, viene solo raccontato, evocato, assolutamente mai mostrato; e questa, a mio giudizio, sembra essere la scelta registica più interessante e significativa dell’intero film. A Pintilie non interessa (come invece interessava molto al Bechis di Garage Olimpo, ad esempio) ricostruire sul set i luoghi e le situazioni delle sevizie compiute dal protagonista: “L’orrore, afferma Pintilie, può solo tradursi in parole, il cui potere di attivare l’immaginazione è infinito”. Ciò che gli preme maggiormente è scavare nell’animo del torturatore; e metterne in luce da una parte la debolezza, la componente più oscura, quella che l’ha fatto divenire orribile strumento nelle mani del regime, e dall’altra, la mai del tutto rimossa umanità, che l’ha fatto pentire e che l’ha spinto a questa lucida quanto disperata confessione.
Ma invisibili non sembrano essere solo i particolari delle torture; tale, a tutt’oggi, mi risulta essere il film stesso, presentato all’ultimo festival di Venezia e ancora non acquistato da nessun distributore italiano.

Gianluca Casadei
Cooperativa FuoriSchermo Cinema & Dintorni
ECONOMIA

A cura di Paolo Macina
Sei sicuro che esiste un’assicurazione sicura?

Hanno raggiunto la ormai astronomica cifra di 200.000 miliardi di lire i risparmi che gli italiani hanno affidato alle compagnie di assicurazioni. E si può scommettere che in futuro aumenteranno ancora, con l’avvento dei mitici fondi integrativi che in futuro dovranno garantirci la pensione in luogo di quella erogata dall’INPS.
E se in questi anni abbiamo fatto le pulci alle banche, è giusto mettere il naso anche nell’operato di questi colossi finanziari. I quali però, dovendo garantire prestazioni certe dopo tempi molto lunghi (anche 30-40 anni), sono obbligati per legge (per gli addetti ai lavori, la circolare ISVAP risale al 26/3/1987) a garantire investimenti in settori definiti “sicuri” quali gli immobili (tramite gli affitti) e, soprattutto, i titoli di Stato (BOT, BTP e CCT, acquistati a prezzi di favore in quanto investitori istituzionali). E infatti, se ci colleghiamo al sito dell’Istituto di Vigilanza, scopriamo che a fine 2000 i titoli a reddito fisso rappresentavano l’84,1% degli investimenti delle 94 compagnie attive nel Ramo Vita, a fronte del 7,3% costituito da azioni italiane ed estere. Il resto è composto appunto da palazzi, prestiti e fondi d’investimento.
La situazione in questi anni non è cambiata molto: nel 1996 i titoli di Stato ammontavano al 76,5% degli investimenti, e anche analizzando l’operato di ogni singola compagnia non si rilevano scostamenti rilevanti. Insomma, il comportamento delle compagnie assicurative somiglia molto all’operato di una oculata massaia che pensa al futuro dei propri figli, accantonando pazientemente anno dopo anno e rischiando il meno possibile. D’altronde, tra i principali attori di questo scenario troviamo anche una società, la Cattolica, che per statuto non consente la partecipazione al suo capitale a chi “non professa la religione cattolica e non abbia manifestato sentimenti di adesione alle Opere Cattoliche”, e con tali presupposti non si può poi essere dei cattivoni in campo finanziario.
Tutte le compagnie hanno quindi allo stato attuale lo stesso (basso) grado di eticità. Ma alcuni comportamenti saranno destinati a cambiare nel momento in cui, con la possibilità di operare nei fondi pensionistici, le società si troveranno a dover gestire patrimoni 20, 30 volte superiori a quelli attuali; le emissioni di titoli dello Stato non saranno più sufficienti a soddisfare le richieste, e le compagnie dovranno avventurarsi nei mari meno sicuri delle borse azionarie.
Alla linea di partenza ha bruciato tutti la bolognese Unipol, da sempre legata al circuito delle cooperative rosse, che già dal febbraio di quest’anno mette a disposizione dei risparmiatori un fondo pensionistico aperto che si impegna a investire in paesi e società che si caratterizzino per comportamenti ed attività socialmente responsabili. Banditi ovviamente produttori di armi, tabacco, alcolici e chi produce energia nucleare, e porte aperte ai gruppi attenti alla tutela dei diritti dell’uomo e al rispetto per l’ambiente.
Perché questa scelta? Forse perché i suoi dirigenti hanno dato un’occhiata a quanto accade negli Stati Uniti, dove i fondi gestiscono patrimoni definiti socialmente responsabili per 1.400 miliardi di dollari, influendo sull’operato delle aziende su cui decidono di investire e, quando occorre, entrando direttamente nei loro consigli di amministrazione. Gli statunitensi, ma anche gli inglesi, hanno dimostrato di preferire quei fondi che hanno fatto la scelta dell’etica responsabile.
In Italia la normativa che regolerà questi mostri finanziari dovrebbe prevedere una gestione congiunta aziende-sindacati, ma non è sicuro che il nuovo governo confermi questo orientamento. E considerando il tema di cui si parla, si può solo concludere con la frase: “chi vivrà, vedrà (la pensione)”.
EDUCAZIONE

A cura di Angela Dogliotti Marasso
Scambi scolastici con scuole serbe e con scuole albanesi del Kossovo

La Campagna Kossovo, attiva dal 1993, ha sostenuto e fatto conoscere la resistenza nonviolenta del popolo albanese del Kossovo, iniziata nei primi anni novanta, con l’intento di favorire la ricerca di soluzioni condivise e accettabili da parte di tutte le comunità presenti sul territorio; dopo la guerra del 1999 ha ripreso la sua attività con progetti volti a sostenere le ONG nel difficile lavoro di confronto, riconciliazione interetnica e protezione dei diritti umani per tutti gli abitanti dell’area. In questa prospettiva ha proposto al Centro studi “Sereno Regis” di Torino la realizzazione del presente progetto di scambio tra scuole italiane, scuole serbe e scuole albanesi del Kossovo.

DURATA DEL PROGETTO:
Il progetto ha una durata biennale.

DESTINATARI
I destinatari primari sono i ragazzi delle scuole e gli insegnanti coinvolti nel progetto:
classi italiane, classi serbe e classi kosovare-albanesi della scuola secondaria superiore.

FINALITA’
Educare alla pace, intesa come capacità di interagire positivamente rispettando le differenze e salvaguardando i bisogni umani fondamentali;
Creare possibilità di contatto e dialogo con/tra studenti di popolazioni che hanno vissuto l’esperienza drammatica della guerra e tuttora vivono in condizioni di pesante diffidenza e rischio di conflitto armato;
Proporre ai giovani un modello nonviolento di gestione dei conflitti;
Creare un legame tra le classi e le scuole in grado di riprodursi ed ampliarsi autonomamente.

OBIETTIVI FORMATIVI.
Collaborare ad un progetto complesso, che implica lo sviluppo di competenze di tipo cognitivo, emotivo, operativo;
Saper operare in ambito multidisciplinare ;
Diventare consapevoli della possibilità di produrre cambiamenti;
Sviluppare le capacità di decentramento e di empatia per comprendere contesti, culture, storie, esperienze diversi;
Acquisire competenze nell’analisi e nella trasformazione nonviolenta dei conflitti;
Comprendere i presupposti e le dinamiche dei processi di mediazione e riconciliazione.

CONTENUTI E FASI DEL PROGETTO
Fase di avvio del progetto (primo anno)
Nella prima fase del progetto, sono previste due attività parallele:
Con le classi: messa a punto del lavoro didattico e avvio dello scambio epistolare tra le classi. In questa fase sarà importante svolgere un lavoro che aiuti i ragazzi a comprendere la realtà del paese in cui la classe gemellata si situa, sia programmando una opportuna unità didattica multidisciplinare sull’area balcanica (storia-arte-letteratura…), sia utilizzando i dati che si potranno ricavare dallo scambio epistolare sul tipo di vita, le aspettative, la cultura, la mentalità dei giovani con i quali si è in corrispondenza.
realizzazione di un percorso di formazione con i docenti sulla trasformazione nonviolenta dei conflitti e la mediazione tra pari. Per la realizzazione di questa parte con i docenti serbi e kosovari-albanesi ci si potrà avvalere della collaborazione di ONG e formatori sul posto, mentre per i docenti italiani si organizzerà un seminario specifico, a cura del centro studi “D.Sereno Regis”
In questa fase sono previsti anche degli incontri periodici di valutazione con gli insegnanti italiani per verificare in itinere l’andamento degli scambi, le eventuali difficoltà riscontrate e le possibili variazioni da apportare al percorso.
Nell’ultima parte dell’anno scolastico può essere prevista una visita didattica delle classi italiane ai corrispondenti stranieri.

Seconda fase del progetto (secondo anno):
Percorso formativo sulla trasformazione nonviolenta dei conflitti, realizzato dagli insegnanti nelle classi.
Se leggiamo il giornale o semplicemente ci guardiamo attorno, ci rendiamo conto che anche in contesti “di pace” , in società per fortuna non attraversate dalla guerra, come la nostra, la paura , i pregiudizi verso i “diversi”, il disagio, soprattutto delle fasce giovanili, sono saliti in maniera preoccupante, e questo è indice anche del fatto che difficilmente si riescono ad affrontare i conflitti in maniera costruttiva.
La trasformazione nonviolenta dei conflitti propone una metodologia efficace basata sull’ascolto empatico dell’altro, sul riconoscimento delle dinamiche e dei comportamenti che fanno crescere la violenza nei conflitti e sulla conoscenza di modi alternativi per comunicare all’altro le proprie idee e bisogni. Ciò è tanto più difficile in situazioni in cui nazionalismi e intolleranze di varia origine hanno prodotto profonda diffidenza reciproca, rottura del dialogo, impossibilità a ristabilire normali relazioni di convivenza, come è avvenuto nelle aree interessate dai gemellaggi.
Gli insegnanti, e di seguito i ragazzi, saranno accompagnati in questo percorso, le cui tappe principali sono:
Sviluppare la conoscenza di sé e dei propri valori di riferimento; prendere coscienza della propria storia ;
Imparare ad usare correttamente il proprio potere, sviluppare fiducia ed assertività;
Prendere coscienza della violenza intorno a sé; distinguere tra violenza e conflitto; diventare consapevoli delle proprie strategie e dei propri sentimenti nei conflitti;
Acquisire competenze nell’analisi dei conflitti; riconoscere le dinamiche che li incrementano o possono contenere violenza e distruttività;
Riconoscere che l’altro può avere un punto di vista e un modo di sentire diverso; sviluppare capacità di decentramento ed empatia;
Imparare ad ascoltare per comunicare meglio: ascolto attivo ed empatico.
Prendere coscienza dei vari modi per comunicare; imparare ad esprimere i messaggi in prima persona, a manifestare in modo adeguato sentimenti e bisogni, a formulare correttamente le richieste;
Sviluppare l’immaginazione e la creatività per trovare soluzioni alternative nei conflitti.
Conoscere le tecniche della mediazione tra pari.
Anche in questa fase sono previsti degli incontri di valutazione, al fine di verificare l’andamento della formazione .
Al termine del percorso le classi italiane coinvolte organizzeranno l’accoglienza delle classi con le quali sono gemellate, possibilmente nello stesso luogo e periodo dell’anno, in modo che le diverse scuole destinatarie del progetto abbiano la possibilità di incontrarsi e svolgere comuni attività.
A tale scopo sarà organizzato un workshop comune, della durata di tre giorni, che si terrà in Piemonte, durante il quale i ragazzi e gli insegnanti saranno ospitati presso una struttura in grado di garantire ospitalità e ambiente adeguati alle attività previste per l’incontro.
SOGGETTI PROPONENTI
Campagna Kossovo e Centro Studi Sereno Regis, in collaborazione con le scuole coinvolte nel progetto

Dati relativi agli Enti proponenti:
– Centro studi “Domenico Sereno Regis”, ONLUS iscritta al Registro Regionale del Volontariato (D.P.G. n. 1035/95 del 2/3/1995); sede: via Garibaldi, 13 – 10122 Torino
Tel. 011/532824; Fax n. 011/5158000; e-mail: regis@arpnet.it ; indirizzo web: http://www.arpnet.it/regis ; c.f. 97568420018
– Campagna Kossovo per la Nonviolenza e la Riconciliazione, promossa da Agimi, Beati i costruttori di pace, Movimento internazionale della Riconciliazione, Pax Christi; sede: c/o Casa per la Pace, c.a. 8, 74023 Grottaglie (Ta) ;
tel/fax: 099/5662252 e-mail: a.alba@areacom.it
MUSICA

A cura di Paolo Predieri
Canto la pace per battere la guerra

Intervista a Fausto Amodei, protagonista della canzone politica dalla fine degli anni cinquanta agli anni settanta, prima nei Cantacronache poi nel Nuovo Canzoniere Italiano. Sue sono “Il tarlo” e “Per i morti di Reggio Emilia”. Durante la prima marcia Perugia-Assisi del 1961 compose “La marcia della pace”…

Cosa ricordi della Perugia-Assisi ?

Paolo Gobetti aveva organizzato la partecipazione del gruppo dei torinesi; riempimmo due pullman. C’era Norberto Bobbio, c’eravamo noi dei Cantacronache con Italo Calvino in testa. Per cantare alla marcia avevamo in repertorio “Dove vola l’avvoltoio”, per l’appunto su testo di Calvino, che infatti si cantò molto quel giorno. Fortini aveva improvvisato su un foglietto dei versi che, sul momento mi hanno richiamato la struttura di su un’aria da coscritti. Avevo appena terminato il servizio militare ed arie di quel tipo mi ronzavano ancora in testa. La composizione avvenne in modo improvvisato, marciando assieme agli altri che accolsero molto bene la nuova canzone. Naturalmente non avevamo grossi mezzi di comunicazione o di riproduzione del testo per distribuirla a tutti i partecipanti e farla cantare in modo generalizzato.

Dopo la marcia che vita ha avuto la canzone ?

Che io sappia l’ha registrata soltanto Maria Monti in un album intitolato “Le canzoni del no” (nei Dischi del Sole) che conteneva anche la traduzione di una canzone antinucleare americana “Stronzio 90” e poi “Inno abissino” e “Ninna nanna della guerra” di Trilussa. Siccome c’era un invito alla diserzione (“E se la patria chiama lasciatela chiamare”) – a quel tempo non c’era ancora neppure la possibilità di svolgere il servizio civile al posto di quello militare – qualche tartufo di destra ha minacciato denunce per vilipendio alle forze armate, ma non mi risulta che ci sia stato poi l’avvio di procedimenti giudiziari.

La canzone per la pace e contro la guerra è stata centrale per i Cantacronache e ancora in tutto il periodo anni sessanta e settanta, con uscite anche sul piano commerciale

Certamente. Ho già ricordato “Dove vola l’avvoltoio”; Michele Straniero aveva composto “Viva la pace”, una canzone satirica sulle riunioni internazionali per il disarmo che si concludevano regolarmente con un niente di fatto, musicata in maniera molto orecchiabile da Liberovici. Io ho scritto più tardi, quando già collaboravo con il Nuovo Canzoniere Italiano “Perché una guerra”, abbastanza complessa ma che mi pare sia venuta piuttosto bene come canzone “di riflessione” più che “di mobilitazione”.

Da allora (anni sessanta-settanta) ad oggi, come vedi la canzone per la pace: la presenza che aveva a quel tempo dov’è finita?

Non sono molto aggiornato sulle ultime produzioni, ma ho l’impressione che si privilegi un discorso basato soprattutto su perifrasi, su metafore; non è più la canzone militante che dice pane al pane e vino al vino. Tutto viene addolcito in una sorta di linguaggio ermetico ed allusivo. Per la verità ho il sospetto che questa mia impressione nasca anche da fattori generazionali : i miei figli colgono in parecchie di queste canzoni, che a me sembrano appunto non esplicitamente “militanti”, un mucchio di sollecitazioni “politiche” che di primo acchito io non riesco a cogliere.
Uno che a me piace perché mi pare sfugga da questo clima di “annacquamento” è Guccini, che è ancora in grado di dire cose molto chiare e molto esplicite, anche quando non si riferisce espressamente a questioni politiche. Rispetto a quello che stiamo dicendo “Auschwitz” rimane un classico di grande efficacia.

La tua “Ballata autocritica” presenta la violenza rivoluzionaria da un punto di vista umoristico. Possiamo partire da qui per parlare di nonviolenza?

Sono contento che tu abbia colto questo spirito. Infatti era sostanzialmente una autopresa in giro e non un’apologia delle armi come qualcuno potrebbe aver creduto. Metteva a confronto, paradosseggiando ,il tentativo di far politica con “valzer, stornelli, ciaccone, marce turche, gighe, flamenchi, czarde e controdanze” con tutti i suoi limiti evidenti e direi ovvii, con le parole d’ordine della lotta armata che allora era esaltata soprattutto dai teorici di un certo terzomondismo che si andava affermando negli anni settanta, che aveva come riferimento il Che Guevara e la guerriglia, oltreché la guerra del Vietnam.
La nonviolenza oggi mi pare debba fare i conti con una evidente contraddizione fra l’enorme espansione che nel mondo registrano gli atti di violenza, militare, economica, politica, criminale, e la difficoltà crescente per il movimento nonviolento a dimostrarsi comunque combattivo e vincente, e non solo un mezzo per salvarsi l’anima. Penso ai fatti di Genova ma anche al Medio Oriente, all’Afghanistan, alla Cecenia, all’Africa nera e così via. Moltissimi atti di violenza sono compiuti in nome di una conclamata “legalità”, e per contro la legalità della nonviolenza, apparendo spesso disarmata e non decisiva, ha sempre maggior difficoltà a farsi sentire. Il problema per i movimenti nonviolenti è proprio quello di dimostrarsi efficaci e non solo appelli morali da udienza papale.

A Genova la scelta nonviolenta non è stata del tutto chiara e immagini come quelle della gente che esce a braccia alzate non aiutano a maturare. A livello internazionale ci sono anche notizie positive: la scelta nonviolenta del Pkk curdo, la formazione nonviolenta di base in America latina o in Africa centrale, l’organizzazione alternativa di una grande città come Curitiba in Brasile…

E’ vero, nonviolenza non vuol dire subire sempre e comunque, ma intervenire in modo attivo nelle situazioni anche più difficili trovando le risposte creative giuste. Il pacifismo degli anni sessanta e settanta quando c’erano i due blocchi contrapposti, aveva molto più chiari gli obiettivi verso cui rivolgersi. Adesso è tutto molto più complesso. L’altro giorno sentivo che negli ultimi dieci anni il numero delle guerre locali è aumentato in modo enorme. Queste guerre sono provocate di volta in volta da fattori diversi, politici, etnici, economici ma hanno comunque sempre a che fare con la divaricazione fra gli interessi della minoranza ricca del mondo e quelli della maggioranza povera. Oggi per noi è molto più difficile sottrarci alla responsabilità di quello che accade, vivendo in un paese occidentale, col nostro livello di vita e di consumi che si basa comunque sullo sfruttamento di qualcun altro in altre parti del mondo.

La nonviolenza nelle canzoni?

Per la verità ho presente un canzoniere contro la violenza, cioè contro le guerre, l’autoritarismo, il totalitarismo, l’imperialismo, ma non un canzoniere espressamente a sostegno della risposta nonviolenta alla violenza degli altri. A meno che non s’intenda come implicitamente nonviolento il cantare la propria protesta, anziché sopportarla con le molotov e con le P38. Come esempi di questo canzoniere basta citare “Blowing in the wind” o “Masters of war” di Bob Dylan, alcune canzoni del folksinger scozzese Ewan McColl, “Feuer” della cantante afro-tedesca Fasia Jansen.
Con Raffaella De Vita, cantante napoletana che abita ed opera da sempre a Torino, avevamo preparato negli anni ottanta uno spettacolo di canzoni contro la guerra e per la nonviolenza, intitolato “Gli allegri macellai”. Durava due ore e comprendeva canzoni di diversi paesi e periodi storici. Per quell’occasione avevo tradotto e adattato diversi testi di canzoni di questo tipo, da Boris Vian a Bob Dylan, ad un compositore greco di Rizitika, di nome Nikos Xilouris.
Non posso non parlare poi di quello che ritengo uno dei miei principali maestri ed ispiratori, cioè Georges Brassens, lo chansonnier morto giusto vent’anni fa. Si pensi a canzoni come “La guerre de 14-18”, “La ballade des gens qui sont nés quelque part”, “Les patriotes”, “Mourir pour des idées”, “Ceux qui ne pensent pas comme nous”.
Per la verità non è che abbia eletto Brassens a mio mentore per assoluta affinità ideologica, ma soprattutto per l’uso che fa della canzone come veicolo di idee e di storie esemplari, veicoli a loro volta di idee e di atteggiamenti controcorrente.
Può valere come esempio di questo atteggiamento il trattamento che ho riservato ad una sua canzone, “Les deux oncles”, che ho tradotto. La canzone originale, portando all’estremo la condanna di ogni forma di guerra, mette allo stesso livello, su un piano di malinconico rimpianto, due ex- nemici, uno che ha fatto il maquis ed uno che ha collaborato coi tedeschi.
Non mi sono sentito, io che sono ancora irrimediabilmente antifascista, di adoperare quel periodo storico, equiparando partigiani e fascisti. Così ho ambientato la storia cento anni prima e i due zii si sono trasformati uno in garibadino e l’altro in borbonico. E’ stato un modo per rendere sopportabile dal mio punto di vista l’accostamento. Brassens era un pacifista come Bertrand Russell. Russell diceva che se Hitler fosse sbarcato in Inghilterra lo avrebbe accolto come turista… mi sembra un po’ eccessivo, ma questo era il suo atteggiamento.

Oggi cosa canteresti ad una marcia della pace?

Bisognerebbe comporre nuove canzoni, visto che lo scenario è molto cambiato. Canzoni molto più impegnate nel promuovere “riflessione” anziché facili slogan buonistici.

Lo farai?

Qualcosa scrivo ancora, non si sa mai…
LIBRI

A cura di Silvia Nejrotti

Marco Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino, 2001

Con il suo Oltre il Novecento. La politica , le ideologie e le insidie del lavoro, Marco Revelli continua l’esplorazione, avviata con Le due destre e La sinistra sociale, all’interno dell’ultimo tratto della Modernità occidentale, mettendo sotto attenta osservazione in questo nuovo lavoro, dopo il fordismo ed il post-fordismo, quel grandioso e tragico esperimento di liberazione umana collettiva che è stato il comunismo.
Il punto di partenza nell’analisi di Revelli è il bilancio negativo del secolo dell’homo faber (“quello in cui, quasi con ferocia, l’uomo è stato ridotto alla sua funzione produttiva, ed il mondo a realtà fabbricata”), il Novecento, per la violenza estrema che in esso si è manifestata rendendolo il più distruttivo della storia. Ma lo stretto rapporto tra il secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle e la violenza non è solo rilevato su un piano di ordine quantitativo – con un numero di morti, a causa delle sue guerre, maggiore del triplo delle vittime di tutti i conflitti dall’inizio dell’era cristiana – ma soprattutto in una relazione di tipo qualitativo, con l’affermarsi di un legame perverso tra sistema dei mezzi e sistema dei fini.
Si è realizzata sistematicamente nel corso del Novecento, afferma Revelli, una eterogenesi dei fini per la quale “ogni qualvolta, nel corso di questo secolo, la violenza estrema di cui esso è capace è stata impiegata come mezzo al servizio di una qualche causa, lungi dal permettere il raggiungimento del proprio obbiettivo secondo i calcoli della weberiana razionalità strumentale (dell’<<agire razionale rispetto allo scopo>>), essa ha finito per provocare la distruzione del fine stesso, o un suo radicale pervertimento; causando addirittura l’annientamento del soggetto medesimo che l’aveva posto in essere”.
E’ proprio su questo diabolico meccanismo che si innesta, a parere dell’autore, la parabola del comunismo, di quel movimento internazionale che aveva fatto della lotta all’oppressione, alla costrizione, al dominio poliziesco il suo fine ma che, nella pratica politica storica, ha acquisito questi elementi come proprio mezzo normale. Finché il mezzo “lentamente ma inesorabilmente, ne ha divorato il fine”. E dopo una veloce indagine su due momenti cruciali del Novecento, Auschwitz – dove si realizza la piena identificazione tra strumenti impiegati e scopi dichiarati – e Hiroshima, paradigma di eterogenesi dei fini – dove per favorire la caduta di un <<tiranno storico>> si produce il <<tiranno tecnologico assoluto>>, “l’arma totale, mezzo che, nel momento stesso in cui fosse impiegato, finirebbe per annientare ogni possibile fine” – Revelli concentra la propria attenzione sulla stretta relazione che nella storia del secolo si è realizzata tra violenza e comunismo.
Non si tratta di rincorrere le contabilità sui morti che vengono attribuiti al comunismo dai vari <<libri neri>> ma, afferma lucidamente l’autore, di porsi il problema “di una realtà che nessuna revisione dei conti può occultare, né ridimensionare (…): che numerose generazioni di comunisti, in questo secolo, condussero la propria battaglia per un mondo e un’umanità radicalmente diversi, usando le armi degli altri (dei propri nemici, delle tradizionali classi dominanti, degli oppressori e dei tiranni)”. E’ posto qui, in maniera esplicita, il problema cruciale ed insoluto del movimento marxista rivoluzionario internazionale: il rapporto strutturalmente contraddittorio tra il fine perseguito ed i mezzi utilizzati.
Verso la fine del suo lavoro, Revelli afferma che se i mezzi di ieri si sono rivelati distruttivi dello stesso fine per cui erano stati usati, tuttavia le ragioni sociali che avviarono la grande speranza nella rivoluzione comunista “sono ancora tutte davanti a noi. Esattamente come prima. Per certi aspetti più scandalose di prima. E allora, conclude, per questo il Novecento deve finire. Perché solo così può riprendere la ricerca, ripartendo dal punto in cui il percorso aveva deviato e s’era perduto”.
Ed ora, che l’ansia di liberazione riempie nuovamente le strade del mondo di un movimento globale di lotta all’ingiustizia ed allo sfruttamento, a noi viene da ripensare a quell’omino indiano, seminudo e scalzo, che proprio all’inizio del Novecento – quando il comunismo si avviava sulla strada dell’eterogenesi dei fini – dava inizio alla lotta di liberazione del proprio popolo con la serena consapevolezza che “i mezzi possono essere paragonati al seme, e il fine all’albero; tra i mezzi e il fine vi è lo stesso inviolabile rapporto che esiste tra il seme e l’albero”. E su questa certezza sperimentava e costruiva la teoria e la prassi della nonviolenza.
Dunque, adesso che un nuovo secolo è avviato e una nuova generazione avanza ancora la richiesta di liberazione per tutti oppressi, dalle nuove e vecchie oppressioni, perché non provare a ripartire da Gandhi – e dalla teoria-prassi della nonviolenza – per riprendere la ricerca di mezzi coerenti con il fine, ed evitare così l’errore di condurre, ancora una volta, – tragicamente – una lotta con i mezzi degli altri?

Pasquale Pugliese

Di Fabio